Archivi del giorno: 10 marzo 2009

Telejato intervista Salvatore Borsellino

L’emittente Telejato il 7 marzo 2009 intervista Salvatore Borsellino in via D’amelio a Palermo

De Magistris: su controllo magistratura siamo in piena P2

10 marzo 2009
Roma. Per l’ ex pm di Catanzaro Luigi De Magistris, “sotto il profilo di alcuni passaggi, come il controllo della magistratura, siamo in piena P2.

Per il 60-70 per cento il piano di Rinascita democratica è stato già applicato, anzi lo stanno migliorando nella loro ottica, lo stanno rendendo contemporaneo”. “Constato – dice al programma web Klaucondicio – che chi ha fatto negli ultimi tempi investigazioni delicate sul tema delle collusioni interne alle istituzioni e, soprattutto, dove il collante è stato quello dei poteri occulti, non credo che abbia avuto un grosso ausilio da parte di chi dovrebbe istituzionalmente stare vicino”. “Il Csm – spiega il magistrato – nel passato, se pur in casi simbolici ed isolati, è intervenuto su magistrati iscritti alla P2. Però non entrava con il bisturi nel sistema. E’ importante che il Csm dovrebbe vigilare per evitare che si cada nuovamente in quello che è successo nel 1982, quando addirittura una corrente della magistratura, all’epoca magistratura indipendente, risultò avere finanziamenti da parte della loggia P2”.

ANSA

Genchi/ De Magistris: Caso una bufala, non temo relazione Copasir
Intercettare servizi segreti non è tabù, ma io non l’ho fatto

10 marzo 2009
Roma. “La questione Genchi, a mio avviso, è sostanzialmente una grande bufala”. Lo sostiene l’ex pm calabrese Luigi De Magistris, intervistato a ‘Klauscondicio’, a poche ore dall’inizio del dibattito in Senato sulla relazione del presidente del Copasir, Francesco Rutelli, a proposito dell’attività del suo consulente informatico. “Non ho assolutamente paura di Rutelli – afferma – ho agito nel pieno rispetto della legalità. Io posso commentare il mio lavoro, non il lavoro di Rutelli. Ho agito nel pieno rispetto delle norme solo al fine di accertare determinati fatti. Prendo atto che non si vuole far emergere la verità”.

Sostiene De Magistris, oggi giudice del Riesame a Napoli dopo il trasferimento d’ufficio disposto dal Csm: “Io ero il titolare delle indagini preliminari di due grossissime attività investigative, Poseidone e Why Not. Nell’ambito di questa investigazione, mi avvalevo di considerevoli collaboratori: polizia giudiziaria, carabinieri, guardia di finanza, ufficio antiriciclaggio della Banca D’Italia e consulenti. Avevo creato un vero e proprio pool e tra questi c’era anche il dottore Genchi, che si è occupato di un piccolo segmento di Why Not e Poseidone. Il dottor Genchi non conosce nei dettagli le indagini, quindi mi assumo io l’intera responsabilità sotto il profilo delle investigazioni, delle intuizioni e degli obiettivi che mi ero prefissato. Adesso si scopre il Grande Fratello”.

De Magistris difende ancora Genchi: “E’ un consulente, un vicequestore della polizia di Stato che lavora per le magistrature, per i pubblici ministeri, per i giudici, le Corti d’assise e i tribunali, potremmo dire sin dagli inizi degli anni ’90. Ad esempio, agli atti del processo Borsellino bis, strage di via D’Amelio, dove è morto Paolo Borsellino insieme agli uomini e alle donne della sua scorta, c’è la consulenza del dottore Genchi. Il dottor Genchi viene toccato quando diviene consulente del dottor De Magistris”. Ma quelle di Genchi, ribadisce l’ex pm calabrese, “non sono intercettazioni, i tabulati servono per capire un soggetto sul quale si stanno facendo investigazioni, quali contatti telefonici ha avuto, ma all’investigatore non interessano tutti i contatti telefonici che questo ha avuto. Questo è un grandissimo strumento di ricerca della Procura che consente di individuare responsabili di omicidi, stupri, pedofili, ecc. Questo ha scandalizzato per il fatto che alcuni soggetti che noi abbiamo investigato avessero magari rapporti con soggetti delle istituzioni anche ad alto livello”.

Quanto all’opportunità di intercettare o monitorare tabulati dei servizi segreti, De Magistris considera anche ciò “una grossa bufala”. “Io so per certo – afferma – che in Italia non c’è nessuna legge che vieta l’intercettazione di appartenenti ai servizi segreti, ma, detto questo, io non ho mai intercettato nessun appartenente ai servizi. Il punto che forse sfugge è che nell’ambito di queste inchieste erano coinvolti appartenenti ai servizi segreti e non è la prima volta che purtroppo accade in questo Paese. O vogliamo dare l’immunità parlamentare ai componenti dei servizi segreti? Sia chiaro che non parliamo di tutti i servizi segreti, ma solo di una piccola fetta. La nostra investigazione serviva anche a tutela dei servizi, ovvero a capire se delle persone a titolo personale facevano affari, o magari c’era dell’altro”.

“Credo che il Copasir – aggiunge De Magistris – non possa fare accertamenti sull’operato dell’autorità giudiziaria. Se questo accadesse, saremmo fuori dalle regole dello Stato di diritto. L’autorità giudiziaria ordinaria non ha limiti nella sua investigazione se non quelli stabiliti dalla Costituzione e dalla legge della Repubblica. Altri limiti non li può individuare né il Copasirné altre autorità che non sia l’autorità giudiziarie ordinaria”.

APCOM

Intervento di Salvatore Borsellino – Palermo 7 marzo 2009

Scritto da Salvatore Borsellino

“Io devo innanzitutto contestare una cosa, cioé che l´informazione in Italia faccia effettivamente informazione. Sicuramente delle informazioni ci sono, ma io mi chiedo perché io trovo su tutti i giornali pagine e pagine sul processo alla Franzoni, resoconti sul processo Meredith, su questo tipo di processi che colpiscono l´opinione pubblica. Non trovo invece sui giornali altri processi che si svolgono in questo momento e di cui invece non si sa assolutamente nulla.

Io mi chiedo perché per trovare certe notizie devo leggere il libro (“Colletti sporchi”, ndr) di Luca Tescaroli e per fortuna che questo libro esiste. Peró purtroppo lo leggeranno solo centomila o duecentomila persone e gli altri quaranta milioni di persone queste cose non le sapranno. Mi succede quando vado in giro per l´Italia di parlare di ALFA e BETA e la gente non sa chi sono nonostante esistano dei processi in cui di ALFA e BETA o AUTORE UNO ed AUTORE DUE si é parlato. Quando adopero queste sigle la gente non li riconosce e non sa a chi si riferiscono nonostante ci siano delle sentenze di archiviazione nelle quali a proposito di ALFA, cioé del nostro presidente del consiglio, si é accertato quelli che sono stati i suoi contatti con la criminalitá organizzata e la mafia.
Sono quei contatti e quei rapporti che poi hanno portato alle stragi del ´92 ed hanno fatto sí che i colletti citati in questo libro, “Colletti sporchi”, siano sporchi di sangue: non sono sporchi soltanti di economia e finanza, sono sporchi di sangue. Oggi noi viviamo in una Repubblica che é la diretta conseguenza delle stragi del ´92 che sono state funzionali a quello che é oggi l´equilibrio politico in Italia. Questa é purtroppo la triste realtá.

Io prima leggevo La Repubblica ed adesso non riesco piú a leggerla perché se compro il Corriere della Sera o La Repubblica – non dico addirittura Il Foglio – mi sembra di leggere sempre lo stesso giornale. Certe notizie vengono occultate e proprio non le si trova. La Repubblica ha una parte a Palermo in cui si parla effettivamente di criminalitá organizzata. Se compro quello stesso giornale a Milano di quelle cose non parla assolutamente. Dei processi che sono in corso in Sicilia di cui si trova nei resoconti della redazione palermitana non si trova traccia nei resoconti della redazione nazionale. Forse che la criminalitá organizzata é una cosa che interessa solo la Sicilia? Forse viviamo ancora in questa illusione che interessa la Sicilia e basta quando c´é un paese vicino a Milano che viene chiamato “Platí due” perché ormai praticamente le famiglie delle ´Ndrine si sono trasferite in massa da quelle parti perché é lí che l´economia puó essere drogata ed é lí che si possono riciclare i capitali? Questa é una cosa che io non capisco.
Sembra quasi che siamo ritornati ai tempi del MINCULPOP in cui c´erano le veline con cui si distribuivano le cose che si dovevano stampare. Oggi c´é questa altra cosa che si chiama IL VELINO che spesso dá l´imbeccata agli altri giornali e che a sua volta é imbeccato dai servizi segreti italiani, quelli stessi servizi che avevano la loro base al castello Utveggio nel quale, e potrebbe essere provato se certi processi fossero andati avanti, esisteva la sede del SISDE e dal quale, io ne sono certo, é stato azionato il detonatore che provocó la strage di Via D´Amelio. Di altre cose non si legge.

Del cosiddetto “processo nascosto”, come ha dovuto chiamarlo Travaglio e che si sta svolgendo a Palermo, quanti in Italia ne sono a conoscenza? Il fatto che a Palermo si stanno processando l´allora colonnello Mori, l´allora capitano Obinu – ora saranno sicuramente generali entrambi, visto che fanno carriera le persone come il capitano Arcangioli che si occupano direttamente di certe cose – per quella ignobile e scellerata trattativa che é stata portata avanti ai tempi della strage di via D´Amelio e subito dopo la strage di Capaci. Perché di queste cose non si legge niente. Non so nelle pagine della redazione siciliana de La Repubblica ma io in Italia non trovo mai una riga su questo processo perché di questo processo non si deve parlare.
Non si deve sapere quello che sta dichiarando Massimo Ciancimino che ha fatto ritornare indietro l´orologio della trattativa che fino ad ora tutti credevano fosse partita dopo la strage di via D´Amelio e che invece é partita prima di quella strage e che probabilmente é stato uno dei momenti principali della strage di via D´Amelio. Tante cose non si leggono.

Io ha avuto, per parlare in termini leggeri, una querelle con Mancino a cui ho rinfacciato la sua perdita di memoria per il fatto che non ricorda di aver incontrato Paolo Borsellino il primo luglio del ´92 nelle stanze del Viminale. Le mie lettere a Mancino non sono state pubblicate da nessun giornale, neanche da La Repubblica, alla quale io le ho mandate ripetutamente. La smentita di Mancino a quello che io avevo detto é stata pubblicata su due pagine.
Lo stesso é successo ai tempi di Mastella quando nella vicenda de Magistris io appoggiavo de Magistris e mandavo lettere aperte che non venivano (pubblicate, ndr). La replica di Mastella compariva su due pagine. Io non sono sicuramente una voce tale da meritarmi delle pagine sui giornali che peró dovrebbero avere l´obiettivitá. Io ho mandato alla stessa La Repubblica una replica a Mancino dicendo che reclamavo il diritto di replica e questa lettera non é stata neanche pubblicata.

Purtroppo in Italia sta succedendo da anni qualcosa di terribile. Io qui sono un po´ fuori posto perché sono in mezzo ad attori della giustizia ed io sono semplicemente uno spettatore. Io sono un cittadino italiano – perché non voglio parlare come fratello di Paolo Borsellino – che chiede giustizia per quella strage e chiede che che su quella strage sia fatta giustizia. Chiedo che su quella strage si possano portare avanti dei processi. Chiedo che se un uomo é stato fotografato mentre aveva in mano una borsa e questa borsa conteneva sicuramente l´agenda rossa di Paolo – l´agenda rossa di Paolo é uno dei motivi per i quali quella strage é stata perpetrata e lo é stata in tale maniera e non sicuramente dai mafiosi – ci possa essere giustizia e ci possa essere almeno un processo su questo.
Invece questo processo viene negato ed é per questo che io pochi giorni fa ho parlato della morte della giustizia e del fatto che sulla giustizia é stata messa una pietra tombale. Si era quasi arrivati alla fase dibattimentale per quest´uomo che era stato ritratto con la borsa di Paolo in mano mentre sottraeva l´agenda rossa di Paolo, poi un GUP (Giudice per l´udienza prelimare, ndr) al tribunale di Caltanissetta ha assolto quell´uomo per non aver commesso il fatto perché quell´uomo si é giustificato per aver dato almeno dieci versioni diverse della sottrazione di quella borsa dicendo che era cosí sconvolto dall´aver dovuto camminare in mezzo alle pozzanghere di sangue ed in mezzo ai pezzi dei ragazzi di Paolo e di Paolo stesso da non poter ricordare quello che era successo.
Io ho visto venti, trenta, quaranta volte le riprese di quell´uomo con quella borsa e a me non sembra affatto un uomo sconvolto: cammina con passo sicuro e si allontana da quella macchina per andare a consegnare quella borsa e quell´agenda a chissá chi. Io non dico che il capitano Arcangioli abbia sottratto lui quella borsa, non lo posso dire, ma lo potrebbero dire i magistrati se si arrivasse alla fase dibattimentale di un processo. Invece alla fase dibattimentale di quel processo non si arriverá mai perché lo Stato non puó processare sè stesso. Questa é la veritá. Non si potrá mai arrivare ad avere giustizia. Io posso gridare quanto voglio la mia voglia e la mia sete di giustizia ma io non arriveró mai a veder fatta giustizia per quella strage perché quella non é stata una strage di mafia, quella é stata una strage di Stato. Di conseguenza se lo Stato non processerá se stesso su quella strage noi non sapremo mai la veritá.

Paolo andava spesso a parlare ai giovani, andava spesso a parlare nelle scuole e una cosa che diceva Paolo è che spesso la magistratura non può arrivare a condannare delle persone sospettate di delitti perché non riesce ad avere le prove però arriva molto vicina alla verità. Poi non esistono gli elementi processuali per poter arrivare in giudizio e per poter condannare quei criminali o quelle persone indagate. Però Paolo diceva che a questo punto dovrebbero essere, lui parlava dei politici, dovrebbero essere i partiti stessi che eliminano queste persone dalle loro liste, che dovrebbero fare sì che non possano arrivare al Parlamento, dovrebbero essere gli stessi partiti politici a fare pulizia. Oggi viviamo in un paese in cui sta succedendo assolutamente tutt’altro, oggi viviamo in un paese in cui non solo i partiti politici mettono in lista, ma mettono nelle prime posizioni della lista proprio quelle persone, le persone più ricattabili in maniera tale da potere poi esercitare il potere nella maniera più semplice.
A noi hanno tolto addirittura la possibilità di poter scegliere noi chi votare, noi veniamo trattati come degli analfabeti, noi non possiamo fare altro che mettere una croce sulla casella e poi qualcuno ha deciso chi deve andarci a governare, è questo il motivo per cui ALFA è diventato capo del governo e il suo compagno, quello per cui lui stesso ha detto – io ho visto poco tempo fa e rivedo, rivedo, rivedo altrettante volte queste cose, ho visto quando presentandolo alla televisione diceva: “senza quest’uomo Forza Italia non esisterebbe”. E quest’uomo è un uomo che è stato condannato a nove anni per contiguitá alla mafia anche se non so esattamente per quale reato sia stato condannato. So che è un criminale e come altri ben diciotto criminali siede nel nostro parlamento. Questa è la maniera in cui oggi i partiti fanno pulizia.

Io griderò fino all’ultimo giorno della mia vita la mia voglia di giustizia, la mia sete di giustizia. So che questa giustizia non riuscirò ad averla, però devo assistere purtroppo giorno per giorno ad altri assassinii di magistrati. Sono assassinii di magistrati senza sangue, sono assassinii di magistrati in cui il sangue non c’è e quindi la gente non si indigna. Ma voi credete che non siano dei veri e propri assassinii quelli con cui a Luigi de Magistris sono state sottratte le sue inchieste, quelli con cui il Procuratore capo della procura di Salerno è stato addirittura privato delle sue funzioni, dello stipendio e praticamente radiato dalla magistratura… non credete che siano degli assassinii questi?
E l’informazione come ha presentato questa vicenda? Io non ho letto un solo giornale in cui questa vicenda in cui un magistrato è stato assassinato, privato delle sue funzioni, non venisse presentata come una guerra tra procure. Se l’informazione vuole fare informazione deve dire cosa è veramente successo. E’ successo che una procura che legittimamente stava indagando su un’altra procura, che era la procura di Catanzaro, ha subito prima la rivolta da parte della procura di Catanzaro che ha disposto dei contro-sequestri nei confronti della procura (di Salerno, ndr) – cosa che legittimamente non poteva fare – e poi dal fatto che tutta l’informazione ha presentato questa vicenda tristissima della nostra giustizia come guerra tra procure, tristissima perché poi il Csm, che dovrebbe essere l’organo di autogoverno della magistratura e invece adesso non è diventato altro che un centro di potere dove si amministra tutt’altro che la Giustizia e tutt’altro che l’autogoverno della magistratura, ha preparato un plotone d’esecuzione col quale l’intera procura di Salerno è stata decimata.

Io vorrei che l’informazione parlasse in altra maniera della vicenda attuale di Gioacchino Genchi, il quale viene accusato dalla stampa nella sua totalità, tutta la stampa lo presenta in questa maniera, tranne qualche rara eccezione: l´uomo che ci spia, l´uomo che ci intercetta tutti, ci sorveglia, che ha degli archivi immensi nei quali mantiene i controlli su di noi. Gioacchino Genchi non ha mai fatto un´intercettazione, Gioacchino Genchi ha incrociato dei tabulati, ha usato quella che è la sua tecnica di poter tramite l’esame dei tabulati delle telefonate ricostruire certi contatti, certi percorsi e non fa nient’altro che questo e Gioacchino Genchi invece la stampa lo presenta oggi come il grande inquisitore, il grande occhio, il grande fratello.
Gioacchino Genchi è oggi la vittima designata del prossimo assassinio di Stato perché Gioacchino Genchi io ritengo che sarebbe l’unica persona in grado di, se si potesse andare avanti con queste indagini, come quella sul castello Utveggio, sul centro del SISDE che c’era al castello Utveggio, e sul centro di SVILUPPO ITALIA che c’era al castello Utveggio, sui contatti tra i membri di SVILUPPO ITALIA e le telefonate che partirono verso Scotto e verso altre persone, sarebbe l’unica persona in grado di dimostrare da dove sarebbe stato azionato il detonatore, come e chi è stato implicato in quella strage. E allora Gioacchino Genchi io ritengo che oggi, a parte la vicenda de Magistris, a parte l´inchiesta Why not del quale gli sono state sottratte anche in quel caso le indagini sia a lui che a de Magistris, io ritengo che sarebbe l’unica persona in grado di potere dimostrare certe cose ed é per questo oggi che si sta assassinando anche quest’altra persona e si sta cercando di renderlo innocuo. E questo la stampa non lo dice, anche in questo caso la stampa presenta tutto come i centri di potere in Italia, quella che è la vera mafia in Italia. Quanto alla sua domanda iniziale – se esiste una mafia senza mafiosi – se non esistesse una mafia senza mafiosi oggi forse io potrei finalmente piangere mio fratello, cosa che non mi posso permettere di fare perché mio fratello viene assassinato ancora, e giorno per giorno; forse se non esistesse una mafia senza mafiosi oggi forse potrei far valere la verità invece non l´abbiamo.”

Cosenza, sparizioni e sospetti omicidi Così si moriva nella clinica degli orrori

http://www.repubblica.it/2009/03/sezioni/cronaca/clinica-cosenza/clinica-cosenza/clinica-cosenza.html

In 27 rinviati a giudizio per le truffe della casa di riposo Papa Giovanni XXIII
Aperta una nuova inchiesta su 12 pazienti “scomparsi” e 15 “possibili assassinii”
Cosenza, sparizioni e sospetti omicidi
Così si moriva nella clinica degli orrori
dall’inviato ATTILIO BOLZONI

SERRA D’AIELLO (COSENZA) – C’è una casa degli orrori sulle montagne calabresi. Dove in tanti scompaiono, dove in troppi muoiono. E’ un ricovero per derelitti e ripudiati di ogni specie che è diventata reggia per un prete e discarica umana per chi c’è finito dentro. Truffe, imbrogli, saccheggi e ora, ora anche il sospetto di alcuni omicidi. Donne e uomini che non si trovano più. Qualcuno sta indagando per scoprire che fine hanno fatto in ventisette. Dodici sono spariti, per altri quindici l’ombra di una morte violenta. Il luogo del mistero è Serra D’Aiello, paesino di settecento abitanti aggrappato all’appennino aspro che da Cosenza scende a strapiombo verso il mare di Amantea e la piana di Falerna.

La casa degli orrori è nascosta là sopra, in tre casermoni di pietra grigia incastrati uno dentro l’altro che dieci anni fa davano riparo a 900 degenti e oggi a quasi 300. Giovani e vecchi, malati, invalidi, mutilati, paralitici, matti veri e matti presunti, tutti soli dalla nascita o abbandonati dalle famiglie, molti con un piccolo patrimonio personale che è stato inghiottito nelle casse di una fondazione religiosa. Ma dopo i raggiri alla Regione e le ruberie ai pazienti, i carabinieri stanno cercando di ricostruire le “morti sospette”. Da qualche mese il sostituto procuratore di Paola Eugenio Facciolla ha formalizzato un’inchiesta su quei 12 scomparsi e su 15 “possibili omicidi”. Poi ci sono almeno altri cento casi di pazienti che hanno subito lesioni gravi. E non solo una volta. Gli investigatori ipotizzano che dentro all’istituto Papa Giovanni XXIII avrebbero fatto sparire uomini e donne per appropriarsi dei loro beni.

Ci sono anche un paio di anonimi arrivati ultimamente in Procura che parlano “di un traffico di organi”. Quanto sia vera fino in fondo questa storia lo svelerà il futuro dell’inchiesta giudiziaria, intanto però la storia raccontiamola dall’inizio. Dal luglio del 2007. Dal giorno che don Alfredo Luberto è stato sospeso a divinis dopo cinque mesi di arresti domiciliari.
I finanzieri ci hanno messo dodici ore per fare l’inventario delle “cose” trovate nella bella casa di don Alfredo. Disegni di De Chirico, scatole piene di ori e argenti, preziose stilografiche, una rara collezione di orologi, un leggìo scultura di Giacomo Manzù, mobili di lusso, una sauna e una palestra in mansarda. E ci hanno messo qualche giorno per scoprire che quel prete, presidente dell’istituto Papa Giovanni XXIII – casa di ricovero di proprietà della curia arcivescovile di Cosenza nata “per curare malati cronici o con problemi psichici” – era il ras del manicomio lager dove molti pazienti erano trattati come bestie. Nel silenzio di tutti, nell’omertà di un paese intero.

Lasciati per giorni in mezzo alla sporcizia, le zecche in corsia, epidemie di scabbia, letti sgangherati, coperte che non c’erano, finestre senza vetri, cessi che nessuno puliva mai. All’istituto di Serra D’Aiello, negli anni Novanta quasi duemila dipendenti fatti assumere dai politici di ogni colore della provincia, la Regione Calabria versava per ogni ricoverato una retta giornaliera dai 110 ai 195 euro. Quello che lì dentro spendevano realmente per i malati – l’hanno certificato i periti nominati dalla procura di Paola – andava dagli 8 agli 11 euro al giorno. Gli altri soldi se li tenevano don Alfredo e pochi altri. Succedeva di tutto con il denaro che non arrivava mai a chi doveva arrivare. Cinquanta euro al giorno di contributi regionali per l'”assistenza spirituale” o cinquanta euro al giorno per l'”assistenza religiosa”, a volte i malati non avevano però neanche da mangiare. L’accusa ha calcolato che in pochi anni gli amministratori della fondazione si sono impossessati di 13 milioni di finanziamenti e di altri 15 milioni di contributi mai pagati. In un primo momento è stato indagato anche l’ex vescovo di Cosenza Giuseppe Agostino (“Avrebbe dovuto vigilare e invece firmava carte per conferire a don Alfredo il dominio perpetuo sull’istituto Papa Giovanni”), poi il monsignore è uscito incolpevole dalle indagini. A rinvio a giudizio – deciso proprio ieri – andranno in 27 per associazione a delinquere e truffa e appropriazione indebita. Il primo della lista è il “prete dell’Harley Davidson”. L’altra passione di don Alfredo: le motociclette americane.

Dopo lo scandalo dei soldi sono saltate fuori le cartelle cliniche taroccate. Centinaia sembravano compilate in fotocopia, tutte uguali. Come le diagnosi. Tutte uguali anche quelle. Per chi aveva problemi alle gambe o per chi aveva problemi alla testa. Altre cartelle cliniche non si sono mai trovate, altre ancora hanno fatto partire le nuove indagini sulle morti sospette. “Ci sono casi di fratture multiple mai trattate”, racconta un investigatore. La relazione dei periti e, nel settembre del 2008, l’apertura della nuova inchiesta sugli scomparsi di Serra D’Aiello.

Dal 1997 sono cominciati a svanire nel nulla i primi pazienti. E il primo fra i primi è stato un certo Bruno. Poi è toccato a una donna (il suo nome è ancora top secret), poi a Domenico Antonino Pino. Lui aveva ventinove anni, era rinchiuso al Papa Giovanni da dodici. Una notte dell’estate del 2001 qualcuno è entrato nella stanza dove dormiva e se l’è portato via con la forza. Il suo compagno di ricovero ha riconosciuto due uomini in camice, nessuno gli ha creduto. “E’ matto”, hanno detto. I parenti di Domenico Pino per anni l’hanno inutilmente cercato. Qualcuno dell’istituto è arrivato a dire “che se n’era andato con le proprie gambe”: Domenico era immobilizzato da bambino su una sedia a rotelle. Dopo di lui è scomparso un certo Di Tommaso, poi un certo Pollella, poi un certo Tiano. E un altro e un altro ancora. Fino al dicembre scorso. L’ultimo sparito di Serra D’Aiello è un uomo di 68 anni.

“Lo so anch’io di quest’ultimo scomparso e anche di Domenico Pino”, dice il sindaco Antonio Cugliotta. Di scomparsi, solo di scomparsi si parla sottovoce in questi giorni nel paese sulle montagne calabresi. In piazza. Nei vicoli che si inseguono fino ai boschi. Nella strada davanti al Papa Giovanni dove ora i 550 dipendenti, con anni di stipendi arretrati, protestano perché non arrivano più soldi dalla Regione. Dice il proprietario del bar “centrale” Amerino Sendelli: “Vivo qui da prima del 2000, tutti sanno di quelle scomparse e tutti tacciono per paura”. Dice Francesco Provenzano, carpentiere: “Tutti hanno paura”. Dicono tutti: “Tutti hanno paura”. E’ il mistero di Serra D’Aiello.
(Ha collaborato Anna Maria De Luca)

Tra l’incudine e il martello

Da http://www.antimafiaduemila.com/content/view/12502/78/:

di Giorgio Bongiovanni – ANTIMAFIADuemila N°60
Udienza cruciale per il processo d’appello di Massimo Ciancimino che intanto collabora con i magistrati sulle vicende della trattativa. “Voglio dire la verità”

E’ l’unico testimone diretto della trattativa, quel patto scellerato tra mafia e stato che tra il ’92-‘93 ha cambiato il volto del nostro Paese, che sembra seriamente intenzionato a collaborare con i magistrati per inquadrare storicamente, politicamente e socialmente i misteri che ancora si celano dietro le stragi di quegli anni e le catture riuscite e mancate dei boss di Cosa Nostra come quelle di Bernardo Provenzano.
Massimo Ciancimino, figlio ribelle di Don Vito, è stato protagonista principale di quella sorta di pericoloso dialogo avvenuto tra il padre e gli allora capitano De Donno e colonnello Mori proprio nei mesi in cui il tritolo ha spazzato via Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Quei due magistrati che forse ancor più per il loro spessore morale, che non per le loro già straordinarie capacità professionali, potevano rappresentare per gli italiani un punto di riferimento ben preciso, un ultimo baluardo dello Stato in una Repubblica che andava a pezzi con gli avvisi di garanzia per corruzione.
Se fossero stati lasciati in vita, se avessero potuto lavorare con le loro menti illuminate e lungimiranti assieme agli altri magistrati onesti e con l’appoggio responsabile della società civile, molto probabilmente oggi saremmo in un Paese diverso. Ma questa purtroppo è tutta un’altra storia. La realtà infatti ci precipita negli inferni di Capaci e Via D’Amelio dove a regolare i conti con Falcone e Borsellino non c’era solo Cosa Nostra.
La vicenda dei Ciancimino, padre e figlio, inizia a cavallo delle due stragi, i primi di giugno, quando da poco è morto Falcone e quando comincia il conto alla rovescia per Borsellino.
Massimo ha riferito di aver incontrato il capitano De Donno in aereo mentre volava da Palermo a Roma. Chiesto all’assistente di volo di potersi sedere vicini i due, che si erano conosciuti durante le fasi di arresto e processo di Don Vito, avevano cominciato a discutere della possibilità per De Donno di fare una chiacchierata con il vecchio sindaco. A fine volo Massimo, sebbene con qualche perplessità in merito al risultato, assicurava all’ufficiale che avrebbe riferito al genitore la proposta.
In un contatto successivo, dietro la caserma dei carabinieri di Carini in piazza Verdi, Ciancimino junior, su sollecitazione del padre, chiedeva al capitano il contenuto del loro eventuale dialogo e dopo aver chiarito che si sarebbe discusso della cattura dei superlatitanti, don Vito aveva accettato di incontrarlo.
Il primo appuntamento si svolse a Roma tra il solo Ciancimino senior e il De Donno che parlarono per circa un’ora e mezza. Dopo un paio di giorni il capitano ritornò, questa volta accompagnato dal suo superiore il colonnello Mario Mori che si presentò in abiti civili.
Rimasero appartati con Don Vito per un paio d’ore accordandosi per successivi incontri.
Nel contempo il vecchio corleonese, scaltro e avveduto, si assicurava, tramite suoi contatti riservati e altolocati, che i due ufficiali fossero realmente autorizzati a trattare.
Seguendo il racconto di Massimo l’incontro più importante sarebbe avvenuto a Roma in una data di non molto successiva, ma antecedente alla strage di via D’Amelio.
Secondo quanto lui deduce, in base al racconto diretto del padre però, Don Vito incontrò di nuovo Mori per consegnargli una busta all’interno della quale ci sarebbe stato l’ormai famigerato “papello” di richieste avanzate da Cosa Nostra allo Stato. Massimo ricorda bene quel frangente poiché il padre si era molto adirato per il tenore delle pretese che, a suo dire, fatta eccezione per alcune, erano assolutamente incettabili.
Questo aveva impensierito non poco il giovane che si aspettava da questa collaborazione con i carabinieri di ottenere vantaggi per la situazione giudiziaria del padre e quindi un beneficio per l’intera famiglia. Il padre gli avrebbe fatto capire invece che, considerato l’andamento della trattativa, ci sarebbe stato ben poco da sperare per il loro tornaconto.
E proprio a causa delle richieste considerate improponibili, anche da parte di Mori, questa prima fase della trattativa si sarebbe interrotta per poi riprendere con una finalità differente, ben più specifica: la cattura di Riina in persona.
A tal fine il capitano De Donno aveva fatto recapitare a Don Vito, sempre tramite il figlio, utenze dell’enel, dell’acqua e del telefono e una serie di piantine catastali della città di Palermo e sulle quali il vecchio sindaco avrebbe dovuto indicare le zone e i luoghi in cui si muoveva il capo di Cosa Nostra.
E così fece.
Ciancimino però era uomo esperto e non si sarebbe mai mosso in tal senso senza avere un interlocutore sicuro che gli guardasse le spalle e visti i pregressi rapporti non è difficile dedurre che abbia agito in pieno accordo con Bernardo Provenzano.
Con l’occulto capo di Cosa Nostra infatti Don Vito aveva una relazione privilegiata: lo conosceva fin da quando era un bambino cui dava anche ripetizioni di matematica ed era l’unico, a dire del figlio, con cui il sindaco riteneva valesse la pena parlare di affari e politica.
Se questo accenno di ricostruzione è valido e plausibile è altrettanto logico avanzare ipotesi e anche qualche legittima domanda.
Se Provenzano in effetti concorda la cessione di Riina, come per altro presuppone e con solide motivazioni anche Giuffré (vedi antimafia n° 59), cosa ha ottenuto in cambio?
Benefici carcerari per i mafiosi? Sicuramente, visto l’allentamento del 41bis, dal quale partono tranquillamente messaggi, ordini e si stipulano accordi tra le mafie. Eliminazione del pericolo pentiti? Altrettanto, considerata la penuria di collaboratori di giustizia di un qualche calibro… La protezione della latitanza? Ugualmente presumibile vista la sua straordinaria capacità di sfuggire, per un soffio, a qualsiasi blitz, almeno fino all’ultimo quando vecchio, stanco e malato, il padrino si è riavvicinato a casa per poi essere catturato.
Ed è in questo quadro che le dichiarazioni che Massimo Ciancimino sta rilasciando ai pm Di Matteo e Ingroia, titolari del processo contro il generale Mori e il colonnello Obinu accusati di aver favorito la latitanza di Provenzano facendo saltare il blitz di Mezzojuso nel 1995, stanno acquisendo sempre maggiore importanza e delicatezza.
Al momento sono ancora ricoperte da segreto istruttorio, ma la sola ipotesi che il giovane erede di Don Vito, possa fare rivelazioni a tuttoggi sconosciute può a ben ragione aver destato più di una preoccupazione in diversi ambienti.
Da quando sta parlando con i magistrati infatti Ciancimino ha cominciato a notare movimenti sospetti, appostamenti e pedinamenti di loschi figuri che piano piano sono diventati veri e proprio atti intimidatori.

Un prezzo troppo alto?

Vito Ciancimino disponeva di un potere politico ed economico smisurato nella Palermo degli anni Ottanta e le sua casa era meta di autentici pellegrinaggi. Godeva di una rete di relazioni e quindi di protezioni che spaziava dalla mafia di Bontade, Badalamenti e poi di Provenzano fino ai signorotti della borghesia, della politica, dell’imprenditoria rampante e della magistratura.
E il giovane Massimo, irrequieto e versatile, è stato testimone di un perfetto sistema di proficue compiacenze e vantaggiose, vicendevoli cortesie.
Un’eredità dal valore quasi inestimabile, come lo è del resto quella monetaria, motivo dei guai giudiziari che lo hanno trascinato alla sbarra degli imputati con l’accusa insidiosa di intestazione fittizia dei beni e riciclaggio di beni di provenienza illecita.
La sentenza di primo grado ha già condannato lui e i suoi avvocati Giorgio Ghiron e Gianni Lapis a pene piuttosto severe che si aggirano attorno ai cinque anni e mezzo di carcere cadauno, ma ora è alle porte l’appello.
Nel corso dell’istruttoria i magistrati della DDA di Palermo Pignatone, Prestipino, Buzzolani e Sava avevano ricostruito un giro internazionale di milioni di euro provenienti dalla cessione delle azioni della società GAS, riconducibile a Vito Ciancimino, e reinvestiti in altre attività oltre che spesi in beni di lusso da Ghiron e Lapis, ma che sarebbero in realtà di Massimo Ciancimino.
L’inchiesta dimostra che grazie al potere di Don Vito la società si era fortemente arricchita permettendo nello stesso tempo a molti altri di godere dei lauti frutti. E probabilmente se non fosse stato per quel pizzino ritrovato a Giuffré nessuno avrebbe mai trovato lo spunto per mettere le mani su un tesoro rimasto pressoché intatto negli anni nonostante gli sforzi di Giovanni Falcone in persona.
Un processo quindi che potrebbe aver disturbato molti che nell’ombra attendono con impazienza di capire quale strada intende imboccare Massimo Ciancimino che è perfettamente consapevole di essere in una posizione scomoda: tra l’incudine e il martello. Sia perché a Matteo Messina Denaro, ultimo dei padrini di Cosa Nostra in libertà, proprio non è scesa la sua gestione di un vecchio e assai lucroso affare ad Alcamo, sia perché Massimo sa, ha visto e vissuto molte storie della Palermo bene. E non sembra essere intenzionato a fare da capro espiatorio.
Proprio alla vigilia dell’appello, che si svolgerà secondo la formula giuridica del rito abbreviato, Ciancimino ha chiesto di produrre a processo nuove intercettazioni che gli avevano detto non essere riuscite e che invece sono state trovate all’interno del decreto di archiviazione per mafia.
In quelle parole registrate dalle cimici ambientali mentre interloquiva con i suoi avvocati emergerebbe la sua volontà di dire la verità. Verità delicate, verità pericolose.
Per questa ragione ANTIMAFIADuemila tramite il suo sito e i diversi contatti stampa aveva chiesto e torna a chiedere che lo Stato dia un segnale di forza proteggendo questo soggetto che a tutti gli effetti sta agendo in qualità di testimone di giustizia che intende collaborare affinché vengano chiarite vicende cruciali per la storia del nostro Paese.

Solidarieta’ al procuratore Messineo

Da http://www.antimafiaduemila.com/content/view/13606/78/:

di Giorgio Bongiovanni e Redazione – 7 marzo 2009
”Contano le azioni…” G. Falcone
Censurare le notizie non fa parte della deontologia del giornalista ed è per questa ragione che non vi deve essere alcuna censura in merito alle notizie, pubblicate da Repubblica e la Stampa, relative alle parentele del procuratore di Palermo Francesco Messineo con il presunto mafioso Sergio Sacco. DOSSIER ALL’INTERNO!
Così come non va censurata la notizia del fratello del procuratore attualmente sotto processo per truffa.
Detto questo però, rimaniamo dell’idea che siano le azioni a qualificare l’operato di un uomo. Dal momento dal suo insediamento quale capo della Procura della Repubblica di Palermo il dottor Messineo ha dimostrato di aver saputo ricompattare una procura divisa su molti fronti, raggiungendo così obiettivi di primaria importanza. Con grande professionalità, infatti, non solo ha proseguito il lavoro dei suoi predecessori nell’azione di repressione a Cosa Nostra attraverso l’arresto di pericolosi latitanti, il sequestro di centinaia di milioni di euro ecc. senza alcun tentennamento contro le cosche, ma ha consentito altresì l’apertura di nuove indagini su mafia e poteri forti (politica, alta finanza, servizi segreti deviati, massonerie deviate ecc.). E’ in corso attualmente un’inchiesta tra le più importanti della storia, quella relativa alla cosiddetta “trattativa” tra mafia e stato, scaturita principalmente dalle dichiarazioni di Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco di Palermo.
Queste sono le azioni da giudicare in base alle quali esprimiamo la nostra opinione in merito a questa delicata questione. Elogiamo quindi l’alta etica professionale del Procuratore, il suo senso del dovere verso la giustizia e verso le istituzioni.
Dott. Messineo, continui ad essere il garante del suo lavoro, di quello dei suoi procuratori aggiunti e sostituti che a nostro giudizio stanno svolgendo un lavoro encomiabile, non solo nella lotta alla mafia, ma anche e soprattutto nella ricerca delle alleanze di cui gode Cosa Nostra, quei poteri che purtroppo ancora oggi le consentono di esistere.

Giorgio Bongiovanni
Direttore Responsabile di ANTIMAFIA Duemila
e tutta la Redazione

Le solite coincidenze

Da http://www.antimafiaduemila.com/index.php?option=com_content&task=view&id=13676&Itemid=78:

di Marco Travaglio – 9 marzo 2009

Ora vogliono cacciare pure il procuratore capo di Palermo, Francesco Messineo. L’ha annunciato Gianfranco Anedda, l’infaticabile consigliere laico, cioè politico (An) del Csm, già protagonista con altri mirabili colleghi delle cacciate di Luigi De Magistris da Catanzaro, di Clementina Forleo da Milano e di Luigi Apicella, Gabriella Nuzzi e Diniogio Verasani da Salerno.

Una garanzia. Anedda s’è appigliato a un paio di articoli di stampa su una vecchia vicenda giudiziaria che ha coinvolto Sergio Maria Sacco, fratello della moglie di Messineo. Sacco fu due volte indagato una ventina e una decina d’anni fa dalla stessa Procura di Palermo per concorso esterno in associazione mafiosa, la prima volta assolto e la seconda archiviato. Ora salta fuori che nel 2006 avrebbe suggerito a Giovanni Bonanno, figlio di un vecchio capomafia, terrorizzato da possibili vendette trasversali, di abbandonare Palermo. Bonanno non gli diede ascolto e sparì per sempre (la classica “lupara bianca”). Per questo episodio, contrariamente a quanto hanno scritto i giornali, Sacco non è indagato nè sospettato di essere un mafioso, anche perché suggerire a un tizio di cambiare aria per salvarsi la pelle non è reato. Ma tanto basta al centrodestra per mettere nel mirino il capo della Procura, guardacaso di nuovo impegnata, dopo anni di letargo, sulle trattative fra Stato e mafia durante le stragi del 1992-’93. Lo fanno notare i pm dell’Antimafia palermitana nel comunicato di solidarietà al loro capo: la vicenda Sacco è «molto datata, già nota al Csm e valutata come irrilevante in occasione della nomina di Messineo a procuratore» e «non ha mai prodotto all’interno dell’ufficio riserve o limiti di alcun genere, anche per il ritrovato entusiasmo nel lavoro di gruppo, nella tradizione dello storico pool antimafia, e per l’effettiva gestione collegiale dell’ufficio». Guardacaso l’attacco arriva in «coincidenza temporale col progredire di delicatissime indagini sulle relazioni esterne di Cosa Nostra». Fermo restando che i giornali fanno il loro mestiere di informare (ma perché non han riportato il passaggio del comunicato sulla «coincidenza temporale»?), il problema riguarda ancora una volta il Csm: se riteneva imbarazzante la parentela indiretta di Messineo con Sacco, non doveva nominarlo procuratore. Una volta nominato, non si vede che senso abbia rimestare in vecchie storie che non lo sfiorano nemmeno indirettamente, riguardando soltanto il cognato, neppure indagato. Tanta solerzia, poi, fa a pugni col lassismo usato verso i magistrati di Catanzaro e di Potenza (dai procuratori generali Favi e Tufano a vari pm) indagati essi stessi, non i loro cognati – per aver ostacolato o insabbiato indagini delicatissime, e mai proposti per il trasferimento. Anzi, nel caso Catanzaro il Csm ha preferito cacciare i magistrati onesti che li avevano
indagati. Complimenti vivissimi.