Archivi del giorno: 14 marzo 2009

Caso De Magistris Ultima fermata: via d’Amelio

Da http://www.antimafiaduemila.com/content/view/13870/78/:

di Monica Centofante – 14 marzo 2009
Al momento giusto nell’indagine sbagliata. Qualcuno ha definito più o meno così, ieri, la posizione di Gioacchino Genchi, il consulente delle procure (ormai) più famoso d’Italia. Che è anche perito delle difese anche se nessuno o quasi ama ricordarlo.
DOSSIER ALL’INTERNO!

Proprio ieri il caso Genchi – propaggine del caso De Magistris – è tornato infatti alla ribalta delle cronache quando gli uomini del Reparto Tecnico del Ros di Roma, guidati dal colonnello Pasquale Angelosanto, hanno fatto irruzione nella sua luminosa abitazione-ufficio, che negli ultimi mesi, articolo dopo articolo, ha assunto sempre più, nell’immaginario collettivo, le connotazioni di una sorta di bunker antiatomico.
Le motivazioni del decreto di perquisizione, poche pagine firmate dai procuratori aggiunti di Roma Achille Toro e Nello Rossi, non si discostano dalle accuse mosse da tempo da certa politica, dal Csm e più recentemente dal Copasir. E riguardano la presunta illecita acquisizione “di tabulati di comunicazioni di membri del Parlamento” e la presunta illecita acquisizione “di tabulati telefonici relativi ad utenze in uso ad appartenenti ai servizi di sicurezza”. Insomma, lo ricorda anche il legale del Dott. Genchi, Fabio Repici, tutte contestazioni infondate se si legge “il decreto di sequestro emesso qualche mese fa dalla Procura di Salerno a carico di magistrati catanzaresi”. Un documento nel quale, spiega Repici, non solo c’è “la prova della correttezza dell’operato del Dr. Genchi”, ma anche quella “degli esorbitanti errori commessi dal funzionario del Ros che ha operato prima su delega della Procura generale di Catanzaro e che oggi opera per conto della Procura di Roma”. Quel Pasquale Angelosanto, autore di informative che Repici, ancora, ritiene siano caratterizzate da “abnormi incongruenze” e “marchiani errori”.
Nel decreto di perquisizione di Salerno, giudicato perfettamente legittimo dal competente Tribunale del Riesame, si legge che “sulle attività di acquisizione, studio, elaborazione analitico-relazionale dei dati di traffico telefonico, gli esiti delle indagini tecniche condotte dai Carabinieri del Ros – Reparto Indagini Tecniche su delega del Generale Ufficio avocante e compendiate nella relazione del 12 gennaio 2008 a firma del Colonnello Pasquale Angelosanto, non trovano conferma nelle risultanze investigative acquisite da questo Ufficio”. Eppure ieri, lo stesso Angelosanto, sentito anche come testimone davanti alla Disciplinare del Csm, guidava i Carabinieri che si muovevano, alla ricerca di chissà quali documenti, in tutti i luoghi “nella disponibilità” del funzionario di polizia indagato. Mentre lo stesso si trovava a Milano, da dove è rientrato solo in serata.
E chissà se al Col. Angelosanto (e magari a qualcun altro) avrà fatto piacere la straordinaria concomitanza delle perquisizioni con l’uscita di un articolo, annunciato qualche giorno fa, su un settimanale. Nel quale sono riportate le dichiarazioni dello stesso Genchi che attacca proprio il Reparto Operativo Speciale dei Carabinieri nelle “porcherie” del quale, dice, “mi imbatto dal 1989”.
L’articolo, che avrebbe potuto suscitare scalpore e creare fastidi al Ros, è infatti passato a notizia di terzo o quarto piano.
E in quell’articolo, tra l’altro, il consulente ricorda il suo ruolo da protagonista nelle indagini svolte in seguito alla strage di Via D’Amelio, in cui persero la vita il giudice Paolo Borsellino e gli uomini della sua scorta. Mentre si accenna a quella presunta trattativa tra mafia e Stato sulla quale Massimo Ciancimino, figlio di Don Vito, ha recentemente cominciato a rilasciare dichiarazioni alla Procura di Palermo. Partendo proprio da Via D’Amelio.
Ieri, ai microfoni di La7, Gioacchino Genchi ha ricordato quelle indagini. “Il motivo della mia delegittimazione – ha detto – nasce dalle inchieste sui mandanti esterni a quella strage”. Perché “nell’inchiesta Why Not, in cui ho collaborato con il procuratore De Magistris, ho ritrovato, senza volerlo, le stesse persone in cui mi ero imbattuto nelle indagini di Caltanissetta”.
Forse persone che appartengono ai cosiddetti poteri forti (forze dell’ordine e servizi segreti compresi) dei quali si fa cenno nei decreti di archiviazione delle indagini sui mandati esterni alle stragi o nel processo in corso a Palermo o nelle stesse indagini sottratte al Dott. De Magistris che, è lui stesso a dichiararlo, stavano svelando l’esistenza di una nuova P2. Molto più potente e organizzata della prima.
Da questo punto di osservazione, se fosse confermato, apparirebbero ancora più chiari i violenti attacchi perpetrati ai danni del Dott. Genchi. E la definizione di uomo al momento giusto nell’indagine sbagliata assumerebbe un altro significato.
Ieri, in un comunicato stampa, l’avvocato Repici ha dichiarato, ancora, che “ciò che si sta compiendo è la prosecuzione di una strategia di delegittimazione nei confronti del dr. Genchi, quale funzionario di polizia e consulente dell’A.g., che trova ragione nei fondamentali accertamenti fatti dal dr. Genchi sulla strage di via D’Amelio del 19 luglio 1992”.
Le indagini condotte oggi contro di lui, quindi, sarebbero soltanto il pretesto per fermare al momento giusto l’uomo che già in passato avrebbe arrecato non pochi fastidi.

Sicilia

Sono parzialmente d’accordo con Grillo: non sarei così sicuro che una Sicilia indipendente domani sarebbe la soluzione dei problemi, probabilmente diventerebbe una repubblica delle banane mafiose. Certo è che se la mafia non è stata ancora debellata, è per mancanza di volontà politica. La mafia è solo il ramo militare di un potere occulto di natura massonica che occupa le istituzioni italiane e controlla l’economia. Gli indizi sono troppi e concordanti per essere solo coincidenze:

  • Andreotti giudicato colpevole di aver aiutato la mafia ma non condannato per prescrizione
  • il giudice carnevale che annullava le condanne dei mafiosi, recentemente re-integrato in servizio dal governo berlusconi
  • molte decisioni del CSM per le quali mi è parso essere più il consiglio superiore della mafia che della magistratura,
  • dell’utri fondatore di Forza Italia, amico e socio in affari di mafiosi, condannato (in via non ancora definitiva) a 9 anni per concorso esterno in associazione mafiosa
  • berlusconi che ospitava in casa Mangano, un mafioso che i giudici di palermo ritenevano l’incaricato di cosa nostra per il riciclaggio del denaro sporco al nord
  • berlusconi che non si sa dove abbia preso i soldi per costruire milano 2, e suo padre era un altissimo funzionario della banca Rasini dove cosa nostra riciclava il denaro sporco
  • Bruno Contrada, ex numero tre dei servizi segreti, ex capo della squadra mobile della polizia di Palermo,  condannato con sentenza definitiva a 10 anni per concorso esterno in associazione di tipo mafioso.
  • il ROS dei carabinieri che non perquisisce il covo di Riina e poi va a perquisire lo studio di Gioacchino Genchi,
  • lo stesso ROS dei carabinieri che si è rifiutato di arrestare Provenzano nel 1995,
  • il colonnello Arcangioli che porta via la cartella di Borsellino da via d’Amelio e nella cartella c’era l’agenda rossa in cui Borsellino annotava tutto,
  • il centro dei servizi segreti al castello utveggio da cui sarebbe stato azionato il telecomando della strage di via d’amelio
  • l’esplosivo della strage di Borsellino che era di tipo militare
  • i poliziotti e i magistrati che vengono trasferiti quando indagano troppo bene sulla mafia e sui suio legami col potere politico ed economico (per esempio quello che sta succedendo a Gioacchino Genchi)
  • Il giornalista Pippo Fava ucciso a Catania dopo aver detto in televisione in un’intervista a Enzo Biagi queste parole “Mi rendo conto che c’è un’enorme confusione sul problema della mafia. I mafiosi stanno in Parlamento, i mafiosi a volte sono ministri, i mafiosi sono banchieri, i mafiosi sono quelli che in questo momento sono ai vertici della nazione “
  • e molto altro ancora…

Da http://www.beppegrillo.it/2009/03/sicilia.html:

La Sicilia è la regione italiana più povera. Ha la disoccupazione più alta. La Sicilia è il nostro Far West Oscuro. In Sicilia ci sono i fichi d’india, i cannoli e i morti ammazzati. Gli eroi italiani sono spesso siciliani. I mafiosi non sempre sono siciliani. L’elenco degli eroi siciliani del dopoguerra è sterminato. Una mattanza. Mi domando talvolta se Borsellino (siciliano) e Falcone (sicilano) sarebbero ancora vivi se la Sicilia fosse una nazione indipendente. Il tritolo per Borsellino arrivò dal continente. Gli spostamenti di Falcone furono tracciati da Roma. La Sicilia in povertà, soggetta alla criminalità, è un serbatoio di elettori. Chi controlla il pacchetto di voti controlla la politica nazionale. E’ successo con Andreotti e il suo referente Lima. Più tardi vi furono 61 seggi su 61 assegnati a Forza Italia. Una percentuale imbarazzante persino per Ceaucescu. La Sicilia è il banco del Parlamento italiano. Una strana condizione. Gli equilibri della politica nazionale sono influenzati dalla regione ultima per reddito pro capite. Il valore del siciliano è nell’urna. La Sicilia ha più abitanti di Irlanda e Norvegia. Mussolini inviò il prefetto Mori in Sicilia. La trattò come una colonia. Qualche risultato lo ottenne, ma si fermò di fronte ai notabili. Stabilì con loro un patto di non belligeranza. La seconda guerra mondiale in Sicilia la vinsero in due: gli Stati Uniti e la mafia americana. L’esercito alleato fece una passeggiata in Sicilia. Una gita in confronto alla resistenza che incontrò dopo. Qualcuno gli consegno le chiavi dell’isola ed ebbe molto in cambio. Ammistrazioni locali, posti in Parlamento. La Sicilia ha avuto l’intelligenza di Majorana e la profondità di Pirandello, la ferocia di Riina e la gestione del potere di Provenzano. La Sicilia è eterna. E’ crudele. E’ indefinibile. E’ ovunque ci sia un siciliano. Per chi vi e nato Palermo è il centro del mondo. La Sicilia ha tutto. Sole, mare, paesaggi, arte, storia, agricoltura. La Sicilia non ha niente. Inceneritori, emigrazione, criminalità. E’ una chimera nata con l’Unità d’Italia. Una Nazione? Stato? Regione? in crisi di identità o, forse, con identità multiple. In Sicilia si dice ancora cattivo come un piemontese. I libri di Storia raccontano la favola di mille camicie rosse che liberano un’isola di milioni di persone. Quell’isola è in catene. E’ autonoma, ma senza autonomia. Ricca, ma povera. Ha il maggior numero di patrimoni dell’umanità dell’UNESCO in Italia. Catania e Palermo sono sommerse dai debiti. L’Italia non ha fatto bene alla Sicilia. Forse, da sola, la Sicilia può risorgere. Con l’Italia, questa Italia, può solo affondare. U pisci feti da testa. E la testa è a Roma.

Ciancimino Jr. accusa Vizzini di riciclaggio. Il senatore del Pdl querela

Aggiornamento: ciancimino smentisce la notizia:

Da http://www.antimafiaduemila.com/index.php?option=com_content&task=view&id=13866&Itemid=48:

Mafia: Ciancimino, notizia non corrisponde a mie dichiarazioni

14 marzo 2009
Palermo. “Tutto quello che leggo non corrisponde ai miei colloqui con i magistrati”.

Lo dice Massimo Ciancimino in una intervista alla TgR Rai, a proposito di quanto riportato oggi da La Repubblica in cui si afferma che il senatore Carlo Vizzini è indagato in base ad alcune sue dichiarazioni, come pure il deputato Saverio Romano (Udc). “Avrò scambiato qualche battuta con l’onorevole Romano – aggiunge Ciancimino – ma con Vizzini no”. Al figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo il giornalista chiede se nei suoi interrogatori con la procura di Palermo ha parlato di coinvolgimento di “colletti bianchi”, e Massimo Ciancimino risponde: “Si è parlato anche di questo, ma non nei termini che ho letto sul giornale”.

ANSA

La notizia originale era http://www.antimafiaduemila.com/content/view/13860/48/:

Palermo. Le gravi accuse del figlio di don Vito fanno tremare la citta’

di Alessandra Ziniti – 14 marzo 2009

Palermo, Ciancimino jr accusa il senatore Pdl e Saverio Romano, deputato Udc. Ora indagati
Dice di se stesso: “L’unica cosa che mi ha trasmesso papà è la correttezza”

Viaggiava su e giù tra Palermo e Roma con valigette piene di banconote e distribuiva ai politici: 900 mila euro a Carlo Vizzini, 100 mila a Saverio Romano. Massimo Ciancimino accusa e si autoaccusa e i primi nomi eccellenti finiscono, insieme al suo, nel registro degli indagati della Procura di Palermo sulla scorta delle dichiarazioni del figlio dell´ex sindaco che da mesi collabora con i pm della Dda nell´ambito di un´inchiesta, condotta dal sostituto Nino Di Matteo e dall´aggiunto Antonio Ingroia, che ha preso le mosse dalla cosiddetta “trattativa” fra Stato e mafia subito dopo le stragi del´92.
Di Carlo Vizzini, senatore del Pdl, presidente della commissione Affari costituzionali e componente della commissione Antimafia, Ciancimino parla come di una sorta di socio occulto della Sirco Fingas, la società attraverso la quale il figlio dell´ex sindaco avrebbe riciclato una parte dell´ingente patrimonio occultato dal padre. Di Saverio Romano, deputato e segretario dell´Udc siciliana, racconta invece di un sostanzioso contributo ricevuto quando era sottosegretario al Lavoro del precedente governo Berlusconi. Soldi che Massimo Ciancimino, già condannato in primo grado a cinque anni e otto mesi, afferma di aver consegnato personalmente ai due parlamentari.
Eccolo «il progredire di delicatissime indagini sulle relazioni esterne di Cosa nostra», richiamato proprio qualche giorno fa dai magistrati di Palermo nel documento di solidarietà al procuratore Messineo dopo la pubblicazione su Repubblica di alcuni articoli sulle inchieste di mafia in cui è coinvolto il cognato di Messineo, l´imprenditore Sergio Sacco.
Indagini, quelle sulle relazioni esterne di Cosa nostra, alle quali oltre a Massimo Ciancimino, da qualche settimana, sta fornendo il suo contributo anche il tributarista Gianni Lapis, l´uomo al quale il vecchio don Vito avrebbe affidato la gestione del suo patrimonio insieme all´avvocato romano Giorgio Ghiron. Erano loro a gestire il conto “Mignon”, con quei 27 milioni di euro, provento del lucroso affare del gas al quale Carlo Vizzini, secondo quanto racconta Ciancimino, sarebbe stato personalmente interessato insieme ad altri insospettabili, soci occulti o meno del gruppo Sirco, (nel quale sarebbero appunto finiti i soldi di Don Vito) poi venduto agli spagnoli. La “quota” di Vizzini sarebbe stata di novecentomila euro. Denaro che Ciancimino jr. racconta di aver personalmente consegnato nel 2004 al parlamentare in due tranche, una da 500 mila a Roma e una da 400 mila a Palermo. A disporre la cifra in favore di Vizzini sarebbe stato Lapis,
“amministratore” di quel conto del quale, solo nei mesi scorsi, Ciancimino ha ammesso di essere il reale intestatario di sette dei ventisette milioni di euro.
E sempre Lapis, secondo le accuse di Ciancimino, avrebbe poi disposto un contributo di 100mila euro nei confronti dell´ex sottosegretario al Lavoro Saverio Romano, già indagato dalla Procura di Palermo per concorso esterno in associazione mafiosa in un´inchiesta riaperta in seguito alle dichiarazioni del pentito Francesco Campanella.

Tratto da: la Repubblica

Dossier sul caso genchi

Un elenco nutrito di articoli sulla mega bufala montata contro Gioacchino Genchi si può trovare sul sito di antimafia duemila.

http://www.antimafiaduemila.com/content/view/13828/78/

Dichiarazioni dell’avv. Fabio Repici, difensore di Gioacchino Genchi

Da http://www.antimafiaduemila.com/index.php?option=com_content&task=view&id=13844&Itemid=48
:

13 marzo 2009
“Accogliendo le reiterate richieste provenute dalla politica, la Procura di Roma ha provveduto agli odierni decreti di perquisizione.

Rendo volentieri atto ai militari del reparto tecnico del R.o.s. e della sezione anticrimine di Palermo di aver operato in modo ineccepibile. Dalle acquisizioni di oggi trarrà giovamento l’accertamento della verità e si potranno così accantonare le abnormi incongruenze ed i marchiani errori contenuti nelle precedenti informative sottoscritte dal col. Angelosanto.
Prendo atto che c’è stata una duplicazione di procedimenti, per effetto di una segnalazione che sarebbe giunta alla Procura di Roma dal Procuratore di Marsala. Anche questo, in fondo, è un dato che servirà a fare chiarezza, perché così oggi si possono capire meglio le ragioni che a suo tempo portarono all’avocazione dell’indagine “Why not” ed alla revoca dell’incarico al dr. Genchi. Ciò che si sta compiendo è la prosecuzione di una strategia di delegittimazione del dr. Genchi, quale funzionario di polizia e consulente dell’A.g., che trova ragione nei fondamentali accertamenti fatti dal dr. Genchi sulla strage di via D’Amelio del 19 luglio 1992.
Quanto alle contestazioni avanzate oggi a carico del dr. Genchi, per constatarne l’infondatezza basta rileggere il decreto di sequestro emesso qualche mese fa dalla Procura di Salerno a carico di magistrati catanzaresi. In quel documento c’è la prova della correttezza dell’operato del dr. Genchi e degli esorbitanti errori commessi dal funzionario del R.o.s. che ha operato prima su delega della Procura generale di Catanzaro e che oggi opera per conto della Procura di Roma. La ripetizione di ulteriori accertamenti non potrà che confermare i risultati già acquisiti a Salerno”.

Avv. Fabio Repici

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Genchi: ”Delegittimato per via D’Amelio”

Roma. “Il motivo della mia delegittimazione nasce dalle inchieste sui mandanti esterni della strage di via D’Amelio in cui morì il giudice Borsellino e gli agenti della sua scorta”. Lo afferma Gioacchino Genchi, il consulente dell’ex pm di Catanzaro Luigi De Magistris, ai microfoni de La7. “Nell’inchiesta Why not, in cui ho collaborato con il procuratore De Magistris – aggiunge – ho ritrovato, senza volerlo, le stesse persone in cui mi ero imbattuto nelle indagini di Caltanissetta sui mandanti esterni di quella strage”. “Era tutto perfettamente legittimo. Sono stato sempre autorizzato ad accedere all’anagrafe tributaria, per identificare le persone coinvolte nelle inchieste. Non avevo una password unica, ne ottenevo una per ciascuna indagine, su richiesta delle procure che mi assegnavano gli incarichi”. Lo dice Gioacchino Genchi commentando l’ordine di perquisizione della procura di Roma. “Mi contestano – afferma Genchi – anche l’abuso d’ufficio, ma determinanti sono questi presunti accessi abusivi che sarebbero avvenuti nel corso delle indagini, coordinate dalla procura di Marsala, coordinata dal dottor Alberto Di Pisa. Ecco perché dico che hanno gettato la maschera e sono venuti allo scoperto. Non c’é più bisogno di indagare per capire perché si muovono così”. Il consulente sostiene che, nel corso delle sue verifiche sui tabulati, aveva ricostruito numerosi elementi e intrecci che coinvolgerebbero magistrati siciliani, giornalisti, agenzie di informazione, uomini politici impegnati in un tentativo di depistaggio e di creazione di ostacoli nelle inchieste calabresi del pm Luigi De Magistris. ANSA

“La verità su mio fratello”

http://www.19luglio1992.com/index.php?option=com_content&view=article&id=1168:la-verita-su-mio-fratello&catid=2:editoriali&Itemid=4

Scritto da Salvatore Borsellino

Accetto volentieri l’invito del direttore Gianfranco Criscenti a scrivere su L’Isola e l’Alcamese perché per me, che dalla Sicilia sono andato via da quaranta anni ma che la Sicilia porto sempre nel cuore, è quasi una maniera di tornare in qualche modo nella mia terra.
Ci sono poi altri ricordi che mi legano a Trapani e alla sua provincia. Quello di un mio zio, Costantino Lepanto, che a Trapani esercitava la professione di medico e che nel suo mare trovò la morte per salvare una bambino che stava per annegare, episodio per cui fu insignito della medaglia d’argento al valor civile. E poi soprattutto il periodo durante i quale Paolo fu a capo della Procura di Marsala e durante il quale, se fosse stato portato a termine il piano preparato da Francesco Messina Denaro, che prevedeva un agguato a Paolo effettuato nel tragitto verso Palermo con un fucile di precisione imbracciato da Vincenzo Calcara, Paolo avrebbe dovuto incontrare quella morte che incontrò poi invece nella strage di Via D’Amelio.
No a Sgarbi – Non sempre gli inviti che mi giungono dalla Sicilia mi sono egualmente graditi: qualche tempo fa ne avevo ricevuto un altro, in questo caso da Salemi. Il sindaco di quella cittadina, lo show-man, critico d’arte nei ritagli di tempo, Vittorio Sgarbi mi invitava, per bocca di un suo assessore – il quale, giustamente, sembrava piuttosto imbarazzato nel farmi la proposta – alla presentazione del libro di Lino Jannuzzi “Lo sbirro e lo Stato” su Bruno Contrada. Fiutando una trappola, visto che le mie posizioni su Bruno Contrada sono ben note, rifiutai dicendo che, anche se potevo avere una certa stima di Vittorio Sgarbi come critico d’arte, non ce l’avevo invece per tutto il resto della sua attività di provocatore televisivo e per le sue dichiarazioni nei confronti dei magistrati, in particolare di Giancarlo Caselli che ha sempre gratificato dei peggiori epiteti. In ogni caso non avrei potuto partecipare ad un incontro dove fosse presente Jannuzzi per il quale ho una profonda disistima – peraltro, mi risulta, abbondantemente ricambiata – dato che lo reputo iscritto a libro paga di quegli stessi ‘servizi’ dai quali, a mio avviso, è stata organizzata la strage di Via D’Amelio.
Lipera e “Sicilia Libera” – Credevo che tutto finisse qui ma ho saputo poi, per la testimonianza di un lettore del mio sito che era stato presente all’incontro, che la trappola era stata preparata ancora meglio: erano presenti infatti anche l’avvocato di Contrada, Giuseppe Lipera, con il quale ho avuto più di uno scontro per via telematica, e soprattutto Marcello Dell’Utri, un criminale, almeno secondo il processo di primo grado nel quale è stato condannato a nove anni per concorso esterno in associazione mafiosa, quel reato che ha permesso di mandare a marcire in galera tanti collusi con la criminalità organizzata e che quindi in tanti, forse perché passibili delle stesse condanne, vorrebbero abolire. Per inciso, è bene sapere che, stando ad atti ufficiali, l’avvocato Lipera risulta tra i fondatori di “Sicilia Libera”, il movimento-partito presente anche a Trapani costituito per volere di Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca nell’ambito di un progetto politico di tipo indipendentista e secessionista che la mafia stava coltivando prima del 92 nel tentativo di cavalcare il fenomeno della Lega Nord.
La trappola, dunque, era senz’altro ben congegnata, per cui lascio immaginare ai lettori quale avrebbe potuto essere la mia reazione nel trovarmi davanti a certi personaggi.
I fan dei boss – L’argomento sul quale mi vorrei soffermare approfittando dello spazio concessomi riguarda l’ultima notizia da Facebook, un network di comunicazione tra utenti utilizzabile su Internet che ha avuto in Italia una incredibile diffusione con un tasso di crescita superiore a quello di ogni altro paese: la nascita, dopo i gruppi inneggianti a Riina, Provenzano e Matteo Messina Denaro, anche di un gruppo denominato “Bruno Contrada Libero” al quale hanno già aderito centinaia di utenti e che ha come obiettivo dichiarato quello di «chiedere la libertà piena per raggiunti limiti di età e la volontà di evidenziare una sentenza che condanna un uomo per un reato che non è stato introdotto dal legislatore». Altro obiettivo dichiarato del gruppo è quello di «eliminare la confusione nata attorno ad affermazioni di Salvatore Borsellino, che dei gruppi in Facebook fa di tutta l’erba un fascio, mescolando sostenitori di Totò Riina con persone perbene. Ciò solo perché queste ultime non condividono il suo giudizio riguardo l’ex funzionario».
Il reato che non sarebbe stato introdotto dal legislatore è quello di “concorso esterno in associazione mafiosa” cioè quel comportamento delittuoso per cui una persona pur non facendo parte dell’associazione criminale pur tuttavia la facilita: lo stesso reato per il quale anche il senatore Marcello Dell’Utri è stato condannato in primo grado. Questo basterebbe già a spiegare l’attuale accanimento del capo del governo contro questo tipo di reato del quale ha più volte promesso l’abolizione.
Il concorso esterno – In effetti, in passato, l’argomento è stato oggetto di controversie da parte di alcune correnti giurisprudenziali che ne escludevano la configurabilità, ma la controversia è stata poi risolta in quanto oggetto di una pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, la quale ha stabilito che il concorso esterno del delitto associativo riguarda «quei soggetti che sebbene non facciano parte del sodalizio criminoso, forniscono, sia pure mediante un solo intervento, un contributo all’ente delittuoso tale da consentire all’associazione di mantenersi in vita, anche limitatamente ad un determinato settore, onde poter conseguire i propri scopi» (Cass. Sezione Unite Penali, 5 ottobre 1994). Cioè esattamente il reato per cui è stato condannato in via definitiva Bruno Contrada con l’aggravante che, nel suo caso, non di un solo intervento si è trattato ma di un comportamento reiterato nel tempo come l’escussione di un gran numero di testi, e non soltanto di “pentiti” come falsamente viene sostenuto, ha potuto dimostrare nel corso del dibattimento in più gradi processuali. Si tratta in altre parole di quella “contiguità” di cui parlava Paolo quando sognava «quel fresco profumo di libertà che si oppone al puzzo della indifferenza, del compromesso morale, della contiguità e quindi della complicità».
Forse sarebbe bene non dimenticare che la figura giuridica del reato di concorso esterno in associazione mafiosa nacque e fu ampiamente utilizzata nei maxprocessi istruiti dal pool di cui facevano parte Falcone e Borsellino e fu grazie ad esso che poterono essere promulgate decine e decine di condanne nei confronti dei fiancheggiatori delle cosche mafiose, fiancheggiatori che oggi a quanto pare, forse per ottemperare a qualche punto della scellerata “trattativa” tra mafia e Stato per cui fu ucciso Paolo Borsellino, si vogliono rimettere in libertà tramite la revisione dei relativi processi.
Regia unica? – La sincronicità, o meglio la consequenzialità tra la nascita dei gruppi a favore dei capi delle cosche e la nascita del gruppo a favore di Contrada rafforza la mia ipotesi che la centrale di disinformazione che difende mafiosi e collaboratori dei mafiosi sia in realtà unica e che non di gruppi spontanei si tratti ma di vere e proprie agenzie che si servono di una variante dei “troll”, un fenomeno ben conosciuto tra i frequentatori della rete che, noti come semplici disturbatori delle comunità virtuali, si sono in questo caso evoluti e vengono utilizzati, magari stipendiati all’uopo, come veri e propri agenti provocatori e diffusori di una disinformazione mirata.
Che poi ci sia un gran numero di menti deboli che si lascia trascinare da questi meccanismi o un limitato numero di menti perverse che li animano e li guidano non contraddice la mia ipotesi, in verità vagliata anche dalla magistratura. Solo in questo modo criminali come Riina, Provenzano e Messina Denaro, peraltro già mitizzati tramite le deleterie fiction distribuite sulle reti di informazione di massa, possono essere applauditi come eroi e traditori dello Stato come Bruno Contrada possono essere presentati come vittime e non come carnefici quali essi in realtà sono.
Il primo esempio – Per quanto riguarda l’adulazione dei boss non posso fare a meno di aggiungere un particolare da non dimenticare perché probabilmente è stato ritenuto un esempio da seguire da parte dei fan: sono stati l’attuale capo del governo e il suo amico Dell’Utri i primi a definire “vittima” ed “eroe” un bestiale assassino come Vittorio Mangano. E, guarda caso, in piena campagna elettorale. «Con Dell´Utri e Berlusconi sembravamo quasi parenti» aveva del resto dichiarato una volta lo stesso Mangano.
Su Bruno Contrada, invece, non voglio aggiungere altro a quanto ho più volte detto in svariate occasioni e in diversi contesti, per me non è altro che un criminale condannato con sentenza definitiva per uno dei reati che considero più grave per un funzionario dello Stato, cioè la collaborazione con il nemico di quello stesso Stato a cui , nell’assumere le proprie funzioni, si è prestato giuramento, reato moralmente più grave quindi della stessa associazione mafiosa, di chi cioè milita e delinque, senza nascondersi sotto i panni di difensore dello Stato, dalla parte dell’antistato.
E a chi mi obietta che lo Stato è quello che io accuso di avere organizzato la strage di Via D’Amelio non posso fare altro che rispondere che lo Stato di cui io parlo è quello che per cui è morto Paolo Borsellino, quello nato dalla Resistenza, fondato sulla nostra Costituzione e costituito da tutti i tanti cittadini liberi e onesti che in questa idea di Stato credono e per cui tanti sono morti e sono pronti a morire, non nella squallida realtà del nostro Stato ormai infiltrato dalla criminalità organizzata fino ai più alti gradi delle istituzioni e nel quale distinguere tra Stato e antistato è ormai sempre più difficile.

Salvatore Borsellino

Approfondimento:
L’AVVOCATO DI CONTRADA FONDATORE DI “SICILIA LIBERA”,
PARTITO VOLUTO DA LEOLUCA BAGARELLA E GIOVANNI BRUSCA
Si trovava a Salemi in occasione della presentazione del libro di Lino Jannuzzi su Bruno Contrada
Nei primi anni Novanta – si legge nella relazione di minoranza della Commissione parlamentare antimafia della passata legislatura – «si avvia una fase di intenso lavorio, da parte della mafia, per ricostruire, dopo l’azzeramento (dei vecchi partiti della prima Repubblica,ndr), un tessuto di relazioni politiche per fare politica in modo diverso. La mafia è un soggetto politico che fa politica con l’intimidazione, con le stragi, con le bombe e con gli omicidi: questo è il suo modo di fare politica. Viene così avviato un processo complesso di ricontrattazione dei rapporti di forza col mondo della politica. Una ricontrattazione dei rapporti che nasce dall’esigenza, come diceva Leoluca Bagarella, nel modo rozzo tipico di un uomo come Bagarella, di impedire ai politici di “prendere in giro” la mafia, perché non dovevano essere consentiti più “tradimenti” dai nuovi referenti. E secondo Bagarella, l’unico modo sicuro poteva essere quello di fare politica in prima persona: “dobbiamo fare in modo tale da essere noi ad entrare in politica, deve essere come se fossi io – disse Bagarella nel ’92-’93 – come se fossi io il Presidente della Regione Siciliana”, rompere la mediazione dei politici di professione».
«E’ da questa esigenza che sono nati certi progetti politici direttamente patrocinati da “cosa nostra”: vi sono stati addirittura dei partiti – è processualmente provato – costituiti da “cosa nostra”, come Sicilia Libera, il movimento indipendentista costituito per volere di Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca nell’ambito di un progetto politico di tipo indipendentista e secessionista che la mafia stava coltivando ancor prima del ’92, pensando di cavalcare il fenomeno della Lega Nord e perciò costituendo movimenti indipendentisti non solo in Sicilia, ma in tutto il Meridione d’Italia. Furono costituiti movimenti come Calabria Libera, Lucania Libera, Puglia Libera ecc., movimenti peraltro costituiti da soggetti legati in parte alla criminalità organizzata, in parte alla massoneria, in parte alla destra eversiva».
”Sicilia Libera” – scrive il giudice Luca Tescaroli nel libro “Perché è stato ucciso Giovanni Falcone”, Rubettino editore – «veniva fondata il 28 ottobre 1993, a Catania, da Antonino Strano, poi divenuto Assessore regionale di A.N. per il Turismo e lo Sport, nonché dall’avv. Giuseppe Lipera e da Gaspare Di Paola, dirigente del gruppo imprenditoriale riconducibile ai fratelli Costanzo».
«Ma – prosegue la relazione dell’Antimafia – anche questo progetto fallì, anche perché esso sarebbe dovuto passare attraverso una sorta di golpe, idea che non ebbe sufficiente seguito all’interno dell’organizzazione criminale. Si scelse allora un’altra opzione, più cara a Bernardo Provenzano, nuovo “capo dei capi” dopo l’arresto di Riina nel gennaio 1993, più vicina alla tradizione della mafia, un’opzione strategica di rinuncia allo stragismo in favore di una strategia della tregua, della pacificazione, per rendersi meno visibile e non richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica, e quindi senza omicidi eclatanti, senza stragi, senza bombe, cercando anzi il dialogo e la trattativa per ripristinare un rapporto con la politica di convergenza di interessi e non di contrapposizione o di braccio di ferro armato».
Di certo si sa che “Sicilia Libera” fu sciolta quando nacque Forza Italia con il contributo determinante di Marcello Dell’Utri, prima interessato a quel movimento autonomista.

“L’ISOLA” e “L’ALCAMESE”, periodici della provincia di Trapani, diretti da Gianfranco Criscenti – ANTIMAFIA: INIZIA LA COLLABORAZIONE DI SALVATORE BORSELLINO CON LE NOSTRE TESTATE.

Genchi non sta pagando per Why Not, ma per cose molto più grandi

Da http://bennycalasanzio.blogspot.com/2009/03/la-profezia-di-salvatore-borsellino-su.html:

Scritto da Benny Calasanzio

Lo diceva Salvatore Borsellino, ma pochi lo ascoltavano. Lo diceva lui che Genchi non stava pagando per Why Not, ma per cose molto più grandi. Ma né io né lui potevamo sapere che in quell’indagine emergevano nomi che Gioacchino Genchi aveva già incontrato durante le indagini su Via D’Amelio coordinate dalla procura di Caltanissetta. Ma Salvatore questo lo diceva da tempo, come se lo sentisse, come se fosse certo che tutti i guai di Genchi venivano da quella via e da quella data: Via D’Amelio, 19 luglio 1992. Certo, in Why Not e nelle inchieste calabresi Genchi aveva scomodato dall’impunità di Stato alcuni intoccabili, aveva portato alla luce frequentazioni deprecabili e comitati d’affari protetti dai politici più insospettabili. Ma forse, come sentiva Salvatore Borsellino, la madre di tutti i mali viene da quella via e da quella data: Via D’Amelio, 19 luglio 1992. E ora arriva anche la conferma dello stesso Gioacchino Genchi, che a poche ore dalla perquisizione nei suoi uffici e presso la sua abitazione da parte dei Ros dei carabinieri (lo stesso reparto operativo che OMISE di perquisire il covo di Totò Riina dopo il suo arresto), ha dichiarato: “Il motivo della mia delegittimazione nasce dalle inchieste sui mandanti esterni della strage di via D’Amelio in cui morì il giudice Borsellino e gli agenti della sua scorta. Nell’inchiesta Why not, in cui ho collaborato con il procuratore De Magistris, ho ritrovato, senza volerlo, le stesse persone in cui mi ero imbattuto nelle indagini di Caltanissetta sui mandanti esterni di quella strage”. E’ una conferma atroce che la dice lunga su quello che c’è dietro quella strage. Chi tocca Via D’Amelio muore, chi fisicamente, chi professionalmente. E se Genchi sta parlando di questo, è perché è conscio che ormai rimane poco tempo per parlare, per raccontare. Qualcuno lo fermerà, in ogni modo, dalle manette a tutto il resto. Il copione atto a screditare il consulente tecnico più richiesto d’Italia prosegue la sua marcia, e ora anche la Polizia, per cui Genchi ha prestato servizio e da cui si era messo in aspettativa non retribuita, affila le armi: il dipartimento della Pubblica sicurezza ha avviato un procedimento disciplinare contro di lui, e rischia ora la sospensione dal servizio. Il procedimento disciplinare – secondo quanto si è appreso – si riferisce al contenuto di una intervista, definita “non autorizzata”, che il funzionario ha rilasciato al settimanale Left. Tutto coincide, tutto ritorna. Come per Luigi De Magistris, il regime inizia a stritolare l’eretico, il rivoluzionario che svela l’imbarazzante nudità delle istituzioni. Dalla politica, che ha praticamente “dettato” questa perquisizione, come ha dichiarato l’avvocato Fabio Repici, legale di Genchi, continuano ad arrivare gli ordini di scuderia per magistrati e reparti speciali dei carabinieri. Maurizio Gasparri ha dichiarato: “Cosa aspettano ad arrestarlo”? Io non credo sia una fantasia. Il mio parere è che stiano cercando tutto il possibile per cambiare l’accusa in un qualche reato che preveda l’arresto. La cosa fondamentale di fronte a tutto questo è che tutti sappiano, è che ognuno di noi sia perfettamente cosciente del perché tutto questo sta avvenendo. Potrà accadere di tutto, dall’arresto di Genchi, alla sua diffamazione a reti unificate e a giornali uniti, alla sua delegittimazione per far sì che quello che ha scoperto diventi carta straccia. Ormai non resta che parlare e raccontare tutto, al di là di ogni rischio. Talvolta parlare, come fece De Magistris, ti può distruggere la carriera ma ti può salvare la vita. E’ avvilente e drammatico, ma dobbiamo tenere duro.

Gioacchino Genchi : Adesso parlo io – di Pietro Orsatti

Da http://www.orsatti.info/2009/03/13/il-servizio-di-left-sul-caso-genchi-aggiornamento-sulla-perquisizione-al-consulente-di-de-magistris-servizio-di-left-sul-caso-genchi-aggiornamento-sulla-perquisizione-al-consulente-di-de-magistris/:

Scritto da Pietro Orsatti

Gioacchino Genchi: «Mai fatta un’intercettazione in vita mia. Anzi, una: ho ascoltato per errore una conversazione fra mia moglie e sua madre». «Ma quali milioni di utenze tracciate, erano poco più di settecento». «Massoneria non è solo compassi. Consorterie massoniche possono chiamarsi Compagnia delle opere o Opus dei».

di Pietro Orsatti

A Palermo fa freddo. Anzi, c’è il gelo. Non è solo un fatto climatico, anche se fino a pochi giorni fa nevicava alle porte della città, ma è la bomba virtuale esplosa sulla testa del procuratore capo Francesco Messineo cha ha fatto precipitare la temperatura di colpo. Un articolo pubblicato su Repubblica ha ufficialmente riaperto la stagione dei veleni su uno degli uffici più delicati d’Italia. «Il cognato del procuratore è un uomo d’onore», titolava venerdì 6 marzo il quotidiano. E oltre all’inverno prolungato di quest’anno, a gelare le anticamere della Procura è sopraggiunta la memoria della “stagione dei veleni”, quella delle talpe e delle lettere anonime, quella dell’isolamento di alcuni magistrati, fra cui Giovanni Falcone, fra la fine degli anni Ottanta e l’estate delle stragi del Novantadue. Ovvio, il Csm apre subito un’inchiesta. Ovvio, i sostituti e i collaboratori di Messineo esprimono la propria solidarietà al capo. Il ministro Alfano sembra voler inviare un’ispezione immediata al palazzo di Giustizia di Palermo. Poi ci ripensa, gli ispettori rimangono a Roma.

Si comincia a pensare se non a una bufala intera a una “mezza” bufala, a una polpetta avvelenata a cui qualche cronista forse ha abboccato. Certo che quel titolo rimane. La carriera del procuratore di Palermo, dal 6 marzo, probabilmente è segnata. Cosa è accaduto? Qualcuno ha fatto pervenire alla stampa l’informazione sul fatto che l’Arma dei carabinieri aveva intercettato due anni fa il cognato del procuratore capo, Sergio Maria Sacco, marito della sorella della moglie di Messineo, gettando sul parente l’ombra di concorso esterno a Cosa nostra. La vicenda era vecchia e archiviata, ma piove in forma di cronaca in questa gelida Palermo. Anche perché, si scopre dopo, Sacco non è stato neanche indagato per quella telefonata intercettata, e altre accuse dei decenni precedenti lo avevano visto assolto. Tutto a conoscenza anche del Csm da anni, appunto. Chi ha fatto la soffiata (che soffiata non è) alla stampa?

Mistero. Sono stati i carabinieri, o meglio i Ros, con cui comunque Messineo ha costruito un rapporto esclusivo tenendo fuori dal gioco grosso, a volte, le forze di polizia? Erano irritati che il loro primato sulle indagini a Palermo fosse messo in discussione dopo gli ultimi riassetti di nomine e promozioni in Procura? Oppure: la “gola profonda” va cercata nelle fila della polizia di Stato, nell’ottica dello scontro ormai sempre più palese fra le due forze? O ancora, si tratta di un’ulteriore offensiva da parte di chi ha già decapitato le procure di Catanzaro e Salerno, come raccontano gli stessi pm di Palermo in un comunicato? La vicenda Sacco è «molto datata, già nota al Csm e valutata come irrilevante in occasione della nomina di Messineo a procuratore» e «non ha mai prodotto all’interno dell’ufficio riserve o limiti di alcun genere, anche per il ritrovato entusiasmo nel lavoro di gruppo, nella tradizione dello storico pool antimafia, e per l’effettiva gestione collegiale dell’ufficio». E poi, sempre secondo i pm, la polpetta avvelenata viene servita in «coincidenza temporale col progredire di delicatissime indagini sulle relazioni esterne di Cosa nostra». Qualcuno disse, decenni fa, «si sente tintinnare di sciabole». A farne le spese, l’intero ambiente.

«Una volta per toglierci di mezzo ci ammazzavano – spiega un tagliente Roberto Scarpinato, storico pm del processo a Giulio Andreotti, a lato di un convegno – ora non ne hanno bisogno. Ci sono altri modi per ridurci al silenzio. Chissà, forse dovremmo esserne pure grati». Ci pensa un po’ su e chiede al suo collega Antonio Ingroia, sostituto procuratore, che gli siede accanto: «Come si chiamava quel ministro dei Lavori pubblici che diceva che dovevamo conviverci con la mafia?». Ingroia sorride: «Lunardi, credo fosse Lunardi». Conclude Scarpinato: «Ecco, sì, forse dovremo imparare a conviverci con la mafia».

A Palermo si gela. Fa freddo anche a piazza Principe di Camporeale cercando il sotterraneo sede dello studio di Gioacchino Genchi, che da investigatore della polizia, prima, e consulente in quasi tutte le principali inchieste “di punta” delle procure italiane, poi, è diventato, nel giro di poche settimane, il nemico numero uno della democrazia italiana. L’uomo che avrebbe confezionato dossier, secondo alcuni politici e la stampa nazionale, su milioni di italiani. «Ma quali milioni di utenze tracciate, erano poco più di settecento e riconducibili a poche decine di persone». Un po’ “gattone” del numero uno della Spectre e un po’ hacker da film cyberpunk. C’è da rabbrividire a cercare un incontro con un uomo del genere. Poi, l’immagine mediatica costruita attorno al personaggio comincia a mostrare le prime crepe. Sempre Repubblica, a firma Giuseppe D’Avanzo, ne fa un ritratto romanzesco, tanto fantasioso da trasformare un piano terra luminoso con tanto di vista su aranci carichi di frutti in un sotterraneo oscuro, tanto letterario da moltiplicare un computer con due schermi – anche un po’ vecchiotto visto che si “impalla” almeno una volta durante l’incontro – in cinque mega elaboratori sempre all’opera a macinare dati sugli italici vizi. Certo Genchi non è difficile incontrarlo, parlarci, prendere un appuntamento. Dal suo blog a facebook, dai convegni alle procure di mezza Italia, di contatti Genchi ne ha lasciati davvero tanti.

Passi la letteratura, si sorvoli sulla fiction, tolti i risvolti romanzeschi il personaggio rimane. Francesco Rutelli, presidente del Copasir, il comitato di controllo dei servizi, non lo ha certo in simpatia e infatti dichiara: «L’acquisizione di dati che riguardano centinaia di migliaia di cittadini, il tracciamento per 20 mesi degli spostamenti del capo dei servizi segreti italiani (Nicolò Pollari, direttore del Sismi fino al 15 dicembre 2006, ndr), l’ottenimento dei tabulati del capo della investigazione contro la mafia, all’insaputa dello stesso pubblico ministero che conduceva le indagini, sono alcuni tra i principali elementi dirompenti che abbiamo accertato e che meritano una riflessione molto severa». E di sicuro Genchi rappresenta il nemico numero uno anche per i Ros, con cui si scontra periodicamente dai tempi in cui, commissario di pubblica sicurezza a Palermo, si occupò dell’attentato dell’Addaura (1989) a Giovanni Falcone. «Da subito ci furono dei sospetti – racconta -. Sospetti che si materializzarono nel 1992 al momento in cui fu riferito ai magistrati di Caltanissetta da un maresciallo dei carabinieri, artificiere, che il congegno esplosivo era stato consegnato a un funzionario di polizia che era presente sul posto. Immediatamente con La Barbera svolgemmo degli accertamenti che riguardavano questo funzionario di polizia che già era, per la verità, indicato per la sua amicizia con Contrada e altri rapporti sospetti a Palermo. Alla fine dell’accertamento ci accorgemmo che questi non avrebbe mai potuto ricevere l’ordigno perché al momento si trovava in tutt’altra sede. La bomba, invece, venne maldestramente fatta brillare impedendo di conseguenza di stabilire con chiarezza se si fosse trattato di un vero attentato fallito o di una intimidazione. Questo maresciallo dei carabinieri in questione è stato condannato per false dichiarazioni al pubblico ministero». Inizia qui, sugli scogli davanti alla casa di villeggiatura di Giovanni Falcone, un percorso umano e professionale che lo porterà, quasi vent’anni dopo, a Catanzaro, all’incontro con il pm Luigi De Magistris e all’inchiesta Why not, poi alla tempesta che ha travolto, finora, due procure e un buon numero di magistrati, investigatori e consulenti. E il consulente di spicco di quell’inchiesta è Gioacchino Genchi, l’uomo dei tabulati. Non delle intercettazioni, come in molti lo accusano, compreso Rutelli – inizialmente, poi si è corretto – ma delle analisi incrociate sulle utenze telefoniche degli indagati. Analista, non spione con cuffia intento a piazzare microspie. «Mai fatta un’intercettazione in vita mia. Anzi no, una l’ho fatta, quando mi sono ritrovato ad ascoltare per errore una conversazione fra mia moglie e sua madre. Mia moglie è slovena, non ho capito nulla».

Ma perché i Ros, con cui ha collaborato e collabora da anni, conducono indagini su di lui e sembrerebbero essere oggi i suoi principali accusatori? E perché proprio sulla vicenda Why not a cui collaborarono attivamente fornendo essi stessi intercettazioni, queste sì reali, alla Procura di Catanzaro? «Perché probabilmente si sono voluti pulire il coltello – cerca di spiegare Gioacchino Genchi – perché è dal 1989 che mi imbatto in porcherie fatte dal Ros. Io ritengo che abbiano voluto colpire me, ben oltre la funzione di consulente dell’autorità giudiziaria, per quello che rappresento e per quello che ho rappresentato, per quello che è stato il mio ruolo dentro la polizia di Stato». Perché Genchi è tutt’altro che uno sconosciuto spione che lavora nel buio di uno scantinato (che non c’è) ma uno degli investigatori di punta a Palermo all’inizio degli anni Novanta. «Io rappresento solo me stesso e il lavoro che faccio – spiega Genchi – e al limite quella grande massa di persone per bene, di magistrati, di agenti e funzionari di polizia, anche di ufficiali e sottoufficiali dei Ros dei carabinieri con cui lavoro da anni». È nell’anno delle stragi di mafia, il 1992, che Genchi, allora commissario, emerge come uomo fondamentale per la lotta a Cosa nostra e alle coperture che l’organizzazione criminale si era trovata all’interno delle pieghe dello Stato. «Le cose cruciali del 1992 nessuno le dice – racconta Genchi -. Tutti parlano di quello che è successo dopo le stragi, nessuno dice quello che è avvenuto prima. Nel Novantadue si assiste a due attacchi concentrici al sistema politico, uno viene dalle inchieste su Tangentopoli, dalla Procura di Milano e dalle altre autorità giudiziarie, l’altro da un presidente della Repubblica che inizia a “picconare” il sistema stesso che lo ha generato, Francesco Cossiga. Un presidente che giunto al limite del suo mandato inizia a togliersi tutti i sassolini che si trova nelle scarpe. Oggi si direbbe che ha fatto “outing”. Attaccato e messo perfino in stato di accusa e che è costretto a dimettersi. Costretto a dimettersi perché in quel momento in Italia c’è chi vuole accelerare, qualcuno che voleva prendere il controllo del Paese, magari strumentalizzando, cavalcandole anche, le iniziative dell’autorità giudiziaria. Cossiga viene fatto dimettere e la strage di Capaci avviene proprio nel momento in cui si sta votando a Camere riunite il nuovo presidente, interrompendo quello che è il corso che quel Parlamento, anche di inquisiti e tutto quello che vogliamo, si stava dando con la proposta di un altro ben diverso presidente della Repubblica». Genchi è uno dei protagonisti delle indagini e per la strage di via D’Amelio individua da subito le misteriose connessioni esistenti con un ufficio dei servizi posizionato all’interno di Castel Utveggio che, da Monte Pellegrino, sembra essere il punto di osservazione più efficace per dare il segnale al detonatore della bomba che uccise Paolo Borsellino e gli uomini della sua scorta. «Non c’era altro luogo possibile, perché altrimenti si sarebbe dovuto pensare a un kamikaze. E così non è stato». Pochi mesi dopo, insieme al questore La Barbera, viene trasferito appena le indagini si avvicinano al nodo della presunta trattativa dello Stato con Cosa nostra, trattativa che oggi il figlio di Vito Ciancimino, Massimo che recentemente ha iniziato a collaborare con gli inquirenti, ha retrodatato nel periodo che intercorre fra la strage di Capaci e quella di via D’Amelio. E indica l’allora capo dei Ros e già ex capo del Sisde, il generale dei carabinieri Mario Mori, come uno dei protagonisti di quella trattativa.

«Sarà un caso, ma dopo che sono stato invitato a “Matrix”, Mentana è stato costretto a dimettersi – osserva Genchi – e nella prima puntata dello stesso programma con un nuovo conduttore a essere intervistato è stato proprio Mori». Quindi il caso Englaro è stato solo una scusa? Certo che la coincidenza è inquietante. Nel mondo di Genchi, che questi lo voglia o meno, questo tipo di collegamenti sono routine quotidiana.

Come è routine incrociare la massoneria, vecchia e nuova, palese e no. «La massoneria oggi dobbiamo porla in una dimensione diversa da quella a cui siamo stati abituati – spiega -. Io mi sono occupato in numerosissime occasioni di indagini sulla massoneria. E sono arrivato a una conclusione. Per i ricordi che ho io tutti i soggetti a cui sono stati trovati paramenti massonici, i grembiulini tanto per intenderci, sono stati sempre prosciolti. Magari c’erano condotte riprovevoli dal punto di vista morale o politico, però di reati nemmeno l’ombra. Il vero problema è quando i grembiulini non si trovano. I cosiddetti affiliati all’orecchio. E i veri problemi non sono le singole logge, che poi tra l’altro sono sempre in lite fra di loro, ma emergono quando queste logge vengono aggregate, si auto aggregano, anche senza volerlo, per difendersi dalle indagini. Io ritengo che in questo De Magistris, e nel mio piccolo forse anch’io, ha avuto il primato di individuare delle logge, delle consorterie massoniche o para massoniche che poi possono chiamarsi Compagnia delle opere o Opus dei. Qualcuno quando pensa alla massoneria pensa solo ai compassi, a Gelli, alla massoneria laica. Non è solo così». E da qualche tempo è iniziata a circolare la voce, insistente, di nuove logge coperte. «Sì. Sono tutta una serie di aggregazioni e di sub aggregazioni che ormai utilizzano internet e non più le regole della tessera, del numero, del codice, e che usano un sistema di accordi trasversali – in particolare dopo la frantumazione dei partiti e delle ideologie – che partono dal mondo della politica per arrivare a quello della finanza passando e controllando totalmente il mondo dell’informazione. In una situazione di questo genere, specie se questi soggetti apparentemente disgiunti vengono attaccati contemporaneamente, è chiaro che si uniscano. Infatti, l’unisono anche parlamentare degli attacchi che si sono avuti all’attività di De Magistris, e anche alla mia, con una mistificazione di numeri e nomi senza eguali, lascia di stucco perfino molti parlamentari».

A piazza Principe di Camporeale, appena usciti dallo studio di Gioacchino Genchi, fa ancora più freddo. Lo scontro in atto fra vari apparati dello Stato assume volti e sfumature ancora più inquietanti, e la sensazione di rivivere qualcosa di irrisolto, e forse di irrisolvibile, frutto della natura stessa di questo Paese, si fa pressante. Mentre le prime smentite sul caso Messineo non riescono a spazzare via la tempesta, rileggendo la cronaca dell’ultimo anno e mezzo, a partire dai primi lampi su Why not, disegnano un quadro di fine epoca. Come se si assistesse al dibattersi degli ultimi dinosauri travolti da una nuova era glaciale.

left numero 10, articolo di Pietro Orsatti, 13 marzo 2009