di Giorgio Bongiovanni e Silvia Cordella – 27 maggio 2009
La sparizione di documenti importanti è sempre il finale di ogni delitto eccellente. In questo caso potrebbe essere la premessa di qualcosa di grave che potrebbe accadere.
Per evitare il peggio il sostituto della Dda di Bologna Walter Giovannini ha ottenuto così l’assegnazione immediata di una scorta a Massimo Ciancimino che nei giorni scorsi aveva denunciato la sparizione di un verbale d’interrogatorio e di alcuni promemoria che lui stesso aveva scritto in vista della sua comparsa come testimone chiave al processo Mori – Obinu. Dopo però nemmeno una settimana dalla disposizione, il comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica di Bologna ha indietreggiato e l’altro ieri, con una nota all’agenzia di stampa Ansa, ha rettificato “di non aver disposto alcuna tutela” ma solo “una protezione – su iniziativa del Questore – che sarà trasformata a breve in vigilanza radio collegata”. Uno sbaglio di valutazione o un segnale di discontinuità? Sicuramente una scelta che espone il figlio di don Vito a pesanti conseguenze proprio nel periodo cruciale che precede la sua convocazione in aula nell’ambito del processo sulla mancata cattura di Provenzano nel quale sarà interrogato sulla spinosa questione della Trattativa.
Massimo Ciancimino è un obiettivo sensibile perché è il custode dei molti segreti che legano la vita di suo padre a quella di Bernardo Provenzano. Per lui la prima condanna a morte la decretò negli anni ’90 Totò Riinaquando seppe del suo ruolo di tramite nei contatti tra suo padre e i carabinieri. Anche il boss di Trapani Matteo Messina Denaro con lui avrebbe un conto in sospeso per il mancato pagamento di una tangente nel territorio di Alcamo. Oggi però il pericolo più forte è rappresentato dalle dichiarazioni che sta rilasciando alle Dda di Palermo, Caltanissetta e Catania nelle quali, su suo input, hanno avviato e riaperto una serie di inchieste destinate ad allargarsi a settori della politica e del mondo imprenditoriale che hanno stretto rapporti con la mafia.
La revoca della scorta dunque si traduce in un segnale negativo non solo per lui ma anche per coloro che, impegnati nell’accertamento di verità scomode in queste attività investigative, colgono la drammatica assenza delle istituzioni. “In quei documenti vi erano una serie di appunti di cui avrei dovuto parlare con i magistrati di Palermo – ci aveva detto al telefono Ciancimino junior – ma, rientrato da un mio recente viaggio, mi sono accorto che quei fogli erano spariti”. La cosa inquietante è che chi è entrato in casa non ha forzato la porta. “E’ rimasto tutto in ordine”. Massimo Ciancimino sa che chi ha fatto irruzione nella sua abitazione ha certamente voluto dargli un messaggio preciso per scoraggiarlo a parlare. D’altra parte, da quando ha deciso di collaborare con le procure siciliane, malgrado i pedinamenti, le lettere anonime, la benzina sull’auto e la siringa di propano davanti casa, il figlio dell’ex Sindaco di Palermo non ha retrocesso di un solo passo. Le sue intenzioni erano quelle di raccontare, dopo tanti anni di silenzio, tante verità. La più delicata è certamente quella sulla famosa Trattativa a cui nel 1992 il padre partecipò come mediatore tra il Ros dei Carabinieri e Cosa Nostra.L’appuntamento in aula del 23 maggio scorso era stato fissato dalla quarta sezione penale di Palermo per sentirlo proprio in merito a questi temi ma alla fine la sua deposizione è stata rinviata.
In compenso la Corte ha ascoltato i pentiti Ciro Vara e Giovanni Brusca ed entrambi hanno confermato quanto già in passato avevano detto. Brusca, in particolare, ha riferito alcuni dettagli vissuti in quei primi mesi del ’92 quando le condanne della Cassazione del primo maxiprocesso erano divenute definitive con la sentenza del 30 gennaio di quell’anno. Un tradimento che aveva spinto Salvatore Riina a ideare la strategia stragista per reagire con violenza a certe promesse che non erano state mantenute. Per questo fece uccidere Salvo Lima, il suo referente della democrazia cristiana vicino ad Andreotti e Giovanni Falcone, suo acerrimo nemico. Il capo di Cosa Nostra voleva spingere lo Stato a trattare e così avvenne, secondo il collaboratore, subito dopo la strage di Capaci. Successivamente alla morte di Falcone Riina arrivò “con aria soddisfatta” dicendo che “qualcuno dello Stato” “si era fatto sotto” e che, indicandolo con le mani, “gli aveva fatto un papello tanto”. “Cioè – spiega Brusca – tutta una serie di richieste per migliorare la nostra condizione”. L’obiettivo principale dei capi mandamento a livello regionale era infatti quello di ottenere la revisione del maxi uno ma anche l’alleggerimento di alcune leggi sulla confisca deibeni e l’applicazione dei benefici carcerari previsti dalla legge Gozzini. Altre pretese invece erano state probabilmente ritenute inaccettabili. Per questo a un certo punto la trattativa aveva accusato uno stop. Siamo a cavallo delle due stragi e questa risposta negativa trovò “Riina un pò nervoso perché la trattativa si era arenata”. Inaspettatamente anche Brusca venne fermato durante la preparazione dell’attentato all’on. Mannino. Un delitto che rientrava nella strategia iniziale di Riina per controbattere alle promesse mancate dei politici. Dopo qualche giorno esplose la bomba in via d’Amelio in cui morirono il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta. Era il segno di un cambiamento nel programma stragista. Ma da cosa nasceva l’esigenza di eliminare il giudice? La risposta è da ricercare in quell’intreccio atavico tra potere mafioso, politico e imprenditoriale che in quella stagione sfociò in una trattativa che pezzi dello Stato intavolarono con Cosa Nostra. Una negoziazione di cui Brusca conosceva le fasi per averle apprese da Riina in persona ma che non portò avanti direttamente perché “nelle mani di altri”. Solo in seguito al suo arresto Brusca, durante una successiva fase processuale, apprese che il tramite della Trattativa era Vito Ciancimino in contatto con carabinieri del Ros, precisamente col generale Mario Mori e il capitano De Donno. La cosa però non lo sorprese affatto, Brusca le sue deduzioni le aveva già fatte. I militari glielo confermarono soltanto in sede di dibattimento, con la differenza che posdatarono quel “dialogo” con Cosa Nostra dopo luglio del ’92, motivandolo con la loro intenzione di catturare Riina e Provenzano.
Una data che però non coincide con le dichiarazioni dell’ex boss di San Giuseppe Jato e nemmeno con quanto sostiene Massimo Ciancimino, il figlio di don Vito, il quale colloca la trattativa al mese di giugno del 1992. Resta da chiarire chi potrebbe essere stato il terminale di questa Trattativa. Brusca, con un colpo di scena in udienza, ha detto di conoscere questo nome perché glielo disse Riina. Nonostante le insistenti domande della difesa di Mori e Obinu (avv. Milio e Musco) e quelle del Pubblico Ministero, rappresentato in aula dall’aggiunto Antonio Ingroia e dal sostituto Nino Di Matteo, il collaboratore si è trincerato dietro la formula della facoltà di non rispondere. Il motivo? Indagini in corso secretate. L’unica frase che la difesa riesce a scucirgli è “feci quel nome in tempi non sospetti, in fase d’indagine”. In effetti, tornando indietro negli anni Brusca parlò solo una volta di quel personaggio. Lo fece durante un dibattimento sulle Stragi, affermando che l’identità del terminale la disse ai procuratori Chelazzi e Grasso, in occasione di un interrogatorio in carcere, dopo l’approvazione della legge che limita il tempo delle dichiarazioni dei pentiti a 180 giorni. Così Brusca esordiva: la «buonanima» del procuratore Chelazzi (stroncato da un infarto il 17 aprile 2003) e il procuratore Grasso «mi hanno fatto fare dei ragionamenti in base a chi poteva essere colui che faceva da tramite per Salvatore Riina in questi contatti e io ho detto subito di Antonino Cinà, di Ciancimino e altri… Comunque anche se lo immaginavo non avevo le prove. Trovandomi a Palermo poi per altri problemi giudiziari leggo da Repubblica (che mi attacca quando conviene, sono bravo e non sono bravo, dipende dalle circostanze…) e trovo riscontro a quello che io avevo detto e viene fuori a chi Salvatore Riina aveva mandato il famoso papello per ottenere i benefici per Cosa Nostra (…)».
Anche se allora Brusca non fece quel nome direttamente indicò con precisione che era contenuto nell’articolo scritto da Viviano in cui l’unico nome che emerge è quello dell’attuale vicepresidente del CSM Nicola Mancino. Scriveva infatti Viviano: «I due pm (Grasso e Chelazzi citati da Brusca ndr.) sono gli autori del verbale di interrogatorio che è ancora secretato ed in quel verbale Brusca fa riferimento all’ex Ministro degli Interni, Nicola Mancino che s’insediò al Viminale il primo luglio 1992, proprio il giorno in cui Borsellino interrogava a Roma il pentito Gaspare Mutolo, (interrogatorio ndr) che interruppe per qualche ora per recarsi proprio al ministero dell’Interno. Mancino smentì però l’incontro con il giudice Borsellino sostenendo di non sapere nulla della trattativa».
Episodi che potrebbero essere invece attualizzati dalle rivelazioni di Massimo Ciancimino, testimone diretto di quella trattativa di fine primavera ‘92 e che potrebbero coinvolgere l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino il quale non si esclude possa averne fatto cenno al giudice Paolo Borsellino. Se così fosse sarebbe di rilevanza cruciale l’annotazione dell’agenda grigia del giudice nella quale alle ore 18.30 del 1 luglio 1992, diciotto giorni prima della sua morte, aveva segnato l’incontro col neo-ministro da cui era ritornato sconvolto. Un appuntamento che l’attuale vicepresidente del Csm non ricorda perché “fra tante strette di mano e persone che quel giorno (ad appena un mese dalla strage di Capaci non ricordava il volto di Borsellino, ndr) andavano ad omaggiarlo per il suo insediamento al Viminale non sa se ci fosse anche il giudice di Palermo”. Ricordi di Mancino a parte, l’unica cosa che sembra ormai certa è che la trattativa, contrariamente a quanto sostengono Mori e De Donno, a quella data era già ampiamente avviata.
E siccome don Vito non era un ingenuo né tantomeno uno sprovveduto non avrebbe mai portato avanti un affare di quella portata se non avesse avuto delle garanzie che i due militari non fossero portatori di un mandato superiore che ne garantiva il suo delicato intervento. E allora se è plausibile ritenere che Borsellino quel primo luglio 1992 fosse venuto a conoscenza di una negoziazione tra pezzi delle Istituzioni e Cosa Nostra e ancora più certo che lui mai e poi mai, soprattutto dopo la morte di Giovanni Falcone, avrebbe potuto accettare un simile compromesso. In questo modo, come deducono varie sentenze, Borsellino si sarebbe messo di traverso ostacolando quel dialogo che irrimediabilmente causò l’accelerazione della sua morte, progettata in tutta fretta al posto di quella dell’on. Mannino. Ipotesi che, chissà, potrebbero trovare conferma nei documenti scottanti che Ciancimino potrebbe aver ereditato dal padre e rispondere alle tante, troppe domande che tutt’oggi non trovano risposte acclarate.
Per questo la sparizione di alcuni fascicoli nell’appartamento di Massimo Ciancimino desta grande preoccupazione così come la notizia della scorta, revocata non si sa bene perché, dopo nemmeno una settimana dalla sua applicazione. Episodi che minano la serenità del testimone eccellente. E forse è questo ciò che qualcuno vorrebbe ottenere, proprio adesso che le indagini sulla mancata cattura di Provenzano nel 1995 stanno prendendo vigore a Palermo così come quelle sulla strage di via d’Amelio a Caltanissetta. Non è una coincidenza che proprio Salvatore Riina nelle sue dichiarazioni spontanee del 2004, di fronte alla Corte che lo processava, aveva chiesto come mai nessuno fosse ancora andato a chiedere a Massimo Ciancimino il perché Mancino sapesse, cinque o sei giorni prima del suo arresto, che il capo di Cosa Nostra sarebbe stato catturato. Riina, anticipando anche le dichiarazioni del figlio di don Vito, rivela l’esistenza di una trattativa in cui lui stesso sarebbe stato “venduto” per poi venire usato come capro espiatorio per coprire le responsabilità di alti poteri che, come legittimamente lasciano supporre le sentenze, concorsero alla determinazione della strage di Capaci e quella di Via d’Amelio.“Signor Presidente – aveva esordito Riina – le voleva dire che io in questo processo (per le stragi del continente, ndr) mi domando che cosa ci sto a fare. Perché praticamente io…quando è successo di queste stragi di Firenze, di Roma, di Milano io sono stato arrestato il 15 gennaio del ’93.. e quando sono stato arrestato mi hanno portato in isolamento a Roma. Quindi non avevo contatti con nessuno… telecamere dietro la porta, dietro le feritoie. Mi hanno messo le guardie penitenziarie quindi 5 anni e mezzo ho avuto sempre questa situazione per i primi mesi, sette, otto mesi fino al mese di luglio io non sentiva televisione, telegiornali, non sapeva se era vivo o se era morto cioè ero isolato da tutti. (…) Ecco perché io mi domando “io perché sono imputato in questo processo?” Allora mi si dice in un primo tempo mandante, poi mi si dice in un’altra maniera, ora all’ultimo nella sentenza mi si dice “ideatore”. Quindi io sono ideatore, condannato per ideatore, però signor Presidente la verità è che forse allo Stato servo per parafulmine perché tutto quello che succede in Italia e che è successo in Italia all’ultimo si imputa a Riina. Riina è parafulmine e Rina sta bene per tutte le pietanze per tutte le processe che si vengono fatte a Riina o ai compagni di Riina. Quindi che cosa succede che in questa situazione qua, di Firenze, ma se io sono lì che non ho contatti con nessuno a chi lo mandai a dire? come lo mandai a dire? come sono ideatore? Come lo ideai? (…) Poi ci sono i discorso degli altri processi. Per dire io mi trovavo nel processo Falcone. Nel processo Falcone c’è un aereo nel cielo che vola nel mentre che scoppia la bomba, questo aereo non si può trovare di chi è, chi è … e allora quindi si
condanna Riina perché certamente Riina fa comodo. Mi troviamo nel processo di Borsellino e lì sul Monte Pellegrino c’è l’hotel e nell’hotel ci sono i servizi segreti e quando scoppia la bomba i servizi segreti scompaiono e non vengono mai citati perché si condanna Riina… perché l’Italia così è combinata! Cioè quando Scalfaro dice ‘io non ci sto’, io devo dire signor Presidente: io non ci sto. Io non ci sto a queste condanne fatte così. Queste sono condanne fatte a tavolino. Non sono condanne perché si cerca la verità perché io ho commesso questi delitti o ho fatto commettere questo delitto. Sono delle cose … delle trovate assurde… perché se lei vede il Di Carlo viene creduto quando accusa me o ad altri ma quando il Di Carlo dice che ad andare a trovarlo nel carcere dell’Inghilterra i servizi segreti americani e quelli italiani e quell’dell’Inghilterra perché volevano aiuto ad uccidere Falcone lui ci ha nominato a suo cugino quello che si venne trovato poi impiccato lì al carcere di Roma. Quindi che cosa succede che il cugino… poverino si è messo a disposizione però poi ci ha lasciato le penne… (…). C’è Brusca che dice che ai Boboli feci mettere un proiettili e Riina non sapeva niente però tutte cose vanno avanti signor Presidente… sa quando l’avvocato chiede come testimonio il figlio di Ciancimino. Il figlio di Ciancimino non è stato mai citato, mai sentito. Perché non si sente dire il figlio di Ciancimino che era in contatto con il colonnello dei carabinieri che era allievo di quelli che mi hanno arrestato? Perché il figlio di Ciancimino che collaborava con sto colonnello non ci dice perché cinque, sei giorni prima l’onorevole Mancino ci dice: ‘Riina questi giorni viene arrestato’. Ma a Mancino chi ce lo disse cinque, sei giorni prima ‘Riina veniva arrestato’? E allora ci sono questi signori che mi ha venduto e allora cercare la verità non è che significa (…. ) La verità sta bene a tutti signor Presidente, può stare pure bene a me ma perché mi si deve condannare a me per cose che io non so, non ho commesso e non ho fatto. Io signor Presidente ringrazio lei e la Corte per avermi sentito però mi sento la persona additata per dire ‘tu sei il parafulmine d’Italia. Tu devi pagare il conto di tutti”.
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