Archivi del giorno: 6 giugno 2009

Antimafia Duemila – L’ordine dei boss: Dell’Utri non va nominato

Antimafia Duemila – L’ordine dei boss: Dell’Utri non va nominato.

di Monica Centofante – 4 giugno 2009
Un ordine assoluto e perentorio. Una regola che i boss di Palermo devono rispettare: non nominare mai il nome di Marcello Dell’Utri.
E’ quanto emerge nel corso di un’intercettazione ambientale tra due esponenti della famiglia mafiosa dell’Arenella, arrestati lo scorso 14 maggio nell’ambito dell’operazione “Eos”.
Un elemento di particolare interesse che la Dda palermitana ha già inviato alla Procura generale che sostiene l’accusa nel processo d’appello al senatore del Pdl, condannato in primo grado a nove anni per concorso esterno in associazione mafiosa.
A parlare, nel corso del colloquio captato dagli inquirenti il 4 novembre del 2007, sono Antonino Caruso e Letterio Ruvolo. Ed è quest’ultimo, nell’ambito di un discorso su interessi economici interni alla cosca, a stoppare il Caruso, mettendolo al corrente di una direttiva della quale, evidentemente, aveva già riferito ad altri.
“Io quello che ti voglio dire pure a te – sono infatti le sue parole, riportate nel decreto di fermo – il nome di la’ non lo dobbiamo nominare”. “Quale è?” chiede Caruso, sentendosi rispondere: “Dell’Utri… ‘capisti?’.” “Completamente non deve esistere, non deve esistere Ni’.”
La disposizione di non nominare mai il senatore Dell’Utri, spiegano i giudici nell’ordinanza di custodia cautelare, era riferita “evidentemente ad un argomento riguardante la sfera politica”, trattato prima che i due salissero all’interno dell’automobile nella quale erano state piazzate le microspie. Tanto è vero che nel prosieguo del discorso il Caruso continua: “Noi siamo portati che abbiamo …  ci dobbiamo  capire … che abbiamo un governo Regionale ed un governo nazionale, basta! Noi qui siamo a  che fare col Governo regionale … hai capito? …. Il Governo Regionale – continua – è qua … il Governo Nazionale è la … ma lui dice, guarda me , ouh … Governo Nazionale, “talia”,…. (Pausa) … puoi essere tu …. il Governo Nazionale, io, quello, non si sa”. E Letterio replica: “Me ne sono andato io … quel nome non deve esistere … completamente!”
E se i mafiosi palermitani non vogliono che il nome di Marcello Dell’Utri sia pronunciato, il motivo, a rigor di logica, non può che risiedere nel pericolo che quel nome venga intercettato. Come più volte avvenuto nel corso di svariati procedimenti (l’ultimo, in ordine di data, è quello denominato Hiram) e nella lunga serie di colloqui riportati nelle carte dello stesso processo che lo vede condannato in primo grado per concorso esterno in associazione mafiosa.
E’ proprio in quelle carte che si legge, tra le altre, di una conversazione intrattenuta il 5 maggio del 1999 tra Carmelo Amato, picciotto e postino di Provenzano, e Michele Lo Forte. Dove il primo parla di un certo Enzo, “il cugino di Ciancimino” che è andato a trovarlo proprio in vista delle elezioni Europee.
“Minchia, allora lui viene a ore delle elezioni sempre”, commenta Lo Forte, prima che Amato esclami: “…maaah, ma dobbiamo portare a Dell’Utri!”. Avallato dallo stesso Lo Forte che continua: “Minchia… ora c’è Dell’Utri! Dell’Utri…”.
I due poi, in riferimento ai guai processuali del senatore, sottolineano: “Compare, lo dobbiamo aiutare, perché se no lo fottono!”, “Se passa lui e “acchiana” (sale) alle EUROPEE non lo tocca più nessuno!” (Amato).
“Ma pure qua non lo tocca nessuno!”, prosegue Lo Forte, “Lo so! – spiega Amato – Ma intanto è sempre bersagliato da qua. Allora perché là dissero di no… la Camera disse: “No”.  Eeeeh… e pungono sempre, compare!”.
E poi, in riferimento agli inquirenti conclude: “Minchia, questi pezzi di cornuti, compare…”
In quella stessa sentenza, in riferimento a queste e ad altre conversazioni, i giudici commentavano quindi che “l’impegno” di votare per Marcello Dell’Utri “non teneva conto delle possibili, diverse scelte del singolo elettore di ‘Cosa Nostra’”, poiché si trattava di “un impegno collettivo di natura elettorale in favore dell’imputato, cui si doveva aderire”.
Lo stesso impegno collettivo “a non nominarlo” che emerge oggi dalle conversazioni tra i boss dell’Arenella. Di certo un dato inquietante che con tutta probabilità i giudici di secondo grado dovranno vagliare.
Nel frattempo si apprende che l’indagine nella quale è emersa l’intercettazione è la stessa in cui è indagato anche l’ex assessore regionale Antonello Antinoro (Udc) per voto di scambio. E negli accertamenti, per come riporta l’agenzia Ansa,  “emerge inoltre, che Dell’Utri sarebbe stato interessato all’apertura di un grande centro commerciale a Palermo e in questo affare avrebbero avuto un ruolo anche un avvocato amministrativista e un ingegnere che ha svolto consulenze per enti pubblici.

Tornano le New town E gli appalti sono solo per le aziende del Nord : Pietro Orsatti

Tornano le New town E gli appalti sono solo per le aziende del Nord : Pietro Orsatti.

La Protezione civile attiva le gare per le nuove case. I tempi di consegna, però, ritarderanno
di Angelo Venti su Terra
A quasi due mesi dalla scossa del 6 aprile, la Protezione civile ha avviato le procedure per costruire le prime case per i terremotati abruzzesi. «Entro il 15 settembre – aveva promesso – troveranno un tetto 13mila aquilani». Difficilmente, però, questa ennesima promessa potrà essere rispettata.

Una risata ci seppellirà?

Una risata ci seppellirà?.

Chissà come si dice “ridicolo” in cinese. Si potrebbe chiederlo, ad esempio, al ministro del Tesoro degli Stati Uniti, Timothy Geithner. Proprio mister Geithner – 48enne, biondino e con lo sguardo da bambi; uno dei pochi membri della squadra del neo-presidente Obama, che ha studiato il cinese – infatti, ha appena concluso un lungo week-end di lavoro in Cina. Obiettivo: rassicurare Pechino sulla capacità degli Usa di ripagare il proprio debito pubblico. Risultato: una platea di studenti universitari gli ha riso in faccia. E per giunta, o per lo meno così riferisce il quotidiano britannico Telegraph, “sonoramente”.

Segno dei tempi. E di una crisi economica che sta colpendo in maniera durissima Washington e dintorni e ridisegnando (come avevamo osservato anche noi, qui) i rapporti di forza a livello globale. Un segno, anzi un segnale che, però, non si può apprezzare fino in fondo, se non si sanno almeno tre cosette…

Primo: non da oggi, ma da tempo: è la Cina ad essere il primo esportatore negli Stati Uniti. Secondo: la Cina è anche il Paese che ha in mano la maggior parte del debito (pubblico) a stelle e strisce. E terzo: praticamente, si potrebbe dire – probabilmente senza andare lontano dal vero – che i cinesi hanno prestato agli americani il denaro necessario a comprare le loro merci. Un circuito che è stato, per così dire, “bello” finchè è durato. Ma che ora rischia di saltare. Perchè gli Stati Uniti – per garantirsi il loro standard di vita e il loro ruolo di superpotenza – con i debiti hanno un tantino esagerato. E continuano ad esagerare.

Il Paese del neo-presidente Obama – che pure sui media italioti gode ancora di un’ottima immagine – infatti ha un problemino: un debito (pubblico e privato) semplicemente enorme (e pari a tre volte e mezzo il suo prodotto interno lordo). Ma tanto gli ultimi scampoli del fu governo Bush che i primi mesi del nuovo governo Obama si sono mossi all’insegna di un’unica parola. Spendere. La crisi morde? No problem, si devono essere detti a Washington. 700 miliardi di dollari – e si badi bene che si tratta di miliardi, non milioni – sono stati messi sul piatto per salvare le banche in difficoltà (con il cosiddetto Troubled asset relief program). Più altri 700 e passa miliardi per un maxi piano di stimolo dell’economia. Più un altro trilione – da non confondere con il fantastilione di “ziopaperoniana” memoria; si tratta di mille miliardi di dollari – per ridare “magicamente” valore ai cosiddetti titoli tossici (che poi altro non sono che carta straccia presente nelle “pance” di molte banche; mentre la medicina, questa volta, si chiama Public-private investment program).

E così: Pechino ha iniziato ad avere qualche piccolissimo dubbio. E e a mandare segnali. A febbraio la Cina ha cominciato – senza tanto perdersi in chiacchiere – a comprare meno titoli di stato Usa. E a marzo – tanto perchè non ci fossero equivoci – il premier cinese Wen Jiabao ha fatto capire, urbi et orbi, che Beijing non era Napoli. Ma che anche lì “nisciuno è fiesso”.

“Abbiamo prestato grandi quantità di denaro agli Stati Uniti. Ovviamente siamo preoccupati della sicurezza dei nostri investimenti. Per essere onesti, sono davvero un po’ preoccupato e vorrei fare… appello agli Stati Uniti perchè onorino la loro parola e rimangano una nazione credibile e assicurino la sicurezza degli investimenti cinesi”,

ha detto Jiabao in una dichiarazione ufficiale ripresa, tra gli altri, anche dal solito Telegraph.

Perchè tanto nervosismo? Probabilmente nessuno, a Pechino, teme che Washington non “onori”, nel senso letterale del termine, il proprio debito. Quel che si teme è che gli americani lo facciano a modo loro. Cioè scatenando prima una ondata di (moderata) iperinflazione. Che distruggendo il valore della moneta, ridurrebbe anche il valore degli interessi e dei titoli di stato da rimborsare. Ipotesi fantasiose? No. Tanto che anche il Financial Times, un paio di giorni fa, ricostruiva così – debito, timori di inflazione, eccetera – il senso del viaggio del ministro del Tesoro Usa. Un viaggio (pre)annunciato da tempo. Ma con un finale a sorpresa. Fatto di tante strette di mano ufficiali. E del piccolo inciampo di cui sopra. Quando Geithner, all’università di Pechino, ha detto che gli investimenti cinesi in Usa erano “molto al sicuro” (letteralmente “very safe”), gli studenti si sono scompisciati. Una risata – per così dire – rivelatrice di quella che è la pubblica opinione cinese sulla serietà made in Usa.

Epperò: se Pechino è preoccupata (e forse ride, per non piangere); anche a Washington pare che ci sia ben poco da stare allegri. I grandi media a stelle e strisce – o almeno così scrive oggi il celebre blog del Financial Times, FtAlphaville – hanno oscurato la notizia della risata. Mentre rimane avvolta nel mistero più fitto la risposta al punto interrogativo più grande di questo 2009: chi – oltre ai cinesi – dovrebbe comprare la raffica di titoli di stato che gli Stati Uniti si apprestano a stampare? Un mistero, appunto, che però dovrà essere, per forza di cose, svelato presto. Poco più di una settimana fa, il giornalista britannico Ambrose Evans-Pritchard si è armato di pallottoliere. E, sempre sulle colonne del Telegraph, ha scritto nero su bianco che – per coprire i costi dei salvataggi delle banche e del piano di stimolo dell’economia – gli Usa entro la fine dell’anno dovranno trovare investitori disposti a dargli ben 2 trilioni di dollari. Di cui – pronti e via – ben 900 miliardi di dollari entro settembre. Come a dire: non proprio noccioline.

Una missione difficile. Ma non impossibile. Ma c’è un ma. Sempre quest’anno – e sempre per far fronte alla crisi – si emetterà debito a iosa. Secondo i calcoli del Fondo monetario internazionale (riportati domenica scorsa dal “Sole 24 ore”, in un articolo purtroppo non disponibile on line): quattro Paesi da soli – Usa, Gran Bretagna, Giappone e Germania – stamperanno qualcosa come 4mila miliardi di titoli di Stato o obbligazioni garantite. E non è finita lì. Perchè secondo il giornalista del Telegraph, Ambrose Evans-Pritchard, i governi dell’intero orbe terracqueo dovranno racimolare – sempre facendo ricorso al debito – un totale di 6mila miliardi di dollari. Un totale che per qualcuno è – semplicemente – un po’ troppo.

Per capirci. Kyle Bass, analista del fondo di investimenti americano Hayman Advisors, ha detto chiaro e tondo sempre al Telegraph che:

“There isn’t enough capital in the world to buy the new sovereign issuance required to finance the giant fiscal deficits that countries are so intent on running. There is simply not enough money out there,” he said.

“The bottom line is that there is no global ‘get out of jail free’ card for anyone”, he said.

Ovvero e in italiano:

“Non c’è abbastanza capitale nel mondo per comprare le nuove emissioni (di debito, ndA) richiesti per finanziare i giganteschi deficit fiscali che gli Stati stanno creando. Semplicemente non ci sono abbastanza soldi”.

“Il punto è che non c’è una via d’uscita globale gratis per tutti”.

Il che tradotto in parole povere significa che: qualche Paese potrebbe non riuscire a piazzare i propri titoli di stato; a coprire i propri debiti. E farà un bel crac.

Ma a proposito di campioni del debito pubblico e di crac. E l’Italia? Beh, ultimamente Cnn e New York Times de’ noantri sono troppi impegnati a parlare di campagna elettorale e di cenerentole di Casoria varie, per occuparsi di queste quisquilie. Per fortuna, però Eugenio Scalfari – padre, padrone di Repubblica – giusto domenica scorsa ha vergato alcune righe interessanti, anche se piazzate ben lontano dalla prima pagina e dai titoloni (e quindi dagli occhi del grande pubblico):

Nel secondo semestre di quest’anno verranno a scadenza una massa notevole di titoli pubblici italiani. All’incirca si tratta di 200 miliardi di euro, proprio in sincronia con le scadenze ben superiori di titoli Usa, Gran Bretagna, Germania. Tremonti non ama parlare di questo problema che sta sospeso nel cielo dell’ Occidente come una fitta coltre di nerissime nubi. Dice che il peggio è passato e usciremo meglio degli altri dalla crisi. In realtà il peggio deve ancora venire e nasconderlo non giova a nessuno.

Il problema insomma potrebbe toccare anche noi. Speriamo solo che anche il nostro ministro del Tesoro, Giulio Tremonti – quando si deciderà a scongelare l’argomento e ad aprire bocca al riguardo – non faccia la fine Geithner. Finendo seppellito di risate.

Processo civile – La riforma mancata : Pietro Orsatti

Processo civile – La riforma mancata : Pietro Orsatti.

Un sistema lento, disorganizzato, vecchio. Che ci pone agli ultimi posti delle classifiche. Oggi le nuove norme del processo civile non risolvono i nodi dei costi della macchina organizzativa

di Pietro Orsatti su Left Avvenimenti

l sistema della civile continua a mostrare rilevanti aspetti critici; i tempi eccessivamente lunghi nella definizione delle controversie finiscono con il rendere incerte e inefficaci le stesse norme. Pesano soprattutto carenze nella organizzazione delle risorse e un contenzioso significativamente superiore a quello dei principali Paesi europei». Non è un politico chi scrive questo giudizio tagliente e inequivocabile sulla civile nel nostro Paese. A scrivere è il governatore della Banca d’ Draghi nella relazione annuale del 2008. E ancora: afferma il presidente del consiglio dell’Ordine degli avvocati di Milano Paolo Giuggioli, che ormai sono note «statistiche e analisi che periodicamente pongono sotto la lente di ingrandimento i ritardi e le inefficienze della italiana, evidenziando chiaramente la distanza sempre più ampia del nostro Paese dagli altri Stati europei e un suo posizionamento certamente non lusinghiero nelle varie classifiche mondiali, tra le quali spicca quella redatta annualmente dalla Banca mondiale, nella quale il nostro sistema giudiziario civile è al 156° posto, dopo Paesi come l’Angola, il Gabon, la Guinea e altri ancora».