Scritto da Peter Gomez
Fonte immagine: www.espresso.itNo, no e ancora no. La decisione di non ascoltare Massimo Ciancimino e di non far entrare nel processo contro Marcello Dell’Utri la lettera con cui il boss Bernardo Provenzano chiedeva a Silvio Berlusconi di “mettere a disposizione una delle sue reti televisive” offrendo in cambio appoggio politico e la garanzia che i suoi figli non sarebbero finiti nel mirino di Cosa Nostra, chiude un dibattimento in cui i giudici d’appello hanno respinto pressoché tutte le richieste dell’accusa. L’elenco delle nuove prove rimaste nel cassetto è così impressionante.
Vediamone qualcuna. Il 7 febbraio del 2007 la corte si è rifiutata di ascoltare l’ex capomafia di Altofonte Francesco Di Carlo. Il procuratore generale Nino Gatto avrebbe voluto chiedergli il nome di una ex segretaria – Di Carlo era un imprenditore – che avrebbe partecipato con lui a un incontro con Berlusconi avvenuto in un ristorante di Milano. Identificarla e interrogarla era importante: in questo modo sarebbe stato possibile riscontrare ulteriormente le dichiarazioni di Di Carlo che in primo grado erano state alla base della condanna. Niente da fare. Il 5 ottobre dello stesso anno i giudici hanno anche respinto una memoria e i documenti che, secondo il pg, dimostravano come davvero nel 1994-95 Forza Italia avesse tentato di far approvare una serie di norme favorevoli a Cosa Nostra. Un particolare fondamentale per l’accusa, visto che l’iter legislativo coincide esattamente con quanto raccontato dal pentito Salvatore Cocuzza.Secondo Cocuzza in quel periodo l’ex fattore di Arcore, Vittorio Mangano, s’incontrava con Dell’Utri in una villa nel comasco per concordare le modifiche al codice penale. Carte e calendario alla mano, il pg Gatto si era convinto che tutto il racconto di Cocuzza fosse vero fin nei minimi particolari. Ma non basta. Il 15 marzo del 2008 il presidente della Corte ha anche interrotto un confronto tra due collaboratori di giustizia, l’ex braccio destro di Provenzano Nino Giuffrè e il boss agrigentino Maurizio Di Gati, mentre Di Gati tentava di spiegare il motivo del contrasto tra le sue dichiarazioni e quelle di Giuffrè.
Fuori dal processo sono poi rimaste ore e ore di intercettazioni telefoniche e ambientali. A partire da quelle tra Dell’Utri e la sorella del boss del riciclaggio Vito Roberto Palazzolo, in cui la donna concordava appuntamenti per evitare l’estradizione del fratello dal Sudafrica. Stessa sorte hanno subito, nel 2009, le telefonate tra Dell’Utri e due presunti ‘ndraghetisti del clan Piromalli. E i nastri in cui due mafiosi del nisseno sostenevano che era Dell’Utri a decidere la spartizione degli appalti per la costruzione di un parco telematico nel comune di Racalbuto.
l’Antefatto, 17 settembre 2009)
Peter Gomez (
Non ammesso il teste di Ciancimino, Dell’Utri spera nell’assoluzione
Doppiopetto gessato grigio, lo sguardo basso, l’aria appesantita, nessuna o poca voglia di parlare: Marcello Dell’Utri si è presentato così, nell’aula del Tribunale di Palermo, dove si avvia alla conclusione il processo d’appello che lo vede imputato per concorso esterno in associazione mafiosa, dopo la condanna a 9 anni di reclusione in primo grado. Un’udienza importante, quella di ieri, durante la quale la Corte avrebbe dovuto decidere se accogliere la richiesta avanzata dall’accusa di ammettere la testimonianza di Massimo Ciancimino. Prima la sfilata dei quattro avvocati della difesa, Sandro Sammarco, Giuseppe Di Peri, Antonino Mormino e Pietro Federico; poi, un po’ a sorpresa, l’arrivo del senatore. “Ci sarà tempo”, l’unica risposta ai cronisti che gli chiedevano dei suoi rapporti con il figlio dell’ex sindaco di Palermo, don Vito, o se avesse voluto rilasciare una qualche dichiarazione.
“Questo signore è un collaboratore? O non lo è? Perchè noi non lo conosciamo”, ha esordito la difesa davanti alla Corte, chiedendo naturalmente che Ciancimino non venisse ammesso come testimone. “Prima di esporre una compiuta valutazione, vorremmo avere una completezza informativa”.
E a proposito del “pizzino”, o meglio il “bigliettino” come lo hanno chiamato, che l’allora capo di Cosa Nostra Bernardo Provenzano avrebbe inviato a Silvio Berlusconi: “Non è stato depositato, non l’abbiamo mai visto – hanno spiegato gli avvocati di Dell’Utri – e in ogni caso è un documento incerto, nel quale ci si rivolge al presidente del Consiglio chiamandolo onorevole, quando in quegli anni (1991-1994, ndr) era un semplice imprenditore”. Poi, un invito diretto al presidente della Corte Claudio Dall’Acqua: “Apprendiamo dalla stampa ciò che racconta questo signore. Non si può costruire un’accusa sulla base di articoli di giornale”.
“Ci sembra scontato che i processi non si facciano con le notizie di stampa – ha ribattuto con evidente ironia il procuratore generale Antonino Gatto appena presa la parola – pensavamo che la Corte si dovesse pronunciare prima sull’ammissibilità del testimone, poi naturalmente avremmo prodotto il documento”. Lo stesso timbro di voce, la stessa gestualità di Paolo Borsellino, cui era molto legato, un’affidabilità che gli viene riconosciuta dalla stessa difesa, Gatto ha poi spiegato come in primo grado furono sì acquisite alcune interviste ma dopo aver sentito come testimoni i giornalisti che le realizzarono.
Poi, la Corte si è ritirata in Camera di Consiglio, 40 minuti circa, più di quanto ci si aspettasse. “Dall’esame del contenuto dei due verbali di interrogatorio di Massimo Ciancimino emerge un quadro confuso e oltremodo contraddittorio”. Quindi, il teste non può essere ammesso. Soprattutto perchè, secondo la Corte d’Appello, dalle dichiarazioni rese finora da Ciancimino non emergono condotte e fatti riconducibili a Dell’Utri che siano suscettibili di utile rilievo e apprezzamento processuale”.
Come a dire che se il teste fosse stato ammesso in aula, avrebbe raccontato molte più cose di quante sino a questo momento non siano venute fuori. Dall’Acqua, che celebra a Palermo l’ultimo processo prima del suo trasferimento a Caltanissetta, ha letto alcuni stralci degli interrogatori di Massimo Ciancimino davanti alla Procura di Palermo. E in particolare proprio quel “pizzino” che chiama in causa Silvio Berlusconi.
Poi ha chiesto all’accusa di iniziare subito la requisitoria, “per dare una svolta al processo”. Cosa che è avvenuta, per terminare pochi minuti dopo, quando il pubblico ministero ha ottenuto un rinvio dell’udienza al prossimo 25 settembre, per poi concludere il 16 ottobre con le richieste. Il calendario processuale prevede l’avvio delle arringhe difensive il 23 ottobre, per poi terminare dopo cinque udienze l’11 dicembre.
Sandra Amurri e Silvia D’Onghia (l’Antefatto, 17 settembre 2009)
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