Archivi del giorno: 9 novembre 2009

Cosentino Connection | L’espresso

Il PDL voleva (vuole ancora?) candidare il casalese sottosegretario all’Economia Nicola Cosentino alla presidenza della regione. Devo dire che mi lasciano perplesso i criteri di scelta dei candidati del PDL…

Fonte: Cosentino Connection | L’espresso.

di Emiliano Fittipaldi

A un anno dalle inchieste de L’espresso la magistratura ha chiesto l’arresto per Nicola Cosentino. E’ accusato di “concorso esterno in associazione camorristica”. Ecco tutte le dichiarazioni dei pentiti su di lui Nicola Cosentino è accusato di “concorso esterno in associazione camorristica” dalla procura di Napoli, che ha inoltrato una richiesta di autorizzazione a procedere alla Camera. A poco più di un anno dalle inchieste de L’espresso sui legami tra il sottosegretario all’Economia e il clan dei Casalesi, le indicazioni dei pentiti e le indagini hanno portato i pm Alessandro Milita e Giuseppe Narducci a chiedere al gip una misura cautelare. Trattandosi di un deputato, il gip – come stabilisce la legge – ha disposto la notifica dell’ordinanza al Presidente della Camera, con richiesta di autorizzazione all’esecuzione del provvedimento.

 

Il Fascista e il Massone deviato

Fonte: Il Fascista e il Massone deviato.

Il fascista Maurizio Gasparri e il massone deviato Fabrizio Cicchitto lanciano strali etici contro il procuratore aggiunto Antonio Ingroia. (E Gasparri è talmente ignorante da non sapere che Ingroia è un aggiunto e non un sostituto nda). Proprio loro, uno portavoce di un condannato per mafia (seppur in primo grado), Marcello Dell’Utri che non si vergogna di ammettere di essere andato a cena con mafiosi e il secondo, tessera n° 2232 di appartenenza alla loggia massonica P2, il peggiore grumo di potere nefasto e deviato degli ultimi anni.
Se si trattasse di fanatismo o di settarismo potrebbero pure suscitare pieta’ e commiserazione e non varrebbe la pena sprecare una parola, li si potrebbe perfino perdonare. Siccome, invece, trattasi di due personaggi intelligenti vuol dire che le loro dichiarazioni hanno un fine ben preciso. Mandare messaggi diretti a chi ha nella mente di uccidere Antonio Ingroia e i magistrati integerrimi come lui.
Antonio Ingroia, Nino Di Matteo, Roberto Scarpinato, e in sostanza gran parte della procura di Palermo ben diretta da Francesco Messineo, la Procura di Caltanissetta di Sergio Lari e dei suoi sostituti e parte di quella di Firenze stanno per scoperchiare, se faranno in tempo, il pentolone dei mandanti esterni delle stragi 92-93 e degli accordi e delle trattative diaboliche tra mafia e parte di quello stato deviato. Sono i Borsellino del terzo millennio, gli ostacoli di quella Trattativa tra potere e mafia mai cessata. Vanno fermati. Con le calunnie, con le diffamazioni, con la manipolazione della verità, con la delegittimazione ed infine con le bombe.
No! Questa volta, no! Noi cittadini non lo dobbiamo permettere, altrimenti noi saremmo peggiori dei MANDANTI ESTERNI.

Giorgio Bongiovanni (Antimafiaduemila.com, 9 novembre 2009)

PDL CONTRO INGROIA, NON HA CREDIBILITA’ PER SUO RUOLO

Il Pdl attacca il sostituto procuratore Antonio Ingroia. “Ha fatto un intervento politico-comiziale. Non ha credibilita’ per svolgere suo ruolo”, dicono i capigruppo di Camera e Senato del Pdl, Fabrizio Cicchitto e Maurizio Gasparri. “Nel momento in cui – fanno notare in una nota – anche dalle massime istituzioni viene un appello ad affrontare con senso di responsabilita’ i temi della riforma della giustizia, avvertiamo il dovere di esprimere tutto il nostro sconcerto per l’intervento politico-comiziale che ha svolto nei giorni scorsi a Napoli nell’ambito di una manifestazione di esponenti del partito Italia dei valori”. Per i due esponenti del Pdl “il tono, i contenuti, le parole dell’intervento di Ingroia confermano che taluni non distinguono piu’ l’attivita’ giudiziaria dalla militanza di partito. Il magistrato dell’accusa ha detto, tra l’altro, che ‘oggi non e’ piu’ il tempo della neutralita’, ma e’ il momento di schierarsi'”.

Fonte: La Repubblica.it, 8 novembre 2009

Antimafia Duemila – Travaglio: Ma io difendo quella croce

Condivido l’opinione di Marco Travaglio sul crocifisso.

Fonte: Antimafia Duemila – Travaglio: Ma io difendo quella croce.

di Marco Travaglio – 5 novembre 2009
Dipendesse da me, il crocifisso resterebbe appeso nelle scuole. E non per le penose ragioni accampate da politici e tromboni di destra, centro, sinistra e persino dal Vaticano. Anzi, se fosse per quelle, lo leverei anch’io.

Fa ridere Feltri quando, con ignoranza sesquipedale, accusa i giudici di Strasburgo di “combattere il crocifisso anziché occuparsi di lotta alla droga e all’immigrazione selvaggia”: non sa che la Corte può occuparsi soltanto dei ricorsi degli Stati e dei cittadini per le presunte violazioni della Convenzione sui diritti dell’uomo. Fa tristezza Bersani che parla di “simbolo inoffensivo”, come dire: è una statuetta che non fa male a nessuno, lasciatela lì appesa, guardate altrove. Fa ribrezzo Berlusconi, il massone puttaniere che ieri pontificava di “radici cattoliche”. Fanno schifo i leghisti che a giorni alterni impugnano la spada delle Crociate e poi si dedicano ai riti pagani del Dio Po e ai matrimoni celtici con inni a Odino. Fa pena la cosiddetta ministra Gelmini che difende “il simbolo della nostra tradizione” contro i “genitori ideologizzati” e la “Corte europea ideologizzata” tirando in ballo “la Costituzione che riconosce valore particolare alla religione cattolica”. La racconti giusta: la Costituzione non dice un bel nulla sul crocifisso, che non è previsto da alcuna legge, ma solo dal regolamento ministeriale sugli “arredi scolastici”. Alla stregua di cattedre, banchi, lavagne, gessetti, cancellini e ramazze. Se dobbiamo difendere il crocifisso come “arredo”, tanto vale staccarlo subito. Gesù in croce non è nemmeno il simbolo di una “tradizione” (come Santa Klaus o la zucca di Halloween) o della presunta “civiltà ebraico-cristiana” (furbesco gingillo dei Pera, dei Ferrara e altri ateoclericali che poi non dicono una parola sulle leggi razziali contro i bambini rom e sui profughi respinti in alto mare). Gesù Cristo è un fatto storico e una persona reale, morta ammazzata dopo indicibili torture, pur potendosi agevolmente salvare con qualche parola ambigua, accomodante, politichese, paracula. È, da duemila anni, uno “scandalo” sia per chi crede alla resurrezione, sia per chi si ferma al dato storico della crocifissione. L’immagine vivente di libertà e umanità, di sofferenza e speranza, di resistenza inerme all’ingiustizia, ma soprattutto di laicità (“date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”) e gratuità (“Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”). Gratuità: la parola più scandalosa per questi tempi dominati dagli interessi, dove tutto è in vendita e troppi sono all’asta. Gesù Cristo è riconosciuto non solo dai cristiani, ma anche dagli ebrei e dai musulmani, come un grande profeta. Infatti fu proprio l’ideologia più pagana della storia, il nazismo – l’ha ricordato Antonio Socci – a scatenare la guerra ai crocifissi. È significativo che oggi nessun politico né la Chiesa riescano a trovare le parole giuste per raccontarlo. Eppure basta prendere a prestito il lessico familiare di Natalia Ginzburg, ebrea e atea, che negli anni Ottanta scrisse: “Il crocifisso non genera nessuna discriminazione. Tace. È l’immagine della rivoluzione cristiana, che ha sparso per il mondo l’idea dell’uguaglianza fra gli uomini fino ad allora assente… Perché mai dovrebbero sentirsene offesi gli scolari ebrei? Cristo non era forse un ebreo e un perseguitato morto nel martirio come milioni di ebrei nei lager? Nessuno prima di lui aveva mai detto che gli uomini sono tutti uguali e fratelli. A me sembra un bene che i bambini, i ragazzi lo sappiano fin dai banchi di scuola”. Basterebbe raccontarlo a tanti ignorantissimi genitori, insegnanti, ragazzi: e nessuno – ateo, cristiano, islamico, ebreo, buddista che sia – si sentirebbe minimamente offeso dal crocifisso. Ma, all’uscita della sentenza europea, nessun uomo di Chiesa è riuscito a farlo. Forse la gerarchia è troppo occupata a fare spot per l’8 per mille, a batter cassa per le scuole private e le esenzioni fiscali, a combattere Dan Brown e Halloween, e le manca il tempo per quell’uomo in croce. Anzi, le mancano proprio le parole. Oggi i peggiori nemici del crocifisso sono proprio i chierici. E i clericali.

Tratto da: Il Fatto Quotidiano

Antimafia Duemila – La mafia non e’ una favola

Fonte: Antimafia Duemila – La mafia non e’ una favola.

di Giorgio Bocca – 5 novembre 2009
Sono stato additato come nemico della patria per aver scritto che tra Stato e criminalità organizzata si sono create zone di tolleranza se non di coesistenza. Ma ho solo cercato di capire cosa stava accadendo in Italia.

Mi è capitato di recente di incorrere nelle ire e nei sarcasmi della maggioranza di destra al potere per aver scritto che fra lo Stato e la criminalità organizzata delle mafie si erano create, di fatto, zone di tolleranza se non di coesistenza. E la stampa della maggioranza scrisse che ero un nemico della patria o vittima del sonno della ragione, cioè uno che delirava. Il più educato, Fabrizio Cicchitto, disse che: “Da saggista che era, Bocca si è trasformato in romanziere, inventa collusioni fra la mafia e lo Stato”. Ma romanziere non lo sono mai stato, ho solo cercato di capire che cosa stesse accadendo in questa strana società che è l’italiana.

Cominciai nell’anno Settanta con un’inchiesta sulla mafia dei giardini, cioè sul rifornimento idrico della campagna palermitana controllata dalla mafia. Andai per prima cosa alla caserma dei carabinieri e incontrai l’allora maggiore Carlo Alberto Dalla Chiesa, uomo serio, concreto ma non privo d’ironia. Mi disse: “Ma davvero vuole sapere cosa è la mafia dei giardini? Ma crede davvero che ci sia la mafia?”. Lui sapeva benissimo che la mafia c’era, e prevedeva persino che dalla mafia sarebbe stato ucciso, voleva solo mettermi in guardia dalla grande menzogna del potere in Italia che da sempre nasconde i suoi rapporti con la criminalità organizzata dicendo che non esistono. La stessa cosa, in linguaggio mafioso, la diceva in quei giorni il boss Gerlando Alberti al giudice che lo interrogava: “La mafia? Ma cosa è questa mafia di cui lei mi parla, una marca di formaggio?”.

Quando Totò Riina, il boss dei boss, venne arrestato, mi chiesi, come tutti in Italia, come mai avesse potuto abitare con la famiglia e dirigere l’Onorata Società stando in una villetta di Palermo. E quando seppi che sua moglie aveva partorito due volte nel maggiore ospedale di Palermo chiesi sul giornale come mai il primario non sapesse chi era, dato che a Palermo e a Corleone lo sapevano tutti. Per risposta mi arrivò una telefonata di un medico dell’ospedale con minaccia di morte. Mi chiesi anche in quei tempi lontani perché mai la riserva di caccia di Michele Greco, grande boss mafioso a Bagheria, fosse frequentata da poliziotti e funzionari dello Stato, e poi in quasi mezzo secolo di giornalismo le molte altre domande senza risposta, non solo su Andreotti amico e protettore di Salvo Lima, un amico degli amici, ma anche sui socialisti e liberali e persino i radicali che avevano cercato e gradito i voti della mafia sino a recenti elezioni regionali, dove in 61 circoscrizioni su 61 hanno vinto gli amici dei mafiosi, come il 30 per cento degli eletti nel consiglio regionale.

Insomma, cercai di capire, di raccontare che la mafia non era una brutta favola inventata dai cattivi nordisti, ma un’organizzazione con un giro d’affari ogni anno di 100 mila miliardi di vecchie lire, oggi più che triplicato se si aggiungono i buoni affari della ‘ndrangheta e della camorra. Senza aggiungere che oggi non è più necessario, come facevo io con la mia Topolino Fiat, scendere da Milano a Palermo, Calabria compresa quando non c’era ancora l’autostrada, basta andare in un sobborgo milanese, nord o sud Milano non fa differenza, o nei ristoranti con specialità di pesce per trovare i capi e i picciotti che minacciano, ricattano e uccidono. E speriamo che nessuno riproponga una bella inchiesta parlamentare sulla mafia. Ce n’è già stata una e Leonardo Sciascia che era un intenditore scrisse: “La mafia si è permessa una commissione parlamentare d’inchiesta”, per dire che era destinata al fallimento in un paese dove la mafia è complice se non padrona.

“Impunità e mafie: una soluzione finale contro lo Stato democratico”

Fonte: “Impunità e mafie: una soluzione finale contro lo Stato democratico”.

L’ALLARME DI INGROIA: TROPPA POLITICA NEUTRALE

“Siamo alla soluzione finale, alla demolizione sistematica non dello Stato di Diritto, ma dello Stato. Punto”. Il procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia, il magistrato che indaga sui segreti delle trattative tra mafia e stato (quello con la s minuscola), dice cose drammatiche con voce pacata. È la seconda e ultima giornata di lavori del convegno su “Questione morale e Istituzioni” organizzato dall’europarlamentare dipietrista Luigi de Magistris al Maschio Angioino. E dalla kermesse napoletana, organizzata non a caso nella terra dove da giorni si rincorrono le voci di un provvedimento giudiziario contro il Governatore in pectore del Pdl Nicola Cosentino, si esce con la consapevolezza dell’esistenza di un’emergenza democratica in Italia.
Un’emergenza evidente agli occhi dell’Europa, come testimonia l’intervento di Juan Fernando Lopez Aguilar, presidente della commissione Libertà Pubblica al Parlamento Europeo, che si occupa anche di cooperazione giudiziaria tra gli stati membri dell’Ue e tiene sotto osservazione la ‘democrazia mediatica’ imposta da Silvio Berlusconi e dai suoi corifei.
“La legittimazione del potere giudiziario – ricorda Lopez Aguilar – dovrebbe essere l’ugua glianza davanti alla legge, la proibizione del privilegio. Ma sappiamo bene che questi principi sono sempre sotto minaccia e mai realizzati pienamente. Colpa del divorzio tra le leggi e i valori che dovrebbero sostenerle”. Una perfetta fotografia dell’Italia berlusconizzata. Lopez Aguilar ricorda il “passionale” dibattito in commissione, “non soltanto in lingua italiana”, sul pluralismo informativo e sulla libertà d’espressione: “Passionale perché il problema solo a prima vista è un problema italiano. In realtà il retroterra della discussione è molto più profondo e riguarda la tenuta della democrazia, il rischio della sostituzione della democrazia rappresentativa con la democrazia mediatica, la definizione più efficace sotto il profilo politologico delle attuali democrazie avanzate”.

Ma sono le parole di Ingroia a rotolare come macigni in platea: “In Italia siamo governati da decenni secondo il principio di autoconservazione della classe dirigente, che fa affari con la mafia e ha gli stessi obiettivi della mafia: l’impunità”. Da conquistare anche depotenziando gli strumenti di indagine del pubblico ministero. Cominciando, sottolinea Ingroia, che sul tema ha scritto un libro, dal disegno di legge che di fatto eliminerà le intercettazioni. “Non è più il tempo della neutralità – afferma Ingroia – non si può fare la lotta alla mafia solo con la magistratura, bisogna dare maggiore spazio alla società civile”.

Accende un riflettore su Napoli e sul Sud Rosario Crocetta, già sindaco di Gela ed europarlamentare del Pd: “È possibile che nella Napoli afflitta dall’emergenza rifiuti e governata da una classe dirigente dedita ai peggiori affari e ai peggiori intrecci con la criminalità organizzata, la questione morale è stata a lungo ridotta a un dibattito sull’e vasione scolastica e sulla devianza criminale minorile”? Crocetta è stato condannato a morte dalla mafia per averla osteggiata e per aver combattuto le imprese edili colluse che si arricchivano grazie alle creste ricavate dall’uso del ‘calcestruzzo depotenziato’, un trucco spiegato durante il convegno. A Bruxelles e Strasburgo vive senza scorta e la circostanza lo preoccupa non poco. “Lo trovo singolare in un’Europa che evidentemente ha deciso di non combattere la guerra alle mafie”.

Marco Cappato (radicali) ha sottolineato “il tentativo perpetuo di smembrare la Costituzione e Alberto Lucarelli, professore di Diritto Pubblico ed esponente di Idv, ha posto l’accento sull’esistenza di una mafia economica che si è impossessata del controllo delle società pubbliche per governarle senza trasparenza e secondo principi lottizzatori”.

Conclude Antonio Padellaro, direttore de Il Fatto Quotidiano, che a proposito di valori dice: “Fare un giornalismo che racconta le cose che accadono, e non quelle che non accadono, è diventato un atto anomalo. Tra i valori che dovrebbe reggere la nostra società, c’è quello che la menzogna non può essere elevata a verità. Ma nel giornalismo italiano la macchina delle bugie è sempre in moto”.

Vincenzo Iurillo (da Il Fatto Quotidiano del 8 novembre 2009)

I pentiti a perdere e il bluff del 41 bis

I pentiti a perdere e il bluff del 41 bis.

Buoni se servono a portare lustro, scomodi se dicono più del dovuto. Il Pdl propone una commissione all’assalto dei collaboratori di giustizia. E si nasconde dietro il teatrino delle carceri speciali. Ci risiamo. Quando servono per compiere un’operazione di polizia o la cattura di un latitante di cui fregiarsi nessuno osa dire nulla, quando invece le loro dichiarazioni si alzano di livello ecco scatenarsi la solita caccia alle streghe contro i collaboratori di giustizia, i cosiddetti pentiti. Con il pretesto che un numero esiguo di questi è ritornato a delinquere uscendo così dal programma di protezione si è sempre cercato di screditare l’intera categoria. Oggi quattro senatori del Pdl hanno persino proposto l’istituzione di una commissione apposita per verificare se, quando e come sono stati spesi i soldi con cui lo Stato ha ricompensato quei collaboratori di giustizia le cui dichiarazioni in seguito non hanno avuto riscontri. L’esempio più gettonato, da sempre, è quello di Balduccio Di Maggio il quale parlò del bacio tra Totò Riina e Giulio Andreotti e poi, una volta scappato in Sicilia, commise altri reati di mafia.

Come al solito si cerca di far passare l’idea che l’intero impianto accusatorio formulato dalla Procura di Palermo a carico del senatore Andreotti sia stato basato sulle uniche dichiarazioni di costui e che il processo sia finito con un’assoluzione piena, quando ormai è noto che sono intervenute una prescrizione “per i reati commessi” fino agli anni ’80 e un’assoluzione per mancanza di prove per il periodo successivo. Fa parte del gioco, così come è chiaro che questa ennesima boutade sia frutto della legittima preoccupazione dei berluscones per le nuove dichiarazioni di Gaspare Spatuzza sul senatore Marcello Dell’Utri. Proprio in questi giorni infatti la Corte che presiede il processo d’appello a carico dell’esponente politico ha sospeso la requisitoria del Pg Gatto, prossima alla conclusione, per poter sentire il neo collaboratore le cui ricostruzioni sono state considerate di notevole interesse.
Era ovvio aspettarsi una contromossa. D’altra parte la demolizione dei pentiti e delle loro dichiarazioni erano in testa anche alle richieste di intervento che Cosa Nostra pretese da parte dello Stato in cambio della cessazione delle stragi. Lo possiamo leggere tutti ormai nel famigerato “papello” che viene a confermare dopo anni quanto avevano già detto Salvatore Cancemi e Giovanni Brusca.
Quel Brusca macellaio e assassino senza il quale però non sapremmo nulla della strage di Capaci nè della trattativa tra mafia e stato che oggi è tornata alla ribalta con il racconto di Massimo Ciancimino. Il figlio di don Vito non è un pentito, ma un testimone diretto e, che piaccia o non piaccia, i suoi ricordi combaciano molto con quelli di boss di primo piano che hanno scelto di passare dalla parte dello Stato. Compreso Nino Giuffré grazie al quale la procura di Palermo ha letteralmente smantellato l’intera rete di protezione di Provenzano facendo giungere alla cattura non solo del capo di Cosa Nostra ma di un numero elevatissimo di fiancheggiatori, compresi l’ingegner Aiello, dominus della sanità siciliana, e persino infedeli servitori dello Stato. Ma quando il ministro Maroni snocciola i numeri del successo del governo contro l’ala militare di Cosa Nostra si dimentica sempre di sottolineare che senza i collaboratori di giustizia in questi anni si sarebbe potuto far bene poco. E assolutamente niente sul fronte delle indagini sulle stragi di mafia. Nemmeno Falcone e Borsellino avrebbero potuto infliggere a Cosa Nostra i colpi più duri della storia senza Buscetta, Contorno o Marino Mannoia.
Questo non significa ovviamente che non ve ne siano di falsi e corrotti. La recente vicenda di Scarantino, smentito proprio da Spatuzza è un esempio di come si possa tentare di depistare un’intera indagine con un falso collaboratore. Del resto lo sa bene anche il senatore Dell’Utri che secondo la prima sentenza che lo ha condannato ha cercato di comprare la testimonianza di tale Chiofalo. Sta alla magistratura poi svolgere minuziosi controlli e stando alle statistiche, in rapporto ad altri stati come gli Usa, gli errori sono stati assai limitati.
E’ chiaro che a nessuno piace pensare, per esempio, che quei pochi spiragli di verità sulle stragi di cui siamo in possesso dopo 17 anni debbano venire dalla bocca di Cosa Nostra, tra pentiti e il figlio di un mafioso, ma se non fosse stato per loro non avremmo idea di quanto è accaduto tra il 1992 e il 1993, in quel biennio che ha cambiato il volto del nostro Paese. E’ il prezzo che paghiamo per aver tollerato, sottovalutato, minimizzato la capacità di evoluzione, crescita e infiltrazione del fenomeno mafioso che accompagna la storia d’Italia da 150 anni. Del resto hanno avuto più coraggio e dignità loro, seppur alcuni con la finalità di trarne qualche vantaggio, che molti dei politici, dei magistrati, degli imprenditori che sapevano e sanno e che hanno taciuto e tacciono, salvo farsi venire in mente qualche particolare dopo decenni.
Del resto chi ha qualcosa da nascondere questo lo sa benissimo, e invece di proporre commissioni che si concentrino sulle collusioni tra mafia, politica e imprenditoria si accaniscono ancor di più di quanto non sia già stato fatto su uno strumento tanto difficile da gestire quanto indispensabile per sconfiggere la mafia. Quello che assieme alle intercettazioni penetra più facilmente nel muro di omertà e segretezza che protegge i boss e le loro propaggini istituzionali. E siccome alle intercettazioni ci hanno già pensato ora eccoli pronti a dare il colpo di grazia anche a pentiti e testimoni, tutti ben nascosti dietro il teatrino del 41 bis e della riapertura delle carceri di Pianosa e dell’Asinara.
Il governo dell’apparenza mostra i muscoli contro boss e gregari facendo credere all’opinione pubblica che la lotta alle mafie sia solo una questione di guardie e ladri, di picciotti arroganti che di tanto in tanto cercano di infastidire qualche politico con affari allettanti. Niente di meglio per la propaganda. Usare un tema così importante come il ripristino dell’originario carcere duro, strumento comunque valido per la repressione mafiosa, per dimostrare di essere inflessibile con i “cattivi”, ma guai a chi tocca i “colletti bianchi” seduti nello scranno accanto.
Un bluff che si è sgonfiato subito. E’ bastata la protesta di qualche ambientalista e la scusa del turismo.“Salvo un gioiello della natura”, ha esclamato il ministro Prestigiacomo, dopo l’istantanea e ridicola marcia indietro sulla riapertura del carcere di Pianosa. “Gioielli erano i nostri figli” le ha risposto Giovanna Maggiani Chelli, portavoce dei familiari delle vittime di via dei Georgofili, di quelle mamma e quei papà che hanno visto i loro figli massacrati dalla furia di Cosa Nostra sospinta da chi dialogava e trattava nell’ombra con i mafiosi. Questo la dice lunga su quanto l’intero paese Italia sia ancora molto lontano da una presa di coscienza collettiva della pericolosità del fenomeno mafioso per l’intera democrazia. Mentre famiglie intere piangono ancora i loro cari vittime dell’ingiustizia, altre famiglie pensano ancora di poter vivere ignorando la questione, pensando che la lotta alla mafia riguardi solo magistratura e polizia e chi, sfortunato, ne è stato suo malgrado coinvolto.
Non è certo con il solo 41bis che si risolve la questione mafiosa. Il nodo da sciogliere infatti, come ricordava Borsellino, è politico. Ma la politica vive di consenso e se non è il popolo a pretendere, unito, giustizia per i propri caduti, tutti i suoi figli, dal nord al sud, ci sarà ben poco da fare. Altro che esercito, carceri speciali e latitanti catturati…

Anna Petrozzi (da Antimafia Duemila del 9 Novembre 2009)