Archivi del giorno: 21 novembre 2009

Dell’Utri, e se Graviano comincia a parlare? – Articoli | l’AnteFatto | Il Cannocchiale blog

Dell’Utri, e se Graviano comincia a parlare? – Articoli | l’AnteFatto | Il Cannocchiale blog.

Il mafioso dai rapporti politici potrebbe “pentirsi”
di Giuseppe Lo Bianco

Parla Filippo Graviano, boss stragista del ‘93 indicato dai pentiti come uno dei protagonisti della trattativa tra Cosa Nostra e il nuovo partito in via di costituzione, Forza Italia. Dice di avere fatto in carcere una “scelta di legalità”, anche se continua a negare ogni coinvolgimento nelle stragi. E arriva il giorno di Gaspare Spatuzza: sarà sentito in aula a Torino, il 4 dicembre prossimo, dai giudici di appello che stanno processando Marcello Dell’Utri, condannato in primo grado a nove anni per concorso in associazione mafiosa. Dalle carte trasmesse a Palermo dalla procura di Firenze emerge più chiaramente il contesto delle accuse che lambiscono Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri, che avrebbero costituito, secondo le nuove rivelazioni di Spatuzza, le coperture politiche chieste ed ottenute dai fratelli Graviano all’inizio del 1994, quando progettarono l’attentato al pullman dei carabinieri parcheggiato nei pressi dello stadio Olimpico. Un attentato, lascia intendere oggi Spatuzza riferendo le parole di Giuseppe Graviano, che avrebbe ottenuto un autorevole avallo da quelle forze che si stavano apprestando ad entrare in politica. Si tratta di due faldoni con oltre 500 pagine depositati ieri nel processo dell’Utri sui quali si è concentrata l’attenzione investigativa della direzione distrettuale antimafia di Palermo, che ieri, sempre nell’ambito della trattativa mafia-Stato ha interrogato nuovamente Massimo Ciancimino, che, nei giorni scorsi, aveva annunciato il possesso di alcuni nastri registrati con le conversazioni del padre con gli ufficiali del Ros nel corso dei colloqui nella sua casa di piazza di Spagna, a Roma.

Ma è su Filippo Graviano, e sulla sua insolita “apertura alla legalità” che si è concentrata l’attenzione dei magistrati antimafia. Il boss dice di avere compiuto in carcere questa scelta, si è iscritto alla Bocconi di Milano e ha già dato dieci esami, nel suo futuro di ergastolano c’è adesso l’obbiettivo di rafforzare la sua cultura, ma nelle stragi, “mi dispiace deludervi, ma non ho avuto alcun ruolo”. In carcere, nel 2004, aveva detto a Gaspare Spatuzza, allora suo fedelissimo, oggi pentito, che “se non arriva niente da dove deve arrivare è bene che anche noi cominciamo a parlare con i magistrati”.

E Graviano davanti ai magistrati di Firenze che lo hanno interrogato nei giorni scorsi non si è tirato indietro, aprendo un minuscolo varco impensabile, fino ad ora, per un capomafia del suo calibro e annunciando una decisione inedita che lascia aperti tutti gli interrogativi su una sua futura collaborazione: In che cosa si concretizzi la scelta di legalità, ancora non si sa, visto che il capomafia subito dopo ha negato di avere commesso qualsiasi reato. E messo a confronto con Spatuzza, non lo ha trattato da infame perchè pentito, ma ha addirittura tracciato un parallelo tra le loro due decisioni: “tu hai compiuto una scelta religiosa – ha detto Graviano, alludendo alle lettere inviate da Spatuzza ad un vescovo – io arricchisco la mia cultura”.

Diverso, infine, l’atteggiamento del fratello Giuseppe, che, messo a confronto anch’egli con Spatuzza, non lo ha neppure preso in considerazione. Nell’udienza di ieri, infine, il pg Nino Gatto ha chiesto alla corte di sentire Salvatore Grigoli, che in un verbale depositato agli atti del processo ha detto che le stragi di mafia del ‘92 e del ‘93 erano state fatte “per costringere lo Stato a scendere a patti”. E sul senatore imputato ha detto : “Mangano (Nino, ndr) mi disse che i Graviano avevano un canale diretto con Dell’Utri. In effetti ricordo che all’epoca vi fu la vicenda del movimento politico che volevamo costituire, denominato Sicilia Libera. La questione di Sicilia Libera, a un certo punto, non fu più portata avanti perchè noi tutti fummo orientati verso il nascente movimento Forza Italia”. E conclude: “Dopo le elezioni tutti confidavamo in Berlusconi e si diceva che solo lui ci poteva salvare.”

da Il Fatto Quotidiano del 21 novembre 2009

Dialogo di condominio – Marco Travaglio – Voglio Scendere

Fonte: Dialogo di condominio – Marco Travaglio – Voglio Scendere.

 

Vignetta di Bertolotti e De Pirro

Il Fatto Quotidiano, 21 novembre 2009

Se Dio (anzi Silvio) vuole, riparte il “dialogo sulle riforme”. Il pizzino di Schifani ha sortito gli effetti sperati, Fini s’è messo paura e Bersani ancor di più: se si vota subito, sono spacciati entrambi. Bastava vedere il berlusconiano Quagliariello, la finiana Perina e la bersaniana Bindi l’altra sera ad Annozero: tre zuccherini. La finocchiariana Finocchiaro ha sentito profumo d’inciucio e, da esperta del ramo, ci si è fiondata: ha proposto un’“agenda delle priorità condivise” (il dizionario inciucesco non è mai stato così ricco di modulazioni).

Indimenticabile la scena di due primavere fa, quando il noto senatore di Corleone fu candidato alla presidenza del Senato e il Pd, non trovando uno statista del suo calibro da contrapporgli, si astenne sul suo nome (mentre Di Pietro votava Borrelli) e lo applaudì appena eletto. La Finocchiaro, ritenendo riduttivo un banale applauso, lo baciò con trasporto. Poi un giornalista andò da Fazio e ricordò che Schifani era stato socio di due tipetti poi condannati per mafia. Prim’ancora che Berlusconi avesse il tempo di difendere Schifani, provvidero per lui la Finocchiaro, Violante e D’Avanzo (oltre al solito poveraccio con le mèches che, frequentando pregiudicati e latitanti, si scandalizza se un giornalista frequenta magistrati perbene).

Ora, grazie a Marco Lillo, si scopre che il presidente del Senato con cui fissare l’agenda delle priorità condivise non solo assisteva come avvocato alcuni fra i più noti mafiosi di Sicilia (questo si sapeva, ma non è mica un problema, no?). Ma si adoperò pure per “sanare” un famigerato immobile di Palermo eretto abusivamente da un costruttore mafioso con metodi mafiosi per ospitare mafiosi e rampolli di mafiosi: la figlia di Bontate, i killer latitanti Bagarella e Brusca, il medico mafioso Aragona. Chissà le assemblee di condominio, che spettacolo. L’amministratore, Frank Tre Dita (impossibilitato per ovvi motivi a votare su delega per più di due assenti), dava il via alla discussione dando la parola al signor Ciccio. Il quale però veniva subito interrotto da Bagarella che, senza fiatare, poggiava delicatamente il kalashnikov sul tavolo. Al che il signor Ciccio preferiva fingersi afono, a beneficio del signor Leoluca. Questi proferiva la parola “minchia”. Poi si passava alle varie ed eventuali in un clima di perfetto dialogo, sia pure muto.

Un giorno Brusca e Bagarella litigarono perché non era opportuno trascorrere entrambi la latitanza nello stesso palazzo: l’inconveniente fu risolto con un’agenda delle priorità condivise, latitando un giorno per uno. Ogni tanto fra i Bontate, i Bagarella e i Brusca scoppiava una lite per le cantine: la donna delle pulizie dimenticava sempre qualche ossicino di bambino sciolto nell’acido o nella calce viva. Una volta il fuochista addetto al riscaldamento confuse i bidoni dell’acido con quelli del cherosene, danneggiando l’impianto centralizzato. Ma alla fine le delibere erano sempre all’unanimità: i condòmini non votavano per millesimi, ma secondo i rispettivi ergastoli. E, da regolamento, solo chi ne aveva almeno due poteva interloquire.

Qualcuno ricorda quando un nuovo inquilino, il signor Gigi, ignaro di tutto, lamentò certi rumori sospetti provenienti da casa Brusca, tipo urla disperate di esseri umani. Brusca replicò con una frase smozzicata e incomprensibile. Nella successiva assemblea la vedova del signor Gigi, ancora in gramaglie per il recente lutto, raccontò che il marito era finito inavvertitamente in un pilone di cemento armato del garage, e comunque quei rumori sospetti se li era sognati. Notizia accolta con sollievo dall’intera assemblea. Quando poi il giardiniere, zappettando nell’aiuola delle ortensie, rinvenne una ventina di tibie e teschi umani, l’avvocato del condominio, un omino col riporto, si precipitò a rassicurarlo: “Ma lo sa che siamo capitati proprio sopra una necropoli etrusca?”. Ecco, è lì che il nostro futuro statista forgiava la sua alta sensibilità istituzionale. In vista dell’agenda delle priorità condivise.
(Vignetta di Bertolotti e De Pirro)

Palermo – Un porto per il sultano | Pietro Orsatti

Fonte: Palermo – Un porto per il sultano | Pietro Orsatti.

Affari – A Palermo la riqualificazione urbanistica passa per un lucroso piano di “sviluppo” dello scalo marittimo che stravolgerà l’ambiente. Ignorato perfino dal Comune siciliano. All’orizzonte, alberghi, grandi navi e l’ombra dell’Oman

di Pietro Orsatti su Terra

La parola chiave è “bersaglio”. Per l’esattezza parliamo delle “aree bersaglio” legate al nuovo piano regolatore del porto di Palermo. Teoricamente non se ne dovrebbe conoscere numero, ubicazione, funzioni progettuali perché non c’è stato nessun iter di dibattito formale (come previsto dalla legge) in consiglio comunale e perché, per individuare queste aree, ci sarebbe stato bisogno di conferire incarichi a tecnici interni ed esterni al Comune. Invece non è andata così. Anche grazie all’aiuto di un Pd cittadino che, appellandosi a un presunto “bene della città”, ha dato parere favorevole a una proposta della giunta di cui in Comune sapevano poco e niente. Arenella, San Polo, Borgo Vecchio, una fetta del centro storico in prossimità del mare e, infine, Brancaccio. Ecco i punti di sviluppo principali (su cui pioveranno decine e decine di milioni di euro pubblici e privati) che, secondo la giunta, saranno obiettivo di una riqualificazione urbanistica ed edilizia, come non accade da decenni a Palermo. «Ho individuato 72 progetti di cui 50 sono alberghieri», racconta Nadia Spallitta consigliere comunale de “Un’altra storia”, rimasta quasi da sola a fare opposizione a quello che appare uno dei più lucrosi piani di sviluppo avviati per la città di Palermo. «Un progetto del genere, senza rimettere mano ai servizi primari della città come le fognature – prosegue Spallitta -. E davanti a una flessione dei flussi turistici crollati in 8 anni di giunta Cammarrata, che ha letteralmente spogliato di servizi moderni di trasporto, accoglienza, intrattenimento. Non ci sono attrattive, offerte culturali. Allora cosa fare? Si mette su un progetto di sviluppo alberghiero con ricadute solo su alcune aree, abbandonando di fatto gran parte della città. E saltando tutti gli iter previsti, senza discussione. Si fa un progetto che sembra nato in un “certo salotto” e cerchi di imporlo. In qualche modo il sospetto dell’avvio di un piano di questo genere era già emerso qualche mese fa, davanti a indirizzi a livello nazionale di liberalizzazioni di grandi aree edificabili in zone portuali, figli di una proposta di legge di riforma della 84/94 che regola l’insieme (e la privatizzazione) dei porti italiani. Un sospetto accompagnato da scenari da mille e una notte e ricchezze immense, navi con harem sigillati nei porti italiani e decine e decine di rolex e collier regalati come se fossero bomboniere. Qabus bin Sa’id, questo il nome del protagonista di questa piega letteraria, sultano dell’Oman, ricco che più ricco non si può, molto interessato sia al mattone di Dubai che alla borsa petroli di quell’Emirato (di cui possiede una consistente fetta). Quest’uomo si è recato recentemente in visita di piacere (e di affari) in due città portuali in trasformazione, dove i piani regolatori degli scali sono in discussione e dove si stanno “liberando” milioni e milioni di metri cubi edificabili. Palermo e Bari. C’è arrivato con Yackt (il suo transatlantico privato) e qualche Boing 747 e Airbus per la corte e i bagagli. E poi i doni (i famosi rolex e i gioielli per le signore) dispensati a piene mani. E una mezza ammissione da parte del suo staff per un interessamento sul recupero, restauro e rilancio degli alberghi del centro storico palermitano. Approccio soft di una vecchia volpe del Golfo che da “piccole” – si fa per dire – operazioni immobiliari è riuscito a scalare un colosso come la Borsa petroli di Dubai. Soft ma, a quanto si sospetta, diretto proprio a quella manifattura tabacchi dell’Arenella che è “area bersaglio” voluta dalla giunta, e ad altri progetti nelle altre zone interessate dal piano. E tutto questo dopo lo scandalo dei viaggi di lavoro del sindaco e di alcuni suoi assessori a Dubai per parlare di raccolta differenziata (che a Palermo è solo al 4%) dove Qabus bin Sa’id e i suoi sherpa sono di casa. Si parlava solo di ciclo dei rifiuti in quelle cene da 800 euro a coperto?

Blog di Beppe Grillo – Il nucleare non passerà

Blog di Beppe Grillo – Il nucleare non passerà.

Chi vuole il nucleare appartiene a due categorie: o è male informato o ci guadagna sopra. Non esistono centrali nucleari sicure. Non esiste una sola assicurazione al mondo che abbia accettato di di assicurare una centrale nucleare. Non è stato trovato un sistema sicuro per smaltire le scorie radioattive. Il nucleare è’ antieconomico, costa molto di più la costruzione, la gestione e lo smantellamento della centrale dell’energia che produce. Il nucleare è pagato sempre dai cittadini come extra costo sulla bolletta o con le tasse. Il nucleare si fa con l’uranio, una risorsa a tempo che finirà entro 50 anni. L’uranio è presente in 4/5 Stati nel mondo, l’Italia non è uno di questi. La Francia che vuole esportare la sua industria nucleare (finanziata dallo Stato) in Italia ha fallito in Finlandia e ha incidenti continui nel suo territorio. Basta? No? Allora proseguo. L’Italia ha votato contro il nucleare, non è possibile andare contro la volontà popolare. Se si vogliono fare nuove centrali è necessario un nuovo referendum. Un non-Parlamento composto da non-parlamentari non-eletti dai cittadini ha fatto una non-legge sul nucleare. Il Governo ha consultato solo la Confidustria e l’Enel. La produzione di energie rinnovabili ha superato quella del nucleare nel mondo. Gli Stati Uniti non costruiscono più centrali nucleari e investono nel solare e nell’eolico. Se una centrale nucleare costruita in Italia, per esempio a Trino Vercellese, dovesse esplodere come a Chernobyl, e nessuno può garantire che non possa succedere, la vita scomparirebbe nel nostro Paese per decine di migliaia di anni.
Insieme a Greenpeace sto spiegando nelle librerie e nelle scuole l’insensatezza del nucleare. Con Greenpeace ho prodotto il documentario: “Terra reloaded” con le testimonianze dei massimi esperti mondiali come Lester Brown e Jeremy Rifkin sul futuro del pianeta. Tutte le scuole che ne faranno richiesta al blog ne riceveranno una copia gratuita.

Intervista a Giuseppe Onufrio, direttore di Greenpeace Italia.

Giuseppe Onufrio: “In Finlandia e in Francia stanno costruendo queste nuove centrali che si chiamano Epr e sono di costruzione francese. Di queste centrali abbiamo scoperto, qualche mese fa, che il progetto non è mai stato approvato perché il sistema di emergenza non soddisfa i minimi requisiti della sicurezza nucleare, cioè quali? Il sistema d’emergenza non deve essere collocato fisicamente nello stesso posto dove c’è il sistema di normale funzionamento perché, in caso di incidente, se salta l’uno rischia di saltare anche l’altro.
La prima avvisaglia è stata una lettera nel dicembre scorso: l’autorità di sicurezza finlandese ha scritto al costruttore Areva, il costruttore francese, lamentandosi che le persone che vanno alle riunioni sono incompetenti in materia di sicurezza nucleare e dicendo loro “ vi abbiamo detto da tempo di rifare il sistema di emergenza e non l’avete fatto”.
A aprile questa lettera viene fatta trapelare e Greenpeace fa la denuncia, nell’aprile 2009: a giugno del 2009, l’Agenzia di sicurezza inglese fa un documento in cui, oltre a dire che la centrale, sia quella francese che il tipo americano Ap1000 della Westinghouse non reggerebbero a un incidente aereo, dice la stessa cosa, ossia che il sistema di emergenza non soddisfa i minimi principi di sicurezza nucleare, cioè l’indipendenza dei due sistemi.
Il 15 ottobre l’Agenzia di Sicurezza Nucleare Francese scrive al costruttore francese e gli dice la stessa cosa, il 22 ottobre tre Agenzie di Sicurezza fanno un comunicato congiunto per dire che il progetto del reattore Epr non è approvabile. Lo stanno già costruendo e i nostri politici vi infinocchiano, perché vi fanno capire che avremo una macchina che sarà il portento della sicurezza, quando nei Paesi in cui questa centrale è in costruzione, e l’Inghilterra, che è interessata anch’essa a vedere di sostituire le vecchie centrali inglesi con queste nuove, dice “ il progetto non c’è, ci vorranno almeno due o tre anni per recuperare”. Nel frattempo l’Autorità di sicurezza Finlandese ha trovato 2.100 non conformità in cantiere a Olkiluoto, dove è in costruzione uno di questi due reattori e ha scoperto, a ottobre, che le saldature del circuito di raffreddamento della centrale, che sono una struttura importantissima per la sicurezza, sono fuori norma e ha bloccato i lavori all’interno della centrale. Questo per dirvi che siamo nelle mani di persone che vi vendono delle cose che non esistono! La vera alternativa esiste, è possibile tagliare i consumi in Italia del 20% guadagnandoci, l’efficienza energetica è veramente la prima cosa che bisogna fare, le fonti rinnovabili e l’efficienza energetica potrebbero fare il triplo dell’energia dei quattro reattori che l’Enel vuole costruire. In questo modo arriveremmo a raggiungere gli obiettivi europei, che significherebbero anche creare molta occupazione. Voglio dire a chi ci ascolta, per chiudere, che il comparto delle fonti rinnovabili in Germania occupa più persone dell’industria automobilistica e l’industria automobilistica tedesca certamente non è più piccola di quella italiana.”

Blog: “Perché tanta insensibilità nel nostro Paese sui temi ambientali?”

Giuseppe Onufrio: “A quanto pare no: Eurisko ha pubblicato oggi una …(intervento fuori microfono) beh, il problema sono le élites di questo Paese, le élites economiche e politiche, che sono fuori dalla storia: voglio ricordare che il tema del clima globale è un tema che ormai, nei grandi Paesi europei, non divide più destra e sinistra, ma è diventato un obiettivo anche di carattere industriale. In Italia invece abbiamo un’élite che, per piccole lobbies o per piccoli interessi, vuole perseguire la strada del ritorno al nucleare, quando per quanto riguarda il nucleare negli altri Paesi il problema è che cosa fare per non chiuderlo, mentre in Italia c’è qualcuno che magari vende acciaio o cemento che è interessato a partecipare a questo business. In realtà manca una visione dell’élite del nostro Paese e purtroppo, quando l’élite di un Paese non ha una visione di sé stessa, non ha neanche una visione di un futuro possibile. Pensiamo che la battaglia sia ancora aperta, che ce la possiamo fare, ma dobbiamo ancora fare una grande battaglia e credo che a Copenaghen, se Copenaghen non fallisce, penso che avremo una possibilità per la quale anche l’Italia potrà giocare un ruolo, perché in questo Paese le intelligenze e le capacità non mancano. Quella che manca è la visione di un futuro possibile anche industriale.”

Schifani e il palazzo abitato dai boss

Schifani e il palazzo abitato dai boss.

altC’è un palazzo a Palermo, vicino allo stadio della Favorita, che spiega meglio di un trattato la mafia e l’antimafia. I suoi nove piani sono un monumento alla prevaricazione dei forti sui deboli, dei corrotti sugli onesti. Sono stati costruiti in spregio a ogni norma con la complicità della politica, calpestando con la ruspa i diritti di due donne inermi.

Ogni muro, ogni mattone, profuma di mafia. Chi ha eseguito i lavori e chi li ha diretti, chi ha fornito il calcestruzzo e chi ha fatto gli scavi, chi ha guadagnato vendendo gli appartamenti e talvolta anche chi li ha comprati, è legato da vincoli di sangue o di cosca con i padrini più blasonati di Palermo: Madonia, Bontate, Pullarà, Guastella, Lo Piccolo. Il capo dei lavori, Salvatore Savoca, è stato strangolato perché non voleva dividere il boccone di cemento con un clan più forte del suo: i Madonia. L’assessore che ha dato la licenza è stato condannato per le mazzette ricevute in cambio della concessione. Il costruttore Pietro Lo Sicco è stato condannato per mafia e corruzione ed è in galera. Il palazzo è stato confiscato e le vittime, Rosa e Savina Pilliu, hanno ricevuto in affitto dallo Stato l’appartamento nel quale dormiva Giovanni Brusca, l’uomo che ha schiacciato il telecomando della strage di Capaci.

Sembrerebbe una storia semplice nella quale è persino troppo facile scegliere da che parte stare. E invece la storia di Piazza Leoni dimostra che la vita è fatta di scelte, mai scontate. Questo palazzo incrocia il destino di due uomini famosi e distanti tra loro: Renato Schifani e Paolo Borsellino. Il primo (prima che le procure e i tribunali accertassero le responsabilità del costruttore corruttore e mafioso) ha messo a disposizione la sua scienza per sostenere il torto del più forte. Il secondo, nei giorni più duri della sua vita, ha trovato il tempo per ascoltare le ragioni dei deboli. Quel palazzo è ancora in piedi grazie anche ai consigli legali, ai ricorsi e alle richieste di sanatoria dello studio legale Schifani-Pinelli del quale il presidente del senato è stato partner con l’amico Nunzio Pinelli negli anni chiave di questa vicenda, prima di lasciare il posto al figlio Roberto. Mentre Schifani combatteva in Tribunale per Lo Sicco, il giudice Paolo Borsellino, trascorreva le ore più preziose della sua vita per ascoltare le signorine Pilliu.

Incroci del destino

E c’è una coincidenza che fa venire i brividi perché proprio da Piazza Leoni, dove allora sorgeva lo scheletro del palazzo abusivo, sarebbe partita al’alba del 19 luglio del 1992 la Fiat 126 imbottita con 90 chilogrammi di tritolo che ha ucciso il giudice istruttore. Le signorine Pilliu non lo sapevano ma quelli che si nascondevano dietro il costruttore che le minacciava stavano preparando le stragi. Chissà se Borsellino aveva intuito qualcosa di strano dietro quel palazzo. Una cosa è certa, se sei giorni prima di morire, 50 giorni dopo la morte di Falcone, un uomo come lui perdeva tempo a parlare con queste signorine doveva esserci una ragione.

Forse allora, 17 anni dopo, vale la pena di riascoltare il racconto di Savina e Maria Rosa Pilliu.

Sorelle-coraggio

Queste due signorine di origine sarda possedevano due casupole all’interno di un filarino di ex fabbriche riadattate ad abitazione. Il padre era morto giovane ma le sorelle e la mamma, a costo di mille sacrifici, erano riuscite ad andare avanti grazie a un negozio di generi alimentari a due passi da piazza Leoni. Tutto scorreva liscio finché la mafia non mise gli occhi sul terreno accanto alle casette. “All’inizio si fece avanti Rosario Spatola”, raccontarono le sorelle quel giorno a Paolo Borsellino. Al giudice si accesero gli occhi. Spatola è stato uno degli uomini più ricchi della Sicilia, il costruttore della vecchia mafia di don Stefano Bontate, sterminata da Riina negli anni ottanta, l’amico del banchiere Michele Sindona, che aveva ospitato nella sua villa fuori Palermo. Nel settembre del 1979, Spatola si presenta nel negozio della famiglia Pilliu in via del Bersagliere e fa la sua proposta per comprare le casette. Ovviamente non voleva tenerle ma distruggerle. Per costruire un palazzo più grande sul suolo di fronte, eliminando le case e il problema delle distanze. L’idea era buona ma due settimane dopo, proprio per l’inchiesta nata dai contatti tra Sindona e la mafia, Spatola finisce in galera. Il terreno passa dopo un paio di giri a Gianni Lapis, consulente di Vito Ciancimino, per finire nel 1984 a un costruttore ignoto: Pietro Lo Sicco, un benzinaio legato al boss della mafia perdente, Stefano Bontate.

Più andavano avanti nel loro racconto, più snocciolavano nomi e date con il loro eloquio antico, e più il giudice Borsellino si interessava alla loro vicenda. Spatola, Ciancimino, Lo Sicco. Anche il nome del costruttore probabilmente diceva qualcosa a Borsellino. Era stato arrestato da Giovanni Falcone, ma poi prosciolto. Lo Sicco era legatissimo a Stefano Bontate però quando il vecchio boss viene ucciso passa con i vincenti. Quando rileva il terreno cerca subito di comprare le casette di fronte per ampliare lo spazio e la cubatura. Con le buone o le cattive convince tutti a vendere. Nessuno osa dirgli di no. Tranne le sorelle Pilliu che non vogliono svendere. A questo punto succede l’incredibile: Lo Sicco dichiara al comune di avere anche le particelle catastali della mamma delle sorelle Pilliu. Ovviamente sotto c’è una mazzetta all’assessore all’urbanistica che frutta una licenza che prevede due cose connesse: la possibilità di costruire un palazzo con tre scale e sette piani (che poi diverranno nove) a condizione però che prima la società di Lo Sicco, Lopedil, abbatta le casette che però, piccolo particolare, non sono della Lopedil. Il 3 marzo del 1990 la società ottiene la concessione edilizia. Le Pilliu denunciano alla Prefettura e al Comune l’abuso ma non si muove nulla. Anzi si muovono le ruspe. La Lopedil tira su il palazzo e butta giù le casette. Le ruspe demoliscono quelle accanto e i piani superiori del fabbricato. Gli appartamenti delle Pilliu (che per fortuna dormono altrove) si ritrovano senza tetto: c’è solo il pavimento del piano superiore a difenderli dalle intemperie. Le sorelle chiamano i vigili urbani, la Polizia e i Carabinieri ma nessuno interviene. Il comandante dei vigil arriva sul luogo e sembra possa essere il salvatore delle sorelle ma dopo aver controllato le carte dice: “sono in regola e io posso fermare un automobilista senza patente non uno con una patente falsa”.

La minaccia

Le signorine cercano di opporsi fisicamente ma Lo Sicco le minaccia e le offende dicendo a Rosa Pilliu: “Vattene da qui perchè se no ti dò un timpuruni. Senti a me, vai a vendere i tuoi pacchi di pasta al negozio che tra un po’ non potrai vendere più nemmeno quelli”. È in questa fase che le sorelle, disperate, chiedono aiuto a Borsellino. Si vedono l’ultima volta il 13 luglio, il magistrato le rinvia a due giorni dopo. Ma è il giorno di Santa Rosalia, le Pilliu non vogliono perdersi la festa alla “Santuzza” e chiedono di fissare un appuntamento più in là. Borsellino si impegna a richiamarle. Sei giorni dopo morirà in via D’Amelio.

Tritolo

Il giudice non poteva sapere che proprio gli uomini interessati a quel palazzo stavano preparando la sua uccisione e le stragi del 1993 a Roma, Firenze e Milano. Giovanni Brusca, il boss che ha spinto il pulsante del telecomando della strage di Capaci, l’uomo che ha ordinato ed eseguito un centinaio di omicidi, tra i quali quello del bambino Santino Di Matteo, colpevole solo di essere figlio di un pentito, ha raccontato: “Gli scavi a Piazza Leoni li ha fatti Pino Guastella (arrestato come capo mandamento Palermo centro nel 1998 Ndr). Poi io mi sono comprato un appartamento, tramite Santi Pullarà, che mi ha fatto fare un buon trattamento. Ci ho dormito pochi giorni però. Lo avevo fatto intestare a Gaspare Romano. Costui poi nel ’95 fu scoperto dalla DIA che lo pedinava e mi sono fatto ridare i soldi indietro, perché a quel punto a me l’appartamento non serviva più. Siamo andati a vederlo con Leoluca Bagarella (il cognato di Riina che ha guidato la mafia durante la stagione delle stragi del 1993), io con una macchina e lui con un’altra, di sera. Più che altro per scegliere i piani e vedere gli appartamenti come erano combinati, perché ancora erano grezzi, in costruzione. Cioè dovevamo riuscire a capire come funzionavano, se c’era l’ascensore, se c’erano scale. Una cosa che io avevo chiesto, di particolare, se era possibile poter fare l’ascensore come come quello che avevo visto nella casa di Ignazio Salvo (uno dei cugini esattori di Salemi, legati alla Dc andreottiana e arrestati da Falcone) che io ho frequentato molto. Lui quando arrivava con la sua macchina, prendeva l’ascensore e con una chiavetta saliva fino all’attico. E quindi era un suo privilegio, e io chiesi questa cosa ma non era realizzabile perché il garage era per tutti, non solo ed esclusivamente per me”. Poi però i boss capirono che due latitanti per un palazzo era troppo. “Bagarella era interessato pure ed è venuto a vederlo con l’intenzione di comprare. Quella sera ci sono andato con Gioacchino La Barbera (altro autore della strage di Capaci, ndr). Lo abbiamo scelto sia io che Bagarella perché era un posto di élite a Palermo. Cioè Piazza Leoni, era un investimento. Poi io pensavo successivamente di farci la latitanza, ma questo era un problema mio”. Anche Gioacchino La Barbera, pentito dopo aver partecipato alla strage di Capaci conferma e aggiunge particolari: “Ho accompagnato varie volte sia Leoluca Bagarella che Giovanni Brusca a piazza Leoni. Brusca sul posto con una persona responsabile del cantiere stava cercando di fare modificare un appartamento per essere comunicante. Perché stava studiando un’intercapedine per trascorrere la latitanza e in caso di un sopralluogo delle forze dell’ordine riuscire a nascondere o a scappare”.

L’arsenale e gli inquilini

Nel palazzo c’era anche un appartamento con un muro finto dietro il quale si nascondevano le armi del clan Madonia. Insomma le riunioni di condominio in quello stabile non devono essere una passeggiata. Nei piani alti abitano la figlia di Stefano Bontate, e hanno abitato entrambe le figlie del costruttore mafioso Pietro Lo Sicco. Nell’attico più grande e bello c’è una famiglia legata al defunto boss Stefano Bontate (detto il principe di Villagrazia) i Marsalone, il cui patriarca Giuseppe è morto ammazzato a fine anni ottanta. Tra quelli che ci hanno abitato, non mancano però anche i professionisti della “Palermo bene”. Al quinto piano c’è l’avvocato Antonino Garofalo, socio di Renato Schifani in una società fondata nel 1992 e mai attivata, la Gms. La casa è affitatta e se ne cura l’avvocato ma è intestata alla sua compagna russa. L’appartamento accanto a quello che fu di Brusca era occupato dallo studio di Salvatore Aragona, il medico amico di Totò Cuffaro e già condannato per avere fornito al boss di San Giuseppe Iato un alibi. Molte di queste persone, avevano stipulato con Pietro Lo Sicco un contratto preliminare di compravendita. Quando il 17 settembre del 1993 il Comune annulla la concessione edilizia e blocca tutto.

Cavilli e millimetri

A questo punto entra in scena l’avvocato Renato Schifani. Insieme al suo collega di studio, Nunzio Pinelli, presenta ricorso al Tar. Pinelli va addirittura in tv con Lo Sicco a difendere il palazzo contro una coraggiosa giornalista, Valentina Errante, che aveva scoperto l’abuso. Schifani partecipa anche a un sopralluogo nel 1993 nel quale si accerta che “il distacco non deve essere inferiore a metri 12,75 e in effetti risulta pari a metri 7,75”. Ciononostante lo studio Schifani-Pinelli verga uno splendido ricorso alato. La tesi sostenuta è che la demolizione delle casette da parte di Lo Sicco “avrebbe solo anticipato gli esiti di un intervento di pubblica utilità, cui istituzionalmente era ed è tenuta l’Amministrazione Comunale”. In sostanza Lo Sicco è un benemerito che si è sostituito alle ruspe del comune. Se ha finto di essere proprietario ed è passato come un rullo sulle case altrui non lo ha fatto certo per vendere a clienti facoltosi e amici mafiosi bensì per ridare decoro alla zona. Meriterebbe quasi un premio. Incredibilmente il Tar il 23 gennaio del 1995 accoglie le tesi di Schifani e Pinelli e annulla la revoca della concessione, che così rivive. Le Pilliu sono distrutte. Lo Sicco esulta. Il Consiglio di Giustizia Aministrativa della Regione Sicilia, il Cga, però accoglie l’appello e, nonostante l’opposizione dell’avvocato Renato Schifani, annulla la concessioine. Per sempre. O almeno così dovrebbe essere.

La provvidenza di B.

Perché il condono Berlusconi del 1994 prevedeva in un comma nascosto che, in caso di annullamento della concessione, si poteva presentare domanda di sanatoria anche dopo la scadenza dei termini. Non solo: per questa sanatoria straordinaria non c’era nemmeno il limite di cubatura abusiva di 750 metri. Una pacchia. La società Lopedil fa subito domanda di sanatoria. Succede però un imprevisto: il nipote di Pietro Lo Sicco, Innocenzo, pur non essendo stato mai nemmeno indagato, trova il coraggio di dividere la sua strada da quella della famiglia e racconta ai magistrati la storia dello zio e del palazzo di piazza Leoni. Innocenzo Lo Sicco, che oggi è un dirigente di un’associazione antiracket, lancia un paio di frecciate a Schifani durante un’udienza del processo nel 2000. Sulla concessione di piazza Leoni la sua deposizione è netta: “l’impresa di mio zio, la Lopedil, non era in possesso di tutti i titoli di proprietà del terreno ma comunque è riuscito ad ottenere la concessione grazie ai buoni uffici che mio zio intratteneva con personale dell’edilizia privata. Il progetto è stato approvato dalla commissione presieduta dall’onorevole Michele Raimondo, in assenza del titolo di proprietà. L’accordo di cui io ero a conoscenza era che l’assessore Raimondo faceva approvare il progetto e, al rilascio dell’autorizzazione il signor Lo Sicco avrebbe pagato una, non so se definirla una tangente o un riconoscimento all’assessore di 20-25 milioni di lire”. Grazie a queste dichiarazioni Pietro Lo Sicco è stato condannato per truffa e corruzione. Poi il nipote continua il suo racconto confermando quello delle Pilliu: “dopo che il signor Pietro Lo Sicco aveva la concessione ha cominciato i lavori di sbancamento e demolizione e ci furono reazioni da parte dei proprietari. Principalmente da parte delle signorine Pilliu e di un certo Onorato che, addirittura, mi ha quasi menato. Le reazioni ci sono state: intervento della forza pubblica, Carabinieri, 113, Polizia giudiziara, tutto c’è stato in quel periodo. Era un viavai di forza pubblica con i proprietari che facevano le loro giuste lamentele e che volevano bloccare la concesione e che si ritrovavano in questa situazione che non riuscivano a bloccare”. Come è finita? Chiedono i giudici a Innocenzo. “Io so quello che mi ha detto Renato Schifani. L’avvocato mi disse come è stato salvato l’edificio facendolo entrare in sanatoria. Schifani era il mio avvocato. Pietro Lo Sicco si rivolse a lui per la pratica del palazzo di Piazza Leoni perché sapeva dei buoni uffici che intratteneva Schifani con l’allora assessore Michele Raimondo e con l’allora dirigente Vicari. Schifani era una persona di massima competenza nelle pratiche edili, (….) aveva una conoscenza sia in termini professionali, sia in termini diretti personali con i personaggi dell’edilizia privata per il papà che ha lavorato tutta la vita all’interno dell’edilizia privata. Quindi è la persona adatta”. Schifani entra in politica a livello locale in Forza Italia e sarà senatore solo dal 1996. Ma Lo sicco spiega che l’opera di lobby dell’attuale presidente del senato avrebbe avuto un effetto “sulla concessione edilizia ottenuta l’avvocato Schifani ebbe a dire a me, suo cliente, che aveva fatto tantissimo ed era riuscito a salvare il palazzo di Piazza Leoni facendolo entrare in sanatoria durante il Governo Berlusconi perché fecero una sanatoria e lui è riuscito a farla pennellare in quello che era l’esigenza di questi edifici di Piazza Leoni. Quindi era soddisfattissimo e me lo diceva con orgoglio di essere riuscito a salvare questa vicenda. Perché lo diceva a me? Perché io avevo messo a conoscenza l’avvocato Schifani quando era iniziato il rapporto col signor Lo Sicco di qual era l’iter di quale era stata la prassi, di qual era la situazione di come si era venuta a creare il rilascio della concessione”.

L’inchiesta

Il pm di Palermo Domenico Gozzo ha aperto un fascicolo generico, senza indagare Schifani, per le accuse di Lo Sicco. Ma ha ritenuto che non ci fosse nulla di rilevante. Nel procedimento penale non sono state considerate penalmente rilevanti nemmeno le parole di Innocenzo Lo Sicco sui costruttori Antonino Seidita e Giuseppe Cosenza. Questi due imprenditori, entrambi amici di Lo Sicco, entrambi considerati legati ai fratelli Graviano ed entrambi clienti dello studio Schifani-Pinelli, seconco Innocenzo Lo Sicco svolsero un ruolo nella vicenda. Cosenza sarebbe stato incaricato dall’assessore di chiedere a Seidita di chiedere a sua volta un rialzo della mazzetta: da 20 milioni di lire a un attico. Ma Pietro Lo Sicco non accettò e si fermò al versamento previsto nella prima offerta. Pietro Lo Sicco è stato condannato per la vicenda amministrativa a due anni e due mesi per corruzione, e truffa. Mentre per i suoi legami con la mafia è stato condannato a sette anni. Entrambe le sentenze sono passate in giudicato. Anche sul fronte amministrativo la vittoria delle sorelle Pilliu è definitiva. Nel novembre del 2002 anche il Tribunale civile di Palermo ha statuito che il palazzo non rispetta le distanze dalle casupole delle signorine e deve essere abbattuto. Per l’esattezza dovrebbero essere “tagliati” dalla costruzione otto metri e sei centimetri al piano terra e cinque metri e 81 centimetri ai piani superiori.

Ad personam

Si attende l’Appello ma nella finanziaria del 2000 un emendamento del senatore Michele Centaro di Forza Italia ha introdotto una norma che sembra fatta su misura per sanare la situazione di piazza Leoni: l’amministratore giudiziario può chiedere la sanatoria del palazzo confiscato per mafia e vendere ai terzi che hanno comprato. “Ricordo che era un problema sentito anche dai magistrati”, dice Centaro. Sarà. Comunque la figlia di Bontate, come gli altri, potrebbe comprare. I terzi acquirenti sono difesi dall’avvocato Pinelli ma resta il problema delle distanze. Almeno per ora. Nel gennaio del 2005 sono crollate le casette delle Pilliu. Senza tetto, con l’acqua che entrava da tutte le parti, hanno ceduto. Un giudice ha pensato bene di aprire un processo. Non contro Lo Sicco. Ma contro le sorelle Pilliu, per crollo colposo.

Fonte:: Il Fatto Quotidiano (Marco Lillo, 20 Novembre 2009)

Agenda rossa, quei buchi neri e le sentenze clone

Fonte: Agenda rossa, quei buchi neri e le sentenze clone.

La sentenza della VI sezione della Corte di Cassazione presieduta da Giovanni De Roberto che scrive la parola fine sulla possibilità di istruire un processo per poter illuminare quella zona di buio pesto che avvolge la sparizione dell’agenda rossa di Paolo Borsellino è del 17 febbraio 2009 e la motivazione è stata depositata il 18 marzo ma se ne è avuta notizia solo ora. Prima stranezza. Sentenza che conferma quella emessa il 21 aprile 2008 dal gup di Caltanissetta, Scotto Di Luzio, non proprio consueta in quanto il gup – andando al di là del suo ruolo, cioè verificare se esistono elementi sufficienti per celebrare un processo – entra nel merito valutando tutti i fatti di prova facendone un’analisi critica: non esiste la prova che Borsellino avesse con sé l’agenda quella domenica e semmai l’avesse avuta sarebbe certamente andata distrutta nell’esplosione. Dunque il processo per furto con l’aggravante di reati commessi per favorire Cosa Nostra a carico dell’allora capitano dei carabinieri e oggi colonnello Giovanni Arcangioli, non s’ha da fare. Il ricorso, appoggiato dal sostituto procuratore generale in Cassazione, Carlo Di Casola, presentato solo molto tempo dopo dal procuratore capo Sergio Lari, magistrato perseverante e misurato: Borsellino quando lascia la villetta di Carini ha nella borsa l’agenda, come confermato dalla moglie.

Il giudice, come sempre di domenica, non aveva l’autista ed era alla guida dell’auto, dunque, durante il tragitto non avrebbe avuto alcuna possibilità di estrarre l’agenda dalla borsa che aveva sistemato nel sedile posteriore. E se per assurdo lo avesse fatto, l’agenda sarebbe rimasta in auto e non sarebbe andata distrutta in quanto la tesi che l’agenda sarebbe stata distrutta dalla deflagrazione potrebbe reggersi solo se il magistrato l’avesse avuta in mano quando è sceso dall’auto per andare a citofonare alla madre. Ma questa è un’ipotesi illogica visto che la donna sarebbe dovuta scendere subito. La sua borsa è stata certamente prelevata dall’auto dal colonnello Arcangioli come provato dal filmato che mette in successione le immagini delle telecamere dei negozi, realizzato però solo 15 anni dopo la strage, in cui si vede Arcangioli allontanarsi dal luogo della strage con in mano un oggetto che ingrandito risulta essere, inequivocabilmente, una borsa. Il colonnello si difende dicendo: non ricordo nulla a causa dell’emozione. Di certo la tesi di un ufficiale dell’Arma emozionato, nonostante non avesse mai conosciuto Borsellino, al punto da non riacquistare la memoria dinanzi alle immagini, non è stata sufficiente per celebrare un processo dal quale il colonnello sarebbe potuto anche essere stato assolto. Ma senza il processo restano dubbi troppo pesanti che hanno indotto Francesco Crescimanno, legale della famiglia Borsellino, durante l’udienza a porte chiuse, a rivolgergli questa domanda: “Perché un ufficiale dei carabinieri non chiede con dignità di essere processato nella convinzione che il dibattimento potrà offrire un momento di confronto prezioso per il raggiungimento di una verità di cui il paese ha bisogno?”. A rispondere il silenzio.

Restano le parole di Agnese Borsellino e dei suoi figli che non vengono soffocate dal rispetto profondo per i giudici: “La sera quando Paolo si ritirava annotava gli spostamenti, gli appuntamenti su un’agenda grigia che teneva nello studio. Ma quella rossa non ricordo l’avesse mai lasciata a casa uscendo. Soprattutto dopo la morte di Giovanni non se ne distaccava un solo istante e quel pomeriggio l’aveva con sé. E non c’è una ragione plausibile per cui Paolo prendesse l’agenda per andare a citofonare alla madre che sarebbe scesa subito per andare con lui dal cardiologo. Di certo vi aveva scritto tutto quello che avrebbe riferito ai magistrati di Caltanissetta sulla morte di Falcone e anche tutto ciò che, man mano, apprendeva dai collaboratori di giustizia ed emergeva dalle sue indagini. Quando ci è stata restituita la borsa c’era un’altra agenda marrone dove Paolo annotava numeri di telefono, un costume, un mazzo di chiavi e diversi pacchetti di sigarette, mancava solo l’agenda rossa. Qualcuno, coperto da chissà chi, l’ha rubata. Questa è una certezza. Non la nostra certezza”. Quella stessa agenda rossa che era sulla scrivania anche durante l’intervista data ai colleghi francesi Jean Pierre Moscardo e Fabrizio Calvi di Canalplus per un documentario sui rapporti tra mafia e imprenditoria del nord.

Sandra Amurri (il Fatto Quotidiano, 20 novembre 2009)

ComeDonChisciotte – IL TRANS-ATLANTICO DELLA TRANS-POLITICA

Fonte: ComeDonChisciotte – IL TRANS-ATLANTICO DELLA TRANS-POLITICA.

DI NICOLETTA FORCHERI
stampalibera.com

Il corpo del transessuale Brenda, coinvolta nella vicenda di Piero Marrazzo, è stato trovato carbonizzato a Roma. La trans era all’interno di un appartamento in via Due Ponti. Sul posto gli agenti della polizia scientifica della questura di Roma (Ansa, 20 novembre 2009)

La trans politica, quella del comitato trans-versale di fratellanza trans-atlantica, ricatta i politici in modo sistemico; non importa il colore, per la trans-politica – categoria che ha cambiato genere – solo importano le transazioni finanziarie, su cui vigila. Laddove le pedine non oliano, la trans-politica sguinzaglia i suoi sbirri.

Marrazzo non era l’unico ad andare a trans eppure è lui che è stato ricattato. Le ipotesi sono due: potrebbe essere stato preso di mira personalmente per alcune sue politiche, oppure la vicenda potrebbe essere interpretata come uno dei tanti avvertimenti mafiobancari al governo trasversale compreso il governo “ombra” del partito di Marrazzo (PD), per questioni ben più macro.

Più di un dettaglio di tutta la faccenda – adesso che è stato fatto fuori il trans Brenda – dovrebbe aprirci gli occhi, come in un flash, su quanto sia incantato il disco del dopo guerra italiano, un incanto che se evidenziato dovrebbe sortire l’effetto di disincantarci. E magari cambiare disco.

Innanzitutto il luogo del blitz dei carabinieri: Via Gradoli 96 (1), è forse un caso se si tratta proprio del civico della via del covo delle BR al momento del rapimento Moro, ed è un caso se già da allora l’immobile ospita diversi appartamenti gestiti da società facenti capo ai servizi segreti – deviati?

Poi il modo: i carabinieri, è un caso se fanno irruzione in una casa privata di un trans avendo già l’informazione riservata dello scoop, per ricattare ed eventualmente defenestrare politicamente quel politico? E se, pur di ricattarlo, i carabinieri compiono un reato palese e sfrontato, quello della violazione dell’habeas corpus, come avessero le spalle coperte?

Se avessero voluto agire per rendiconto personale, non avrebbero avuto a disposizione tante altre occasioni senza dovere rischiare l’arresto?

Poi, guarda caso, c’era già stato un altro morto, la pedina più importante della partita, Gianguarino Cafasso, l’informatore dei carabinieri che secondo i militari avrebbe girato il filmino di Marrazzo con il trans, e che sarebbe morto di overdose ai primi di settembre, in tempo utile per iniziare un processo nella migliore tradizione italiana dei depistaggi dei nostri principali “misteri”. E infatti la versione dei militari contraddice quella dell’avvocato di Cafasso che afferma il 29 ottobre scorso che il suo cliente gli disse che “quel video gli era stato dato dai carabinieri e che il suo compito era quello di commercializzarlo”. A chi? Al quotidiano degli Angelucci, deputato membro della commissione Finanza della Camera. Ed è davvero un infelice caso che adesso lui non sia più con noi per raccontarci esattamente come siano andate le cose, a chi avrebbe venduto il filmino, e chi altri avrebbe potuto esercitare pressioni politico-finanziarie

Ora, una coincidenza è una coincidenza, due coincidenze sono un indizio, tre coincidenze rassomigliano a una prova. Ma la prova di cosa, di quale motivazione e per chi?

Sicuramente, l’affaire ruota attorno ai soldi, non quelli del ricatto a Marrazzo, né quelli dati alle trans – sia pur scandalosamente soldi nostri – ma soldi grossi, rendite. Politiche attorno ai soldi-rendite. Come tutto il resto d’altronde.

Allora, ammettendo la prima ipotesi, Marrazzo preso di mira personalmente, spunta tra gli altri un articolo di Repubblica che parla delle grosse rendite della famiglia Angelucci, a capo del gruppo Tosinvest, proprietario de Il Riformista e di Libero, oltre a dodici cliniche private nel Lazio, cui il governatore Marrazzo avrebbe negato ben trenta milioni di euro di finanziamenti (su 85 milioni) in seguito agli arresti domiciliari (2) il 3 febbraio scorso, di Giampaolo Angelucci – il padre Antonio deputato Pdl era scampato all’arresto grazie all’immunità e alla votazione omertosa dei suoi colleghi onorevoli – con l’accusa di associazione a delinquere per truffe al servizio sanitario per 170 milioni di euro tra il 2005 e il 2007.

Su Giampaolo Angelucci, pende anche dal 12 ottobre scorso, la richiesta di processo per finanziamento illecito nel 2005 della lista di Fitto (500000 euro) “La Puglia prima di tutto” – poi diventato deputato di FI – in cambio di appalti sanitari in monopolio di 198 milioni di euro per la gestione di undici residenze sanitarie in Puglia.

Gli Angelucci, acquirenti della Roma, la famiglia fidata cliente di Unicredit, che hanno citato il giornale Repubblica per l’articolo che ipotizzava la connessione Sanità…

Marrazzo, però, ha sicuramente dato fastidio soprattutto per avere iniziato un esperimento inedito in Italia, quello del reddito minimo garantito (3), cui aveva destinato un fondo di 135 milioni nel triennio 2009-2011. Probabilmente per reperire i fondi dovette tagliare alcune voci, come appunto quelle della sanità.

Il 4 marzo 2009, infatti, il Consiglio regionale del Lazio approvava la legge “L’istituzione del reddito minimo garantito. Sostegno al reddito per disoccupati, inoccupati e precari”, una misura inedita in Italia, sperimentale, che prevede l’erogazione di una somma fino a 7000 euro l’anno (pari a 580 euro mensili) ai disoccupati, i suboccupati e i precari, residenti nel Lazio. Tale reddito può essere integrato dai comuni con prestazioni gratuite (mezzi pubblici locali, libri di testo scolastici, sport e attività culturali ecc) e agevolazioni per i canoni di locazione. I requisiti? Un reddito inferiore agli 8000 euro annui, una fascia di età compresa tra i 30 e i 40 anni e basta. La condizione dei 24 mesi di iscrizione nelle liste dei disoccupati, aumenta solo i punteggi ma non costituisce una condizione obbligatoria.

Il regolamento attuativo della legge è stato pubblicato il 27 giugno 2009 e lui Marrazzo, è stato “filmato” dal trans ai primi di luglio. Ma è solo un caso.

Marrazzo aveva anche varato un programma casa decennale (2009-2018) molto ambizioso, ad agosto, con 635 milioni di euro oltre a risorse per l’edilizia agevolata (+97 milioni di euro) e per l’emergenza abitativa a Roma (+62,5 milioni), agevolazioni per l’acquisto di case da 150000 euro, con un voucher da 15000 euro messo a disposizione dalla regione, e rate/canoni da 500-550 euro.

Nella relazione sul reddito minimo garantito, si evidenzia come l’Italia e la Grecia siano gli unici paesi senza un reddito minimo garantito, contrariamente al “revenu minimum d’insertion” francese, al “sozialhilfe” austriaco, al “minimex” belga o al “Beistand” olandese, fino ai modelli scandinavi e anglosassoni, e persino alla recente “renta basica” spagnola istituita in diverse regioni; aveva destinato 135 milioni nel triennio 2009-2011 (per il reddito minimo garantito) sicuramente togliendoli da altre voci, e soprattutto affermava frasi come: “Non venderemo i beni della Regione”. (4)

Sarà un caso ma anche Sarah Palin (5), governatrice dell’Alaska subì un avvertimento-ricatto con un video a sfondo sessuale girato da una sosia in allegra compagnia di un collega del marito, ricatto cui lei non cedette. Lei aveva tutelato un fondo sovrano dell’Alaska, che distribuisce un reddito di cittadinanza ricavato dagli introiti degli investimenti petroliferi del paese, e che nel 2005 è ammontato a un assegno di 845,76 dollari per ogni residente alaskese idoneo, compresi i bambini. In 24 anni di storia del fondo, sono stati erogati un totale di 24775,45 dollari a ogni residente. (6)

Ora questo ricatto sessuale, come non collegarlo anche a tutti i ricatti a sfondo sessuale tentati – e non riusciti – a Berlusconi e come non connetterli a quella mentalità predominante dei banchieri anglosassoniamericani, che se fossero visitati da psichiatri sani di mente verrebbero immediatamente rinchiusi per turbe psichiche gravi, come la credenza di agire su mandato divino (7) (cfr. Blankfein di Goldman Sachs: “facciamo il lavoro di Dio”) o tutte le altre perversioni sessuali provenienti da certa repressione puritana.

La vicenda Marrazzo è avvenuta contestualmente ai casi ripetuti di “deviazione” e di “sbandamento” delle forze dell’ordine nel giro di poco tempo. Tutti hanno anche in mente l’atroce fine di Stefano Cucchi, ucciso dai maltrattamenti delle forze dell’ordine, dopo essere stato detenuto per piccole quantità di canapa, non dopo avergli presumibilmente prelevato gli organi per l’espianto/trapianto, a pochi giorni di distanza. Ma tutti avranno anche pensato che la brigatista trovata morta suicida proprio a qualche giorno da una sua udienza dove doveva testimoniare, è anch’essa troppo coincidente.

Brenda testimone scomoda degli altarini dei ricatti della lobby finanziaria ai politici, fatta sparire, così come a sua volta sparì opportunatamente la trans al centro dello scandalo di Lapo Elkann: silenzio generale, nessuna o quasi notizia sul net (8). La solita manina invisibile che nasconde le tracce di un delitto degli Invisibili o che ci annega nei dettagli di apposite distrazioni di massa.

La manina invisibile del transatlantico della trans-politica. Quella che ha cambiato genere e che pecca ogni giorno contro natura.

Nicoletta Forcheri

Fonte: http://www.stampalibera.com – blog: mercatoliberotestimonianze.blogspot.com

20 novembre 2009

 

 

  1. http://eftorsello.wordpress.com/2009/10/25/caso-marrazzo-via-gradoli-96-il-passato-che-ritorna/ http://date.it.sourcews.com/9-27-4
  2. http://video.google.it/videosearch?q=angelucci+arresti+domiciliari&oe=utf-8&rls=org.mozilla:it:official&client=firefox-a&um=1&ie=UTF-8&ei=oyvuStWPI5eQsAbMocDkCA&sa=X&oi=video_result_group&ct=title&resnum=4&ved=0CBYQqwQwAw#q=angelucci+arresti+domiciliari&oe=utf-8&rls=org.mozilla%3Ait%3Aofficial&client=firefox-a&um=1&ie=UTF-8&ei=oyvuStWPI5eQsAbMocDkCA&sa=X&oi=video_result_group&ct=title&resnum=4&ved=0CBYQqwQwAw&qvid=angelucci+arresti+domiciliari&vid=-5915554568773190772
  3. http://www.portalavoro.regione.lazio.it/portalavoro/sezione/?id=Le-procedure-per-il-2009_57
  4. http://www.portalavoro.regione.lazio.it/binary/prtl_assessoratolavoro/tbl_contenuti_sezione/relazione_legge_reddito_garantito.pdf
  5. http://www.starlettime.com/shock/sarah-palin-in-un-film-porno-ma-e-solo-la-sosia/

Il Fondo permanente dell’Alaska è stato istituito per Costituzione ed è gestito da una società dell’Alaska dal 1976, grazie all’iniziativa dell’allora Governatore Jay Hammond. Quando il petrolio di North Slope, Alaska, cominciò a essere commercializzato attraverso il sistema di oleodotti TransAlaska, venne creato il Fondo permanente per emendamento alla Costituzione del paese per essere destinato a investimenti di minimo il 25% degli introiti delle royalties di petrolio e gas. Il Fondo non include tasse sugli immobili delle compagnie petrolifere né tasse sul reddito delle stesse, cosicché il deposito del 25% è più vicino all’11%. Il Fondo permanente accantona una certa quota di redditi petroliferi per poterle distribuire alle generazioni presenti e future di Alaskesi.

 

Molti Alaskesi pensano che sia un fondo permanente di dividendi, in contrasto con gli intenti degli inizi. Il sostegno al programma di distribuzione dividendi è talmente unanime e forte da garantire una continuità e la tutela del capitale principale del Fondo poiché qulasiasi misura che influisca negativamente sulle distribuzioni dei dividendi è una perdita per tutta la popolazione. I legislatori che desiderino appropriarsi dei redditi annui del Fondo sono vincolati dalla natura politicamente suicida di qualsiasi riduzione dei dividendi pubblici.

 

Lo Stato di Alaska distribuisce quindi una forma di dividendo cittadino dal Fondo che impiega investimenti inizialmente alimentati dal reddito di stato proveniente dale risorse mierariae in particolare il petrolio. Nel 2005 ogni residente alaskese idonei (compresi i bambini) ha ricevuto un assegno di $845.76. Nella storia di 24 anni del fondo ha pagato in totale $24,775.45 ad ogni residente. “

(7)

http://www.huffingtonpost.com/jeff-danziger/blankfein-gods-work_b_355035.html

http://blogs.wsj.com/marketbeat/2009/11/09/goldman-sachs-blankfein-on-banking-doing-gods-work/

(8)

http://magazine.excite.it/ricerche/patrizia-morta-trans-patrizia-lapo-elkann

Canzone per il Popolo delle Agende Rosse

Fonte: Canzone per il Popolo delle Agende Rosse.

Le AGENDE ROSSE a Roma al “No Berlusconi Day” per una NUOVA RESISTENZA

Fonte: Le AGENDE ROSSE a Roma per una NUOVA RESISTENZA.

Ci ho riflettuto a lungo ma alla fine ho capito che non possiamo non partecipare alla manifestazione del 5 Dicembre a Roma.  La spinta finale a questa decisione è stato l’incontro a Londra con i ragazzi italiani costretti a lasciare un paese che non riesce ad assicurare loro un lavoro per andare a lavorare in Inghilterra, costretti a lasciare il loro paese per andare in un “altro paese” a cercare una stampa libera, dei mezzi di informazione non monopolizzati e asserviti, un parlamento in grado di votare delle leggi, una democrazia e non un regime mascherato da democrazia, un paese governato da un premier e non da un satrapo, un paese nel quale la legge è, per quanto possibile, ancora eguale per tutti, un paese in cui i magistrati sono rispettati e non vilipesi e quotidianamente aggrediti e minacciati, un paese in cui le leggi che vengono votate servano per tutti e non per uno soltanto. E che purtroppo in questo paese devono anche subire lo scherno di chi non riesce a capacitarsi di come gli Italiani abbiano potuto scegliere e continuino in buona parte a sostenere un uomo, il capo del Governo, che per loro è un personaggio da operetta mentre in realtà, per noi, è il protagonista e l’artefice della nostra tragedia.
Non è stata un decisione semplice la mia, personalmente ritengo che continuare ad accusare il presidente del Consiglio di frequentazioni di minorenni, di utilizzo di prostitute pagate dai suoi lacchè, di compenso di prestazioni sessuali tramite nomina a posti di governo e via  andando non sia che una maniera di far perdere di vista il vero problema, cioè che questo governo sta continuando a pagare le cambiali di una trattativa conclusa con la criminalità organizzata e condotta da una delle due parti a forza di bombe e di stragi per alzare il prezzo della trattativa stessa e indurre, chi aveva avuto l’oscena idea di avviare questa trattativa ad una resa incondizionata.
Si continua a discutere di processo Mills, di processo breve, di lodi di vario nome, quando il vero problema è che chi è alla guida del governo dovrebbe essere indagato per essere uno dei mandanti occulti delle stragi del ’92 e del ’93 e dovrebbero essere messi alla luce i suoi rapporti con la criminalità organizzata. Quella criminalità organizzata che oggi gode i frutti di quella trattativa e che farebbe fare la fine di Salvo Lima a chi i patti stipulati non li rispettasse fino all’ultimo.
Questa manifestazione non è organizzata dai partiti, è nata spontaneamente dalla rete, dall’iniziativa di alcuni bloggers, e noi che dalla  rete  siamo partiti e che che la rete utilizziamo come base operativa per le nostra battaglie, che utilizziamo la rete come i partigiani utilizzavano le montagne, non possiamo restare nelle nostre postazioni ad osservare i nostri compagni che si buttano in questa battaglia.
Dobbiamo prendere le nostre armi, le nostra agende rosse levate in alto, e andare a combattere anche noi. Abbiamo combattuto e abbiamo vinto a Palermo, abbiamo impedito agli avvoltoi di posarsi ancora sul luogo della strage, abbiamo combattuto e abbiamo vinto a Roma, da soli con  le nostre Agende Rosse abbiamo riempito delle nostra grida di RESISTENZA le strade e le piazze di Roma, ora, come un corpo speciale, dobbiamo scendere in mezzo agli altri ed essere riconoscibili per evitare che la manifestazione venga strumentalizzata dai partiti, ancora una volta dobbiamo essere noi a strumentalizzare loro.
Questa è una manifestazione della Società Civile e la presenza del nostro simbolo, l’Agenda Rossa, servirà a riaffermarlo.
Noi non chiediamo le dimissioni di Berlusconi, chiediamo che Berlusconi possa essere processato per i suoi crimini e le nostre Agende Rosse saranno in piazza per proteggere quei magistrati che anche sui suoi crimini stanno indagando e che per questo sono ad alto, altissimo rischio.
Noi dobbiamo essere la loro scorta.

Raccuglia, fine corsa | Pietro Orsatti

Raccuglia, fine corsa | Pietro Orsatti.

L’arresto del boss di Altofonte effettuato dalla Catturandi rappresenta una delle operazioni più importanti degli ultimi dieci anni. Era un capo operativo giunto ai vertici di .

di Pietro Orsatti su left/Avvenimenti
Del boss di Altofonte, Domenico Raccuglia, arrestato domenica scorsa a Calatafimi, si è sempre parlato poco, ma quando esce fuori qualche accenno al “veterinario” (questo il suo soprannome) appare un personaggio tutt’altro che marginale. La sottovalutazione che è stata fatta dell’uomo e del criminale è anche dovuta alla grande cautela con cui il “veterinario” ha gestito tutta la sua carriera di uomo d’onore, la propria latitanza e soprattutto la sua scalata, da Altofonte a un gran pezzo della provincia palermitana dopo l’arresto dei Lo Piccolo.
Anche per questo l’operazione della Catturandi, il gruppo speciale della di che fin dai tempi della cattura di Brusca assume un rilievo fondamentale. Raccuglia era del tutto operativo al momento dell’arresto, non un boss che scappa ma un capo che gestisce.
«Altro che uomo in fuga – racconta il dirigente della Catturandi, il vice questore Mario Bignone che ha coordinato l’azione di domenica 15 novembre -. Domenico Raccuglia era armato, organizzato, fisicamente forte e psicologicamente tranquillissimo, con il totale controllo del proprio territorio, della propria latitanza. Al momento della cattura, senza perdere il controllo, ha tentato la fuga. Con sé aveva 138mila euro in contanti, due pistole e un mitragliatore di fabbricazione coreana». Il ritratto corrisponde.
Uomo deciso, ex soldato di che ha fatto il salto e che, cresciuto sotto la guida di Giovanni Brusca e Leoluca Bagarella, si è incoronato boss, capo mandamento e poi ai vertici, oggi, dell’organizzazione.
Altro che “mafiosazzo di provincia”, come lo hanno descritto i pochissimi che ne hanno parlato finora. Per prendere una piccola pedina del grande gioco della siciliana non si tiene un intero reparto del livello della Catturandi concentrato per diciotto mesi su questa “caccia”. Una caccia fatta da agenti che hanno speso di tasca loro, anticipando tutti i soldi delle decine e decine di trasferte e per la benzina, usando i propri mezzi e sapendo che alla fine gli verrà pagato meno del 50 per cento delle ore di straordinari accumulate per prendere l’uomo che il ministro dell’Interno Maroni ha definito «il numero due di ».
Lo stesso ministro che ancora non ha trovato i fondi per pagare gli straordinari dell’arresto dei Lo Piccolo.


Una domenica pomeriggio

Sono passate da poco le 17:30 di domenica 15 novembre quando riceviamo una telefonata da Calatafimi. È un funzionario di che ci comunica che il reparto Catturandi della di di Palermo ha appena messo le mani su uno dei più pericolosi di , Domenico Raccuglia. «Raccuglia catturato poco fa, siamo ancora sul posto. Calatafimi. Ci aggiorniamo più tardi». Poche parole, dopo tanti anni (15) di latitanza e decine di tentativi di cattura falliti, finalmente quello che viene definito uno dei tre papabili successori di e Provenzano, è ora in mano alla . All’azione hanno partecipato circa 50 uomini fra Catturandi e squadra mobile. Raccuglia era solo, in un’abitazione di Calatafimi, un appartamento di tre piani a via Cabbasini 80. Al momento dell’arresto ha tentato la fuga, lanciando un borsone con armi e soldi e abbandonando dietro di sé decine di “pizzini” e di comunicazioni con altri mafiosi. Pochi giorni prima era stata perquisita la casa della moglie del latitante, non dalla bensì dai , ma sembrava che non vi fosse trovato nulla di rilevante.
Su questo dettaglio nasce il sospetto che, come è successo in precedenza, vi fossero contemporaneamente Catturandi e sulle tracce di un latitante e, se le indagini non fossero state coordinate, la perquisizione avrebbe potuto far muovere dal suo covo Raccuglia.
Ma non è l’orario della cattura che lascia perplessi (di solito si agisce all’alba o poco prima, di modo da cogliere nel sonno l’obiettivo). Neppure che sia la Catturandi palermitana ad agire in provincia di . È quello che succede in paese subito
opo l’arresto a lasciare stupiti. Centinaia di ragazzi si sono radunati, urlando insulti contro il mafioso e applaudendo alle forze dell’ordine. Un segnale dei tempi che cambiano, del consenso e della paura che scemano. Anche quando si tratta di un uomo
he fa spavento come Mimmo Raccuglia.


Raccuglia fa paura ai boss

Facciamo qualche esempio di quanto sia di peso il ruolo di Raccuglia in questi anni. Leggendo alcune delle si capisce che chi parla lo teme. Raccuglia ha un modo tutto suo per comunicare: le armi. Parole poche, se non nessuna. È invisibile non solo alle forze dell’ordine ma anche agli altri mafiosi, e negli anni della latitanza ha consolidato il suo potere nel territorio di Altofonte, San Giuseppe Jato, Partinico, e comuni limitrofi. Lo scontro con i Lo Piccolo lo ha visto vincente. Quando è partito il tentativo di conquista del ricco business di appalti e delle relazioni nel partinicese da parte di Salvatore e Sandro Lo Piccolo, Raccuglia li ha bloccati, in armi, con attentati, alcuni omicidi mirati, un po’ di lupara bianca. E contemporaneamente ha fronteggiato, e probabilmente immobilizzato nella sua avanzata, Messina Denaro che tentava anche lui di dilagare verso Palermo da e Castellammare del Golfo: comuni sotto suo stretto controllo.
Approfittando del vuoto creatosi con l’arresto dei Vitale, i potenti “Fardazza” controllavano da decenni la strategica fascia di cerniera fra Palermo e del mandamento di Partinico. Il salto nella carriera lo fa collaborando con Brusca. Processato per cinque omicidi, Raccuglia ha già tre condanne definitive all’ergastolo.
Sposato, due figli, uno dei quali nato durante la latitanza, è uno dei carcerieri di Giuseppe Di Matteo, sequestrato e poi strangolato e sciolto nell’acido su ordine di Giovanni Brusca perché figlio del primo pentito sulla strage di Capaci. Raccuglia teneva i contatti con la famiglia del bambino alla quale portava i messaggi del piccolo durante il rapimento.
In una delle ambientali – quelle che hanno condotto alla serie di arresti dell’operazione “Perseo” di quasi un anno fa – fra due esponenti di , Paolo Bellino e Domenico Caruso, al centro del tentativo di ricostruzione della Com
issione provinciale di , la figura del boss di Altofonte sembra essere determinante per ogni possibile accordo. I due boss intercettati elogiano il latitante Raccuglia («E al Parco… minchia persona d’oro!») la cui identificazione secondo la Pr
cura generale è certa, in quanto l’originario toponimo di Altofonte, paese di origine di Raccuglia, è Parco e gli abitanti sono comunemente definiti come parchitani. Bellino dichiara di avere incontrato recentemente il latitante, il quale gli avrebbe dic
iarato il suo disappunto perché Badagliaccia (altro mafioso) non ha ancora riconosciuto la sua autorità dopo la conquista dei mandamenti di Partinico e . Nella parte conclusiva del dialogo, Caruso fa riferimento a un progetto di riorganizzazione,
da parte del latitante Messina Denaro e di alcune famiglie mafiose di Palermo in contrapposizione al gruppo dei Lo Piccolo, sostenendo che anche il sodalizio mafioso di (sede della latitanza per alcuni anni di Raccuglia e sotto suo totale contro
lo) aveva assicurato la sua adesione ma ne temevano la dittatura («Ce lo hanno fatto sapere… no, minchia non è possibile, con tutto questo apparato che c’è da portarsi d’appresso, no! Vogliono, questi del , vogliono fare, lo vogliono fare scender
… se scendono quelli, ti ricordi il l’“ora” che il pomeriggi… o tu lo aprivi il pomeriggio, che ce n’erano uno due tre quattro morti, uno due tre quattro morti»). E quando all’epoca si parla di si parla di Raccuglia. Come ai tempi de L’Ora, lo s
orico quotidiano che faceva la conta quotidiana dei morti di durante gli anni 70 e 80, gli anni della “mattanza”, della guerra di che portò ai vertici di e il clan dei .

Killer per uccidere Provenzano
E non solo. Anche nell’operazione “Gotha” (forse la più importante degli ultimi dieci anni insieme a quella che poi ha portato alla cattura di Bernardo Provenzano) si parla di Raccuglia.
Il boss Rotolo, si legge negli atti, nel periodo del tentativo di scalata su Palermo dei Lo Piccolo a cui Raccuglia si oppone, decide di informare Provenzano attraverso Antonino Cinà di «un fatto grave» che lo riguarderebbe direttamente. Proprio “Binnu” Provenzano – fa sapere Rotolo al boss latitante – era designato come la vittima di un congiura maturata all’interno dell’organizzazione. Si trattava di una vecchia storia di circa dieci anni prima. Ne parla infatti anche Giuseppina Vitale, sorella del boss Vito Vitale capo del clan “Fardazza” di Partinico, all’autorità giudiziaria il 25 febbraio del 2005. «I fratelli Vitale di Partitico, Giovanni Brusca, Matteo Messina Denaro e Mimmo Raccuglia avrebbero progettato l’assassinio dell’anziano leader corleonese per il suo orientamento antagonistico rispetto all’ala stragista» dell’organizzazione criminale.
Quel progetto, secondo “Giusi” Vitale, era appoggiato da e Bagarella all’epoca già detenuti. Alla fine non se ne era fatto nulla perché la maggior parte di coloro che avevano progettato questa “ammazzatina” era finita in carcere. Per questo Rotolo e Cinà volevano far sapere a Provenzano di avere appreso che a quella congiura avevano partecipato anche Salvatore Biondo detto “il lungo” e, appunto, Salvatore Lo Piccolo.
Ma da quanto comincia a emergere, il ruolo di Raccuglia nel possibile agguato a Provenzano era fortemente voluto proprio dal capo dei capi, da Totò . Erano circolate infatti le prime notizie, i primi sospetti, di un possibile coinvolgimento di
Binnu nella cattura di , o almeno nell’individuazione del covo palermitano del capo di . Da qui l’ordine a quello che poteva avere il ruolo e la capacità di portare a termine l’assassinio: il veterinario.
Cambia la geografia di «Dalle indagini – ha dichiarato Francesco Del Bene, sostituto procuratore di Palermo che da anni segue le indagini su Raccuglia – è emerso che il capomafia aveva stretto un’alleanza con il latitante di Castelvetrano Mes
ina Denaro e recentemente aveva spostato i suoi interessi proprio nel trapanese. Dopo l’arresto e il pentimento dei Brusca, Raccuglia ha esteso la sua egemonia al mandamento di San Giuseppe Jato. Quando poi i Vitale sono finiti in cella, il suo dominio è
giunto fino a Partinico, dunque ai confini con la provincia di ». E faceva da cuscinetto e da cerniera fra la “dittatura” di Matteo Messina Denaro su tutta la provincia di e il calderone palermitano in cui sguazza il giovane, e pericolosis
imo, boss emergente Giovanni Nicchi. «Ovviamente Gianni Nicchi a Palermo assume un rilievo maggiore, fondamentale – spiega Del Bene – diventando una delle figure dominanti in città. Dall’altra parte c’è il dominio incontrastato di Matteo Messina Denaro nel trapanese». E Messina Denaro, ora, non ha più nessuno che lo freni. Chissà se ha qualcuno che lo arresti.

Il bello della diretta
(box)

«È stata un’emozione incredibile. Con la troupe ci siamo trovati sul posto durante l’operazione. A un certo punto Raccuglia ha cercato di scappare da un terrazzino sul tetto. Urlava «sugnu innocente» e intanto tentava di gettare via le prove, i pizzini, le armi. Hanno anche sparato un colpo in aria per fermarlo». Pino Maniaci, il direttore di che per primo ha segnalato il peso del latitante Domenico Raccuglia nella fase di riorganizzazione di , è il primo ad arrivare a Calatafimi durante l’operazione di domenica 15 novembre. Da dove sia arrivata la soffiata resta ovviamente un mistero. Lui ridacchia, e dice solo «sono state due le “dritte”». Le sue immagini, come quando vennero arrestati i Lo Piccolo, sono le uniche dell’operazione e hanno fatto il giro delle redazioni di mezza . «“Sugnu innocente”, con due pistole e un mitra?», e ride accendendosi l’ennesima sigaretta.

Emergenza rifiuti? Le tensioni nel centrodestra sporcano le strade di Palermo | Pietro Orsatti

Fonte: Emergenza rifiuti? Le tensioni nel centrodestra sporcano le strade di Palermo | Pietro Orsatti.

Reportage – Nel capoluogo siciliano l’allarme per l’immondizia si apre e si chiude in base alle fasi dello scontro politico interno alla maggioranza che governa l’isola. E a Caltanissetta la raccolta è ferma e si torna a parlare di termovalorizzatori

di Pietro Orsatti su Terra

Una signora anziana si avvia con la busta di rifiuti verso il cassonetto davanti al portone di casa. Chiede aiuto a un passante per aprire il coperchio e getta la spazzatura. Poi si avvia tranquillamente verso il vicino mercato per fare la spesa. Una scena normale, segno di normale quotidianità. Solo che questa scena qui non l’avremmo dovuta vedere, perché siamo a Palermo, quartiere del porto, e i media raccontano da settimane di un’emergenza rifiuti grave come quella campana, con cumoli di immondizia in tutta la città, e la provincia, ugualmente sommersa da rifiuti. «Non è così – spiega il consigliere comunale dell’Idv Fabrizio Ferrandelli -. Due giorni fa improvvisamente l’inferno, e ora tutto in ordine. Prima la città soffocata in poche ore dai rifiuti, poi di colpo tutto a posto. Ti sembra una cittàs nelle condizione di Napoli due anni fa?». A dire il vero in alcuni dei quartieri popolari di periferia qualche cassonetto che tracima sacchetti c’è, ma niente di così allarmante, niente che racconti un’emergenza come quella che ci è stata rappresentata finora, con tanto di Guido Bertolaso che scende da Roma per intervenire. «Sembra un’emergenza fatta scattare con un interruttore – prosegue Ferrandelli -. Capiamoci, l’Amia, l’azienda che gestisce la raccolta e lo smaltimento, ha circa 3.000 dipendenti, ha i mezzi, la professionalità, e la capacità di intervenire. Tu non risolvi quello che c’era per strada due giorni fa se sei in emergenza. Questa crisi è strumentale, creata ad arte per ricattare la Regione e dare il via al vecchio piano di inceneritori disegnato da Cuffaro nella scorsa legislatura». Cuffaro? Ancora lui?
«Una delle chiavi di lettura di questa vicenda è proprio quella di un conflitto tutto interno al Pdl e ai suoi alleati, da un lato Lombardo e Micciché che fanno saltare i vecchi accordi sugli inceneritori, dall’altro lato il sindaco Diego Cammarata e Schifani che invece puntano a confermare la politica disegnata nel piano regionale rifiuti di Cuffaro – spiega Nadia Spallitta, consigliere comunale del gruppo “Un’altra storia” -. È evidente che, nonostante il debito di 200 milioni di euro dell’Amia, la questione centrale non sia la gestione della società che controlla la discarica di Bellolampo, «anche perché il Cipe – prosegue Spallitta – prima ha stanziato 50 milioni e poi altri 80 e nessuno sa che fine abbiano fatto. Abbiamo presentato interrogazioni che non hanno avuto risposta. Dove sono questi soldi? A cosa sono serviti?». Di certo non a far fronte alla crisi con una corretta politica di raccolta e smaltimento. «Siamo andati a controllare nei depositi dell’Aima e abbiamo trovato almeno 50 mezzi pesanti nuovi acquistati e mai entrati in funzione – racconta Ferrandelli – nonostante ci sia il personale addestrato e disponibile a metterli in strada. Per non parlare poi dell’impianto per la raccolta differenziata di Partanna, finanziato ben due volte, terminato, collaudato più di un anno fa e mai entrato in funzione». A quanto ammonta la raccolta differenziata a Palermo? «In risposta a nostre interrogazioni la giunta parla del 6%, ma da quanto siamo riuscita a stimare noi non si va oltre il 4». Quindi ci si troverebbe davanto a un’emergenza fatta scattare a comando per imporre l’inceneritore. Sempre a Bellolampo, costruito dalla Falk spa insieme ad altri due che dovrebbero coprire il fabbisogno presunto dell’intera isola. Sarà un caso, ma lo stesso assessore regionale alla presidenza con delega alla protezione civile (e quindi anche alla gestione emergenziale sui rifiuti), Gaetano Armao, si è trovato costretto a riconsegnare al governatore Lombardo proprio la parte di deleghe più delicate perché era emerso come prima del suo incarico in Regione avesse ricoperto quello di consulente proprio per una società interessata alla realizzazione dei termovalorizzatori in Sicilia.
Intanto in queste ore si è anche disegnato uno scontro fra la giunta Cammarrata e il Tar, che ha bocciato sei mesi fa, grazie a un ricorso, l’aumento previsto dalla giunta delle tasse sui rifiuti. Un aumento del 35% retroattivo al 2006 dopo che già era stato approvato poco prima un altro aumento del 75%. Con l’accoglimento della sentenza il comune avrebbe dovuto addirittura rimborsare i cittadini, e invece non solo il rimborso non è stato messo in agenda ma addirittura la delibera è stata ripresentata due giorni fa. Come se niente fosse. «Siamo al paradosso – spiega la Spallitta, che fuori dalla politica esercita la professione di avvocato – di una giunta che non solo non impugna la sentenza, ma anzi la ignora totalmente e non ubbidisce all’ordine di un giudice».
E mentre a Palermo lo scontro politico si fa sempre più evidente e l’emergenza rifiuti si accende e si spegne a seconda delle varie fasi dello scontro politico interno alla maggioranza che guida l’isola, la crisi monnezza si accende altrove, questa volta a Caltanissetta. Anche qui di colpo i mezzi non circolano più, la raccolta si ferma, la locale discarica d’improvviso viene dichiarata satura. E si parla di nuovo, insistentemente, della necessità di costruire inceneritori.

ComeDonChisciotte – I PIANI MILITARI DEGLI STATI UNITI IN AMERICA LATINA

Fonte: ComeDonChisciotte – I PIANI MILITARI DEGLI STATI UNITI IN AMERICA LATINA.

DI DECIO MACHADO
Diagonal

La strategia degli USA in America Latina incontra nella Colombia un forte alleato. Le sette nuove basi assicurano all’esercito statunitense una totale operatività militare nella regione.

Lo scorso 18 agosto, il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti inviava un rapporto informativo al gruppo di cancellieri della UNASUR (Unione delle Nazioni Sudamericane): “Il 14 agosto 2009, i governi di Stati Uniti e Colombia sono arrivati ad un ‘intesa provvisoria sul referendum sull’Accordo di Cooperazione in Materia di Difesa (DCA). L’accordo ora dovrà essere revisionato per la firma definitiva”.

Questo episodio ha risvegliato in tutta l’America Latina molte voci critiche provenienti tanto dagli organi istituzionali quanto dalla società civile e dal suo tessuto sociale. Questa questione ha implicato che si organizzasse alla fine di agosto il Vertice Straordinario dei Capi di Stato della UNASUR nella turistica città di Bariloche (Argentina) , così come il successivo Vertice dei Cancellieri e dei Ministri della Difesa a Quito a metà di Settembre. In entrambi gli appuntamenti, il governo colombiano si trovò solo dinanzi al resto dei paesi membri, difendendo una posizione di segretezza e di mancanza di compromesso per assumere le misure di fiducia che vengono richieste dal resto degli Stati membri della UNASUR, presieduta in questo momento temporaneamente dal presidente ecuadoriano Rafael Correa.

Nella foto: Obama col presidente colombiano Uribe.

Nuova dottrina militare

Secondo il rapporto “Un continente sotto minaccia”, emesso in agosto dall’Osservatorio Latinoamericano di Geopolitica, la politica militare statunitense ha preparato “scenari tra coalizioni relativamente simili o equilibrate a guerre assimetriche in due modi: a) guerre tra Stati con enormi differenze di potenzialità bellica, di mobilità e gestione di un insieme di meccanismi di pressione economica e politica; b) guerre contro non Stati, con regole di gioco incerte che non sono circoscritte a quelle stabilite dai codici internazionali e senza restrizioni equivalenti a quelle degli Stati”.

Un funzionario della Difesa brasiliano, il comandante di fregata Nelson Morantes, accomunato da una visione simile indica: “ La logica militare statunitense sviluppata dopo l’11-S solleva la possibilità del conflitto bellico da parte degli USA con i cosiddetti ‘Stati Falliti’. Il nostro esempio nel continente sarebbe Haiti, anche se gli statunitensi considerano di più il Venezuela e la Bolivia e incluso l’Ecuador; così come la possibilità di conflitti con organizzazioni tipo Al Qaeda, che nel nostro continente si tradurrebbero in organizzazioni popolari, ecologiste o indigene. Per fare una correlazione, quelle di Al Qaeda in Afganistan sarebbero le organizzazioni Mapuche del sud del Cile.”

In contrapposizione ai rischi indicati, la politica militare degli USA per l’America Latina contempla quattro modelli di posizionamento militare differenziati nel continente. Per primo ci sono le basi grandi, modello Guantanamo, con installazioni militari complete, equipaggiamento e un corpo di militari effettivi accompagnati da nuclei familiari permanenti.

Il secondo modello sono le basi di formato medio, modello Soto Cano (Palmerola) in Honduras, con installazioni che permettono missioni lunghe, ma con personale che si rinnova ogni sei mesi.

Il terzo sono le basi piccole, quelle chiamate FOL (Foreign Operating Locations), ribattezzate politicamente come Cooperative Security Locations (CLS). Si tratta di basi come Manta, Curacao o Comolapa, con molto poco personale ma con molto sviluppo in materia di comunicazioni, tanto per monitorare come per garantire le connessioni e l’invio di informazioni ai centri di raccolta e trasformazione che esistono nel territorio statunitense (Network, Centric Warfare). Sono basi di risposta rapida e strutturazione regionale soprattutto diretta alle basi più piccole.

E, per ultimo, le basi piccole: postazioni che consentono l’appoggio ed il decollo rapidi come dei “salti di rana” – spostandosi per approvvigionarsi ed avere maggiore raggio di azione – permettendo che con una sequenza ben programmata da queste basi si possa controllare un’area molto ampia, snodo per operazioni di rapida risposta con costi inferiori rispetto alle precedenti. Un esempio sarebbe la base Iquitos nel Perù.

Secondo gli analisti Ana Esther Cecena e Rodrigo Yedra, “ il cambio nelle caratteristiche delle basi in America Latina inizia nel 1999 con l’installazione delle tre FOL (Manta, Curacao e Comalapa) che sostituiscono la base di Howard a Panama”. E proseguono: “Non si tratta di basi USA, ma di basi dei paesi in questione in cui si approva l’uso delle installazioni per il personale statunitense.

Ma, al di sopra della figura giuridica con cui si legalizza l’occupazione, sono basi amministrate da personale locale, che non sa quello che succede dentro e nemmeno le operazioni effettuate dal personale situato nelle basi dei territori circostanti.”

In questo senso, lo stesso Presidente Correa avvertì pubblicamente in varie occasioni rispetto alla possibilità che qualche aereo statunitense che operava dal FOL di Manta facesse parte della operazione di attacco ad Angostura, il 1 marzo dell’anno scorso, in cui morì l’allora numero due delle FARC, Raul Reyes, il tutto sotto la totale ed assoluta inconsapevolezza delle autorità locali ecuadoriane.

Basi in Colombia

Secondo la nota informativa emessa dagli USA, l’Acuerdo de Cooperacion en Materia de Defensa (l’ Accordo di Cooperazione in Materia di Difesa ) approfondirà la cooperazione bilaterale in materia di sicurezza sui temi di produzione e traffico di droghe illegali, terrorismo, contrabbando di ogni tipologia, disastri umanitari e naturali.

Comunque, secondo fonti del coordinatore della Sicurezza Interna ed Esterna dell’Ecuador, questo è una mancanza: “ Basi con le caratteristiche richieste che si vogliono organizzare in Colombia mancano di efficacia per gli obiettivi indicati. Prima che l’Ecuador recuperasse la sovranità sulla base di Manta, fatto accaduto il mese passato, negli ultimi cinque anni di controllo statunitense si produsse un incremento del traffico di droghe nel Pacifico, nonostante la vigilanza che giornalmente si realizzava”.

L’analista e professore universitario argentino Gilberto Bermudez spiega a DIAGONAL: “ Le navi, aeromobili ed equipaggi superano lungamente le vere necessità di controllo a gruppi illegali armati e narcotrafficanti. Riguardo gli obiettivi reali di queste basi ci sono varie interpretazioni. La mia è che, nonostante il presidente Uribe lo neghi, esistono velate intenzioni ad organizzarsi in basi per un controllo extraterritoriale.”

“Il problema reale è Palanquero, madre della basi colombiane, visto che attualmente è il centro operativo delle Forze Armate colombiane e diventerà fondamentale per il controllo statunitense in Sudamerica”, indica a questo giornale Armando Acosta, membro del Polo Democratico Alternativo e militante dei movimenti per la pace in Colombia.

Secondo Acosta: ”Palanquero ha una pista di più di tre chilometri di lunghezza, dalla quale possono decollare tre aerei da combattimento insieme ogni due minuti, ha un’infrastruttura con centinaia di hangar e aerei e può alloggiare 2.000 militari effettivi.”

Per gli esperti militari dei 12 paesi che compongono la UNASUR (Unione delle Nazioni Sudamericane), eccetto la Colombia, Palanquero è una “base adatta alle spedizioni, ha la capacità di contenere C-17, aerei di trasporto, e per il 2025 si prevede che questa base avrà la capacità di mobilitare 175.000 militari con i loro equipaggiamenti in sole 72 ore”. Come dire, una base per mobilitare interi eserciti in qualsiasi punto del continente. Secondo Emilio Lopetegui, militante sociale cileno affiliato alla rete antimilitarista del continente, la situazione è la seguente: “Assistiamo ad una escalation del dispendio militare nella regione. Il Brasile ha comprato nel 2007 e nel 2008 un numero importante di aerei da caccia, barche ed elicotteri, la sua stima di spesa militare quest’anno è di 24.000 milioni di dollari, approssimativamente 1,47% del suo PIL. In questo momento i brasiliani stanno sviluppando un importante programma militare con i francesi. Il programma include la fabbricazione di un sottomarino a propulsione nucleare e quattro convenzionali. Allo stesso modo, gli altri paesi della zona, incrementano la spesa militare. La Colombia è quattro o cinque volte più piccola del Brasile, ma presenta una stima di spesa quest’anno di 10.000 milioni di dollari, il 2,82% del suo PIL, ineguagliabile da nessun paese latinoamericano”. Il professor Bermudez spiega: “La Colombia è un Israele nel nostro continente. Con le sette nuove basi, più gli operativi già esistenti attualmente da parte delle forze militari nordamericane in questo territorio, stiamo parlando del fatto che da qua a pochi anni la Colombia potrà avere una capacità operativa simile o anche maggiore a quella di Israele nel Medio Oriente.”

Le basi dell’accordo

L’accordo militare tra USA e Colombia assicura nello specifico l’accesso continuo degli Stati Uniti alle installazioni colombiane: tre basi della Forza Aerea (Palanquero, Apiay e Malambo), due basi navali (Cartagena e Malaga) e due installazioni dell’esercito (Tolemaica e Larandia). Allo stesso tempo, l’accordo contempla l’utilizzazione delle altre installazioni militari colombiane previo comune accordo.

Escalation militare nella regione

Secondo il rapporto Military Balance 2009 dell’Istituto Internazionale di Studi Strategici di Londra, la spesa totale per la difesa dell’America Latina è aumentata del 91% negli ultimi cinque anni. Tutte le previsioni indicano che il 2009 verrà chiuso con una spesa decisamente maggiore. Uno dei paesi con spese maggiori è il Brasile. Il gigante latinoamericano mantiene una linea geopolitica orientata a consolidare la sua posizione di prima potenza regionale. Questo, unito alla sua volontà di formare parte dei membri del Consiglio di Sicurezza della ONU, così come il suo ruolo di protagonista nella missione dei Caschi Blu nell’isola di Haiti, spiegano questo incremento della spesa militare. Un altro paese con un enorme potenziale militare è il Cile. Recentemente, la presidente Michelle Bachelet ha inviato un progetto al Congresso per modificare la Ley Reservada del Cobre* che destina il 10% delle entrate dalla vendita della spesa alle Forze Armate, che ha permesso negli anni una forte inversione tecnologica ed un rinnovamento permanente dell’armamento. Il Cile ha confermato quest’anno l’acquisto di aerei antisottomarini e di otto elicotteri di fabbricazione francese, inoltre la acquisizione di 18 aerei F-16 dall’Olanda, per un valore di 270 milioni di dollari. Allo stesso modo, il presidente del Venezuela, Hugo Chavez, ha annunciato l’acquisto di carrarmati russi per contrastare la presenza statunitense in Colombia. Tra il 2007 ed il 2008, il Venezuela ha comprato armi del valore di 1.531 milioni di dollari dalla Russia.

51.000 MILIONI DI DOLLARI IN ARMI

Nel 1994, L’America Latina ha speso 17.600 milioni di dollari. Nel 2003, la cifra era salita a 21.800 milioni di dollari, in corrispondenza delle tensioni provocate dall’11-S. Secondo il rapporto pubblicato dal centro di studi argentino Nueva Mayoria, questa cifra si è innalzata nel 2008 a 51.100 milioni di dollari.

IL CILE GUIDA LA SPESA PRO CAPITE

Il Cile guida la spesa militare per abitante, che è salita a 290 dollari pro capite nel 2008, mentre la Colombia ne ha spesi 115, l’Ecuador 89 e il Brasile 80. I militari cileni si finanziano con una tassa del 10% sopra le vendite lorde dell’ente statale Corporacion del Cobre, stabilita dalla dittatura militare (1972-1990) denominata Ley Reservada del Cobre.

IL RACKET LATINOAMERICANO IN SPESE MILITARI

Il Brasile ha speso l’anno scorso 27.540 milioni di dollari in spese militari (55%), seguito dalla Colombia con 6.746 milioni (14%) e il Cile, con 5.395 milioni (6,5%). Il Venezuela, d’altro canto, è il quarto paese sudamericano nelle spese militari e il secondo in acquisizione, con 5.000 milioni di dollari spesi in acquisti nell’ultimo anno, costituiti da aerei da caccia Sukhoi, di origine russa, elicotteri, sistemi di difesa aerea e fucili di assalto.

* (la legge 13.196 per cui il 10% delle entrate dovute alla vendita di rame sono destinate all’acquisto di nuovi armamenti per le forze armate).

Titolo originale: ” Los planes militares de Estados Unidos en Latinoamérica “

Fonte: http://www.diagonalperiodico.net
Link
22.10.2009

Traduzione per http://www.comedonchisciotte.org a cura di MATHILDA

Giustizia: la prescrizione e l’imbroglio – Peter Gomez – Voglio Scendere

Fonte: Giustizia: la prescrizione e l’imbroglio – Peter Gomez – Voglio Scendere.

Scritto da Peter Gomez

Velocizzare i tempi della giustizia si può. E il bello è che lo si può fare anche a costo zero. Solo che nessuno, o quasi, né a destra, né a sinistra, vuole processi più rapidi: perché alla fine una giustizia che funziona finirebbe per essere efficace anche contro la devianza delle classi dirigenti. Nel caso però che, per un miracolo, il 70 per cento degli attuali parlamentari venisse sostituito da persone normali ecco la mia modesta proposta.

1) Ricordarsi che in Italia nel 1989 è stato introdotto il nuovo codice di procedura penale. Da allora sul modello di quanto accadeva nei sistemi anglosassoni, anche da noi la prova si forma in aula: il processo cioè è molto garantista, vengono ascoltati decine o centinaia di testimoni, tutte o quasi le indagini svolte dal pm sono ripetute. Questo è un bene per il cittadino imputato, che così riduce al massimo il rischio di essere condannato da innocente, ma ovviamente implica dei tempi di dibattimento molto lunghi. Il sistema insomma può funzionare solo se si fanno pochi processi. E infatti chi ha ideato il nostro codice prevedeva che se ne celebrassero pochissimi: come accade negli Usa dove l’85 per cento degli imputati, quando le prove sono forti, si dichiarano colpevoli e patteggiano la condanna ottenendo così degli sconti di pena. O in Inghilterra, dove addirittura solo il 10 per cento delle persone sotto inchiesta arriva al processo. In Italia invece la situazione è capovolta: in pochi patteggiano o accedono al rito abbreviato che garantisce uno sconto di un terzo sulla condanna.

2) Bisogna quindi incentivare i patteggiamenti. E l’unico modo per farlo è impedire che i processi si prescrivano quando ormai sono già arrivati davanti a un giudice. Infatti solo se ho la certezza che prima o poi verrà emessa contro di me una sentenza, troverò il patteggiamento vantaggioso. Perché è meglio essere condannato a pochi anni di pena oggi, piuttosto che scontarne molti  domani.

3) Abbreviare i tempi della prescrizione, come è accaduto nel 2005, con la legge ex Cirielli, non serve. E non serve nemmeno stabilire che il processo, come vogliono fare oggi per salvare Silvio Berlusconi, dopo un po’ va in fumo. Perché se io so che ho la possibilità di farla franca semplicemente aspettando che passi del tempo, non patteggerò mai . Andrò sempre in aula e cercherò di tirarla per le lunghe. E i dibattimenti diventeranno tantissimi. Ingolfando per sempre i tribunali.

4) Ricordarsi, però, che l’istituto della prescrizione ha un senso. Dopo un certo numero di anni lo Stato non ha più interesse a indagare su un reato commesso molto tempo prima. Perché è inutile lavorare per scoprire gli autori di un crimine che le stesse vittime non ricordano più.

5) Ricordarsi che invece non ha senso far prescrivere un reato quando ormai gli imputati sono stati individuati. In Italia ci sono processi che saltano in primo grado, in appello e addirittura in Cassazione. Tutto viene cancellato quando già polizia e magistrati hanno consumato molti soldi pubblici ed energie per indentificare i presunti colpevoli: un’assurdità. All’estero questo non accade. In Germania, per esempio, una volta che c’è stata la prima sentenza, la prescrizione è definitivamente interrotta. Negli Stati Uniti muore addirittura il giorno del rinvio a giudizio.

6) Smettere di far finta di adottare nuove soluzioni per velocizzare i processi. E introdurre un qualsiasi codice penale o di procedura penale di qualsiasi paese democratico. Magari prendendo quello Svizzero che, rispetto agli altri, ha un pregio. È già scritto in italiano.

ComeDonChisciotte – CI RIMANE SOLTANTO L’ARIA

ComeDonChisciotte – CI RIMANE SOLTANTO L’ARIA.

DI ANTONIO SCURATI
lastampa.it/

Cosa succede se la globalizzazione raggiunge il rubinetto di casa

Nessun uomo è tanto pazzo da vendere la terra su cui cammina. Così, stando alla leggenda, il grande capo indiano avrebbe risposto al negoziatore bianco che gli offriva la scelta tra la guerra di sterminio e l’acquisto delle terre ataviche della sua tribù. Che cosa direbbe oggi quel capo indiano di noi che, dopo aver fatto ovunque commercio della terra su cui camminiamo, ci apprestiamo a venderci anche l’acqua che beviamo?

Niente direbbe, il fiero guerriero, perché, al pari di ogni altro ostacolo locale, fu spazzato via dalla storia che, è bene non dimenticarlo, è stata sempre storia del processo unilaterale attraverso il quale l’Occidente, esplorando, conquistando e colonizzando, ha globalizzato la terra unificandola in un sistema mondo interamente governato dalla legge del capitalismo. Ora che quella grande impresa è compiuta, ora che la fase di espansione è terminata, ora che l’auto-narrazione in cui si racconta di come il pianeta Terra divenne una sfera interna alla logica del capitale è giunta alla fine, ora non rimane che lavorare sulle condizioni di vita all’interno della grande serra planetaria del capitalismo avanzato. Questa nuova frontiera interna che avanza senza soste ha un nome preciso: privatizzazione della vita.

Rientra in questo quadro epocale anche la notizia secondo la quale in Italia, remota provincia dell’impero, il governo sarebbe pronto ad appaltare a privati il servizio di erogazione dell’acqua, che smetterebbe così di fatto di essere un servizio pubblico, trasformando l’approvvigionamento idrico, cioè l’accesso a una fonte basilare della vita, in una qualsiasi merce. In linea concettuale, infatti, anche questo sarebbe un ampio passo verso la privatizzazione della vita: l’acqua smetterebbe di essere qualcosa cui tutti noi abbiamo diritto inalienabile per il semplice fatto di stare al mondo, una dotazione comune d’ingresso, come l’aria che respiriamo, e diverrebbe un bene voluttuario diversamente accessibile in base alla nostra individuale capacità di spesa. Ecco, dunque, un altro esempio della regola della deprivazione che sembra governare i destini degli uomini in questo nuovo scorcio di millennio: a ogni nuovo giro di giostra, man mano che il «pubblico» diventa «privato», ci viene sottratto ciò che è necessario per vivere o, almeno, ciò che fino a una generazione precedente era stato considerato un diritto naturale e inalienabile. La privatizzazione della vita agisce simultaneamente su due versanti, contigui e interconnessi come le due facce di un’unica moneta. Su un versante si procede a privatizzare la proprietà non più solo dei mezzi di produzione ma anche dei mezzi di sussistenza della vita della specie, sull’altro si mette in scena la riduzione della vita sociale a fatto privato.

Sul primo versante accade che, in un quadro globale di progressivo impoverimento delle risorse naturali, di cambiamenti climatici che rischiano di mettere fine al lussureggiare della vita planetaria e di fosche previsioni sull’aumento della popolazione mondiale, il controllo sui beni basali per l’esistenza, sulle condizioni di sopravvivenza, e finanche sulle matrici di riproduzione della vita biologica, viene via via affidato a soggetti d’impresa, cioè a privati mossi dalla logica del profitto e, spesso, da intenti speculativi. È il caso del controllo delle risorse idriche, delle biotecnologie in agricoltura, ma è anche il caso della privatizzazione della guerra subappaltata a contractors privati, della privatizzazione della ricerca medico-scientifica e, sopra ogni altro, è il caso della ricerca sul genoma umano condotto da privati. Il secondo versante, meno serio ma non meno preoccupante, è quello della trasformazione della politica in talk show, un osceno teatrino di faccende un tempo confinate nella vita privata che ha l’effetto di svilire, fino all’annichilimento, la nozione di «pubblico interesse». Il «pubblico», come ci ha insegnato Bauman, è così svuotato dei suoi contenuti, privato di un’agenda propria: è solo un agglomerato di guai, preoccupazioni e problemi privati. È l’eclissi della politica, un tempo intesa come possibilità di fare uso di mezzi collettivi per affrontare i problemi individuali. È anche la fine del sentimento di comunità. E, con esso, la fine del principio di un bene comune.

Da entrambi i lati dello schermo televisivo, la collettività scade ad aggregato di agenti individuali, le esistenze a questioni private. La lezione che si ricava da questa rappresentazione che rimodella la nostra capacità di pensare il mondo in comune è che ciascuno può solo lodare se stesso per i propri successi o, più probabilmente, incolpare se stesso per i propri fallimenti. Tutti gli individui assistono al grande talk show della vita privatizzata soli con i loro problemi e, quando lo spettacolo finisce, si ritrovano sprofondati nella loro solitudine, immersi nel buio di una stanza in subaffitto davanti a un televisore sintonizzato su di un canale morto.

Antonio Scurati
Fonte: http://www.lastampa.it/
Link: http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=6637&ID_sezione=&sezione=
19.11.2009

Da Wikipedia, l’enciclopedia libera

Antonio Scurati (Napoli, 1969) è uno scrittore italiano.
Docente e ricercatore all’Università di Bergamo, coordina il Centro studi sui linguaggi della guerra e della violenza. Sempre presso l’Università di Bergamo insegna Teorie e tecniche del linguaggio televisivo. Nel 2005 Scurati diviene Ricercatore in Cinema, Fotografia, Televisione. Nel 2008 si trasferisce alla Libera Università di Lingue e Comunicazione IULM di Milano, dove svolge l’attività di ricercatore e docente titolare nell’ambito del Laboratorio di Scrittura Creativa e del Laboratorio di Oralità e Retorica.
Ha pubblicato il saggio Guerra. Narrazioni e culture nella tradizione occidentale (2003, finalista al Premio Viareggio). Il suo romanzo Il Sopravvissuto (Bompiani, (2005) ha vinto la XLIII edizione del Premio Campiello.
Nel 2006 è stato pubblicato in una nuova versione il suo romanzo d’esordio, Il rumore sordo della battaglia.
Nel 2006, presso Bompiani, è uscito il saggio “La letteratura dell’inesperienza. Scrivere romanzi al tempo della televisione”: una riflessione su media, dadaismo, letteratura e umanesimo. Collabora con il settimanale Internazionale e con il quotidiano La Stampa.
Nel 2007 viene pubblicato Una storia romantica. Nello stesso anno realizza per Fandango il documentario La stagione dell’amore, un film che indaga sul tema dell’amore nell’Italia contemporanea riprendendo l’inchiesta realizzata nel 1965 da Pier Paolo Pasolini in Comizi d’amore. [1]
Nel 2009 ha pubblicato “Il bambino che sognava la fine del mondo”. Un romanzo che descrive impietosamente la fame di tragici eventi che hanno i mass-media e il mondo dell’informazione in generale.

Incriminare i familiari di Paolo Borsellino per la sottrazione dell’Agenda Rossa

Fonte: Incriminare i familiari di Paolo Borsellino per la sottrazione dell’Agenda Rossa.

Già quando il 1 aprile 2008 il GUP Paolo Scotto di Luzio aveva prosciolto il colonnello dei carabinieri dei ROS Giovanni Arcangioli dall’accusa del furto dell’Agenda Rossa di Paolo Borsellino avevo manifestato il mio sconcerto per il fatto che il processo si fosse chiuso in fase di udienza preliminare impedendo cosi ad un procedimento di tale importanza di arrivare alla fase dibattimentale nel corso della quale, con una analisi approfondita delle prove (addirittura fotografiche) e delle testimonianze (incerte e contraddittorie) avrebbe potuto essere accertata l’innocenza o la colpevolezza dell’imputato.
Avevo poi sperato, grazie al motivato e circostanziato ricorso presentato dalla Procura di Caltanissetta avverso a questa sentenza di assoluzione che la Corte di Cassazione annullasse questa abnorme sentenza di proscioglimento affermando che “il procedimento in oggetto è un classico caso in cui è necessario un vaglio dibattimentale” per “colmare i vuoti” e le contraddittorie testimonianze attraverso un “approfondimento dibattimentale“.
Era poi arrivato il 17 febbraio 2009 il macigno della dichiarazione di inammissibilità del ricorso da parte della Corte di Cassazione, evento con il quale, come dichiarai all’epoca, era stato posta una pietra tombale sulla ricerca della verità in questa vicenda, la sparizione dell’Agenda Rossa del Giudice che è a mio avviso uno dei motivi fondamentali dell’assassino del Giudice e delle modalità con cui è stata effettuata la strage: uccidere Paolo senza fare sparire anche la sua Agenda non sarebbe servito a nulla perché in quell’agenda sono sicuramente contenute le prove di crimini e di complicità che possono inchiodare alle loro terribili responsabilità una intera classe politica.
Le motivazioni della sentenza emessa dalla tristemente nota sesta sezione penale della Corte di Cassazione, oggi riprese da APCOM, vanno addirittura al di là di questo già di per sè osceno quadro di evidenze negate, di verità nascoste e di crimini occultati. Si arriva addirittura a negare che la borsa del Giudice contenesse l’Agenda Rossa asserendo che “gli unici accertamenti compiuti in epoca prossima ai fatti portavano addirittura ad escludere che la borsa presa in consegna dal Capitano Giovanni Arcangioli contenesse un’agenda”. Si prendono cioè per buone le dichiarazioni contraddittorie date in tempi diversi dall’imputato chiamando in causa testimoni che lo hanno smentito, come l’ex magistrato (al momento del fatto) Giuseppe Ayala o addirittura non presenti sul luogo della strage, come Vittorio Teresi, e non si da alcun valore alla testimonianza della moglie del Giudice, Agnese Borsellino, che vide Paolo riporre l’agenda nella borsa, dopo averla consultata nel pomeriggio di quel 19 luglio, prima di andare all’appuntamento con la sua morte annunciata.
A questo punto non resta che trarre le inevitabili conseguenze da questa sentenza della Corte di Cassazione, incriminare la moglie del Giudice per falsa testimonianza e processare tutti i familiari del Giudice, figli, moglie, fratelli e sorelle per la sottrazione e l’occultamento dell’Agenda. Dato che Paolo non se ne separava mai solo i suoi familiari possono averla sottratta e occultata. Contro la madre del Giudice non si potrà procedere per sopravvenuta morte dell’imputato.

Salvatore Borsellino


LINK

L’agenda rossa e la sentenza di Pilato“, Anna Petrozzi, Antimafiaduemila, 4 agosto 2009
Non finisce qui. La Procura si appella alla sentenza che scagiona Arcangioli e chiude la vicenda dell’agenda rossa di Paolo Borsellino“, Anna Petrozzi, Antimafiaduemila, luglio 2008

Cronologia inchiesta sulla sottrazione dell’ Agenda Rossa di Paolo Borsellino.doc

ComeDonChisciotte – BANCHE. SVIZZERA AL DI SOPRA DI OGNI SOSPETTO ?

Fonte: ComeDonChisciotte – BANCHE. SVIZZERA AL DI SOPRA DI OGNI SOSPETTO ?.

DI FABRIZIO FIORINI
mirorenzaglia.org

Se vedete un banchiere svizzero buttarsi dalla finestra, andategli dietro. E’ certo che c’è del denaro da guadagnare! Voltaire

Docente di sociologia presso le università di Ginevra e “Sorbona” di Parigi e deputato socialista al parlamento della Confederazione Elvetica, Jean Ziegler è l’autore di numerosi studi sulle dinamiche del capitalismo. La sua attività saggistica, che ha avuto inizio nel 1969, lo ha visto approfondire prevalentemente il ruolo ricoperto dal suo Paese natale, la Svizzera appunto, nella sottomissione imperialista dei popoli diseredati del pianeta. La Confederazione, infatti, pur se ammantata da una putativa “neutralità” si rivelerà essere, nell’analisi del sociologo ginevrino, un bastione e un protagonista attivo di quel capitalismo finanziario e militare che di “neutrale” ha ben poco, ed è anzi funzionale alle strategie egemoniche dell’Occidente che non potrebbero trarre linfa vitale che dalla struttura predonomico-bancaria che ha a Berna il suo centro di potere.

In uno dei suoi primi approfonditi lavori sulla questione, Una Svizzera al di sopra di ogni sospetto (Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1977, pp. 241) viene innanzitutto fatta chiarezza su come sia scientificamente fallace definire “imperialismo secondario” quello delle oligarchie elvetiche al confronto di quello primario che vede nella potenza – non solo finanziaria ma anche militare – nordamericana la sua centrale di azione. Per quanto, nelle dinamiche interne al capitalismo, i due sistemi possano talvolta trovarsi in apparente contrapposizione, l’Autore rileva come – nella ricerca del dominio monopolistico dei mercati e della massimizzazione dei profitti, nonché nell’ipersfruttamento dell’uomo e dei Paesi del terzo e quarto mondo – la loro strategia sia sempre la medesima e abbia appunto il proprio fondamento sulla complementarietà dell’azione imperialista centrale e periferica, militare e bancaria, finanziaria e industriale.

Altro punto di rilievo è la funzione ricettatrice che il sistema bancario svizzero svolge grazie alle storiche istituzioni del segreto bancario e dei conti di deposito numerati nelle banche – a capitale elvetico o straniero – che hanno sede nella Confederazione. Si tratta, in linea di massima, di un riciclaggio di denaro in scala quantitativamente massiccia e di portata planetaria. A nulla servono i provvedimenti di facciata sui limiti all’importazione di valuta, che vengono costantemente aggirati attraverso dei sotterfugi quali la sottofatturazione. Ciò provoca una spaventosa tesaurizzazione di denaro e beni mobiliari nei segreti caveaux degli istituti bancari,da cui parte il re-investimento (lavaggio) in affari loschi e spregiudicati in tutto il mondo.

Eclatante, ad esempio, il ruolo dell’imperialismo c.d. “secondario” svizzero nella repressione del governo socialista di S. Allende in Cile, nel 1973, quando attraverso il boicottaggio messo in atto dal sistema bancario e dall’industria alimentare e conserviera che già all’epoca copriva una gran parte del mercato cileno, riuscì a frenare le necessarie riforme economiche che il nuovo governo era in procinto di mettere in atto e ad agevolarne e prepararne quindi la caduta. Indicativo il fatto che, senza alcun pudore, nella Confederazione si decise per non procedere nel consueto – in caso di morte di un Capo di Stato estero – abbrunamento delle bandiere e di non dare asilo ai rifugiati cileni che avrebbero voluto chiedere asilo politico a Berna.

L’analisi dell’Autore si spinge oltre. Dice infatti Ziegler: «sarebbe difficile convincere un contadino vietnamita bombardato non molto tempo fa dall’aviazione americana, o un prigioniero cileno o boliviano torturato dagli esperti della CIA, de carattere pacifico, umanitario e filantropico della politica estera americana. Viceversa lo stesso non farà alcuna difficoltà a credere alla ‘neutralità svizzera’ ». Questa tanto sbandierata neutralità è infatti uno dei pilastri su cui poggia tutta la struttura dell’imperialismo elvetico. Tale lavaggio del cervello planetario ha reso la Confederazione, agli occhi del mondo, come una grande e compiuta democrazia basata sulla giustizia interna e internazionale; ciò è stato possibile grazie a tre linee di indirizzo sociopolitiche ben determinate: a) il massiccio addomesticamento della classe politica; b) il segreto, e non solo quello bancario. Anche gli investimenti privati e la produzione industriale sfuggono a ogni controllo e a ogni elaborazione statistica; c) la fabbrica del consenso, alimentata dal fatto che, grazie alle ingenti, spropositate ricchezze depredate in tutto il pianeta, l’oligarchia svizzera può garantire ai propri cittadini un tenore di vita elevato e ai lavoratori dei salari eccezionalmente alti se rapportati a quelli degli altri Paesi, anche europei.

L’opera di Jean Ziegler non tralascia neanche gli aspetti del commercio delle armi e della semi-istituzionalizzazione della locale confederazione dell’industria e del commercio, che assurge ad un ruolo giuridico nella determinazione della politica estera del Paese.

Va inoltre conferito all’Autore il merito di aver portato il discorso su di un piano di ampio respiro. E’ l’intero sistema capitalista ad essere criticato, e non solo quello svizzero. L’importanza di ciò risiede nel contrasto alle teorie, in voga da qualche anno e sposate anche da sinceri anticapitalisti, in base alle quali si mettono in atto sterili boicottaggi di una sola impresa multinazionale, magari più in vista di altre. Tale è il caso della elvetica “Nestlè”, da anni oggetto privilegiato delle attenzioni – talvolta sincere, ma ahimè spesso sconclusionate – di tanti singoli e di tante organizzazioni antagoniste e antiimperialiste. Boicottare la “Nestlè” e non concentrarsi su tutto il sistema di cui anche questa multinazionale fa parte è come contrastare una broncopolmonite con una tisana. Invece servono prima gli antibiotici: le tisane dopo, per evitare che il male torni.

Jean Ziegler è un socialista. Un socialista, sincero, autentico e profondo. Che riesce a percepire l’essenza più intima dell’imperialismo, cioè quella di essere imperialismo del vuoto. Che attacca e asservisce le Nazioni condizionandone la vita politica e distruggendo culture e ideologie, tradizioni e peculiarità, distruggendo l’uomo e sostituendolo con una funzionalità mercantile, distruggendo, insomma, la vita per sostituirla col niente.

Il volume di cui abbiamo prevalentemente trattato vide la luce nel 1976 e nel gennaio del 1977 era già alla terza edizione. Chi scrive aveva all’epoca un anno di età, ora è in attesa dei primi capelli bianchi e quella è ancora – in un Paese dove si da alle stampe tutto e il contrario di tutto, a camionate – l’ultima edizione esistente. Il libro è quindi – come altre opere dell’Autore – pressoché introvabile. Dovrete, se vorrete, cercarlo nei mercatini o nel mercato dell’usato o del vecchiume su internet. Ne sarà valsa la pena.

Fabrizio Fiorini
Fonte: http://www.mirorenzaglia.org
Link: http://www.mirorenzaglia.org/?p=10402
16.11.2009

BIBLIOGRAFIA DELL’AUTORE:

Sociologie et Contestation, essai sur la société mythique (1969)
Le pouvoir africain (1973)
Une Suisse au-dessus de tout soupcon (1976)
Main basse sur l’Afrique (1978)
Retournez les fusils ! Manuel de sociologie d’opposition (1980)
Vive Le Pouvoir! Ou Les Délices De La Raison D’État (1985)
La victoire des vaincus, oppression et résistance culturelle (1988)
Les Vivants Et La Mort ; Essai De Sociologie (1988)
La Svizzera lava più bianco (1990)
Charles Baudelaire (1996) con Claude Pichois
L’oro del Maniema (1996)
Le bonheur d’être suisse (1994)
La Svizzera: l’oro e i morti (1996)
Les Rebelles. Contre L’Ordre Du Monde (1997)
Partecipazione al volume: Il libro nero del capitalismo (1998)
I Signori del crimine (1998)
La fame nel mondo spiegata a mio figlio (2000)
La privatizzazione del mondo (2002)
L’impero della vergogna (2005)

Il processo al reo confesso che annegava sei volte al giorno

Il processo al reo confesso che annegava sei volte al giorno.

di Pino Cabras – Megachip.

Dall’inferno delle torture di Guantanamo a una corte civile di New York, con la proposta di giustiziarli. Questo si prepara ora per Khalid Sheikh Mohammed, il famoso KSM, e altri quattro presunti ideatori dell’11 settembre. Dovrebbe essere l’ora della memoria. Ma per gran parte dei media è l’ora dell’amnesia. Cosa sappiamo di questo KSM?

Cosa conosciamo di questa icona occulta passata per una quantità di torture tali da sconvolgere qualsiasi identità? Se non siete Vittorio Zucconi e non vi bevete la solita brodaglia di propaganda e omissioni che fa comodo al potere, ripiegate in un angolo quasi tutti i giornali e preparatevi a sentirne delle belle.

Tanto per cominciare, guardiamo agli esordi della militanza islamista di KSM. Questo scarmigliato jihadista arabo è un tipico prodotto di una lunga fase politica in cui i fanatici della sua risma venivano ampiamente strumentalizzati in operazioni di terrorismo di Stato. Khalid Sheikh Mohammed è stato a lungo nei Fratelli Musulmani (un’organizzazione infiltrata in profondità dai servizi segreti britannici e statunitensi) e in rapporti molto stretti con l’ISI pakistano, un altro servizio segreto da sempre ben addentro a tutti i segmenti delle attività terroristiche, e da sempre ricco di legami funzionali con le strategie USA. Lucio Caracciolo, direttore della rivista italiana di geopolitica «Limes», il 31 dicembre 2007 nel commentare a caldo su «l’Unità» l’attentato in cui morì Benazir Bhutto, fece una considerazione che potremmo estendere ad altri crimini firmati al-Qā‘ida: «c’è una compartecipazione tra servizi segreti e gruppi islamisti, dove la contiguità è talmente forte da rendere abbastanza difficile capire chi effettivamente poi ha dato l’ordine».

Il fratello di KSM, Zahid, ha lavorato per la Mercy International, un’importante organizzazione caritativa islamica capeggiata da uno dei signori della guerra in Afghanistan, Abdul Rasul Sayyaf, che il«Los Angeles Times» definisce il «destinatario preferito di denaro proveniente dai governi saudita e americano». Come tutta la grande manovalanza islamista di questi anni, anche per KSM una palestra fondamentale sono state le guerre jugoslave degli anni novanta. Durante le operazioni NATO in Bosnia KSM scorrazzava liberamente tra i tagliagole di quelle parti, mentre bin Laden otteneva perfino un passaporto diplomatico bosniaco.

C’è da chiedersi, vista la povertà delle informazioni e l’annosa segretezza che ha circondato la sua opaca detenzione, se l’individuo arrestato in Pakistan e accusato di essere un islamista del Kuwait sia la stessa persona che ora sarà portata a New York.

A quel Khalid Sheikh Mohammed che si trovava a piede libero nel 2002 venne attribuita la personale rivendicazione di un’attività propedeutica ai fatti dell’11/9. Frasi di uno sbruffone, legato a chissà quali mestatori, e ben poco precise.

L’individuo che nel 2003 ha riconosciuto di chiamarsi Khalid Sheikh Mohammed e che si è autoaccusato di una trentina di attentati e di progetti di attentati sparsi per il mondo, era reduce da 183 sedute di tortura con la tecnica del waterboarding (annegamento simulato) nel solo mese di marzo di quell’anno. Per figurarci la cosa: in media sei volte al giorno per un mese, ogni quattro ore, questo soggetto provava l’estrema esperienza di essere lì lì per annegare.

Come stupirsi che il misterioso KSM inghiottito dal gulag caraibico abbia confessato, dopo cotanto supplizio, di aver fatto «tutto quello di cui è accusata al-Qā‘ida, dalla A alla Z»? Ha perfino confessato di aver progettato un attentato a un grattacielo che in realtà non esiste, a Seattle. Nella lista delle sue pseudo-imprese c’è l’attentato al WTC di New York del 1993, la strage in una discoteca di Bali, la decapitazione del giornalista Daniel Pearl, e naturalmente gli attentati dell’11 settembre 2001. Il coordinamento logistico dell’operazione più grandiosa della storia del terrorismo avveniva a distanza – secondo questa versione – e si affidava sul campo a un gruppo di ragazzetti indisciplinati e malaccorti, islamisti disposti a sacrificare niente meno che la propria vita per un intransigente ideale jihadista, ma inspiegabilmente dediti al noleggio delle escort con ritmi debosciati da premier italiano. Con la differenza – rispetto al satiro di Villa Certosa – che i giornali tendono a non illuminare queste biografie, le quali renderebbero inverosimili le versioni che hanno fin qui accreditato.

Sinora non è stato possibile, per gli avvocati e i giudici militari, interrogare KSM in pubblico. Non si sa cosa possa dire fuori da una gabbia. Vedremo perché questa cosa arriva a preoccupare qualche importante personalità.

Nessun giornale in questi giorni ha voluto ricordare che recentemente Devlin Barrett, dell’Associated Press, ha raccontato come KSM «ha confessato di aver mentito profusamente agli agenti che lo torturavano per estorcergli la verità sulle sue attività eversive.» Cosa emerge? «”Mi invento delle storie”, ha detto Mohammed nel 2007, durante una delle udienze del tribunale militare a Guantánamo Bay. In un inglese stentato, ha descritto l’interrogatorio in cui gli è stata chiesta l’ubicazione del leader di al-Qa‘ida, Osama bin Laden.

“L’agente mi ha chiesto ‘Dov’è?’, ed io: ‘non lo so’», racconta Mohammed. “Poi ha ricominciato a torturarmi. Allora gli ho detto: ‘Sì, si trova in questa zona…’ oppure ‘Sì, quel tizio fa parte di al-Qa‘ida’, anche se non avevo idea di chi fosse. Se rispondevo negativamente, riprendevano con le torture.”»

Le trascrizioni di queste deposizioni sono state rese pubbliche per effetto di una causa civile, con la quale la American Civil Liberties Union ha cercato testi e informazioni sulle condizioni di detenzione riservate agli imputati per terrorismo. Queste deposizioni basterebbero da sole a obbligare il giornalismo serio a dire: “Alt, fermi tutti, vediamoci chiaro in questa faccenda”. Qualcuno ci ha provato, anche se con la paura di trarre tutte le conclusioni che ci sarebbe da trarre.

Un best seller del giornalista del «New York Times» Philip Shenon “OMISSIS – Tutto quello che non hanno voluto farci sapere sull’11 settembre”, fa notare come la situazione apparisse insostenibile finanche alla Commissione d’inchiesta sull’11/9. Persino uno dei co-presidenti della Commissione, Hamilton, ha denunciato che la Commissione era fuorviata da “informazioni non attendibili”, e che le si impediva l’accesso a documenti essenziali all’indagine, inclusi i verbali degl’interrogatori di Khalid Sheikh Mohammed (KSM). Scrive Hamilton: «Noi (…) non avemmo alcun modo di valutare la credibilità dell’informazione del detenuto. Come potevamo affermare se un tale di nome Khalid Sheikh Mohammed (…) ci stava dicendo la verità?». Una confessione estorta con la tortura non avrebbe alcuna validità dinnanzi a un vero tribunale militare americano, di quelli ancora legati allo stato di diritto, non certo paragonabili alle commissioni militari speciali nate con la Guerra al Terrorismo, vere aberrazioni giuridiche che Obama non riesce a sciogliere. Figuriamoci cosa può accadere in un tribunale civile.

La cosa preoccupa anche il leader dei parlamentari repubblicani alla Camera dei Rappresentanti, John Boehner: «La possibilità che Khalid Sheik Mohammed e i suoi co-ispiratori possano essere dichiarati ‘non colpevoli’ a causa di alcuni tecnicismi legali a soli pochi isolati da Ground Zero dovrebbe dar riflettere un momento ogni americano».

Boehner in sostanza rimprovera l’amministrazione Obama di voler giudicare KSM e soci con i mezzi ordinari dello stato di diritto anziché con il sistema speciale edificato da Bush e Cheney. Le conseguenze di un simile ragionamento sono pericolosissime: se un governo definisce un tizio colpevole, non serve processarlo. Le garanzie sono soltanto «tecnicismi legali» pericolosi.

Tra le tante questioni che Barack Obama non riesce ad affrontare se non con annunci proiettati in un futuro sempre meno definito, c’è tutta l’eredità dell’amministrazione precedente in materia di guerre, compressione dei diritti civili, terrorismo, alterazioni della costituzione materiale. Obama non riesce a scalfire nulla perché non è in grado di affrontare il tabù che fonda la forza d’inerzia che ancora trascina tutto questo enorme apparato: il tabù dell’11 settembre. Non è un caso che la sua amministrazione perda per strada alcuni elementi che hanno provato a stare fuori dal paradigma costituzionale modellato nell’era Bush-Cheney. Il super esperto di economia verde Van Jones ha dovuto lasciare l’incarico di consigliere del presidente perché non ha avuto le spalle abbastanza coperte per poter resistere agli attacchi di chi gli rimproverava di aver sottoscritto una petizione, nel 2004, nella quale si richiedeva al Congresso di investigare sulle eventuali responsabilità di alcuni alti funzionari dell’amministrazione Bush negli attacchi dell’11 settembre 2001.

E ora giunge l’annuncio delle dimissioni del consigliere legale della Casa bianca, Gregory Craig, che aveva la missione di abbattere gli ostacoli giuridici che si frappongono rispetto alla chiusura di Guantanamo e alla rinuncia alla tortura in materia di terrorismo. Mission impossible, evidentemente. Intorno a Craig si è fatta terra bruciata e il ripristino dello stato di diritto è ancora lontano.

Il «chiuderemo Guantanamo» pronunciato da Obama quando entrò in carica basta ancora a soddisfare i suoi entusiasti, sensibili alla sua straordinaria retorica. Ma non basta più a chi concretamente misura l’enorme, stupefacente, inedita distanza fra le parole e i fatti. Una divaricazione che per ora sembra essere fra le più sorprendenti mai viste nella storia recente. Un divario, va aggiunto, ogni giorno più inquietante.

La mafia dei numeri | Pietro Orsatti

Fonte: La mafia dei numeri | Pietro Orsatti.

Sicurezza Quasi 6 miliardi di euro sequestrati, poco meno di 2 quelli confiscati, 3.630 mafiosi arrestati. è un trionfo per l’affermazione della legalità. Così, almeno stando alle dichiarazioni del ministro dell’Interno Roberto Maroni

di Pietro Orsatti su Terra

«Mai nessun governo precedente aveva raggiunto risultati simili», ha dichiarato il ministro dell’Interno Roberto Maroni nei giorni successivi all’arresto di quello che ha definito «il numero due di Cosa nostra», Domenico Raccuglia. I beni sequestrati alla mafia sono stati 10.089, ha fatto sapere alla stampa, per un controvalore di 5,6 miliardi di euro (+56%), mentre quelli confiscati sono 2.673, pari a 1,7 miliardi (+364%). Quello che il ministro non ha dichiarato è la decisione di rivenderli all’asta e non di destinarli, come prevede la legge attuale, a uso sociale, consentendo così alla riappropriazione da parte dei clan, attraverso prestanome, di quei beni che sui territori di mafia spesso sono simbolo di potere effettivo ancor prima di quello economico.
Maroni ha omesso anche di ricordare che le spese per un anno di trasferte effettuate dagli uomini della Catturandi di Palermo in provincia di Trapani per effettuare l’arresto del latitante Raccuglia siano state coperte, anticipate con i proprio portafogli, direttamente dagli agenti e funzionari impegnati nelle indagini. Diretta conseguenza di quei tagli ai fondi decisi proprio da Maroni, che domani, però, sarà a Palermo per congratularsi con la squadra che ha condotto l’operazione Raccuglia. Il ministro ha anche divulgato altri dati secondo i quali nei primi 18 mesi del governo Berlusconi sono state compiute 377 operazioni di polizia giudiziaria contro la mafia (+53% rispetto ai 18 mesi precedenti), che hanno portato a 3.630 arresti (+22%). Dati a prima vista impressionanti, ma se vengono analizzati nel dettaglio ci si accorge che molti degli arresti effettuati si sono risolti in scarcerazioni (ad esempio l’operazione “Perseo” del dicembre 2008) e soprattutto che per arrivare a blitz come quelli descritti e rivendicati da Maroni non ha senso fare discorsi di “sotto questo o quel governo”, perché spesso le indagini durano più di 18 mesi per poter mettere le mani soprattutto sui mafiosi di “rango”.
A Palermo, intanto, si respira una strana aria dopo la cattura del “veterinario”, questo il soprannome di Raccuglia. Da un lato si fa un bilancio di 18 mesi di indagini, dall’altro si sta cercando di mettere le mani sui numerosi fiancheggiatori e complici dell’arrestato. Il latitante aveva intessuto un’alleanza, molto più forte di quella ipotizzata finora, con il “dittatore” del trapanese Matteo Messina Denaro. Nel territorio centrale del potere del boss, la zona compresa tra Partinico, San Giuseppe Jato, Borgetto, il vuoto di potere potrebbe far riesplodere una guerra di mafia per il controllo dei vari mandamenti. «Perché di fazioni avverse a Raccuglia e ai Vitale di Partinico, alleati dell’arrestato, in queste zone ce ne sono, sono organizzati e in grado di tentare una scalata – spiega Giuseppe Lumia della Commissione parlamentare antimafia, che da anni monitorizza con attenzione questo territorio “cerniera” -. Raccuglia era uomo fondamentale per gli equilibri di Cosa nostra. Ora senza il suo ruolo di “cuscinetto” fra Trapani e Palermo, Messina Denaro può entrare in città unificando il sodalizio criminale sotto la sua guida». Proprio nell’area di Partinico e Borgetto si rischia lo scontro con “gli americani”, ossia i clan sconfitti negli anni 80 da Riina e che da alcuni anni si sono riaffacciati sulla scena palermitana. Che ci sono e sono in fase di “rafforzamento”. E che smentiscono, con i fatti, l’enfasi di tante operazioni. Tra queste, «la grande operazione coordinata con l’Fbi statunitense», denominata “Old Bridge”, che doveva aver decapitato l’organizzazione degli Inzerillo, gli americani sconfitti che tornavano in Sicilia? Un’operazione sponsorizzata da Maroni in contrasto con la “Perseo” condotta dai carabinieri, quindi sponsorizzata e rivendicata dall’alleato/rivale Ignazio La Russa.

NB: sul numero di Terra in edicola oggi

è saltato questo brano conclusivo

Negli ambienti giudiziari non ci sono dubbi: «quella è stata un’operazione mediaticamente molto gonfiata». E la Perseo? «I media hanno fatto un gran lavoro».