Sarò antiquato, sarò diventato comunista senz’accorgermene. Ma non riesco proprio a capire perché mai delle aziende private dovrebbero lucrare su un bene pubblico come l’acqua. Eppure è quello che già succede in gran parte del mondo. E succederà presto in tutt’Italia dal 2011 se sarà definitivamente legge la cosiddetta “privatizzazione dell’acqua”. E’ ovvio che quello che viene privatizzato non è il liquido H2O, ma il servizio che lo porta nelle nostre case: la gestione della rete distributiva. Ora può essere, e in gran parte è, in mano pubblica, cioè dello Stato tramite gli enti locali e le loro aziende municipalizzate. Finchè sono pubbliche, non hanno come primo scopo il guadagno, ma il pareggio di bilancio e il funzionamento del servizio. Che dunque deve costare ai cittadini il minimo indispensabile per funzionare. La cosiddetta riforma prevede che la gestione dell’acqua potabile passi a società private (scelte in via ordinaria con gare d’appalto) o miste pubblico-private (anche senza gara): società comunque obbligate a fare utili, non esistendo imprenditori animati da spirito missionario.
Ora, è normale che un imprenditore voglia fare utili. Ma dipende su quale bene. Se uno guadagna usando gli acquedotti che abbiamo pagato con i nostri soldi, dovremmo ribellarci tutti quanti, di destra, di sinistra o agnostici che siamo. Come avremmo dovuto fare quando le autostrade, che tutti noi abbiamo finanziato con le nostre tasse, sono passate ai privati. Naturalmente i trombettieri della privatizzazione dell’acqua annunciano servizi migliori a costi più bassi grazie alla mitica “concorrenza”. Balle. Se l’azienda è pubblica e non deve accumulare utili, normalmente applica tariffe più basse. Se l’azienda è privata, oltre agli investimenti per la manutenzione della rete, deve pure guadagnarci, dunque le bollette saranno più salate: a meno che, per tenerle basse, non si risparmi sugli investimenti, fornendo un servizio peggiore agli utenti.
Secondo La Stampa, già oggi “il 41% degli italiani è servito da società private o miste e a livello nazionale, tra il 2002 e il 2008, i prezzi dell’acqua sono aumentati del 30%. Si prevede che saliranno del 26% entro il 2020”. Tant’è che, per calmierare il boom delle bollette, è già in cantiere una bella “Authority dell’acqua”: l’ennesimo carrozzone dei partiti sul tipo di quelli che dovrebbero vigilare contro le concentrazioni sul mercato delle imprese, sul pluralismo televisivo, sulla libertà d’informazione, sulla nostra privacy, con i risultati che vediamo. Il proliferare di società miste pubblico-private, poi, aumenterà anche nel settore idrico la commistione fra politica e affari che già oggi produce uno scandaloso tasso di corruzione (valutato dalla Banca Mondiale in 40 miliardi di euro sottratti ogni anno dalle tasche dei cittadini). Quindi da un lato la cosiddetta privatizzazione dell’acqua non ci libererà dalla presenza inquinante della politica nell’economia, e dall’altro non garantirà affatto un migliore servizio ai consumatori.
Perché allora questa gran voglia di privatizzare l’”oro blu”? Perché ci sono enormi multinazionali ansiose di metter le mani su un business che oggi vale 2,5 miliardi di euro e presto potrebbe raddoppiare o triplicare. Multinazionali molto presenti nell’editoria sia come azioniste di giornali sia come inserzioniste pubblicitarie della stampa e delle tv. Dunque molto influenti su chi “fa opinione”. Fra i loro azionisti spiccano alcuni fra i più noti costruttori, che dell’acqua se ne infischiano, ma non vedono l’ora di accaparrarsi gli appalti per i lavori sulle reti idriche e sugli acquedotti. In pieno conflitto d’interessi, l’ennesimo. Se ne sentiva davvero il bisogno.
Ascoltate con attenzione con attenzione l’intervista al colonnello Riccio su quando gli fu ordinato dai suoi superiori del ROS dei Carabinieri di non arrestare Bernardo Provenzano… Si accenna anche ai nuovi referenti politici di cosa nostra secondo il racconto del confidente Luigi Ilardo che poi venne ucciso misteriosamente poco prima che diventasse ufficialmente collaboratore di giustizia.
Ma allora, da che parte stavano i vertici del ROS? Da che parte stavano i politici? Dalla parte della legge o dalla parte della mafia? Ma poi cosa sarebbe la mafia senza i suoi agganci politici? Nulla, una banda di delinquenti che sarebbe stata sconfitta mille volte in questo secolo e mezzo di sua esistenza ufficiale…
Per sconfiggere la mafia bisogna prima bonificare il terreno politico che la alimenta e protegge…
I nuovi referenti politici secondo il racconto di Ilardo riferito dal colonnello Riccio erano sorpresa sorpresa Berlusconi e Dell’Utri.
Altro che cazzate, come ci raccontava qualche giorno fa Marcello Dell’Utri! Altro che presidente del consiglio che passerà alla storia per aver sconfitto la mafia! E’ cominciata la guerra civile, o meglio, penale. Per lui! il privato corruttore ed evasore fiscale Silvio Berlusconi. E’ cominciato un momento storico per l’Italia. Ora non so cosa succederà. O meglio, spero di sbagliare profezia. Se mi dicessero che Berlusconi si è già dato alla fuga col suo jet per qualche atollo sconosciuto non mi meraviglierei. Se mi dicessero che ha già allertato i servizi segreti deviati per far fuori determinati giornalisti e determinate voci libere (blogger compresi), piuttosto che oppositori politici o parenti di altri mafiosi, non mi meraviglierei altrettanto. Le minacce di morte al presidente del Senato Renato Schifani e sembra anche a Marcello Dell’Utri, non mi meraviglierei se si rivelassero deviate per creare confusione (un po’ alla Francesco Guzzardi). La crisi ha colpito anche i vertici della mafia. Si sono decisi a parlare in coro. Tengono tonalità e ritmo. Per il privato corruttore il ballo si fa difficile. Insostenibile.
Qui in rete è da tempo che discutiamo con allegra libertà ciò che aspettavamo in grande evidenza sui giornali. Ci siamo permessi il capriccio e in parte il lusso, di cantare da solisti e di anticipare ciò che oggi, alcuni di quei giornali scrivono. Benché pilotati quei giornali hanno ancora il loro effetto sulle masse. Come il quotidiano Repubblica, il più incisivo, oggi, nel costringere il governo a dimettersi o il presidente della Repubblica a prevedere di sciogliere presto le camere, e le forze dell’ordine di vigilare su Berlusconi affinché non scappi. Attendiamoci da un momento all’altro che il privato corruttore col riporto venga convocato in aula per rispondere di tutte quelle accuse coincidenti, di bel po’ di pentiti, che anziché darsi degli infami sono tutti concordi e tutti in reciproco rispetto. In doppia stereofonia dalle aule dei tribunali di Milano, Firenze, Palermo e Caltanissetta per le stragi di Firenze, Milano e di Roma del 1993. Quindi anche delle stragi dei giudici FALCONE e BORSELLINO.
Repubblica oggi in prima pagina titola “Cosa nostra e la resa dei conti del Cavaliere“. Inizia un lungo articolo che va a riempire le pagine 2 e 3, col resoconto degli interrogatori dei pentiti che inchiodano il presidente del consiglio piduista, assieme a Marcello Dell’Utri.
Sono proprio curioso di vedere cosa accade. Vorrei essere una mosca per vedere le facce di quei milioni di italiani che oggi, nonostante i filtri minchiolini, dovranno pur sapere qualcosa dai telegiornali. Mi piacerebbe vedere le facce di Emilio Fede, Littorio Feltri e Maurizio Belpietro. Oltre che di Claudio Brachino.
Riporto, di nuovo, in estrema sintesi, i punti focali che segnano la fine dell’incredibile personaggio camuffato da capo del governo di cui, forse, l’Italia potrà liberarsi molto presto. Ripeto: forse prima di quel famigerato 5 dicembre del nobday.
Ecco alcuni stralci di articolo pubblicati oggi (dai contenuti non nuovi per chi legge questo blog) assolutamente cruciali.
Gaspare Spatuzza indica nel presidente del consiglio e nel suo braccio destro (Marcello Dell’Utri) i suggeritori della campagna stragista di sedici anni fa.
…la famiglia di Brancaccio (fratelli Giuseppe e Filippo Graviano ndr) ha deciso di aggredire in pubblico e servendosi di un processo chi “non ha mantenuto gli impegni”. Ci sono anche i messaggi di morte. Al presidente del Senato, Renato Schifani, siciliano di Palermo (…) le “voci di dentro” di Cosa Nostra, avvertimenti che sarebbero piovuti su Marcello Dell’Utri…
Sono sintomi che devono essere considerati oggi un corollario della resa dei conti tra Cosa Nostra e il capo del governo… tra Cosa Nostra e gli uomini (Berlusconi, Dell´Utri) che, a diritto o a torto, è tutto da dimostrare, i mafiosi hanno considerato, dal 1992/1993 e per quindici anni, gli interlocutori di un progetto che, dopo le stragi, avrebbe rimesso le cose a posto: i piccioli, il denaro, al sicuro; i «carcerati» o fuori o dentro, ma in condizioni di tenere il filo del loro business; mediocri e distratte politiche della sicurezza; lavoro giudiziario indebolito per legge…(come dal Piano di rinascita piduista ndr).
La campana suona per Silvio Berlusconi perché, nelle tortuosità che sempre accompagnano le cose di mafia, è evidente che il 4 dicembre, quando Gaspare Spatuzza, mafioso di Brancaccio, testimonierà nel processo di appello contro Marcello Dell’Utri, avrà inizio la resa dei conti della famiglia dei fratelli Graviano contro il capo del governo…
È un fatto sorprendente che i mafiosi abbiano deciso di parlare con i pubblici ministeri di quattro procure. Vogliono contribuire “alla verità”. Lo dice anche Giuseppe Graviano, “muto” da quindici anni. Quattro uomini della famiglia offrono una collaborazione piena. Sono Gaspare Spatuzza, Pietro Romeo, Giuseppe Ciaramitaro, Salvatore Grigoli.
Racconta Gaspare Spatuzza: “Giuseppe Graviano mi ha detto che tutto si è chiuso bene, abbiamo ottenuto quello che cercavamo; le persone che hanno portato avanti la cosa non sono come quei quattro crasti dei socialisti che prima ci hanno chiesto i voti e poi ci hanno venduti. Si tratta di persone affidabili. A quel punto mi fa il nome di Berlusconi e mi conferma, a mia domanda, che si tratta di quello di Canale 5; poi mi dice che c´è anche un paesano nostro e mi fa il nome di Dell’Utri (…) Giuseppe Graviano mi dice [ancora] che comunque bisogna fare l’attentato all’Olimpico perché serve a dare il “colpo di grazia” e afferma: ormai “abbiamo il Paese nelle mani”».
Pietro Romeo, interrogatorio del 30 settembre 2009: «… In quel momento stavamo parlando di armi e di altri argomenti seri. [Fu chiesto a Spatuzza] se il politico dietro le stragi fosse Andreotti o Berlusconi. Spatuzza rispose: Berlusconi. La motivazione stragista di Cosa Nostra era quella di far togliere il 41 bis. Non ho mai saputo quali motivazioni ci fossero nella parte politica. Noi eravamo [soltanto degli] esecutori». Salvatore Grigoli, interrogatorio 5 novembre 2009: «Dalle informazioni datemi (…), le stragi erano fatte per costringere lo Stato a scendere a patti (…) Dell’Utri è il nome da me conosciuto (?), quale contatto politico dei Graviano (…) Quello di Dell’Utri, per me, in quel momento era un nome conosciuto ma neppure particolarmente importante. Quel che è certo è [che me ne parlarono] come [del nostro] contatto politico».
E’ una scena che trova conferme anche in parole già dette, nel tempo. I ricordi di Giuseppe Ciaramitaro li si può scovare in un verbale d´interrogatorio del 23 luglio 1996: “Mi [fu] detto che bisognava portare questo attacco allo Stato e che c’era un politico che indicava gli obiettivi, quando questo politico avrebbe vinto le elezioni, si sarebbe quindi interessato a far abolire il 41 bis (?). Si rispettano, sorprendentemente. Non era mai capitato. Senza considerarsi infami.
…ma la dirompente novità è nei cauti passi dei due boss di Brancaccio, i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, i più vicini a Salvatore Riina. Hanno guidato con mano ferma la loro “batteria” fino a progettare la strage, per fortuna evitata per un inghippo nell´innesco dell’esplosivo, di un centinaio di carabinieri all’Olimpico il 23 gennaio del 1994. Sono in galera da quindici anni. Hanno studiato (economia, matematica) in carcere. Dal carcere si sono curati dell’educazione dei loro figli affidati ai migliori collegi di Roma e di Palermo e ora sembrano stufi, stanchi di attendere quel che per troppo tempo hanno atteso. Spatuzza racconta che, alla fine del 2004, Filippo Graviano, 48 anni, sbottò: “Bisogna far sapere a mio fratello Giuseppe che se non arriva niente da dove deve arrivare, è bene che anche noi cominciamo a parlare con i magistrati”.
C´è un accordo. Chi lo ha sottoscritto, non ha rispettato l´impegno. Per cavarsi dall´angolo, c´è un solo modo: dissociarsi, collaborare con la giustizia, svelare le responsabilità di chi, estraneo all´organizzazione, si è tirato indietro.
Interrogatorio del 28 luglio 2009: Filippo Graviano durante il confronto con Gaspare Spatuzza gli dice: “Io non ho mai parlato con ostilità nei tuoi riguardi. I discorsi che facevamo erano per migliorare noi stessi. Già noi avevamo allora un atteggiamento diverso, già volevamo agire nella legalità. Noi parlavamo di un nostro futuro in un’altra parte d´Italia». Filippo Graviano ai pm: «Mi dispiace contraddire Spatuzza, ma devo dire che non mi aspetto niente adesso e nemmeno nel passato, nel 2004. Mi sembra molto remoto che possa avere detto una frase simile perché, come ho detto, non mi aspetto niente da nessuno. Avrei cercato un magistrato in tutti questi anni, se qualcuno non avesse onorato un presunto impegno».
Filippo Graviano usa senza timore parole vietate come “legalità”, “cercare magistrati”. Si spinge anche a pronunciare: «dissociazione». Dice: «Da parte mia è una dissociazione verso le scelte del passato (?). Oggi sono una persona diversa. Faccio un esempio. Nel mio passato, al primo posto, c´era il denaro. Oggi c´è la cultura, la conoscenza. (?) Io non rifarei le scelte che ho fatto».
Ecco perché ha paura Berlusconi. Quegli uomini della mafia non conoscono soltanto “la verità” delle stragi (che sarà molto arduo rappresentare in un racconto processuale ben motivato), ma soprattutto le origini oscure della sua avventura imprenditoriale, già emerse e documentate dal processo di primo grado contro Marcello Dell´Utri (condannato a 9 anni per concorso esterno in associazione mafiosa). Di denaro, di piccioli minacciano allora di parlare i Graviano e gli uomini della famiglia di Brancaccio. Dice Spatuzza: “I Graviano sono ricchissimi e il loro patrimonio non è stato intaccato di un centesimo. Hanno investito al Nord e in Sardegna e solo così mi spiego perché durante la latitanza sono stati a Milano e non a Brancaccio. È anomalo, anomalissimo”. Se a Milano ? dice il testimone ? Filippo e Giuseppe si sentivano più protetti che nella loro borgata di Palermo vuol dire che chi li proteggeva a Milano era più potente e affidabile della famiglia.
Il privato corruttore ha detto che chi non sta col Popolo delle laidità è fuori dal governo. Attendiamo con ansia il presidente della Camera Gianfranco Fini al varco. Oggi, o al massimo domani. Salvo cazzate.
Sono amareggiato, rattristato, e come se non bastasse NAUSEATO nel vedere un Nicola Cosentino sorridente in sala Stampa per la negazione all’arresto da parte della giunta per le autorizzazioni a procedere di Montecitorio.
In questi giorni tutti contro i cosiddetti pentiti, tutti contro i collaboratori di giustizia, dimenticando ciò che si è riuscito a fare ai tempi della lotta al terrorismo (Giancarlo Caselli e Ferdinando Imposimato) passando alla lotta contro la mafia per via del famoso maxiprocesso diretto da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino grazie alla loro collaborazione (dei pentiti).
Tutti dimenticano come lo stesso Falcone già allora era attaccato per la gestione dei pentiti, qualcuno ebbe il coraggio di affermare che utilizzava i pentiti di una parte mafiosa per sconfiggerne l’altra parte nemica. Altri tempi ma stessi metodi con la differenza che oggi siamo assuefatti da tutto e per tutto con la conseguenza di non renderci più conto dello schifo a cui oggi stiamo assistendo.
Oggi ad esempio, non riuscirei mai ad immaginare una folla di persone tirare monetine in faccia a Craxi come capitò negli anni di tangentopoli, certo, io lo spero ma ahimè il sistema ha tirato su un ottimo stile di vita (o quasi) per tutti che solo al pensiero di privarsene fa sì che ognuno pensi solo a se stesso e non più alla collettività, rinunciando a quel minimo spazio di libertà, legalità e moralità al quale ognuno di noi dovrebbe avere di diritto.
Dobbiamo capire che la verità fa male, ma se riscontrata e giudicata attendibile va allo stesso tempo accettata, chi vuole capire capisca, non si può pensare sempre e solo che tutti i magistrati sono comunisti o politicizzati, posso capire 1, 10, 30, ma non tutti perchè nasce spontaneo pensare come l’anomalia non sia più la magistratura.
Ieri sera sono andato a scovare nella mia libreria e ho ritrovato uno spaccato molto interessante presente sul libro “Cose di cosa nostra” di Giovanni Falcone e Marcelle Padovani, ne giudico fondamentale la lettura per capire al meglio l’argomento in questione.
Nel dramma dei pentiti
di Giovanni Falcone
I motivi che spingono i pentiti a parlare talora sono simili tra loro, ma più spesso diversi. Buscetta durante il nostro primo incontro ufficiale dichiara: “Non sono un infame. Non sono un pentito. Sono stato mafioso e mi sono macchiato di delitti per i quali sono pronto a pagare il mio debito con la giustizia “. Mannoia: “Sono un pentito nel senso più semplice della parola, dato che mi sono reso conto del grave errore che ho commesso scegliendo la strada del crimine”. Contorno: “Mi sono deciso a collaborare perché Cosa Nostra è una banda di vigliacchi e assassini”.
Mannoia è quello che più ha risvegliato la mia curiosità. Avevo avuto a che fare con lui nel 1980, in seguito a una indagine bancaria che indicava come sia lui sia la sua famiglia tenessero grosse somme di denaro su diversi libretti di risparmio. Mannoia al termine del processo fu condannato a cinque anni di carcere, il massimo della pena previsto allora per associazione a delinquere. Non ero riuscito a farlo condannare per traffico di droga. Durante gli interrogatori mi era sembrato un personaggio complesso e inquietante. Non antipatico, dignitoso e anche coerente. Nel 1983 evase di prigione e fu arrestato di nuovo nel 1985.
Nel frattempo Buscetta mi aveva parlato di un certo Mozzarella – era il soprannome di Mannoia -, “killer di fiducia di Stefano Bontate”. Nel 1989 al Mannoia uccidono il fratello, Agostino, che adorava. Capisce che il suo spazio vitale nell’ambito di Cosa Nostra si sta restringendo. Perché o hanno ucciso suo fratello a torto – e deve chiederne conto e ragione -, oppure lo hanno ucciso a ragion veduta; in entrambi i casi significa che anch’egli sarà presto eliminato. Fa una lucida analisi della situazione e decide di collaborare.
Le cose sono andate così. Nel settembre 1989 il vicequestore Gianni De Gennaro mi chiama per avere informazioni sull’attuale situazione giudiziaria di Francesco Marino Mannoia. Una donna, che si era qualificata come la sua compagna, era andata a trovarlo per dirgli che Mannoia era pronto a collaborare, ma che voleva avere a che fare solo con due persone: con lui e con Falcone dato che, diceva la donna, “non si fida di nessun altro”.
Con l’aiuto del Dipartimento penitenziario del ministero di Grazia e Giustizia, Mannoia viene trasferito in una speciale struttura carceraria, allestita a Roma appositamente per lui. Ufficialmente è detenuto a Regina Coeli, dove peraltro viene condotto per i suoi incontri. Per tre mesi abbiamo parlato in tutta tranquillità. Poi, diffusasi la notizia della sua collaborazione, Cosa Nostra gli uccide in un colpo solo la madre, la sorella e la zia. Il pentito reagisce da uomo e porta a termine le sue confessioni.
Mannoia è un superstite; “soldato” di Stefano Bontate, quindi membro di una famiglia ritenuta perdente a seguito della guerra di mafia, era riuscito a rimanere neutrale e aveva continuato, fra il 1977 e il 1985, a raffinare eroina – era il miglior chimico dell’organizzazione – per tutte le famiglie che gli facevano ordinazioni. Anche in carcere aveva continuato a mantenere buoni rapporti con tutti i detenuti. Applicava al meglio un antico proverbio siciliano: “Calati, juncu, ca passa la china – Abbassati, giunco, che passa la piena”. Aspettava in silenzio di prendersi la rivincita sui “Corleonesi”. Da qui la sua straordinaria confessione, una delle più dense mai rilasciate, e una massa di informazioni che siamo ben lontani dall’avere completamente sfruttato.
Sono stato pesantemente attaccato sul tema dei pentiti. Mi hanno accusato di avere con loro rapporti “intimistici”, del tipo “conversazione accanto al caminetto”. Si sono chiesti come avevo fatto a convincere tanta gente a collaborare e hanno insinuato che avevo fatto loro delle promesse mentre ne estorcevo le confessioni. Hanno insinuato che nascondevo “nei cassetti” la “parte politica” delle dichiarazioni di Buscetta. Si è giunti a insinuare perfino che collaboravo con una parte della mafia per eliminare l’altra. L’apice si è toccato con le lettere del “corvo”, in cui si sosteneva che con l’aiuto e la complicità di De Gennaro, del capo della polizia e di alcuni colleghi, avevo fatto tornare in Sicilia il pentito Contorno affidandogli la missione di sterminare i “Corleonesi”!
Insomma, se qualche risultato avevo raggiunto nella lotta contro la mafia era perché, secondo quelle lettere, avevo calpestato il codice e commesso gravi delitti. Però gli atti dei miei processi sono sotto gli occhi di tutti e sfido chiunque a scovare anomalie di sorta. Centinaia di esperti avvocati ci hanno provato, ma invano.
La domanda da porsi dovrebbe essere un’altra: perché questi uomini d’onore hanno mostrato di fidarsi di me? Credo perché sanno quale rispetto io abbia per i loro tormenti, perché sono sicuri che non li inganno, che non interpreto la mia parte di magistrato in modo burocratico, e che non provo timore reverenziale nei confronti di nessuno. E soprattutto perché sanno che, quando parlano con me, hanno di fronte un interlocutore che ha respirato la stessa aria di cui loro si nutrono.
Sono nato nello stesso quartiere di molti di loro. Conosco a fondo l’anima siciliana. Da una inflessione di voce, da una strizzatina d’occhi capisco molto di più che da lunghi discorsi.
tratto da “Cose di cosa nostra” di Giovanni Falcone e Marcelle Padovani
Adrian Gibbs, il virologo che nello scorso Maggio aveva detto che il virus dell’influenza suina poteva essere sfuggito al controllo di un laboratorio, ha pubblicato oggi le sue scoperte, riaprendo la discussione sulle origini del virus pandemico.
Il nuovo ceppo dell’H1N1 , che è stato scoperto in Messico e negli Stati Uniti in Aprile, potrebbe essere il prodotto di ceppi provenienti da tre continenti che sarebbero stati geneticamente modificati in laboratorio o in un impianto di produzione dei vaccini, così hanno scritto Gibbs e altri scienziati australiani suoi collaboratori sul Virology Journal. Gli autori hanno analizzato la composizione genetica dei virus e hanno trovato che le sue origini potrebbero essere spiegate molto più semplicemente da un coinvolgimento umano che da una coincidenza naturale.
Il loro studio, pubblicato su un giornale gratuito online, è stato revisionato da altri scienziati e segue il dibattito tra ricercatori apertosi sei mesi fa, quando Gibbs stesso chiese all’Organizzazione Mondiale della Sanità di considerare queste ipotesi. Dopo aver esaminato il primo articolo di Gibbs di tre pagine, l’OMS e altre organizzazioni avevano concluso che il ceppo pandemico era un virus di origini naturali e non un prodotto di laboratorio.
“È importante che venga identificata l’origine del nuovo virus se vogliamo impedire future pandemie piuttosto che limitarci a minimizzare le conseguenze una volta che sono apparse”, dicono Gibbs e i colleghi John Armstrong e Jean Downie nel loro lavoro odierno di otto pagine.
Sebbene l’esatta origine del nuovo ceppo dell’H1N1 sia ancora un mistero, la loro ricerca ha “sollevato molte nuove domande”, dicono. Gli autori hanno confrontato le mappe genetiche dei ceppi di virus dell’influenza contenuti nell’archivio pubblico Genbank e hanno scoperto che i progenitori più vicini al virus pandemico sono diffusi tra i suini.
‘La spiegazione più semplice’
Mentre gli uccelli migratori possono aver agito come canale per la confluenza dei virus, il coinvolgimento umano nel farli combinare insieme è “al momento la spiegazione più semplice”, ha detto oggi Gibbs in un’intervista telefonica.
Gibbs ha scritto o collaborato alla stesura di più di 250 pubblicazioni scientifiche sui virus, principalmente riguardanti il mondo vegetale, durante i suoi 39 anni di carriera all’Università Nazionale Australiana, secondo quanto scritto nelle informazioni biografiche sul sito web dell’Università.
“Conoscendo Adrian Gibbs, deve averci riflettuto in modo piuttosto razionale e deve essere arrivato a quella conclusione”, ha detto in un’intervista telefonica Lance Jennings, un virologo clinico dei Laboratori Sanitari di Canterbury a Christchurch, in Nuova Zelanda. “Ora è compito di qualcun altro provare a confermarlo o confutarlo”.
Un’indagine della procura di Roma su Unicredit e la Banca del Vaticano. Un conto da 60 milioni di euro all’anno i cui titolari sono “protetti”. Si muove anche Bankitalia. Che ipotizza un reato gravissimo per la Chiesa.
Un conto da milioni di euro i cui veri titolari sono per ora sconosciuti e “protetti” da uno”schermo opaco“, come lo hanno definito gli investigatori, costituito dallo Ior, l’Istituto di opere religiose.Ora la procura di Roma vuol conoscere chi si cela sotto l’acronimo della Banca del Vaticano che dal 2003, questa la scoperta, ha aperto un conto corrente presso una filiale Unicredit della Capitale.
UN CONTO DA 60 MILIONI – La banca in questione è una succursale di Via della Conciliazione al confine con le Mura Leonine e il conto è stato aperto quando…
quella filiale era ancora sotto il marchio della Banca di Roma, istituto tradizionalmente vicino agli interessi del Vaticano (e guidato dal piissimo Cesare Geronzi), prima che arrivasse la fusione con Unicredit.
Dietro quel conto potrebbe esserci chiunque, osservano in procura. Su quella provvista, una sorta di bacino finanziario che assicurerebbe flussi di denaro da e per i correntisti protetti dalla discrezione che caratterizza la finanza Oltretevere, transitano dal 2003 circa 60 milioni di euro all’anno.
Per ora la procura ha aperto un fascicolo con l’ipotesi di reato che riguarda la violazione della legge 231 del 2007 che disciplina, per gli istituti di credito, una serie di norme antiriciclaggio, tra cui la trasparenza della titolarità, sul deposito di conti correnti. L’indagine è appena agli inizi e coinvolge i rapporti tra l’Istituto Opere di religione e Unicredit. L’istituto guidato da AlessandroProfumo si sarebbe quindi fatto da tramite, ereditando il ruolo di Capitalia.
INCHIESTA RISERVATA – Si tratta di una inchiesta, coperta dal massimo riserbo, che riguarda secondo quanto si è appreso uno o più conti correnti, nella titolarità dello Ior, aperti in una filiale Unicredit di Roma. Depositi su cui sarebbero transitati almeno negli ultimi tre anni somme di circa 60 milioni di euro all’anno.
La segnalazione della «non trasparenza» della titolarità dei conti correnti è stata fatta dall’Unità di informazione finanziaria, la struttura di «Financial intelligence» italiana della Banca d’Italia al Nucleo speciale di Polizia valutaria della Guardia di finanza che indaga su delega del procuratore aggiunto della Capitale Nello Rossi e del pm Stefano Rocco Fava. L’indagine della procura di Roma, per il momento senza indagati, mira a svelare la effettiva titolarità del conto aperto sulla filiale Unicredit di Roma e intestato all’Istituto opere di religione.
CHI C’E’ DIETRO? – Il sospetto di chi indaga è che dietro la sigla Ior, che costituisce secondo gli investigatori «uno schermo opaco», si possano celare persone fisiche o società che tramite il conto presso la ex Banca di Roma – il periodo preso in esame risale appunto a quando la filiale che si trova in via della Conciliazione era ancora della Banca di Roma – abbiano costituito un canale per il flusso di risorse tra la banca del Vaticano e l’Italia.
Secondo quanto si è appreso, per l’indagine non sarà necessario attivare richiesta di rogatoria con lo Stato Vaticano per indagare sulla titolarità dei conti correnti.
Lo Ior, secondo le indagini, ha emesso assegni e bonifici intestati sempre all‘Istituto di opere di religione. Anche su questo aspetto sono in corso indagini del nucleo speciale di polizia valutaria della guardia di finanza per risalire ai beneficiari dei titoli bancari e anche a chi ha emesso sia bonifici, sia assegni.
Servizio sulla conferenza “I rapporti tra mafia e stato” che si è tenuta all’UCL University di Londra il 14 novembre 2009 e alla quale hanno partecipato Salvatore Borsellino, Gioacchino Genchi e John Dickie. Il servizio è a cura di Paola Bonfanti e Daniele Fisichella, la camera ed il montaggio a cura di Marco Granese.