Archivi del giorno: 27 febbraio 2010

Per 42 deputati i delinquenti possono fare campagna elettorale – Cronaca | l’AnteFatto | Il Cannocchiale blog

Per 42 deputati i delinquenti possono fare campagna elettorale – Cronaca | l’AnteFatto | Il Cannocchiale blog.

In 7 votano contro e in 35 si astengono sulla legge di Angela Napoli: sono tutti di centrodestra

La proposta è chiara: i sorvegliati speciali non possono fare campagna elettorale. Per questo Angela Napoli, la deputata Pdl relatrice del provvedimento, mercoledì in Aula era convinta che non ci sarebbero stati ostacoli all’approvazione all’unanimità.

Invece in 42 non l’hanno votato. Quel testo l’ha riscritto tre volte e ai suoi colleghi lo ha spiegato nei minimi dettagli: vogliamo impedire alle persone abitualmente dedite a traffici delittuosi, ritenute pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità, o sospettate di appartenere ad associazioni di tipo mafioso di andare in giro a dispensare consigli su chi votare.

Spiega la Napoli in Aula: “Si mira a fare in modo che il delinquente non possa procedere alla raccolta dei voti, perdendo così il suo potere contrattuale nei confronti del politico”. La proposta di legge punisce sia il sorvegliato speciale che non rispetta il divieto, sia il candidato che “inequivocabilmente sia a conoscenza” della situazione giuridica del pregiudicato e gli chieda comunque di dargli una mano in campagna elettorale. Perché “ciò che si deve punire è il sistema”. La deputata del Pd Marilena Samperi non ha obiezioni: “È una legge semplice, chiara e direi quasi ovvia”.

Anche Mario Tassone, Udc, non ha nulla da eccepire: una proposta simile l’ha presentata lui stesso 16 anni fa. Figuriamoci se non è d’accordo l’Idv. “Finalmente si comincia a fare sul serio” esulta Federico Palomba, che chiede di estendere la norma anche a chi è stato definitivamente condannato “per un delitto non colposo”. Sono le 14. Un’ora di pausa, ci si rivede per il voto. Nessuno sospetta che almeno in 40, al momento di schiacciare il pulsante del voto, si tireranno fuori da quel consesso di fanatici della lotta alla criminalità.

Il primo è Giorgio Stracquadanio. Lo seguono altri 34: Ignazio Abrignani, Deborah Bergamini, Mariella Bocciardo, Annagrazia Calabria, Carla Castellani, Giuseppina Castiello, Giuliano Cazzola, Giovanni Dell’Elce, Giuseppe Fallica, Nicola Formichella, Benedetto Fucci, Fabio Garagnani, Sestino Giacomoni, Gabriella Giammanco, Rocco Girlanda, Mario Landolfi, Giulio Marini, Riccardo Mazzoni, Giustina Mistrello Destro, Chiara Moroni, Giovanni Mottola, Osvaldo Napoli, Massimo Nicolucci, Carlo Nola, Massimo Parisi, Gaetano Pecorella, Mario Pepe, Paolo Russo, Elvira Savino, Giacomo Terranova, Piero Testoni, Cosimo Ventucci e Raffaello Vignali. Tutti Pdl, a cui va aggiunto il leghista, Alberto Torazzi.

Altri 7, sempre Pdl, votano contro [ndr: sono lucio barani, luca barbareschi, sabrina de camillis, giancarlo lehner, gianni mancuso, sergio pizzolante daniele toto]. Hanno obiezioni e cavilli. O forse, come sostiene la Napoli, non hanno “il coraggio di dire in pubblico che li spaventa la finalità della legge”.

da il Fatto Quotidiano del 26 febbraio

Antimafia Duemila – Gomez: Il clan degli onorevoli

Fonte:Antimafia Duemila – Gomez: Il clan degli onorevoli.

di Peter Gomez – 25 febbraio 2010
È il nostro Parlamento ma sembra la Chicago di Al Capone: tutti gli uomini mandati da Cosa Nostra per “fare il lavoro”. Guardi il Parlamento e pensi al consiglio comunale di Chicago. Quello degli anni Venti, in cui Al Capone teneva il sindaco William “Big Bill” Hale Thompson jr e tutti gli altri a libro paga.

E, almeno nei film, apostrofava i pochi poliziotti onesti urlando “Sei tutto chiacchiere e distintivo”. Il caso di Nicola Di Girolamo, il senatore Pdl che si faceva fotografare abbracciato ai boss e si metteva sull’attenti quando gli dicevano “tu sei uno schiavo e conti quanto un portiere”, è infatti tutt’altro che isolato. Tra i nominati a Montecitorio e Palazzo Madama, gli uomini (e le donne) risultati in rapporti con le cosche sono tanti. Troppi. Anche perché farsi votare dalla mafia non è reato. Frequentare i capi-bastone nemmeno. E così, mentre la Confidustria espelle non solo i collusi, ma persino chi paga il pizzo (persone che, codice alla mano, non commettono un reato, ma lo subiscono), i partiti imbarcano allegramente di tutto . Anche chi potrebbe aver fatto promesse che oggi non può, o non vuole, più rispettare.

Quale sia la situazione lo racconta bene la faccia di Salvatore Cintola, 69 anni, uomo forte dell’Udc siciliano dopo che pure in secondo grado Totò Cuffaro ha incassato una condanna (sette anni) per favoreggiamento mafioso. Pier Ferdinando Casini lo ha fatto entrare al Senato (come Cuffaro) sebbene Giovanni Brusca, il boss che uccise il giudice Falcone, lo considerasse un suo “amico personale”. Quattro archiviazioni in altrettante indagini per fatti di mafia, una campagna elettorale per le Regionali del 2006 (17.028 preferenze) condotta ad Altofonte – stando alle intercettazioni – dagli uomini d’onore e persino una breve militanza in Sicilia Libera, il movimento politico fondato per volontà del boss Luchino Bagarella, non sono bastate per sbarrargli le porte.

Anche perché, se si dice di no al vecchio Cintola, si finisce per dire no pure al giovane deputato Saverio Romano. Anche lui ha la sua bella archiviazione alle spalle (concorso esterno). Ma nel palmares può fregiarsi del titolo di candidato Udc più votato alle ultime Europee (110.403 preferenze nelle isole). Per questo, anche se di fronte a testimoni anni fa pronunciò una frase minacciosa che pare tratta dalla sceneggiatura del Padrino (“Francesco mi vota perché siamo della stessa famigghia” disse rivolgendosi al pentito Francesco Campanella), Romano fa carriera. È membro della commissione Finanze, Il segretario Lorenzo Cesa, lo ha nominato commissario dell’Udc a Catania, mentre Massimo Ciancimino, il figlio di Don Vito, lo ha incluso con Cintola, Cuffaro, e il presidente della commissione Affari costituzionali del Senato, Carlo Vizzini, nell’elenco dei parlamentari a cui sarebbero finiti soldi provenienti dal tesoro di suo padre.

Così Romano è oggi indagato come gli altri per corruzione aggravata dal favoreggiamento a Cosa Nostra. E se mai finirà alla sbarra qualcuno in Parlamento, c’è da giurarlo, dirà: “È giustizia ad orologeria”. Ma la verità è un’altra. I rapporti di forza tra la mafia e la politica stanno cambiando. Il dialogo tra i due poteri e sempre meno paritario. Nel 2000, quando una microcamera immortala l’attuale senatore del Pd, Mirello Crisafulli, mentre discute di appalti con il boss di Enna, Raffaele Bevilacqua (appena uscito di galera), negli investigatori della polizia resta ancora il dubbio su chi sia a comandare. “Fatti i cazzi tuoi” dice infatti chiaro Crisafulli (poi archiviato), al mafioso. In altri dialoghi, invece, il rapporto sembra invertirsi.

A bordo della sua Mercedes nera Simone Castello (un ex iscritto al Pci-Pds diventato un colonnello di Bernardo Provenzano) ascolta così il capo del clan di Villabate, Nino Mandalà (nel 1998 membro del direttivo provinciale di Forza Italia), mentre sostiene di aver “fatto piangere”, l’ex ministro Enrico La Loggia. “Gli ho detto: Enrico tu sai chi sono e da dove vengo e che cosa ero con tuo padre. Io sono mafioso come tuo padre. Ora lui non c’è più, ma lo posso sempre dire io che tuo padre era mafioso” racconta Mandalà al compare aggiungendo che La Loggia, in lacrime, si sarebbe messo a implorare: “Tu mi rovini, tu mi rovini”. In questo caso la minaccia (smentita da La Loggia, che però ammette l’incontro) è quella di svelare legami inconfessabili. Un po’ quello che sta accadendo in questi mesi con Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi che, secondo molti osservatori, starebbero subendo una sorta di ricatto. Dell’Utri, dicono i giudici, ha stretto un patto con i clan. Un patto non rispettato o solo in parte. E così adesso, visto che è difficile organizzare un attentato ai suoi danni (nel 2003 Dell’Utri e una serie di avvocati parlamentari erano stati inclusi dal Sisde in un elenco di personaggi politici che la mafia voleva ammazzare perché di fatto considerati traditori), la vendetta potrebbe passare attraverso le rivelazioni nei tribunali. Fantascienza? Mica tanto. Perché, almeno nel caso di Dell’Utri, ogni volta (o quasi) che intercetti un telefono di un presunto uomo delle cosche, corri il rischio di ascoltare la sua voce. È successo nell’indagine su Di Girolamo (vedi articolo a pagg. 4-5 de Il Fatto Quotidiano del 25 febbraio 2010). Ed è accaduto due anni fa, poco prima delle elezioni, con gli affiliati del clan Piromalli. Il loro referente Aldo Micciché (vedi articolo a fianco) chiamava il senatore in ufficio dal Venezuela, mentre a uno dei ragazzi della ‘Ndrina Dell’Utri affida il compito di aprire un circolo del Buon governo a Gioia Tauro.

Ovvio che tanta disponibilità al dialogo (Dell’Utri si è giustificato dicendo che lui “parla con tutti”) anche se non dovesse nascondere accordi illeciti, espone quantomeno al rischio di pericolosi equivoci. Se alla Camera entra una bella ragazza di Bagheria, priva di esperienza politica, come Gabriella Giammanco (Pdl), e poi si scopre che suo zio, Michelangelo Alfano, è un boss condannato in via definitiva, è chiaro come qualcuno nelle famiglie di rispetto possa pensare (sbagliando) di trovarsi di fronte a una sorta di messaggio. E se nel governo siede ancora un sottosegretario, Nicola Cosentino, con parenti acquisti detenuti al 41-bis e una richiesta di arresto per Camorra che pende sulla sua testa, è inevitabile che gli uomini di panza considerino il premier un loro amico. Un politico come tutti quelli con cui i patti sono stati siglati con certezza. E ai quali, parafrasando Al Capone, si può sempre gridare, in caso di cocente delusione: “Sei solo chiacchiere e distintivo”.

Tratto da: antefatto.ilcannocchiale.it

Antimafia Duemila – Uno Stato ad alto tasso criminale

Fonte:Antimafia Duemila – Uno Stato ad alto tasso criminale.

di Roberto Morrione – 26 febbraio 2010

Cosa è diventato il nostro Paese? Quanto è concreto il rischio che l’Italia si trasformi in uno Stato ad alto tasso di criminalità, dove i comportamenti illegali investono responsabilità pubbliche, la politica, le istituzioni, l’economia, avvolgendo nella corruzione gruppi dirigenti a ogni livello e trovando nella società resistenze sempre più deboli, contiguità diffuse, opaca indifferenza?
Interrogativi traumatici, di fronte al dilagare degli scandali che emergono ogni giorno, con una continuità che fa dell’Italia un caso unico all’attenzione allarmata del consesso internazionale, a partire dalla Banca Mondiale, che sta analizzando il sistema italiano delle tangenti.

Nel giro di pochi giorni l’opinione pubblica (posto che il concetto sia ancora valido in un Paese  diviso, in cui gran parte della popolazione ha come unica fonte d’informazione una televisione dominata dal conflitto d’interessi) è stata immersa nelle inchieste giudiziarie sui comitati d’affari che ruotano attorno alla Protezione Civile,  quindi negli arresti di funzionari pubblici colti con la mazzetta in mano e ora nell’indagine sul gigantesco riciclaggio di denaro  che avrebbe coinvolto potenti gruppi delle comunicazioni, dirigenti insospettabili, imprenditori legati all’estrema destra, servitori dello Stato “infedeli”. E mentre nell’inchiesta della Procura di Firenze si profilava la presenza inquietante di ambienti massonici e mafiosi, l’ala della più aggressiva fra le mafie, la ‘ndrangheta, si è stesa in modo netto sul senatore del PDL Nicola Di Girolamo di cui è stato chiesto l’arresto. Non siamo in grado di dare giudizi specifici sulla vicenda, né sarebbe giusto anticipare quanto il Parlamento deciderà sulla  sua posizione, ma sentiamo il dovere di chiedere che i cittadini si ribellino al dilagare della corruzione e della commistione affaristico-mafiosa.

Quando nei primi anni ’90 esplose tangentopoli, in un’epoca e in un contesto per molti aspetti diversi, il Paese fu accanto ai magistrati di Mani Pulite, espresse in mille modi una domanda di giustizia che era morale prima ancora che politica e che si riassumeva nel valore della “legge uguale per tutti”. Perché non avvertiamo ora una reazione altrettanto viva e penetrante? Cosa è cambiato in questi anni nel profondo del Paese e della coscienza degli italiani? Innanzi tutto dobbiamo rispondere che è tuttora largamente disattesa quella “questione morale” , in sostanza trasversale al sistema dei partiti, che fa della buona e trasparente amministrazione il punto di forza e credibilità della politica verso i cittadini. Troppe volte le scelte dei diritti e dell’etica sono state insidiate o  sopraffatte dalla ricerca del guadagno a ogni costo, dal miraggio di un falso modernismo e di un mercato senza regole, da un costume opportunista e spregiudicato che lascia inevitabilmente il passo  alle scorciatoie, all’ostentazione del sottopotere, al favoritismo familistico. Per illustrare le responsabilità del processo involutivo non è sufficiente neppure il dilagante “berlusconismo”, che pure ne è il più forte artefice e beneficiario. Da questo processo, che ha nella corruzione e nel voto di scambio i principali acceleratori soprattutto, ma non solo, nelle regioni del Sud, le mafie sono state beneficiate, fino a impadronirsi di parti rilevanti dell’economia nazionale, fino ad arrivare indisturbate, come dimostrano anche le nuove inchieste in corso, nel cuore delle istituzioni, del Governo, del Parlamento.

Ed è la stessa Chiesa, con l’allarme lanciato dalla CEI (che ha ripreso in parte il solenne monito espresso ad Agrigento da Papa Woytila, finora largamente inascoltato da vari livelli della gerarchia e della presenza ecclesiale sul territorio)  che scende in campo per denunciare l’assalto criminale alla democrazia e “l’abuso del potere e dell’illegalità”.

Peccato che la presa di coscienza non sia fatta propria dalle scelte del governo e dall’ossessione del Presidente del Consiglio nei confronti dei giudici e della Giustizia. Mentre si rinvia la tanto decantata legge contro la corruzione, non passa giorno in cui non sia sottolineato l’obiettivo di condizionare lo strumento giudiziario delle intercettazioni, senza il quale nessuno di questi scandali sarebbe venuto alla luce e l’avanzata sott’acqua delle mafie sarebbe inarrestabile.

Una sconcertante contraddizione fra chi proclama ogni giorno la necessità di fare pulizia della corruzione, mentre allo stesso tempo cerca nei fatti di colpire le risorse decisive per  arrivare al bersaglio, insieme impedendo ai giornalisti di fare bene il proprio mestiere e lasciando volutamente al buio i cittadini. Insomma, un po’ come fare ammucchiare la sporcizia  e nasconderla poi sotto il tappeto…

E’ reversibile questo devastante stato di cose? All’interrogativo angosciante che assilla tanti italiani è davvero difficile dare oggi una risposta, tante sono le responsabilità e le incognite che pesano su molteplici componenti della vita nazionale, come sui fattori economici, politici, sociali e culturali, interni e internazionali, che ne determineranno l’evoluzione o l’ulteriore regressione.

Una cosa però ci sentiamo di riaffermare: la partita della democrazia contro l’autoritarismo, della legalità contro il crimine, della trasparenza  e dell’etica contro la corruzione, sarà inesorabilmente persa se i tanti, tantissimi cittadini onesti resteranno in silenzio e nell’indifferenza, senza avere un sussulto di rifiuto, di protesta e di dignità.

Tratto da: liberainformazione.org

Antimafia Duemila – Ciancimino, ma quali ciance

Fonte:Antimafia Duemila – Ciancimino, ma quali ciance.

di Marco Travaglio – 26 febbraio 2010

Lo scandalo Prostituzione&Corruzione Civile Spa ha scacciato dai giornali la lunga deposizione di Massimo Ciancimino sulle trattative Stato-mafia del 1992-93 e sui rapporti fra Berlusconi, Dell’Utri e Cosa Nostra.

Così l’ultima parola, anzi l’ultimo delirio sul caso è rimasto in appalto ai troppi commentatori interessati o improvvisati, tutti volti a squalificare l’attendibilità del rampollo dell’ex sindaco mafioso di Palermo. Non solo Berlusconi e i suoi house organ (‘Le ciance di Ciancimino’ e via sproloquiando). Non solo il ministro Alfano, al quale qualcuno dovrebbe spiegare che il suo compito è far funzionare la giustizia, non insegnare il mestiere a giudici e pm né rilasciare patenti di inattendibilità a pentiti e testimoni. Ma anche il sociologo Pino Arlacchi, eurodeputato Idv, e l’ex magistrato Giuseppe Di Lello, esponente del Prc: i due hanno sentenziato – non si sa in base a quale competenza specifica – che Ciancimino jr. racconta balle.

Chissà se han saputo che il 27 gennaio, mentre cianciavano a ruota libera, la II sezione del Tribunale di Palermo consacrava per la prima volta l’attendibilità del ‘dichiarante’ nelle motivazioni della condanna a 10 anni e 8 mesi per mafia dell’ex deputato regionale forzista Giovanni Mercadante. Contro di lui, fra gli altri, ha testimoniato Ciancimino jr. in veste di depositario dei segreti paterni. E ha detto la verità: “Ritiene il Tribunale di poter esprimere un giudizio di alta credibilità su quanto dichiarato da Massimo Ciancimino”, “racconto fluido e coerente, senza contraddizioni di sorta: ogni circostanza riferita ha trovato. ulteriori precisazioni e argomentazioni a riscontro”. “Quel che è certo”, scrivono i giudici, “e può indiscutibilmente affermarsi nel presente processo è che egli ebbe realmente modo di assistere a incontri tra il padre e Provenzano. che parlavano di affari, appalti mafia e politica”.

Questione non da poco, visto che proprio per il suo ruolo di trait d’union fra il genitore e Provenzano è ritenuto dalla procura un teste decisivo su papello, trattativa e origini di Forza Italia: “La vicinanza di Massimo Ciancimino al padre”, aggiunge il Tribunale, “ha fatto di lui un testimone, se non un protagonista di riflesso di incontri ed episodi, oggi al centro di interesse investigativo in quanto utili a ricostruire il perverso sistema di frequentazioni, alleanze e accordi politico-istituzionali che fece dei corleonesi un centro di potere oltre che un gruppo di assassini senza scrupoli, capaci di condizionare la storia politico-sociale-economica della Sicilia (e in parte della Repubblica) dagli anni 70 a buona parte dei 90”. Di più: “Le sue propalazioni. costituiscono riscontro indiretto alle affermazioni di collaboranti quali Giuffrè”. Già braccio destro di Provenzano, Giuffrè raccontò ben prima di Ciancimino e di Spatuzza il patto stipulato nel ’93 fra il boss e Dell’Utri per l’appoggio di Cosa Nostra alla nascente Forza Italia. Dopo questa sentenza, le ‘ciance’ potrebbero diventare riscontri.

Tratto da: L’espresso