Antimafia Duemila – Quella strage di via d’Amelio, madre di tutti i depistaggi

Antimafia Duemila – Quella strage di via d’Amelio, madre di tutti i depistaggi.

di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza – 9 giugno 2010
La scoperta ha lasciato letteralmente di stucco i pm di Caltanissetta quando, negli uffici dell’Aisi, hanno potuto finalmente sfogliare gli album fotografici e gli elenchi degli agenti segreti che tra gli anni Ottanta e Novanta hanno agito in Sicilia sotto copertura. Tra gli 007 regolarmente stipendiati dal Sisde c’era anche lui: Arnaldo La Barbera. L’ex capo della Squadra Mobile e poi questore di Palermo, il poliziotto che il 26 maggio dell’89 arrestò in una villa di San Nicola l’Arena il pentito Totuccio Contorno, tornato clandestinamente in Sicilia, l’ex responsabile della sicurezza personale di Giovanni Falcone dal fallito attentato dell’Addaura in poi, il superpoliziotto dell’antimafia che con un decreto ad hoc fu nominato al vertice della squadra investigativa “Falcone-Borsellino” per seguire esclusivamente le indagini sulle stragi di Capaci e via D’Amelio. Il carismatico “Arnold” più volte fu indicato come bersaglio delle cosche mafiose, proprio lui, era un agente segreto sotto copertura che, con il nome in codice di “Catullo”, tra l’86 e l’87, subito prima di sbarcare a Palermo, figurava sul libro paga del Sisde, da cui veniva regolarmente stipendiato con un “gettone” mensile di circa un milione di lire. Il fascicolo di “Catullo” è saltato fuori a sorpresa dalle indagini svolte dai pm di Caltanissetta nell’ambito dell’inchiesta sul depistaggio di via D’Amelio, la falsa pista confezionata tra il ‘92 e il ‘94 attorno al balordo della Guadagna
Vincenzo Scarantino. Per il depistaggio, che oggi costringe gli inquirenti a riscrivere da capo la dinamica del delitto Borsellino, i pm hanno iscritto nel registro degli indagati i nomi di tre funzionari di Polizia che all’epoca erano stretti collaboratori di La Barbera, nel gruppo “Falcone-Borsellino”: Vincenzo Ricciardi, oggi questore di Novara, Salvatore La Barbera, oggi funzionario della Criminalpol, e Mario Bo, dirigente della Ps nel Friuli. I tre sono indagati per concorso in calunnia, per aver cioè consegnato alla magistratura una ricostruzione della strage che oggi si rivela clamorosamente falsa. Sono sospettati di aver indotto, con metodi che i pm definiscono genericamente “forti”, l’artigiano Scarantino, il suo complice Salvatore Candura e il suo vicino di cella Francesco Andriotta a fingersi pentiti rendendo dichiarazioni fasulle. Quanto furono “forti” quei metodi? Si trattò di persuasione, di violenze psicologiche, di torture fisiche? I pm di Caltanissetta oggi concordano nel ritenere che i tre poliziotti sospettati del depistaggio agirono in base alle direttive di Arnaldo La Barbera, l’unico vero “dominus” delle indagini di via D’Amelio. Soprattutto nella prima fase, quando con la sua competenza nel campo della lotta alla mafia condusse letteralmente l’inchiesta, mentre i pm scontavano una fragile esperienza sulla mafia di Palermo, visto che il Csm aveva deciso di spedire nella procura nissena magistrati “non palermitani”, affinché non fossero emotiva-mente coinvolti nella scomparsa del collega Borsellino. Oggi a Caltanissetta gli inquirenti si muovono con la massima cautela. Si rendono conto che è facile addossare ogni responsabilità dell’ideazione del depistaggio ad un uomo che non può più difendersi, col rischio di offuscare la memoria di un valido investigatore. Ma il fascicolo su “Catullo” non può non riaprire nuovi interrogativi. Perché un dirigente della Polizia, che ha il compito istituzionale di indagare sulla criminalità organizzata, viene arruolato dal Sisde? Con quali obiettivi? La Barbera mantiene ancora rapporti con il servizio segreto civile nell’estate dell’89, quando una borsa con 58 candelotti di dinamite indirizzati a Falcone viene ritrovata sulla scogliera dell’Addaura? E qual è il suo ruolo nelle indagini sull’uccisione di Nino Agostino e di Emanuele Piazza, ritenuti due “collaboratori” del Sisde a caccia di latitanti? I pm di Palermo hanno iniziato a rileggere le mosse del superpoliziotto proprio nell’inchiesta sulla morte dell’agente Agostino, ucciso il 5 agosto del 1989, poche settimane dopo il fallito attentato all’Addaura e l’arresto del pentito Contorno a Palermo. La stessa sera dell’omicidio, la polizia effettuò la perquisizione in casa Agostino, su mandato di La Barbera che era titolare delle indagini in assenza del capo della sezione omicidi (carica in quel momento vacante). La perquisizione fu poi descritta in un verbale che porta la data dell’11 agosto. Ufficialmente, quella sera furono ritrovati alcuni appunti dell’ucciso che indirizzavano le indagini sulla pista passionale. Ma era, anche quello, un depistaggio. Lo dice senza mezzi termini Vincenzo Agostino, padre dell’agente assassinato, che da ventun anni denuncia la scomparsa di altri appunti del figlio, “quelli autentici”, mai più ritrovati. “La chiave di tutto il mistero – dice oggi Agostino – è in quei fogli. Mi dispiace che La Barbera è morto. Lui la sapeva la verità. E me la doveva dire”. In un’intervista a Radio Cento Passi, l’anziano padre ha raccontato un incontro inedito con l’investigatore nel ’91 poche ore prima di partecipare alla trasmissione tv Samarcanda. “Quella sera – ha detto – La Barbera – mi trattenne un’ora alla Squadra mobile, minacciando di arrestarmi. Voleva sapere quello che io dovevo dire in televisione, voleva sapere se avevo appunti che avrebbero potuto danneggiarlo. La Barbera oggi non c’è più, ma ci sono altre persone che sanno la verità. Chi sa, parli”.

Tratto da:
Il Fatto Quotidiano

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