Archivi del giorno: 6 agosto 2010

Antimafia Duemila – 65 anni fa il bombardamento atomico di Hiroshima

Fonte: Antimafia Duemila – 65 anni fa il bombardamento atomico di Hiroshima.

Il 6 agosto del 1945 alle 8.15 il bombardiere americano B-29 ‘Enola Gay’ sgancio’ sulla citta’ giapponese di Hiroshima, centro di 350mila abitanti a 700 chilometri da Tokyo, la bomba atomica ‘Little Boy’.

L’esplosione, avvenuta a 580 metri di quota, rase al suolo il 90% degli edifici, uccidendo sul colpo almeno 70mila persone e provocando la morte di altri 80mila che persero la vita nei mesi successivi per le ustioni e per gli effetti delle radiazioni.
Tre giorni dopo, il 9 agosto, un’altra bomba fu sganciata su Nagasaki, dove morirono carbonizzate 70mila persone. Il 15 agosto l’Impero giapponese firmo’ la resa incondizionata, ponendo ufficialmente fine alla Seconda Guerra mondiale.

L’utilizzo dell’arma atomica, impiegata per la prima volta durante un conflitto, fu giustificato dagli Stati Uniti con la necessita’ di porre rapidamente fine al conflitto ed evitare un’invasione del Giappone, che avrebbe avuto un costo di vite umane di gran lunga superiore a quello provocato dalle esplosioni nucleari. Ben presto, tuttavia, tra gli stessi americani comincio’ a farsi largo l’idea che il ricorso alle armi atomiche fosse stata una deprecabile brutalita’. I primi statunitensi a raggiungere Hiroshima – uomini dei servizi segreti, scienziati e giornalisti – si trovarono di fronte lo scenario apocalittico di una citta’ fantasma, che descrissero attraverso le immagini di migliaia di persone ammassate in baracche semidistrutte che tossivano, urinavano sangue e perdevano i capelli a ciocche.

https://i0.wp.com/www.gliitaliani.it/wp-content/uploads/2010/08/hiroshima_wideweb__430x3231.jpgLo scrittore e giornalista John Hersey, tra i primi a raggiungere Hiroshima, realizzo’ un efficace reportage sulle condizioni di vita di sei sopravvissuti, pubblicato a puntate nel 1946 sul ‘New Yorker’ e raccolto l’anno successivo in un unico volume dal titolo ‘Hiroshima’. Contemporaneamente, l’esercito americano pubblicava un’indagine sul Bombardamento Strategico dopo aver intervistato centinaia di militari e civili giapponesi nei mesi successivi alla resa, giungendo alla conclusione che “certamente prima del 31 dicembre 1945, e con tutta probabilita’ prima del primo novembre 1945, il Giappone si sarebbe arreso anche se le bombe atomiche non fossero state sganciate, anche se la Russia non fosse entrata in guerra, e anche se nessuna invasione fosse stata pianificata o contemplata”.Sebbene, a distanza di decenni, gli storici sono ancora discordi sull’effettiva necessita’ di ricorrere alle armi nucleari per porre fine alla guerra, gli Usa non hanno mai ritrattato ufficialmente la loro posizione sulle scelte dell’agosto 1945. La decisione dell’amministrazione Obama di inviare l’ambasciatore americano in Giappone alla cerimonia di commemorazione per le vittime di Hiroshima e’ stata pero’ salutata come un importante segnale di cambiamento.

I superstiti dei bombardamenti atomici continuano tuttavia ad aspettarsi una richiesta di scuse ufficiali da parte del governo americano. “Chiedere scusa e’ la cosa migliore che potrebbero fare, ma dubito che cio’ avverra’”, ha dichiarato Terumi Tanaka, sopravvissuto al bombardamento di Nagasaki quando aveva appena 13 anni e oggi segretario generale della confederazione nipponica delle associazioni dei superstiti. “Accogliamo di buon grado la visita, ma senza una richiesta di scuse e’ difficile per noi”, ha aggiunto Tanaka. “Non chiediamo nessun risarcimento, vogliamo solo che gli Stati Uniti chiedano scusa e si liberino del loro arsenale nucleare”.

La pensa cosi’ anche Yasunari Fujimoto, segretario generale del Congresso giapponese contro le bombe A e H: “Non credo che sia irragionevole aspettarsi delle scuse, ma cio’ che conta ora e’ che gli Stati Uniti siano rappresentati, che le sofferenze delle vittime saranno riconosciute e che il processo di disarmo nucleare ne tragga un impulso”.

Tratto da:
gliitaliani.it

ComeDonChisciotte – 1 SOLDATO O 20 SCUOLE ?

Fonte: ComeDonChisciotte – 1 SOLDATO O 20 SCUOLE ?.

DI NICHOLAS D. KRISTOF
nytimes.com

La guerra in Afghanistan consumerà più soldi solamente questo anno di quanto abbiamo speso per la guerra Anglo-Americana del 1918, la guerra Messicano-Statiunitense (ndt: 1846-1848), la guerra civile (ndt: 1861-1865) e la guerra Ispano-Americana (ndt: 1898 ) – messe insieme.

Un recente rapporto del Servizio per le Ricerche Congressuali ha evidenziato che la “guerra al terrore” , includendo Afghanistan e Iraq, è stato, di gran lunga, la più costosa guerra della storia Americana a parte la seconda guerra mondiale. Questo, adattando all’inflazione tutte le spese per le guerre precedenti.

Questi confronti storici dovrebbero essere un campanello d’allarme per il presidente Obama, sottolineando come la nostra strategia militare, non sono sia un disastro – come suggeriscono i documenti recentemente trapelati dall’Afghanistan – ma rifletta anche, più in generale, dei grossolani errori nella distribuzione delle risorse. Una delle eredità dell’attacco dell’11 Settembre è stata la distorsione della politica Americana: rispetto agli standard della storia e dell’efficienza della spesa stiamo sovrainvestendo enormemente in attrezzature militari e sotto investendo in educazione e diplomazia.

Era ragionevole per i liberali inveire contro il Presidente George W. Bush per il suo sciovinismo. Ma è il Presidente Obama che ora sta chiedendo il 6,1 percento in più in spese militari rispetto al picco di spesa militare raggiunta sotto Mr. Bush. Ed è Mr. Obama che ha triplicato il numero di truppe Americane in Afghanistan da quando è entrato in carica. (Un conto che fornisce 35 miliardi di dollari per continuare a finanziare le due guerre americane è stato approvato dalla Camera dei Rappresentanti martedì e sta aspettando la sua firma) .

Sotto Mr. Obama stiamo ora spendendo più soldi in spese militari ( si parla di cifre adattate all’inflazione ) del picco della guerra fredda, della guerra del Vietnam o di quella di Corea. La nostra flotta della marina è più grande delle successive 13 della classifica messe insieme, stando al segretario della difesa Robert Gates. Il nostro apparato di intelligence è talmente dilatato che, secondo il Washington Post, il numero di persone con accesso alle informazioni “top secret” è una volta e mezzo la popolazione del District of Columbia.

Nel frattempo, un rapporto del consiglio dei college riporta alla sobrietà dicendoci che gli Stati Uniti, che di solito erano in cima alle classifiche per proporzione di giovani laureati, sono scesi al 21° posto.

C’è di più : uno sbilanciamento dell’attenzione solamente sulle armi è controproducente, creando una forte reazione negativa contro gli “invasori” stranieri. Soprattutto, l’educazione ha un record leggermente migliore rispetto alla potenza militare nel neutralizzare gli estremismi stranieri. E lo sbilanciamento è sbalorditivo : per il costo di un solo soldato in Afghanistan per un anno, potremmo avviare lì circa 20 scuole. Hawks ribatte che è impossibile gestire scuole in Afghanistan a meno che non ci siano truppe Americane a proteggerle. Ma questo non è corretto.

CARE, una organizzazione umanitaria, gestisce circa 300 scuole in Afghanistan, e nessuna è stata bruciata dai Talebani. Greg Morteson, famoso per “Tre tazze di tè” , ha supervisionato la costruzione di 145 scuole in Afghanistan e Pakistan e ne manda avanti altre dozzine in tende o edifici affittati – e anche lui ha detto che nessuna è stata distrutta dai Talebani.

L’esperienza delle associazioni di assistenza umanitaria mostra che è alquanto possibile gestire scuole fin tanto ché esiste una rispettosa consultazione degli anziani tribali e un loro coinvolgimento guadagnandosi la loro approvazione. E la mia impressione è che CARE e Mr. Mortenson stiano facendo più per portare la pace in Afghanistan dell’ondata di truppe di Mr. Obama.

Le forze armate Americane hanno iniziato a leggere entusiasticamente ”Tre Tazze di Tè” ma non hanno assimilato la lezione centrale: per costruire la pace è meglio puntare sulla costruzione di scuole che sul lancio di missili (specialmente quando un missile cruise costa circa quanto 11 scuole).

Mr. Mortenson si lamentava con me del fatto che per il costo di soli 246 soldati inviati per un anno, gli Stati Uniti d’America potrebbero finanziare un piano di educazione secondaria per tutto l’Afghanistan. Questo contribuirebbe a costruire una economia Afghana, una società e un futuro civile … e tutto per un quarto dell’uno per cento della nostra spesa militare in Afghanistan questo anno.

Il recente tumulto sull’aiuto dei Pakistani ai Talebani Afghani sottolinea che i milioni di dollari in aiuti militari Americani semplicemente non riescono più a comprare la lealtà di un tempo. Al contrario, l’educazione può effettivamente trasformare una nazione. Questa è una ragione per cui il Banladesh è più calmo del Packistan, l’Oman mette meno paura dello Yemen.

Paradossalmente, il più eloquente sostenitore dell’equilibrio nelle priorità dei finanziamenti è stato Mr. Gates, il segretario della difesa. Ha notato che l’esercito ha più persone tra le sue bande musicali di quanti diplomatici abbia il dipartimento di stato.

Di fronte alla costante richiesta di incremento del finanziamento, Mr. Gates ha chiesto a Maggio ha chiesto a Maggio: “E’ un pericolo terribile che per il 2020 gli Stati Uniti d’America avranno solo 20 volte più caccia bombardieri stealth di nuova generazione rispetto alla Cina?”

Nella sua campagna presidenziale Mr. Obama ha promesso di investire in finanziamenti per l’educazione mondiale. Da allora, sembra aver dimenticato quell’idea – visto che sta spendendo in Afghanistan ogni cinque settimane abbastanza denaro di quanto servirebbe praticamente per assicurare una educazione elementare a ogni bambino sul nostro pianeta.

Abbiamo vinto la nostra indipendenza per 2,4 milioni di dollari (odierni) , recita un rapporto del servizio ricerche congressuali. E’ stato un buon affare, considerato che ora sprechiamo lo stesso importo ogni nove giorni in Afghanistan. Mr. Obama, non è ora di riequilibrare le nostre priorità ?

Nicholas D. Kristof
Fonte: http://www.nytimes.com
Link:: http://www.nytimes.com/2010/07/29/opinion/29kristof.html?_r=2
28.07.2010

Scelto e tradotto per http://www.comedonchisciotte.org da PAOLO CASTELLETTI

L’Onu proibisce le bombe a grappolo Ma l’Italia continuerà a venderle | Il Fatto Quotidiano

Fonte: L’Onu proibisce le bombe a grappolo Ma l’Italia continuerà a venderle | Il Fatto Quotidiano.

Al via la convenzione delle Nazioni Unite che le bandisce, ma il governo di B. non firma

Il primo agosto la convenzione Onu ha legato le mani ad ogni paese del mondo. Proibito fabbricare, esportare e conservare in depositi più o meno segreti le bombe a grappolo, cluster munition. Polverizzano come le altre ma non è tutto: disperdono 150, 170 frammenti che non sono schegge qualsiasi, bensì trappole micidiali, colorate per incuriosire chi fruga fra le macerie o le ritrova fra l’erba dei campi. Appena sfiorate scoppiano “più efficaci delle mine-uomo”. Cambiano la vita e ogni anno a migliaia di bambini: chi muore e chi resta per sempre diverso. Gino Strada e la sua Emergency sono testimoni del disastro dell’Afghanistan: gambe artificiali paracadutate in territori pericolosi galleggiano nell’aria come fantasmi di plastica.

Il documento siglato da 30 paesi
Per rendere obbligatoria la convenzione internazionale proposta dal segretario Onu, Ban Ki-moon era necessaria l’adesione di almeno 30 governi. Gli ultimi a firmare “per senso di civiltà” sono stati Burkina Faso e Moldavia. L’Italia se ne è dimenticata. Come sempre Russia, Stati Uniti, Cina, Pakistan, Israele stanno a guardare con la diffidenza di chi non sopporta il moralismo fanatico dei pacifisti anche se Obama è impegnato in una moratoria che frena la deregulation del guerriero Bush. Proibisce l’esportazione delle armi non convenzionali (oltre alle clutser, missili al fosforo bianco, napalm, eccetera) con l’ordine di distruggere prima del 2018 gli 800 milioni di bombe a grappolo stoccate negli arsenali Usa.

Come mai l’Italia non ha firmato? Due anni fa, due nostri ministri a Oslo avevano appoggiato l’iniziativa. “Siamo tra i primi cento paesi a pretendere una guerra più umana”, morale che fa sorridere perché di umano nelle guerre non c’è niente, eppure sembrava un primo fiato di buona volontà. Ma se ne sono dimenticati. Tante le spiegazioni. Turbamenti politici che annegano la memoria o convenienza a non mettere in crisi le industrie delle armi che continuano a volare. Nel 2008 (ultimi numeri disponibili) il valore delle autorizzazioni concesse dal governo per vendere ad altri paesi carri armati, elicotteri, bombe di ogni tipo, missili e strumenti sofisticati d’attacco, era cresciuto del 35 per cento: 5,7 miliardi di euro. Tendenza confermata nel 2009. Fra un po’ sapremo quanti affari in più. La Turchia che schiaccia i curdi è il cliente d’oro: un miliardo e 93 milioni. Poi Francia e tanti paesi fra i quali Libia, il Venezuela di Chavez, Emirati Arabi Uniti, Oman, Kuwait, Nigeria. Le imprese autorizzate dal nostro ministero della Difesa sono 300. Tre le banche privilegiate nell’intermediazione: Banca Nazionale del Lavoro, Deutsche Bank e Societè Generale. In coda Banca Intesa ed Unicredit. Milioni di provvigioni da un passaggio all’altro. A parte la lista nera dei paesi ai quali è proibito vendere direttamente – anche se il gioco ambiguo delle triangolazioni funziona da quando Israele comprava in Europa ed esportava nel Sud Africa dell’embargo disegnato per sgonfiare il razzismo di stato – e a parte un elenco di governi che impongono semi libertà sdegnate dalla carte delle Nazioni Unite, ecco il macchiavello degli aiuti umanitari. Se l’ Italia o altre nazioni sono presenti per soccorrere la disperazione delle popolazioni, le armi scivolano senza suscitare censure.

Se nel Lazio si producessero ancora?
Armi italiane in Libia dove (Amnesty e Human Rights Watch) chi pretende libertà d’espressione, di associazione o di pensiero può essere condannato a morte. Per non parlare dell’accoglienza disumana ai profughi in fuga dalle dittature di Sudan ed Eritrea. Vendiamo alla Thailandia nella quale le camice rosse dell’ex presidente e l’esercito del presidente in carica si affrontano sconvolgendo città e campagne. A quali delle due fazioni vendiamo? Per non parlare di Arabia Saudita, Emirati, Oman dove le donne restano ombre clandestine. Human Rights fa sapere dei depositi di bombe a grappolo di casa nostra: “L’Italia continua a nasconderne la quantità”. Fra le imprese che hanno prodotto le cluster e non chiariscono se continuano e quante bombe ammucchiano in magazzino, c’è la Simmel Difesa di Colleferro. Vende alla Russia munizioni per i veicoli corazzati in Afghanistan. Anni fa, mentre l’opinione pubblica si agita davanti allo strazio di donne e bambini bruciati dal fosforo bianco americano a Fallujia o israeliano a Gaza, le bombe a grappolo dell’Afghanistan scandalizzano televisioni e giornali e la Simmel censura il suo catalogo on line: spariscono le munizioni proibite. Ma un’inchiesta di Rai News 24 e informazioni delle Ong che tutelano i diritti umani riempiono il vuoto: la produzione continua. Se fosse vero, brivido d’orrore. Perché esistono, sparse nel mondo, 100 milioni di bombe a grappolo inesplose. Vendere fa bene agli affari, ma quale futuro stiamo immaginando? Il silenzio continua, l’Italia non firma.

La responsabilità non può esaurirsi nell’ambiguità dei politici o negli affari d’oro dei dottor Stranamore dell’industria pesante: i sindacati dove sono? Nel 1984 in un dibattito con Luciano Lama, qualcuno ha suggerito di portare in gita nella Beirut appena macinata dai cannoni di Sharon, gli operai dell’Oto Melara. Ieri come oggi Cgil-Cisl-Uil evitavano di collegare il “lavoro che rende liberi” alla libertà che quel lavoro brucia nella vita di popoli lontani. Lama si è arrabbiato: “Convertiremo i carri armati in locomotive, dateci tempo”.

Il tempo passa e alla Simmel di Colleferro nessuno protesta. Nei giorni dei posti perduti, un posto sicuro val bene qualche distrazione.

Da Il Fatto Quotidiano del 6 agosto 2010

La minaccia iraniana, o la minaccia americana?, Noam Chomsky

Fonte: La minaccia iraniana, o la minaccia americana?, Noam Chomsky.

di Noam Chomsky – 05/08/2010

La grave minaccia dell’Iran è largamente riconosciuta come la crisi di politica estera più seria cui deve far fronte l’amministrazione Obama. Il Congresso ha appena rafforzato le sanzioni contro l’Iran, con penali ancor più severe contro le società estere. L’amministrazione Obama ha rapidamente ampliato la propria capacità offensiva nell’isola africana di Diego Garcia, territorio d’oltremare della Gran Bretagna, che aveva espulso la popolazione così che gli Stati Uniti potessero costruire l’imponente base che usa per attaccare il Medio Oriente e l’Asia Centrale. La marina ha riferito di aver inviato nell’isola una nave appoggio per servire i sottomarini nucleari con missili Tomahawk, che possono trasportare testate nucleari. Ciascun sottomarino avrebbe la capacità offensiva di un tipico gruppo da battaglia di una portaerei. Secondo un manifesto del cargo della marina USA ottenuto dal Sunday Herald (Glasgow), il notevole quantitativo di armamenti inviati da Obama comprende 387 “bunker busters” [lett. “distruttori di bunker”, ordigni nucleari a penetrazione profonda] usati per far saltare in aria le strutture sotterranee più resistenti.

La programmazione di queste superbombe o “massive ordnance penetrators”, gli ordigni più potenti dell’arsenale dopo le armi nucleari, è iniziata durante l’amministrazione di Bush, ma si è affievolita. Quando Obama è entrato in carica ha immediatamente accelerato i programmi, e saranno impiegati svariati anni prima di quanto previsto, mirando specificamente all’Iran.

“Si stanno preparando totalmente per la distruzione dell’Iran,” secondo Dan Plesch, direttore del Centre for International Studies and Diplomacy della University of London. “i bombardieri USA e i missili a lungo raggio sono pronti oggi a distruggere 10.000 bersagli in Iran in alcune ore,” ha detto. “La potenza di fuoco delle forze statunitensi è quadruplicata dal 2003,” accelerando sotto Obama.

La stampa araba riporta che una flotta americana (con una nave israeliana) ha attraversato il Canale di Suez in direzione del Golfo Persico, dove il suo compito è di “implementare le sanzioni contro l’Iran e di controllare le navi in transito dall’Iran e per l’Iran”. I media britannici e israeliani riportano che l’Arabia Saudita starebbe fornendo un corridoio per il bombardamento dell’Iran da parte di Israele (cosa negata dall’Arabia Saudita). Al suo ritorno dall’Afghanistan per rassicurare gli alleati della NATO che gli USA manterranno il corso dopo la sostituzione del generale McChrystal dal suo superiore, il generale Petraeus, il presidente dei “Joint Chiefs of Staff” o Stati Maggiori Riuniti, ammiraglio Michael Mullen è andato in Israele per incontrare il capo di stato maggiore della difesa israeliana Gabi Ashkenazi, ed influenti militari israeliani, insieme alle unità di intelligence e programmazione, continuando lo strategico dialogo annuale tra Israele e gli USA a Tel Aviv. L’incontro verteva “sulla preparazione sia di Israele che degli USA per la possibilità di un Iran con capacità nucleare,” secondo Haaretz, che riporta inoltre che Mullen avrebbe enfatizzato che “[io] cerco sempre di vedere le sfide dal punto di vista israeliano”. Mullen e Ashkenazi si tengono in regolare contatto su una linea sicura.

Le crescenti minacce di un’azione militare contro l’Iran violano certamente la Carta delle Nazioni Unite, e in modo specifico la risoluzione 1887 del settembre 2009 del Consiglio di Sicurezza, che ha riaffermato l’invito a tutti gli stati a risolvere pacificamente le dispute in merito a questioni sul nucleare, secondo lo Statuto, che proibisce l’uso, o la minaccia della forza.

Alcuni rispettati analisti descrivono la minaccia iraniana in termini apocalittici. Amitai Etzioni avverte che “gli USA dovranno confrontarsi con l’Iran o rinunciare al Medio Oriente”, niente di meno. Se il programma nucleare dell’Iran procederà, afferma, la Turchia, l’Arabia Saudita ed altri stati si “muoveranno verso” il nuovo “superpotere” iraniano; con una retorica meno accesa, si potrebbe creare un’alleanza regionale indipendente dagli USA. Nel periodico dell’esercito americano Military Review, Etzioni promuove un attacco degli USA che prenda come bersaglio non solo gli impianti nucleari dell’Iran, ma anche i suoi complessi militari non nucleari, infrastruttura compresa – ossia, la società civile. “Questo tipo di azione militare è assimilabile alle sanzioni – nel provocare ‘dolore’ al fine di cambiare il comportamento, seppure con mezzi ben più potenti”.

Messe da parte queste sconvolgenti dichiarazioni, qual è per l’esattezza la minaccia iraniana? Un’autorevole risposta si trova nello studio dell’aprile 2010 dell’International Institute of Strategic Studies, Military Balance 2010. Il brutale regime clericale è senza dubbio una minaccia per la sua stessa gente, ma in questo senso non lo è più di quello di altri alleati dell’America nella regione. Ma non è questo che preoccupa l’Institute. Che piuttosto si preoccupa per la minaccia che l’Iran costituisce per la regione e per il mondo.

Lo studio mette in chiaro che la minaccia iraniana non è militare. La spesa militare dell’Iran è “relativamente bassa in confronto al resto della regione,” e meno del 2% di quella degli USA. La dottrina militare iraniana è strettamente “difensiva, … intesa a rallentare un’invasione e ad imporre una soluzione diplomatica alle ostilità”. L’Iran ha solo “una capacità limitata di proiettare la forza oltre i suoi confini”. Con riferimento all’opzione nucleare, “il programma nucleare dell’Iran e la sua intenzione di tenere aperta la possibilità di sviluppare armi nucleari sono una parte centrale della sua strategia di deterrenza”.

Sebbene la minaccia iraniana non sia militare, ciò non vuol dire che possa essere tollerabile per Washington. La capacità di deterrenza iraniana è un illegittimo esercizio di sovranità che interferisce con i progetti globali dell’America. In modo specifico, minaccia il controllo da parte degli USA delle risorse energetiche del Medio Oriente, un’alta priorità dei programmatori sin dalla seconda guerra mondiale, che dà “un notevole controllo del mondo”, come ha affermato un’influente figura (A. A. Berle).

Ma la minaccia dell’Iran va oltre la deterrenza. Cerca anche di ampliare la sua influenza. Come tale minaccia è stata formulata dall’Institute stesso, l’Iran starebbe “destabilizzando” la regione. L’invasione da parte degli USA e l’occupazione militare degli stati vicini all’Iran è “stabilizzazione”. Gli sforzi dell’Iran di ampliare la sua influenza nei paesi vicini è “destabilizzazione”, quindi del tutto illegittima. Si deve notare che un tale uso rivelatore è routine. Quindi il prominente analista di politica estera James Chase, ex editore del principale periodico dell’establishment Foreign Affairs, usava propriamente il termine “stabilità” in senso tecnico, quando ha spiegato che per raggiungere la “stabilità” in Cile era necessario “destabilizzare” il paese (rovesciando il governo eletto di Allende ed istallando la dittatura di Pinochet).

Oltre questi crimini, l’Iran sostiene anche il terrorismo, continua lo studio: appoggiando Hezbollah ed Hamas, le maggiori forze politiche in Libano e in Palestina – se le elezioni contano qualcosa. La coalizione di Hezbollah ha facilmente vinto il voto popolare nelle ultime elezioni (2009) in Libano. Hamas ha vinto le elezioni del 2006 in Palestina, costringendo gli USA e Israele ad istituire il duro e brutale assedio di Gaza per punire gli scellerati per aver votato male in una libera elezione. Queste sono state le sole relativamente libere elezioni nel mondo arabo. È normale per l’opinione delle elite di temere la minaccia della democrazia e di agire per ostacolarla, ma questo è un caso piuttosto straordinario, particolarmente accanto al forte sostegno degli USA per le dittature regionali, particolarmente straordinario per la grande lode di Obama per il brutale dittatore egiziano Mubarak nel suo famoso discorso al mondo musulmano al Cairo.

Gli atti terroristici attribuiti ad Hamas ed Hezbollah sono niente in confronto al terrorismo americano e israeliano nella stessa regione, ma vale la pena darvi comunque una scorsa.

Il 25 maggio in Libano si è festeggiato il giorno di festa nazionale, il Giorno della Liberazione, che commemora la ritirata di Israele dal sud del Libano dopo 22 anni, come risultato della resistenza di Hezbollah – descritta dalle autorità israeliane come “aggressione iraniana” contro Israele nel Libano sotto occupazione di Israele (Ephraim Sneh). Anche questo è un normale uso imperialistico. Perciò il presidente John F. Kennedy ha condannato “l’assalto dall’interno, e che è manipolato dal nord”. L’assalto della resistenza sudvietnamita contro i bombardieri di Kennedy, la guerra chimica, la reclusione dei contadini in veri e propri campi di concentramento, ed altre simili misure benevole, è stato denunciato come un’ “aggressione interna” dall’ambasciatore delle Nazioni Unite di Kennedy, l’eroe liberale Adlai Stevenson. Il sostegno dei Nordvietnamiti per i propri compatrioti nel sud occupato dagli USA è un’aggressione, un’intollerabile interferenza con la legittima missione di Washington. Anche i consiglieri di Kennedy, Arthur Schlesinger e Theodore Sorenson, considerati come “colombe”, hanno lodato l’intervento di Washington per rovesciare l’“aggressione” nel sud del Vietnam – da parte della resistenza indigena, come sapevano, almeno se leggevano le relazioni dell’intelligence americana. Nel 1955 gli Stati Maggiori Riuniti americani hanno definito svariati tipi di “aggressione”, tra cui “l’aggressione non armata, ossia la guerra politica, o la sovversione”. Per esempio, una rivolta interna contro uno stato di polizia imposto dagli USA, oppure elezioni che abbiano un risultato sbagliato. Tale uso è comune anche tra gli studiosi e in ambito politico, e ha senso solo partendo dal presupposto prevalente che Noi Siamo i Padroni del Mondo.

Hamas oppone resistenza all’occupazione militare di Israele e alle sue azioni illegali e violente nei territori occupati. È accusato di rifiutarsi di riconoscere Israele (i partiti politici non riconoscono gli stati). In contrasto, gli Stati Uniti ed Israele non solo non riconoscono la Palestina, ma hanno agito per decenni in modo tale da assicurare che non possa mai arrivare ad esistere in alcuna forma significativa; il partito al governo in Israele, nella sua piattaforma della campagna del 1999, vieta l’esistenza di qualsiasi stato palestinese.

Hamas è accusato di aver attaccato con dei razzi gli insediamenti israeliani al confine, senza dubbio azioni criminali, ma [che sono] solo una minima parte della violenza perpetrata da Israele a Gaza, per non parlare di altrove. È importante tenere a mente, a questo proposito, che gli USA e Israele sanno esattamente come porre fine al terrore che deplorano con tanto ardore. Israele concede ufficialmente che non c’erano razzi di Hamas fintantoché Israele ha parzialmente rispettato una tregua con Hamas nel 2008. Israele ha rifiutato l’offerta di Hamas di rinnovare la tregua, preferendo lanciare la sanguinosa e distruttiva Operation Cast Lead contro Gaza del dicembre 2008, con il pieno appoggio degli USA, un’impresa di aggressione omicida senza il benché minimo pretesto credibile, né dal punto di vista legale, né da quello morale.

Il modello di democrazia nel mondo musulmano, nonostante le gravi pecche, è la Turchia, che ha elezioni relativamente libere, e che è stata anche oggetto di dure critiche negli USA. Il caso più estremo è stato quando il governo ha seguito la posizione del 95% della popolazione rifiutandosi di unirsi all’invasione dell’Irak, suscitando dure condanne da Washington per non aver compreso come si deve comportare un governo democratico: secondo il nostro concetto di democrazia, è la voce del padrone che determina la politica, non la quasi unanime voce della popolazione.

L’amministrazione Obama si è di nuovo infervorata quando la Turchia si è unita al Brasile nella stipula di un patto con l’Iran per limitare il suo arricchimento di uranio. Obama aveva lodato l’iniziativa in una lettera al presidente del Brasile Lula da Silva, apparentemente presupponendo che non avrebbe avuto successo e che avrebbe fornito uno strumento di propaganda contro l’Iran.
Quando [il patto] è riuscito gli Stati Uniti si sono infuriati, e l’hanno rapidamente minato spingendo una risoluzione del Consiglio di Sicurezza con nuove sanzioni contro l’Iran, talmente senza senso che la Cina si è subito unita volentieri – riconoscendo che le sanzioni avrebbero al massimo intralciato gli interessi dell’Occidente nella competizione con la Cina per le risorse dell’Iran. Ancora una volta Washington ha agito con prontezza per assicurarsi che gli altri non interferissero con il controllo degli USA della regione.

Non sorprendentemente, la Turchia (accanto al Brasile) ha votato contro la mozione delle sanzioni USA nel Consiglio di Sicurezza. L’altro membro regionale, il Libano, si è astenuto. Queste azioni hanno suscitato ulteriore costernazione a Washington. Philip Gordon, il primo diplomatico per gli affari europei dell’amministrazione Obama, ha avvertito la Turchia che negli Stati Uniti le sue azioni non sono capite e che deve “dimostrare il suo impegno per l’appartenenza all’Occidente” ha riportato l’agenzia di informazione AP, “un raro ammonimento ad un cruciale alleato della NATO”.

Anche la classe politica capisce. Steven A. Cook, uno studioso del Council on Foreign Relations, ha osservato che la questione critica, adesso, è “come teniamo i Turchi nella loro corsia?” – seguendo gli ordini come i buoni democratici. Un titolo di testa del New York Times ha catturato l’essenza dell’umore generale: “Patto con l’Iran visto come un’onta nell’eredità del leader brasiliano”. In poche parole, fai quello che diciamo.

Non c’è indicazione che altri paesi nella regione siano in favore delle sanzioni americane più di quanto non lo sia la Turchia. Al confine opposto dell’Iran, ad esempio, il Pakistan e l’Iran, incontratisi in Turchia, hanno recentemente firmato un accordo per un nuovo oleodotto.
Ancor più preoccupante per gli USA è che l’oleodotto potrebbe essere esteso all’India. Il trattato del 2008 degli Stati Uniti con l’India che appoggiava i suoi programmi nucleari – e indirettamente i suoi programmi di armi nucleari – era mirato a fermare l’unione dell’India all’oleodotto, secondo Moeed Yusuf, un consigliere dell’Asia meridionale per il United States Institute of Peace, che ha espresso una comune interpretazione. L’India e il Pakistan sono due dei tre poteri nucleari che si sono rifiutati di firmare il trattato di non proliferazione (NPT), il terzo è Israele. Tutti hanno sviluppato armi nucleari con il sostegno degli USA, e continuano a farlo.

Nessun individuo in retti sensi vuole che l’Iran sviluppi armi nucleari; né alcun altro [paese]. Un ovvio modo di mitigare o eliminare questa minaccia è di stabilire una zona libera da armi nucleari (NWFZ) in Medio Oriente. La questione è stata sollevata (di nuovo) in occasione della conferenza dell’NPT presso la sede delle Nazioni Unite all’inizio di maggio 2010. L’Egitto, come presidente delle 118 nazioni del Movimento dei Non-Allineati, ha proposto che la conferenza appoggiasse un programma che invitasse all’inizio delle negoziazioni nel 2011 per una zona libera da armi nucleari in Medio Oriente, come era stato concordato dall’Occidente, Stati Uniti compresi, alla conferenza di revisione sul Trattato di Non Proliferazione del 1995.

Washington è ancora formalmente d’accordo, ma insiste che Israele sia esentato – e non ha dato alcun cenno di permettere che tali misure siano applicate a se stesso [Washington]. I tempi non sono ancora maturi per la creazione della zona, ha affermato il segretario di stato Hillary Clinton alla conferenza del NPT, mentre Washington ha insistito che non può essere accettata alcuna proposta che preveda che il programma nucleare israeliano venga posto sotto il patrocinio dell’IAEA [International Atomic Energy Agency], o che richieda ai firmatari del NPT, specificamente a Washington, di rivelare informazioni sugli “impianti e sulle attività nucleari di Israele, comprese le informazioni pertinenti ai precedenti trasferimenti nucleari a Israele”. La tecnica di evasione di Obama è di adottare la posizione di Israele, ossia che qualunque proposta del genere deve essere a condizione di un completo accordo di pace, che gli USA possono ritardare indefinitamente, come ha fatto per 35 anni, con rare e temporanee eccezioni.

Al tempo stesso, Yukiya Amano, capo dell’International Atomic Energy Agency, l’ente internazionale per l’energia atomica, ha chiesto ai ministri degli affari esteri dei suoi 151 stati membri di esprimere le proprie vedute su come attuare una risoluzione che preveda che Israele “acceda” all’NPT e che apra le sue strutture nucleari alla supervisione dell’IAEA, ha riportato l’agenzia di informazione AP.

Viene raramente notato che gli Stati Uniti e il Regno Unito hanno una responsabilità speciale per lavorare alla creazione di una NWFZ in Medio Oriente. Nel cercare di fornire una debole copertura legale per la loro invasione dell’Irak nel 2003, hanno fatto appello alla risoluzione 687 (del 1991) del Consiglio di Sicurezza, che invitava l’Irak ad interrompere il suo sviluppo di armi di distruzione di massa. Gli USA e il Regno Unito hanno sostenuto di non averlo fatto. Non c’è bisogno di soffermarsi sulla scusa, ma tale risoluzione vincola i suoi firmatari ad agire per stabilire una zona libera da armi nucleari in Medio Oriente.

Pareteticamente, potremmo aggiungere che l’insistenza degli Stati Uniti di mantenere gli impianti nucleari a Diego Garcia minaccia la zona (NWFZ) creata dall’Unione Africana, proprio come Washington continua a bloccare una zona NWFZ nel Pacifico escludendo i suoi territori del Pacifico.

L’impegno retorico di Obama per la non proliferazione ha ricevuto molta lode, persino un premio Nobel per la pace. Una mossa pratica in questa direzione è la creazione di zone libere da armi nucleari. Un’altra è il ritiro del sostegno per i programmi nucleari dei tre non firmatari del trattato di non proliferazione. Come spesso succede, la retorica e le azioni sono a stento allineate, in effetti in questo caso sono in diretto contrasto, fatti che richiamano poca attenzione.

Anziché intraprendere azioni pratiche per ridurre la davvero terribile minaccia della proliferazione delle armi atomiche, gli USA devono fare degli importanti passi per rafforzare il controllo dell’America sulle vitali regioni mediorientali che producono petrolio, anche con la violenza, se non ci riescono altrimenti. Tutto ciò è comprensibile e persino ragionevole, secondo la prevalente dottrina imperialista.

[traduzione per comedonchisciotte.org di Micaela Marri]

Se Silvio dice: parlate di antimafia | Il Fatto Quotidiano

Fonte: Se Silvio dice: parlate di antimafia | Il Fatto Quotidiano.

Mercoledì 4 agosto 2010, durante la seduta svoltasi alla Camera dei Deputati, nel mentre erano in corso le dichiarazioni di voto sulla mozione relativa al Sottosegretario Caliendo, il presidente del Consiglio dei Ministri, dopo il suo ingresso da “Duce” in Aula, ha mandato un biglietto all’on. Cicchitto con il quale lo invitava a “parlare di antimafia”.

E già perché per Berlusconi l’antimafia si deve ridurre ad una mera elencazione di numeri legati alla cattura dei latitanti e al sequestro dei patrimoni illeciti, senza tra l’altro riconoscere che il tutto è frutto del grande lavoro profuso dalle Forze di Polizia e dalla Magistratura.

Per il Cavaliere occorre invece tacere sulle stragi del ’92 e del ’93, su Spatuzza, su Dell’Utri, condannato in appello per associazione mafiosa, su Cosentino ed altri.

Occorre tacere sugli intrecci mafia – politica e sulla “borghesia mafiosa”.

Occorre tacere sull’inchiesta “Crimine”, condotta dalle DDA di Milano e Reggio Calabria, e sul flusso di consensi elettorali indirizzato dalla ‘ndrangheta.

Solo così possono continuare a stare seduti in Parlamento uomini come Dell’Utri, Cosentino, Abelli ed altri, ai quali sicuramente avrà già rinnovato la “nomina “ per la prossima legislatura. Solo così si possono continuare a tenere gli occhi chiusi sui Consigli regionali e provinciali di Lombardia e Calabria.

D’altra parte la dimostrazione palese di ciò che il Cavaliere ed alcuni suoi ministri intendano per antimafia, la si è avuta sulla più che nota vicenda “Comune di Fondi”!

E così le mafie ringraziano: l’impunità garantisce la prosecuzione degli affari illeciti ed il rafforzamento dei rapporti con i mondi politico ed imprenditoriale!

Antimafia Duemila – Un alto dirigente NASA: la velocità dell’aereo dell’11/9 non quadra

Fonte: Antimafia Duemila – Un alto dirigente NASA: la velocità dell’aereo dell’11/9 non quadra.

di PilotsFor911Truth.org – 6 agosto 2010
Di recente il gruppo Pilots for 9/11 Truth (Piloti per la verità sull’11/9, ndt) ha analizzato le velocità registrate per gli aeromobili utilizzati in occasione dell’11 settembre. Numerosi esperti di aviazione hanno espresso le loro perplessità per quanto riguarda la velocità…

…di gran lunga al di sopra di quella massima operativa prevista per i Boeing 757 e 767, in particolare, alcuni Comandanti di 757/767 della United e dell’American Airlines che vantano ore di volo effettive in tutti gli aeromobili che si dice siano stati utilizzati l’11/9.

Questi esperti dichiarano che tali velocità sono impossibili da ottenere in prossimità del livello del mare nell’aria densa, nel caso che l’aereo sia un 757/767 standard come riferito. Se si combina questo con il fatto che il velivolo di cui si è narrato che abbia colpito la torre sud del World Trade Center stava anche generando elevati fattori di carico mentre virava e si tirava fuori da una picchiata, tutta la questione diventa incomprensibile per indagare in che modo un 767 standard sia in grado di eseguire tali manovre a velocità così intense, oltre i limiti massimi di funzionamento del velivolo.

Soprattutto per coloro che fanno ricerca in modo approfondito sull’argomento e hanno esperienza nel settore dell’aviazione.

Il co-fondatore di Pilots For 9/11 Truth, Rob Balsamo, ha recentemente intervistato un ex direttore di volo della NASA, responsabile dei sistemi di controllo di volo al centro di ricerca sul volo NASA di Dryden, il quale si è anche espresso dopo aver visto l’ultima presentazione curata da Pilots For 9/11 Truth – “9/11: World Trade Center Attack”.

L’alto dirigente in pensione Dwain Deets ha rappresentato le sue preoccupazioni in materia all’American Insitute of Aeronautics and Astronautics (AIAA) nel modo seguente:

La responsabilità di spiegare un’improbabilità aeronautica di Dwain Deets
Centro di ricerca sul volo NASA di Dryden (alto dirigente in pensione)
ricercatore associato AIAA

L’aeroplano era l’UA175, un Boeing 767-200, appena prima dell’impatto con il World Trade Center Torre 2.

Basandosi sull’analisi dei dati radar, il National Transportation and Safety Board (NTSB, il Consiglio nazionale sulla sicurezza bei trasporti, ndt) ha stabilito che la velocità a terra appena prima dell’impatto era di 510 nodi (945 km/h, ndt). Questo è ben oltre la massima velocità di crociera di 360 nodi (667 km/h), nonché della massima velocità in picchiata di 410 nodi (759 km/h).Le possibilità per come la vedo io sono queste:

  1. non si trattava di un 767-200 standard;
  2. i dati radar sono stati in qualche maniera compromessi;
  3. le analisi dell’NTSB erano errate;
  4. il 767 volava ben oltre il suo diagramma di manovra, era controllabile, e manovrato per colpire un obiettivo relativamente piccolo.

Quale organizzazione ha maggiore responsabilità nel non riconoscere una così enorme evidenza (“elephant in the room” nell’originale, ndt)? L’NTSB, la NASA, la Boeing, o l’AIAA? Gli ingegneri hanno posto la loro firma a dei documenti, ma l’AIAA o la NASA non li pubblicherà? Oppure, la responsabilità morale non risiede nelle organizzazioni ma spetta a singoli ingegneri aeronautici? Gli ingegneri hanno semplicemente guardato da un’altra parte?Le obiezioni sopracitate sono rimaste nel Forum soggetto a moderazione dell’AIAA Aerospace America per circa due settimane, prima di essere rimosse senza spiegazione. Potete cliccare su “Who is Ethically Responsible” (“Chi è il responsabile morale”, ndt) inserito da Dwain Deets al Forum del “Pilots For 9/11 Truth” per una discussione su queste obiezioni all’AIAA.

Le credenziali e l’esperienza di Dwain Deets sono esposte qui di seguito:

Dwain Deets – Master of Science in fisica e in ingegneria;
– Ex direttore dei progetti aerospaziali presso il Centro di Ricerca sul Volo della NASA a Dryden;
– Ex direttore della Research Engineering Division a Dryden;
– Insignito del premio “NASA Exceptional Service”;
– decorato con la “medaglia presidenziale al merito” per la sua attività di alto dirigente (1988);
– Presentatore scelto alla “Wright Brothers Lectureship” presso l’Aeronautics Associate Fellow – American Institute of Aeronautics and Astronautics (AIAA);
– Incluso nel “Who’s Who in Scienza e Ingegneria” 1993 – 2000;
– Ex presidente della Aerospace Control and Guidance Systems;
– Membro del Comitato della Society of Automotive Engineers (associazione degli ingegneri del settore automobilistico)
– ex membro dell’AIAA Committee on Society and Aerospace Technology
– 37 anni di carriera nella NASA

E’ lampante – sulla base di affermazioni dettate da riconosciuta esperienza nonché sulla base dei dati grezzi e dei precedenti – che la velocità riferita dell’aeromobile dell’11/9 sia incredibilmente eccessiva: ciò è di un’evidenza abbagliante e necessita di essere indagato a fondo.

Per un’analisi sommaria della velocità, vedi l’articolo 9/11: Speeds Reported For World Trade Center Attack Aircraft Analyzed (“11/9: analisi sulle velocità riportate per l’aeromobile dell’attacco al World Trade Center”, ndt).

Per osservare la scena da “9/11: World Trade Center Attack” che analizza le velocità riportate con più dettaglio, clicca qui.

Per un’analisi completa e dettagliata che descriva gli eventi che ebbero luogo a New York l’11 Settembre 2001, interviste con esperti, incluse le analisi sull’abilità di pilotaggio del “dirottatore”, il recupero della Scatola Nera e altro….

Si veda l’ultima presentazione di “9/11: World Trade Center Attack” dei “Pilots For 9/11 Truth”.

Fondata nell’Agosto 2006, “Pilots For 9/11 Truth” è un’organizzazione in crescita composta di professionisti dell’aviazione di tutto il globo. L’organizzazione ha anche analizzato i dati di volo forniti dal National Transportation Safety Board (NTSB) per l’attacco al Pentagono e gli eventi di Shanksville, Pennsylvania. I dati non supportano la versione governativa. La NTSB/FBI si rifiuta di commentare. “Pilots for 9/11 Truth” non indica una teoria né una colpa specifica al momento. Comunque, c’è una crescente montagna di informazioni e dati contraddittori che le agenzie governative e ufficiali si rifiutano di riconoscere. Il nucleo della lista di membri di Pilots For 9/11 Truth continua a crescere.

Cliccare http://pilotsfor911truth.org/core.html per una lista completa degli aderenti. Cliccare

http://pilotsfor911truth.org/join per unirsi all’organizzazione.

Commenti? Cliccate qui per discutere.

Intervista registrata successiva all’articolo – 30 giugno 2010:
http://pilotsfor911truth.org/interviews/Dwain_Deets063010.mp3

10mb download, circa 22 minuti.

Fonte: http://pilotsfor911truth.org/911_Aircraft_Speed_Deets.html.

Traduzione per Megachip di Cipriano Tulli.

Il partigiano Gaetano Costa | Blog di Giuseppe Casarrubea

Il partigiano Gaetano Costa | Blog di Giuseppe Casarrubea.

Ricorre oggi, 6 agosto, il trentesimo anniversario dell’assassinio del procuratore capo della Repubblica di Palermo Gaetano Costa, ucciso nel 1980.

Tra le vittime della mafia è una delle più illustri, per la sua singolarità e per il tempo in cui ebbe a svolgersi la sua azione di contrasto di Cosa Nostra. Prima ancora dell’epoca di Falcone e Borsellino. E’ un precursore, un magistrato che precorre i tempi, come il Battista.

Originario del nisseno, quando arriva a Palermo, trova un ambiente ostile. Ciò nonostante continua l’azione coraggiosa intrapresa dal giudice Cesare Terranova assassinato l’anno prima, nel 1979. Comincia così a fare quello che non avevano fatto alcuni dei suoi colleghi: firma diversi mandati di cattura contro il boss Gaetano Spatola e diventa presto, consapevole di esserlo, il numero uno della lista  dei nomi che la mafia decide di cancellare. Il delitto è ordinato da Salvatore Inzerillo, ma a distanza di trent’anni possiamo dire che nessuno è stato condannato per la sua morte. Avvenuta quella sera d’estate a Palermo mentre solo è intento a guardare un libro in una bancarella di via Cavour. Aveva rifiutato ogni scorta perchè non voleva essere responsabile  della morte provocata indirettamente agli uomini che lo avrebbero accompagnato.

Tirò dritto per la sua strada come un uomo che sapeva che quella era la via giusta da percorrere per arrivare alla meta. Cioè l’esempio, la serietà professionale, il coraggio delle proprie scelte, quando altri magistrati lo lasciavano solo e apparivano arrendevoli. La sua fu, al contrario, una vera e propria guerra di Liberazione, molto simile a quella che egli stesso aveva combattuto dopo l’8 settembre durante la Resistenza antifascista. E da combattente è caduto.

Nell’occasione della ricorrenza del suo assassinio, pubblichiamo alcuni stralci di documenti che abbiamo avuto tramite il figlio, l’avvocato Michele Costa. Ne ricordiamo la figura in questi tempi in cui il disfacimento dei valori, il personalismo, e la corruzione sono persino al governo della cosa pubblica.

Buscetta e Cammarata verbali

Mafia e politica. 150 anni di rapporti ininterrotti

Fonte: Mafia e politica. 150 anni di rapporti ininterrotti.

È opinione prevalente tra gli storici che l’origine del fenomeno mafioso italiano sia legato alle due leggi di eversione della feudalità, 1808 nel regno di Gioacchino Murat e 1812 nella Sicilia anglo-borbonica1.

È a partire da queste date che si sviluppa una peculiare forma di criminalità inesistente nel nord Italia, ma anche nella maggior parte del Mezzogiorno e nell’Europa occidentale.

Si hanno prove storiche di un uso della mafia siciliana e della camorra napoletana da parte delle autorità politiche e di polizia, in funzione di controllo della carboneria e della microcriminalità. Tuttavia il rapporto tra il potere politico e le organizzazioni criminali si svolge in un solo senso: le autorità influenzano e dirigono l’azione delle cosche mafiose e camorriste, in maniera utile al potere borbonico, ma – data la natura autoritaria di quest’ultimo – non esiste la possibilità per le organizzazioni criminali di esercitare una influenza verso il potere politico orientandone le scelte. Bisognerà attendere l’unità d’Italia, il sistema liberale e l’introduzione delle elezioni politiche e amministrative perché nasca questa nuova potenzialità.

I clan capiscono subito che sostenendo le elezioni di questo o quell’altro politico possono poi utilizzare lo stesso per i propri fini influenzando attraverso essi le decisioni dei diversi Enti dello Stato, nasce così quello che noi oggi definiamo “voto di scambio” e nasce il moderno fenomeno mafioso.


Marco Monnier
si accorge subito di questo mutamento qualitativo e del nuovo rapporto che va a determinarsi tra organizzazioni criminali e potere politico. Nel suo libro-inchiesta del 1863 sulla camorra napoletana così si esprime: “Tutti quei bravi dei mercati di Napoli non si contentavano di rubare pochi soldi ai sempliciotti: erano addivenuti uomini politici. Nelle elezioni proibivano tale o tal’altra candidatura, confortando co’loro bastoni la coscienza e la religione degli elettori. Né si contentavano di inviare un deputato alla camera, e sorvegliarne da lungi la condotta; spiavano il suo contegno, si facevano leggere i suoi discorsi, non sapendo leggerli da sé medesimi2.

Se ne accorge anche il Prefetto di Reggio che nel 1869 ottiene l’annullamento delle elezioni amministrative perché condizionate dall’attiva presenza di mafiosi. “I giornali locali scrissero apertamente di mafiosi che giravano impunemente per le vie della città e denunciarono il fatto che i partiti fossero obbligati a far transazioni con gente di equivoca rispettabilità”3.

E se ne accorge Leopoldo Franchetti nel 1876: “Difatti, si sente raccontare che la tale o tal’altra persona influente in politica o nelle amministrazioni locali ha a suo servizio il tale o tal altro capo mafia di Palermo o di un paese vicino, e per mezzo suo, una parte di quella popolazione di facinorosi per mestiere o per occasione, che infestano la città e i suoi dintorni4.

Il nuovo rapporto mafie-politica che nasce con l’unità d’Italia e il sistema liberale non è stato mai semplice, lineare; ha vissuto alti e bassi, alternandosi in periodi di più o meno intense collaborazioni o repressioni.

Ogni qualvolta l’agire delle bande criminali ha raggiunto livelli tali da mettere in crisi la legittimità a governare del ceto politico è scattata la repressione per limitarne la portata.

In 150 anni di storia unitaria, si sono avvicendate diverse ondate repressive, nessuna delle quali si è però dimostrata risolutiva e nel corso delle quali il rapporto mafie-politica mai si è spezzato.

Nel 1898, vent’anni dopo la prima grande andata repressiva del prefetto Malusardi nella Sicilia occidentale, il questore di Palermo Ermanno Sangiorgi, lamentando le difficoltà nella lotta alla mafia così si esprime ” “… sgraziatamente i caporioni della mafia stanno sotto la tutela di Senatori, Deputati e altri influenti personaggi che li proteggono e li difendono per essere poi, alla loro volta, da loro protetti e difesi”5.

Cesare Mori, dopo aver liquidato, nel biennio 1926-28 la rete di clan nella Sicilia occidentale, volge la sua attenzione ai rapporti tra mafia e potere nell’isola, per colpire la rete politica di sostegno ai clan.

Travolge con le sue inchieste il generale Antonino Di Giorgio, comandante del 2° corpo di armata di stanza in Sicilia, e il federale di Palermo Alfredo Cucco, detto il ducino. La sua azione si spinge fino a coinvolgere il viceministro degli interni Michele Bianco. A questo punto, il 16 giugno 1929, Cesare Mori riceve il seguente telegramma: “Con regio decreto V. E. è stata collocata a riposo per anzianità di servizio a decorrere da oggi 16 giugno. F.to Il Capo del Governo”. Mussolini aggiunge di suo pugno:”La ringrazio dei lunghi servizi resi al paese6.

Di Giorgio se la caverà con le dimissioni, Cucco verrà assolto dai 33 capi di imputazione che Mori e il Procuratore Giampietro gli avevano addossati, Michele Bianchi continuerà tranquillamente a fare il vice ministro.

Ancora più oscure e inquietanti le vicende relative alla morte di Falcone e Borsellino e agli attentati del 1992-93, che stanno ultimamente emergendo circa il coinvolgimento di “pezzi deviati” dello Sato nella gestione della strategia terrorista di cosa nostra.

Ora, se uno specifico fenomeno criminale – la cui caratteristica fondante è data dalla capacità di intrecciarsi alla politica e penetrare negli apparati dello Stato – in 150 anni di storia unitaria non è stato eliminato, la conclusione non può che essere la seguente: è mancata la volontà politica a farlo.

Il ceto politico italiano, dall’unità ad oggi, non è stato in grado di spezzare i legami con le organizzazioni criminali di tipo mafioso, così come non ha saputo o voluto risolvere alcune altre questioni connesse al processo di unificazione nazionale e allo stesso fenomeno mafioso:

  • Il divario socio economico Nord-Sud
  • L’elevato e costante livello di corruzione7
  • La diffusa (al Nord come al Sud) pratica clientelare
  • Il vasto sentimento antipolitico che ciclicamente riemerge nella storia contemporanea italiana.

Va precisato che quando parliamo di “ceto politico” non ci riferiamo alla totalità delle persone che lo compongono, ma alla posizione politica in esso dominante, spesso trasversale a più partiti politici8.

Vi sono state figure gloriose di politici che nella lotta alla mafia hanno sacrificato la propria vita: da Bernardino Verri, sindaco socialista di Corleone, ucciso nel 1914, al democristiano Piersanti Mattarella, presidente della Regione Sicilia, al deputato comunista Pio La Torre, per non parlare poi di oltre un centinaio di sindacalisti, capilega, segretari di sezione e consiglieri comunali del PCI uccisi da cosa nostra tra il 1947 e il 1960.

Entrare, quindi, nel merito e specificare le responsabilità del ceto politico italiano ci sembra, pertanto, opportuno per non coinvolgere ingiustamente nel giudizio negativo quella minoranza di politici che ha lottato e lotta contro le mafie, ma soprattutto per individuare i diversi livelli di responsabilità e possibili strategie di contrasto del movimento antimafia.

Il primo livello di responsabilità – il più grave – è di quella parte del ceto politico italiano che nel corso di un secolo e mezzo ha utilizzato sistematicamente i clan mafiosi in funzione di controllo delle opposizioni sociali e politiche.

Nelle fasi più critiche della storia unitaria, nelle regioni meridionali, si è avvertito con più chiarezza il legame mafie-politica e il nefasto ruolo dei clan nel controllo e contenimento delle forze sociali e politiche antigovernative.

È quanto si può evincere dall’inchiesta di Leopoldo Franchetti per il primo quindicennio della Sicilia italiana; dalla repressione del movimento dei fasci siciliani (1892-94)9, ma soprattutto dalla fase post bellica della 2° guerra mondiale10.

Un secondo livello di responsabilità riguarda quell’insieme di politici che riducono la questione mafiosa a problema di mera criminalità, relativo alle regioni meridionali, e da risolvere con gli strumenti della repressione.

Si tratta di un atteggiamento pernicioso, assunto a volte in buona fede, che ha nuociuto e nuoce gravemente all’azione di contrasto dell’espansione della criminalità di tipo mafioso.

Il caso più emblematico in proposito è quello della Puglia. Regione priva di un insediamento mafioso storico, diversamente dalle altre tre meridionali, è stata “colonizzata”, a partire dalla fine degli anni ’70 e nel corso degli anni’80 del secolo scorso, dalle altre tre mafie storiche: camorra, cosa nostra e ‘ndrangheta.

La nascita in Puglia di una rete di clan è stata largamente favorita da un irresponsabile atteggiamento di sottovalutazione della minaccia, fatta di una insistente attribuzione alla criminalità comune di ogni fatto delittuoso di criminalità mafiosa.11

Analogo discorso vale per le regioni del Centro-Nord. Ancora oggi in Lombardia, benché ogni indicatore oggettivo (numero di arresti per l’art. 416bis C.P., quantità di processi di mafia e conseguenti espropri di beni) e i censimenti della Direzione Investigativa Antimafia (DIA) ci dicano che ci troviamo in presenza della quarta regione mafiosa d’Italia, la convinzione più diffusa è quella di una sostanziale estraneità della società civile e politica lombarda al fenomeno mafioso.

Un terzo tipo di responsabilità può essere attribuito a quei politici che, pur nemici dichiarati dei clan, hanno adottato o adottano metodologie analitiche del fenomeno mafioso che tendono a considerare la questione mafiosa come peculiare aspetto del capitalismo italiano.

In altri termini, una sorta di sottoprodotto del capitalismo di cui ci si libererà allorquando si avvierà il processo rivoluzionario di superamento del capitalismo.

Era questa la visione tipica dei comunisti italiani nel secolo scorso, ed è questa che in qualche misura sopravvive nella “teoria della borghesia mafiosa”12, molto diffusa nella sinistra radicale attuale, una visione che tende a spostare in un indefinito futuro la soluzione della questione mafiosa.

Infine, veniamo a quella che è, a mio avviso, la principale responsabilità del ceto politico italiano nella sopravvivenza del fenomeno mafioso.

L’unificazione nazionale (e l’avvento del regime liberale) è avvenuta con la sostanziale estraneità, se non aperta ostilità, della stragrande maggioranza dei ceti popolari italiani, operai e contadini, alla quale si era aggiunto l’astio del Vaticano, con il conseguente divieto per i cattolici di partecipare alla vita politica del nuovo Stato.

La debole borghesia italiana si è trovata, per sua scelta, costretta a rinunciare immediatamente ai propositi federalisti e invogliata a utilizzare ogni strumento per il controllo delle opposizioni sociali e politiche.

Corruzione e clientelismo sono presto entrati a far parte di questo strumentario, favoriti dall’eredità Piemontese dove la magistratura inquirente era sostanzialmente sottoposta al potere politico e ciò consentiva ampi spazi di manovra ai politici13.

Elargizioni di quote di bilancio dello Stato a potentati e maggiorenti politici locali – da gestire con criteri privatistici – era una condizione necessaria per mediare e tenere unite, intorno ad un centro nazionale, le variegate realtà locali e gli strati sociali popolari.

Questo schema non muta né con il regime fascista né con l’avvento della Repubblica.

Per lo storico anglosassone Christopher Duggan, il fascismo provò ad annullare la separatezza tra Stato e ceti popolari con la retorica nazionalistica, senza però rinunciare al ruolo di mediazione dei ras politici locali14.

Nel quarantennio democristiano il ruolo di raccolta del consenso mediante il clientelismo si accentuò ulteriormente e l’opposizione comunista non fu da meno nelle aree da lei amministrate.

Con il berlusconismo, la delegittimazione del potere giudiziario e alcune modifiche legislative (cosiddette leggi ad personam) hanno fortemente indebolito l’azione di contrasto della magistratura verso la corruzione.

Ora, la corruzione rappresenta il terreno sul quale avviene l’incontro tra clan criminali e politici.

Il politico corretto rifiuta profferte di sostegno elettorale del clan, quello corrotto le accetta e la sua futura azione ne resta condizionata. Clientelismo e voto di scambio sono gli strumenti di penetrazione delle mafie nello Stato.

Il persistente rifiuto del ceto politico italiano a sottostare ai controlli di legalità sul proprio operato e l’ostinazione a tenere in vita una sorta di “Stato patrimoniale” (per i criteri privatistici con i quali nei fatti è gestito) consentono livelli elevati di corruzione e clientelismo che a loro volta aprono le porte dello Stato ai criminali.

Se le considerazioni sin qui fatte hanno un senso allora il fenomeno mafioso è da considerarsi eminentemente un prodotto della politica italiana e conseguentemente potrà essere definitivamente estirpato solo con una piena effettiva affermazione dello Stato di diritto; uno Stato nel quale i diritti costituzionali non siano più una concessione dei gestori della cosa pubblica ma appartengano ai cittadini in quanto tali.

Ugo Di Girolamo (fonte: www.strozzatecitutti.info, 6 agosto 2010)

1 Cfr Enzo Ciconte, Storia Criminale, Rubbettino 2008, pp. 32-41
2 Marco Monnier, La camorra. Notizie storiche raccolte e documentate, pubblicato nel 1863,ristampato da Arturo Berisio Editore, Napoli 1965, pag. 133

3 Senato della Repubblica – Camera dei Deputati, XV legislatura. Relazione annuale della Commissione Parlamentare d’Inchiesta sul fenomeno della criminalità organizzata mafiosa o similare. ‘Ndrangeta, approvata il 20 febbraio 2008, relatore Francesco Forgione, capitolo II Storie – paragrafo 1, Le origini.

4 Leopoldo Franchetti, “Condizioni politiche e amministrative della Sicilia”, 1° pubblicazione 1876, Donzelli Roma 2000, pag. 12
5 Citazione riportata in Salvatore Lupo, Che cos’è la mafia, Donzelli, Roma 2007, pag. 91
6 Arrigo Petacco, Il prefetto di ferro, Mondadori, 1975, pag. 216
7 Vedasi in proposito Sergio Turone, Politica ladra. Storia della corruzione in Italia. 1861-1992, Laterza Bari 2004

8 Con l’espressione “ceto politico” intendiamo quell’insieme di persone che dalla politica trae un reddito o integra il proprio reddito e che per la loro condizione di inamovibili gestori del “mercato del voto” hanno sviluppato interessi comuni, indipendenti dalle contrapposizioni ideologiche o ideali, che li portano ad una netta separatezza dai governati. Cfr in proposito Alfio Mastropaolo, Il ceto politico. Teoria e pratica, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1993, pp. 9-13.

9 Umberto Santino, Storia del movimento antimafia, Editori Riuniti, Roma 2009, pp. 29-110
10 Si veda in proposito Giuseppe Casarrubea, Storia segreta della Sicilia, Bompiano, Milano 2005
11 Monica Massari, La sacra corona unita. Potere e segreto, Laterza, 1998, pag. 7
12 Cfr Umberto Santino, Dalla mafia alle mafie, Rubbettino 2006, pag. 251 e Alcuni punti per una strategia antimafia, Centro Siciliano di documentazione “Giuseppe Impastato”, Onlus 2006, http://www.centroimpastato.it//publ/online/dibattito_borsellino.php3
13 Carlo Giuseppe Rossetti, L’attacco allo Stato di diritto, Liguori Editore, Napoli 2001, pp. 73-80

14 Christopher Duggan, La forza del destino. Storia d’Italia dal 1796 a oggi, Editori Laterza, Bari 2008, pp. 514-16

Antimafia Duemila – Come si uccide un’inchiesta

Antimafia Duemila – Come si uccide un’inchiesta.

di Gabriella Nuzzi (*) – 6 agosto 2010
Ho scelto di percorrere in questi mesi la strada della riflessione e del silenzio. Non certo per timore, né per rassegnazione. L’esame introspettivo degli eventi consente di trovare soluzioni, le migliori possibili, per sé e per gli altri.

Di fronte all’ingiustizia, e più di tutto se gli è inflitta, un magistrato, che sia davvero tale, non cerca vie di fuga, né comodi ripari. Perciò, ho continuato a credere nella magistratura e nel suo operato. La Grande Bugia della guerra tra le procure di Salerno e Catanzaro, creata ad arte per sottrarre a me e ai colleghi salernitani le inchieste sugli uffici giudiziari calabresi e privarci delle funzioni inquirenti, non può non trovare risposte giuridiche e giudiziarie.

Macigni e ostacoli sulla verità
QUANDO il 2 dicembre 2008 furono eseguiti il sequestro probatorio del fascicolo “Why Not” e le perquisizioni ai magistrati che l’avevano gestito a colpi di stralci e archiviazioni, si accusarono i Pubblici ministeri salernitani di aver redatto provvedimenti “abnormi” ed eversivi, manifestando in tal modo “un’eccezionale mancanza di equilibrio, un’assoluta spregiudicatezza nell’esercizio delle funzioni ed un’assenza del senso delle istituzioni e del rispetto dell’Ordine giudiziario”. Con queste motivazioni, l’8 gennaio 2009, su proposta del capo dell’Ispettorato Arcibaldo Miller, il ministro della Giustizia Alfano richiese, in via d’urgenza, alla Sezione Disciplinare del Csm,presiedutadaNicolaMancino, l’applicazione di “misure cautelari” disciplinari nei miei confronti, del collega Verasani e del procuratore Apicella. Intervento preannunciato in Parlamento dal sottosegretario alla   Giustizia Giacomo Caliendo ai suoi amici di partito On.li Amedeo Laboccetta & C., che, in difesa dei calabresi, chiedevano la testa del dott. De Magistris e di noi altri suoi “sodali”. L’intero mondo politico-giudiziario, spalleggiato dalla grande “libera” stampa, che scatenò una tempesta mediatica, condannò la nostra scelta investigativa come un atto di “terrorismo giudiziario”,unattacco“senzaprecedenti” alle istituzioni democratiche, ispirato al perseguimento di fini personalistici e politici, di pericolosità tale da esigere una repressione esemplare e immediata. La Prima Commissione del Csm presieduta da Ugo Bergamo avviò il trasferimento d’ufficio per incompatibilità ambientale, poi sospeso in attesa degli esiti disciplinari. L’Associazione Nazionale Magistrati accettò di buon grado l’epurazione, nell’illusione di una futura pace dei sensi.

La santa inquisizione del Duemila
DOPO appena dieci giorni, con un processo da Santa Inquisizione, ci strapparono le funzioni inquirenti, allontanandoci dalla nostra Regione. Una cortina di silenzio e indifferenza s’innalzò intorno al “caso Salerno”. I magistrati calabresi inquisiti, autori del contro-sequestro del “Why Not”, instaurarono un procedimento penale a nostro carico e del dott. De Magistris, trasmettendolo poi alla Procura di Roma che, con l’Aggiunto Achille Toro, si mise a investigare liberamente sulle nostre vite private, senza alcun fondamento. Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione presiedute dal dott. Vincenzo Carbone chiusero in gran fretta il capitolo disciplinare con una pronuncia sommaria, storico esempio di come sia possibile, in tema di etica giudiziaria, affermare tutto e il contrario di tutto. Si aprirono a nostro carico   ulteriori procedimenti penali e disciplinari, branditi comeclave,affinchécisentissimo sotto perenne minaccia. Il 19 ottobre 2009, la stessa Sezione Disciplinare, su relazione dell’avv. Michele Saponara, accolse l’azione disciplinare promossa dal Procuratore generale della Cassazione Esposito, infliggendo a me e al collega Verasani la sanzione della perdita di anzianità (rispettivamente, sei e quattro mesi) e del trasferimento d’ufficio di sede e funzione. Non è stato facile resistere a tanta violenza morale. Una violenza frutto di arbitrio, che ha indecentemente calpestato ogni regola, senza arretrare neppure di fronte al riconoscimento giurisdizionale della legalità e necessità dei nostri comportamenti. La delegittimazione, l’isolamento, l’eliminazione sono metodi di distruzione mafio-massonici. E noi abbiamo pagato per aver osato far luce sulla massoneria politico-giudiziaria. Da allora, pazientemente, ho atteso che a parlarefosseroifatti.Eifatti,nel tempo, come tasselli di un incomprensibile puzzle, si stanno lentamente ricomponendo.

Logge, cappucci e grandi vecchi
ALCUNI di coloro che hanno concorso alla nostra epurazione pare avessero incontri con presunti appartenenti ad un’associazione segreta. Dunque, di fronte a innegabili evidenze, parlare oggi di consorterie massoniche interne anche agli apparati giudiziari non è più atto eversivo o scandaloso. Ampi dibattiti si sono aperti sulla “questione morale” delle nostre istituzioni. L’Associazione Nazionale Magistrati, rimembrando   proprio la nostra vicenda, ha stigmatizzato la “caduta nel vuoto” delle sue richieste di rigore, gridate a gran voce. Sicché contro l’ennesima ipocrisia del “sistema” s’infrange oggi il mio silenzio. Mi rivolgo agli illustri attivisti del correntismo giudiziario, quelli che mai sono stati sfiorati da un dubbio o da un ripensamento, trovando superfluo finanche articolare il pensiero. Esprimano, nella loro purezza, e possibilmente con cognizione di causa, una posizione precisa su ciò che di illecito è stato compiuto ai nostri danni, sull’“etica” che l’avrebbe ispirato, sulle scandalose ingiustizie di un “sistema” che, ancora oggi, incredibilmente, avalla l’impunità, lasciando che i potenti, corrotti o collusi, continuino a rimanere ai loro posti o peggio, siano premiati. Non sono i loro rappresentanti   più degni a spartirsi gli scranni del nostro “autogoverno”, a decidere nomine, promozioni, trasferimenti, punizioni disciplinari? O forse l’associazionismo sta dissociandosi da se stesso? Non vi sono oggi “questioni morali” che non lo fossero anche ieri. E allora occorre ripartire da zero, passando attraverso un profondo mea culpa. Questa pericolosa caduta libera di credibilità può arrestarsi soltanto con il ripristino del primato del Diritto e il ripudio definitivodellelogichediappartenenza e protezionismo. Solo proponendosi tali obiettivi e scegliendo figure di guida autorevoli, per integrità, indipendenza e competenza, l’Ordine giudiziario può sperare in un autentico rinnovamento morale, nell’interesse supremo del popolo e della democrazia.

(*) Giudice del Tribunale di Latina

Tratto da:
Il Fatto Quotidiano