Decine di episodi di minacce mafiose passati sotto silenzio da chi li subisce. Vititme che davanti ai pm si rifiutano di firmare i verbali. E’ la ‘ndrangheta sotto al Duomo. Così come la racconta il pm Alessandra Dolci durante la sua requisitoria nel processo Infinito
“Un ignoto estorsore mi ha chiesto il pizzo”. Parole registrate e messe a verbale dai magistrati dell’antimafia di Milano. Plastica dimostrazione di quanto l’assoggettamento mafioso possa storpiare addirittura la semantica. Capita in Lombardia. Non a Paltì o a San Luca. Perché al di là del cosiddetto capitale sociale dei clan, declinato sul fronte politico o imprenditoriale, resta il metodo mafioso che controlla il territorio e mette in scacco la società civile. A Canzo, profonda Brianza, coma a Desio, a Bollate e ovunque la ‘ndrangheta padana abbia lanciato la sua opa criminale. Il controllo mafioso non è affatto una categoria astratta, ma il precipitato di decine di episodi che hanno coinvolto famiglie e imprenditori della ricca Lombardia. Una lunga e inquietante scia di fatti contenuti nella requisitoria del pm Alessandra Dolci che due giorni fa ha chiesto circa mille anni di condanne per 118 presunti affiliati alle cosche al nord.
Lo schema generale riassunto dal magistrato è tanto chiaro quanto allarmante. Vediamolo. A fronte di un episodio estorsivo viene sentita la vittima. L’interrogatorio è rubricato come s.i.t. (sommarie informazioni testimoniali). S’inizia il 14 luglio 2010, il giorno dopo il maxi-blitz che in poche ore si è messo in tasca 300 arresti tra la Calabria e la Lombardia. “Tizio – racconta la Dolci – viene sentito il 14 luglio e dice qualcosina. Riconvocato due giorni dopo, aggiunge qualche altro particolare. Terzo giorno, risentite le telefonate, dice: eh beh! Sì, è vero effettivamente pagavo gli interessi”. In altri casi, addirittura, la persona si rifiuta di firmare il verbale. Dopodiché tutti quelli sentiti hanno chiesto che a verbale fosse messo come loro non avessero “mai subito né minacce né intimidazioni”. Nella realtà, naturalmente, capita il contrario. A dimostrazione di come la presenza dei clan, anche fuori dalla regione d’origine, si modula secondo gli schemi classici della mafia criminale. Altro che colletti bianchi.
Pioltello, ad esempio, è un piccolo comune a nord di Milano. Qui il primo marzo 2008 è stato aperto un locale di ‘ndrangheta per volere dello stesso Carmelo Novella, il padrino che sognava l’autonomia dalla Calabria e nell’estate del 2008 finì ammazzato ai tavolini di un bar a San Vittore Olona. A Pioltello comandano Alessandro Manno e Cosimo Maiolo. Entrambi gestiscono gli affari della cosca. Business illeciti come la droga o apparentemente leciti, come, ad esempio, la gestione dei videopoker nei locali della zona. Uno di questi è la trattoria La Fontana gestita dalla signora C.D. La sua vicenda viene riassunta dal pm. “Ha ricevuto la visita di Cosimo Maiolo, il quale le ha detto che doveva mettere nel suo bar le loro macchinette videopoker”. La signora si rifiuta. Poche ore dopo si presenta il fratello di Maiolo e si mette a spaccare tutte le macchinette presenti nel locale. Quindi urla: “Qui comandiamo noi, io ti brucio il locale”. Naturalmente la signora non denuncia. E non lo fa nemmeno W. C., il quale, dopo una discussione in un bar di Pandino, viene picchiato da Cosimo Maiolo. Il boss ci va giù duro e utilizza una mazza da basabell. Dopo l’aggressione, W. va al pronto soccorso. “Aveva la testa spaccata – prosegue il pm nella sua requisitoria – . Ha avuto otto punti di sutura. Al pronto soccorso ha detto che era caduto dalla bicicletta e non ha nemmeno preso la malattia, ma le ferie per dodici giorni”.
Da Pioltello a Desio ci passano pochi chilometri. Qui la cosca di riferimento è quella dei Moscato originari di Melito Porto Salvo. Uno dei boss di questo locale di ‘ndrangheta è Pio Candeloro detto Tonino. Il padrino ha il ruolo di capo società. Sostanzialmente è un vicario del capo cosca. E come tale si occupa degli affari più rilevanti. Tra questi, naturalmente, c’è anche il pizzo. La vittima, in questo caso, è S. B. titolare di un bar trattoria della zona. Il sostituto procuratore durante la sua requisitoria cita il suo verbale. Ecco, allora, cosa racconta S.B: “Due soggetti si sono presentati nel mio bar. Hanno detto che mi dovevano parlare e che dovevo pagare il pizzo. Hanno insistito e mi hanno invitato a riflettere, dicendo che sarebbero tornati”. Passano pochi giorni e nel bar del signor S. si presenta Tonino Candeloro. “Mi chiese subito se avessi avuto problemi – prosegue – . Mi dice che lui avrebbe potuto risolverli. Perché a Desio e dintorni lui era uno che contava, facendomi capire chiaramente che era lui che comandava”. Il titolare allora racconta al boss l’accaduto. Di nuovo passa qualche giorno. Candeloro si ripresenta al bar e chiede a S. 5.000 euro in prestito. “A quel punto mi disse che potevo contare su di lui per qualsiasi cosa e io cominciai a nutrire il sospetto che quelle due persone erano state mandate proprio da lui”. Da quel momento in poi, il capo società della ‘ndrangheta inizierà a presentarsi al bar sempre più spesso, pretendendo di pagare meno dei normali avventori. Capita a Desio, paese affondato nella provincia di Monza, la più ricca d’Italia.
E che Pio, Tonino, Candeloro sia un mafioso di spessore, ma anche un poco codardo, lo dimostra l’episodio che vede protagonista il signor M., il quale vanta un credito dal boss. “Viene preso – racconta l’accusa – caricato in macchina, portato sul piazzale dell’abitazione di Candeloro, circondato da una decina di soggetti, preso a pugni e calci dallo stesso Tonino e mandato via tutto ricoperto di sangue. Denunce: zero”
Nella zona tra Lonate Pozzolo e Legnano, invece, comanda la cosca di Vincenzo Rispoli. Uno dei suoi luogotenenti è Nicodemo Filippelli detto il cinese. Lui, con alcuni picciotti, è il protagonista di uno degli episodi più inquietanti. Riguarda l’imprenditore G. G. finito nella morsa dell’usura. Gli uomini della cosca così salgono sul treno dove si trovano i suoi figli. I ragazzi stanno andando a scuola. Gli uomini della ‘ndrangheta li obbligano a scendere. Dopodiché vanno da G. “La prossima volta – dicono – i tuoi figli non perdono solo la scuola”. Denunce: zero. Capita a Lonate Pozzolo in piena terra padana che ha dato i natali al ministro dell’Interno Bobo Maroni.
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