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Antimafia Duemila – L’Addaura. ”Tra” le ombre… luci.

Fonte: Antimafia Duemila – L’Addaura. ”Tra” le ombre… luci..

di Carlo Palermo – 11 maggio 2010
I recentii articoli di Attilio Bolzoni su Repubblica e di Alfio Caruso sul Corriere della Sera relativi all’attentato all’Addaura contro Giovanni Falcone del giugno del 1989 offrono spunti di riflessione sullo stato delle indagini attualmente svolte in particolare da taluni magistrati in Sicilia, che tentano oggi di decifrare e comprendere alcuni episodi che solo apparentemente riguardano “affari” di Sicilia, ma che forse costituiscono chiavi di lettura di attività più complesse, trovanti origine e motivazione in centri di potere più complessi.
Esponendosi gli esiti delle nuove attività investigative, si evidenzia oggi che l’episodio dell’Addaura può essere considerato come punto di inizio e chiave di lettura delle stragi del ’92, rilevandosi così che siamo in ritardo di 20 anni con le indagini in conseguenza degli occultamenti e dei depistaggi intenzionali che avrebbero oscurato così a lungo la ricostruzione della verità.
In merito non posso che concordare con tale attuale impostazione dei magistrati, anche se ritengo che il connubio tra poteri occulti, mafia e terrorismo risalga a molto tempo prima, e come tale vada esaminato nella sua globalità storica per essere poi individuato e decifrato in ogni singolo episodio che ne ha costituito espressione.
Per comprendere a fondo la genesi e le più complesse responsabilità delle stragi del ’92 è forse opportuno ricordare che poco dopo i due attentati di Capaci e di via d’Amelio, a Milano, vennero sequestrati armi e plastico per attentati: dietro l’organizzazione sembra esservi stato il clan mafioso della famiglia Fidanzati, operante da un ventennio sull’asse Palermo – Milano, in connessione con le organizzazioni della mafia turca e con i terroristi libanesi.
In questo ricorrente asse – forse poco approfondito nel comune convincimento che la mafia operi solo in Sicilia – possono rinvenirsi indizi che riconducono a fatti vecchi e nuovi (al caso Calvi, alla P2, al sistema delle corruzioni politiche, ecc.), tutti ruotanti attorno a rilevanti operazioni bancarie e finanziarie, che – come noto – costituisce il necessario sistematico legante di tutte le attività illecite.
La riflessione ci riporta (come ho da tanti anni ricordato in miei scritti) a vicende in qualche modo collegate a due conti bancari “famosi” per Giovanni Falcone, come anche per i magistrati di Milano: il “Conto Protezione, rif. Martelli per conto Craxi”, sulla banca Ubs di Lugano (che risaliva ai lontani anni 1979-80), e il meno noto Conto “rif. Roberto”, sul Banco di Roma, sede di Lugano.
Su questi nomi e su questi conti si incentrarono e poi si bloccarono le ricerche di Giovanni Falcone quando era giudice istruttore a Palermo.
Sul Conto Protezione per tanto tempo (e sino al ’93) si bloccarono a Milano le indagini della magistratura sul Banco Ambrosiano.
Sul Conto rif. Roberto si fermarono Falcone e Borsellino nelle loro inchieste di mafia.
Su entrambi i conti, in Svizzera iniziò a indagare, su richiesta di Falcone, il magistrato elvetico Carla Del Ponte, che si trovava a Palermo all’Addaura insieme a Falcone nel giorno dell’attentato del 1989 all’Addaura.
Io incontrai Carla Del Ponte il giorno prima che costei partisse per la Sicilia, per vedersi con Falcone a Palermo.
Sui conti elvetici poi, dopo l’eliminazione di Falcone e Borsellino, si sono nuovamente imbattuti, dal ’92 i magistrati di Milano e inquirenti siciliani (di Palermo, Caltanisetta e Catania) in varie inchieste sulla corruzione e sui fondi occulti all’estero.
Per Falcone e Borsellino, quei conti rimasero però un mistero.
Per dipanare la matassa, andiamo ancora più indietro e spostiamo l’attenzione su personaggi a lungo trascurati, Florio Fiorini e Giancarlo Parretti, recentemente al centro di scandali finanziari internazionali; in passato, legati alle vecchie storie del Banco Ambrosiano, della P2, delle forniture di petrolio Eni-Petromin: si potranno notare le strette connessioni di questi fatti (tipicamente “economici” e bancari) con altri piú propriamente “mafiosi”.
Agli inizi degli anni Settanta, Parretti arrivò a Siracusa e il suo cammino si incrociò con quello di un uomo politico che contava nella Sicilia dell’epoca, il senatore democristiano Graziano Verzotto.
Nativo del nord, Verzotto, ancora nel 1953, aveva svolto in Sicilia il doppio ruolo di funzionario dell’Agip (antenata dell’Eni) e di commissario provinciale della Dc. Divenne rapidamente padrone incontestato di Siracusa, poi di tutta l’isola, anche se i suoi rapporti con il leggendario presidente dell’Agip-Eni, Enrico Mattei, presto si raffreddarono.
Verzotto fu l’ultimo a salutare Mattei quando, la sera del 27 ottobre 1962, questi prese a Catania l’aereo privato che si sarebbe schiantato poco dopo a Bescape, a qualche decina di chilometri dall’aeroporto di Milano-Linate: fu forse il primo episodio terroristico in cui si mescolarono insieme gli emergenti interessi di Stato, legati ai commerci internazionali di petrolio, e la mafia.
Lo stesso Verzotto nel 1967 divenne segretario generale della Dc siciliana e poi presidente dell’Ente minerario siciliano (Ems), organismo che raggruppava diciotto società, con disponibilità sugli enormi fondi del Mezzogiorno.
I suoi intrecci con la mafia furono molteplici: fu amico di Frank Coppola e di Giuseppe de Cristina, uno dei principali protagonisti della seconda guerra di mafia. La posta principale, in quel momento, era il controllo del mercato immobiliare dell’isola attraverso il triunvirato Stefano Bontade, Gaetano Badalamenti, Salvatore Riina, uomo di fiducia di Luciano Liggio, allora capo dei corleonesi.
De Cristina venne assassinato a Palermo il 30 maggio 1978.
L’omicidio scatenò quella che poi venne chiamata la «mattanza»: una strage totale che raggiunse il culmine negli anni 1981-82.
Frattanto, Fiorini – alleato di Parretti – come direttore finanziario dell’Eni (diresse l’ente dal 1975 al 1982, data della sua forzata separazione dall’Eni, conseguente agli scandali dell’epoca), guidava allora le finanze della compagnia petrolifera in collegamento con i socialisti di Craxi, piduisti e il leader libico Gheddafi.
In quel periodo si infittirono gli investimenti e le partecipazioni internazionali: Parretti (socio di Verzotto) e Fiorini, attraverso il gruppo finanziario spagnolo Melia International, acquisirono il controllo sulla società belga Bebel, che possedeva a sua volta oltre il 7% della Banque Bruxelles Lambert. Questa banca – negli ultimi anni Settanta – comparve nelle trattative tra Fiorini e Antony Gabriel Tannoury, graccio destro di Gheddafy, nella cessione delle azioni delle Assicurazioni Generali in relazione ai tentativi del leader libico di acquisire tecnologie nucleari. E, sempre alla stessa banca, si ricollegarono altri commerci di armi (come ad esempio quelli relativi alle forniture al Belgio degli elicotteri Agusta) in connessione con altri personaggi operanti nel settore finanziario internazionale al massimo livello.
Nel 1978 venne anche aperto, a Lugano, presso l’Union Banques Suisses, il Conto Protezione intestato a Silvano Larini: “I dirigenti dell’Ubs erano degli amici”, disse Fiorini, con riferimento ai rapporti tra la banca svizzera e l’Ambrosiano. Sui conti dell’istituto elvetico – che custodí i segreti di Craxi una quindicina di anni – a piú riprese si svolsero operazioni finanziarie del piú vario genere: versamenti di tangenti connesse a transazioni petrolifere (Eni-Petromin), pagamenti di partite di droga (in particolare per il clan mafioso dei Cuntrera-Caruana), finanziamenti illeciti dei partiti, creazioni di fondi occulti, operazioni di riciclaggio.
L’Ubs, inoltre, tramite banche controllate – in particolare la Banque de Commerce et de Placements (la Bcp) – fu in stretti rapporti con il pachistano Abedi e la Bcci.
Sempre nel 1978, il 17 aprile, iniziò un’importante ispezione della Banca d’Italia sul Banco Ambrosiano in conseguenza della gravissima situazione debitoria in cui questa versava per le spericolate operazioni del suo presidente Roberto Calvi.
Nel novembre, il dossier passò al giudice di Milano, Emilio Alessandrini, che conduceva le indagini su Calvi. Dopo circa tre anni, il 29 gennaio 1979, egli fu ucciso da un commando di Prima linea.
Dopo il sequestro Moro e lo scandalo Lockheed, gli anni 1979-80 trascorsero tra i tentativi trasversali di occupazione di potere incentrati nelle operazioni Rizzoli-Corriere della Sera, commesse petrolifere Eni-Petromin, finanziamenti al Psi di Craxi, nonché tra i misteri legati alla strage di Bologna e a quella di Ustica: tutti questi episodi evidenziarono depistaggi, connessioni occulte con il terrorismo, collegamenti tra i servizi segreti italiani e quelli americani, in una situazione politica condizionata dalla guerra fredda tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, e tra gli Stati Uniti e l’Iran rivoluzionario di Khomeyni con un equivoco ruolo svolto dal leader libico Gheddafi.
Alla fine di quell’anno (1980), mentre a Trento iniziava l’inchiesta sulle connessioni tra mafia siciliana e mafia turca, e sui rapporti tra Trento e Trapani, il turco Ali Agka ebbe, verso il 20 dicembre, misteriosi contatti attorno a Palermo, forse proprio a Trapani.
All’inizio del 1981 (il 17 marzo) venne scoperto dagli inquirenti l’elenco degli appartenenti alla loggia P2. Il successivo 8 maggio, a Trapani, venne creata la loggia coperta C.
Qualche giorno dopo (il 13 maggio), Ali Agka tentò, in piazza San Pietro, di uccidere il Papa: sulla base di connessioni bancarie, il killer turco apparve in qualche modo collegato con il massone di rito scozzese Thurn und Taxis e con sette integraliste ispirate al culto di Fatima.
Esattamente un anno dopo (il 13 maggio 1982) e sempre con connessioni massoniche, un secondo attentato al Papa veniva consumato a Fatima, in Portogallo, mentre infuriava la guerra tra l’Argentina e l’Inghilterra per le isole Falkland.
Un mese dopo, a Londra, Calvi si “suicidava”.
Nella lista degli iscritti alla P2 stranamente non comparvero i nomi dei partner di Gelli presenti nel governo di Washington.
Numerosissimi, invece – quasi seguendo un piano prestabilito –, furono quelli di generali e militari argentini compresi nell’elenco.
In Argentina, a Buenos Aires, in via Cerrito 1136, il capo della P2 – si ricorderà – disponeva di un appartamento, al nono piano: vi si trovavano gli uffici di una ditta, Las Acacias. In quello stesso edificio aveva avuto sede il Banco Ambrosiano.
La società Acacias (panamense e con sede a Lugano) risultò al centro di operazioni di riciclaggio di denaro proveniente da traffici di stupefacenti, tra il Brasile, gli Usa, l’Italia e la Svizzera. Fondata da Vito Palazzolo, venne utilizzata per il trasferimento di milioni di dollari manovrati dal clan Bonanno tra gli Usa e la Svizzera.
Questi fatti riguardavano le connessioni “argentine” del clan Fidanzati, sulle quali indagò, negli anni Ottanta, Giovanni Falcone.
Per una strana ricorrenza, solo un anno prima di essere ucciso a Capaci, lo stesso Falcone si recò a Buenos Aires per una rogatoria: in un burrascoso incontro con il boss Gaetano Fidanzati – arrestato in quel paese –, questo ultimo minacciò di farlo saltare in aria.
Ritornando al 1982, nella settimana di Pasqua – e cioè poco prima della uccisione di Calvi, avvenuta il 17 giugno – davanti agli uffici di una società collegata alla Acacias (la Traex), avvennero incontri tra importanti operatori finanziari internazionali, il fornitore turco di droga Yasar Musullulu e, con ogni probabilità, Pippo Calò.
Yasar Musullulu, capo della mafia turca, era probabilmente il fornitore della morfina base della raffineria di Alcamo, scoperta nell’aprile del 1985, trenta giorni dopo l’attentato di Pizzolungo, non molto lontano dai luoghi ove era stato ucciso, due anni prima, il sostituto procuratore Giacomo Ciaccio Montalto.
Negli stessi giorni erano state eseguite indagini sui rapporti di mafia esistenti tra Trapani e Trento.
In America, il principale destinatario delle forniture di droga dalla Sicilia era allora il clan mafioso agrigentino dei Cuntrera e Caruana.
Uno dei loro soci piú importanti, Francesco di Carlo, venne in seguito indicato come uno dei killer di Roberto Calvi. Probabilmente la somma per pagare i killer venne ricavata dal tesoro segreto della P2, occultato in una banca sconosciuta e forse transitato sull’istituto Rothschild.
Mentre magistrati e investigatori siciliani indagavano sui Cuntrera, sul Musullulu e sulle operazioni bancarie che li collegavano in Svizzera, alla fine del mese di luglio del 1985, venne ucciso il commissario Giuseppe Montana, della squadra della Questura di Palermo, preposta alla cattura dei latitanti.
Frattanto Francesco di Carlo veniva arrestato in Inghilterra, dove lo raggiungeva immediatamente il vice questore Cassarà. Pochi giorni dopo, il 6 di agosto, al suo ritorno a Palermo, Cassarà venne ucciso.
Minacce di morte costringevano Falcone e Borsellino a nascondersi in un’isoletta per scrivere l’ordinanza di rinvio a giudizio del primo maxiprocesso di mafia.
Nell’aprile del 1986, veniva intanto scoperto a Trapani il Centro studi Scontrino, le sue logge massoniche, i legami filoarabi con Gheddafi.
Nel 1987, nel corso di indagini svolte a Palermo da Giovanni Falcone, a seguito di accertamenti in Svizzera sui rapporti presso istituti elvetici, emersero tracce di versamenti di centinaia di migliaia di dollari su un conto chiamato “Rif. Roberto” del Banco di Roma, sede di Lugano, i cui beneficiari non vennero mai individuati con certezza.
Quel denaro – come risultò in seguito – costituiva un diretto provento di forniture di stupefacenti effettuate al clan Cuntrera-Caruana. Il Banco di Roma di Lugano, ovvero la Svirobank, era di proprietà al 51% dello Ior, la banca del Vaticano, di cui era presidente Marcinkus, che era stato in stretto rapporto con Roberto Calvi .
A Trapani, nel settembre dello stesso anno 1987, in apparente controtendenza rispetto alla chiusura delle strutture Gladio, veniva creato il Centro Scorpione, dalla VII divisione del Sismi: avrebbe dovuto essere una propaggine di Stay Behind. Doveva probabilmente servire per ingrandire e potenziare alcune unità clandestine operanti sul territorio: le Rac e le Udg (Rete agenti coperti e Unità di guerriglia). Questo centro era dotato di un aereo di piccole dimensioni.
La mafia, in quella zona (Castellammare del Golfo), si serví proprio di un velivolo di quelle caratteristiche, per un enorme trasferimento di droga (565 kg di eroina) eseguito con una nave, la Big John.
Sempre in quell’anno, a fronte di aiuti a paesi sottosviluppati, il Perú ricevette dall’Italia mezzi sofisticatissimi: ponti radio, sensori a raggi infrarossi, giubbotti antiproiettile e una quantità imprecisata di pistole Beretta imbarcati su un aereo partito da Roma, coperto dal segreto militare. Si trattò dell’operazione “Lima”, un piano di aiuti, deciso nel 1987, a sostegno del governo peruviano del presidente García, allora impegnatissimo nella caccia al professor Guzmán, il leader di Sendero luminoso, già condannato all’ergastolo.
L’ammiraglio Fulvio Martini, direttore dei nostri servizi segreti, raccontò ai magistrati che l’operazione era stata organizzata dall’allora presidente del Consiglio Craxi. Era previsto l’addestramento della guardia peruviana con personale della VII divisione del Sismi, la stessa che aveva creato a Trapani, sempre nel 1987, il Centro Scorpione.
L’anno seguente, il 1988, dopo aver forse assistito nelle campagne di Trapani a un trasbordo di armi dirette alla Somalia su un aereo militare operante per conto dei nostri servizi segreti, veniva ucciso, in prossimità della comunità di Saman, Mauro Rostagno, sulle tracce delle piste massoniche della Loggia “C”, delle sacerdotesse sufi “Arcobaleno” e forse di alcuni traffici… anche più vicini a lui.
Era sui fatti finanziari sopraindicati che indagava il giudice Falcone nel giugno del 1989, mentre inutilmente cercava di capire cosa fosse il Centro Scorpione di Trapani. In quei giorni, sugli scogli vicini alla sua abitazione vennero rinvenuti due sacchi di esplosivo: un segno minaccioso cui subito non parvero estranee presenze di cellule deviate dei servizi segreti. Lo stesso Giovanni Falcone, parlando di questi fatti, non esternò sospetti sulla mafia, ma su “menti raffinatissime”.
Vennero trovati i candelotti sugli scogli della sua villa all’Addaura, mentre si occupava delle connessioni bancarie svizzere dei narcotrafficanti siculo-americani.
Lo stesso magistrato, nel 1991, prima di lasciare Palermo per i suoi incarichi ministeriali a Roma, svolse indagini su un ultimo processo riguardante rapporti tra mafiosi, società svizzere (in particolare di Chiasso) e istituti bancari elvetici, nodi di smistamento di narcodollari. Il processo, noto come Big John, prendeva il nome della nave sulla quale era stato sequestrato l’enorme carico di eroina vicino Trapani nel 1987.
Nel giugno 1992, anche l’ultimo fascicolo passato per le mani di Giovanni Falcone al ministero, per una rogatoria all’estero, era siglato “Big John”.
Dopo la morte di Falcone, un imputato di quel processo, legato al ruolo centrale del riciclaggio del denaro sporco, fu in contatto dalla Svizzera con il giudice Borsellino, poco prima che questi saltasse in aria a Palermo: forse intendeva “parlare”… Poi non parlò piú!
Dopo il 1992 apparirono cessate le stragi mafiose, forse per le reazioni investigative della magistratura che, per la prima volta, riuscì a identificare esecutori e mandanti mafiosi, forse per le concomitanti indagini di Mani pulite che, scavando nelle corruzioni degli appalti e dei finanziamenti illeciti ai partiti, travolgevano personaggi politici di primo piano, ma non “toccavano” gli aspetti occulti.
Poi vi furono gli attentati del ’93-‘94 (accomunati ai precedenti dalla identica tipica tipologia – di provenienza militare – degli esplosivi utilizzati), i quali, tramite “utili” indicazioni di collaboratori di giustizia mafiosi, vennero definite e qualificate anch’esse, pur se avvenute fuori dalla Sicilia, “di matrice mafiosa”.
Ecco, è in questo contesto storico, che ritengo vadano ricomposte … le giuste luci.
Dal passato al presente.
Passando per l’Addaura: “tra” le ombre… LUCI.

Tratto da: facebook.com

Antimafia Duemila – Gaza, le armi proibite

Fonte: Antimafia Duemila – Gaza, le armi proibite.

di Luca Galassi – 12 maggio 2010
Studio del New Weapons Research Group rivela che la presenza di metalli tossici nei tessuti e’ prova dell’utilizzo di armi sconosciute nelle offensive israeliane nella Striscia.
Un nuovo studio del New Weapons Research Group (Nwrg) ha rivelato che a Gaza gli israeliani hanno utilizzato armi contenenti metalli tossici e sostanze carcinogene. Per la prima volta sono stati analizzati tessuti di persone ferite nella Striscia durante le operazioni militari del 2006 e del 2009.

La commissione di scienziati del Nwrg ha coordinato tre universita’ (La Sapienza di Roma, l’universita’ di Chalmer in Svezia e quella di Beirut in Libano) nella raccolta e nell’analisi dei dati. La ricerca, che ha messo a confronto il contenuto di 32 elementi rilevati dalle biopsie, mostra come nelle offensive siano state utilizzate armi sconosciute, che non lasciano schegge o frammenti nel corpo, ma metalli e sostanze i cui effetti possono provocare anche mutazioni genetiche.

Sono stati analizzati 16 campioni di tessuto appartenenti a 13 vittime, prelevati dall’ospedale Shifa di Gaza, e individuati quattro tipi di ferite: carbonizzazione, bruciature superficiali, bruciature da fosforo bianco e amputazioni. Elementi chimici come alluminio, rame, bario, mercurio e vanadio sono stati individuati nelle persone amputate; sempre alluminio, rame, cobalto, e mercurio nelle ferite da fosforo bianco; piombo e uranio in tutte le ferite; arsenico, manganese, cadmio e cromo in tutte le ferite eccetto quelle da fosforo bianco; nichel solo nelle amputazioni. Alcuni di questi elementi sono carcinogeni, altri potenzialmente carcinogeni, altri tossici per il feto. Mercurio, arsenico, cadmio, cromo, nichel e uranio possono portare a mutazioni genetiche. Cobalto e vanadio producono mutazioni genetiche negli animali ma non e’ dimostrato che facciano altrettanto nell’uomo. Alluminio, mercurio, rame, bario, piombo, manganese hanno effetti tossici e provocano danni per il nascituro, nel caso di donne incinte, essendo in grado di oltrepassare la placenta e danneggiare embrione o feto. Tutti i metalli possono determinare patologie croniche ai danni dell’apparato respiratorio, renale, riproduttivo e della pelle.

“Nessuno – spiega Paola Manduca, docente di genetica all’università di Genova e portavoce del New Weapons Research Group – aveva mai condotto questo tipo di analisi bioptica su campioni di tessuto appartenenti a feriti. Noi abbiamo focalizzato lo studio su ferite prodotte da armi che non lasciano schegge e frammenti perché ferite di questo tipo sono state riportate ripetutamente dai medici a Gaza e perché esistono armi sviluppate negli ultimi anni con il criterio di non lasciare frammenti nel corpo. Abbiamo deciso di usare questo tipo di analisi per verificare la presenza, nelle armi che producono ferite amputanti e carbonizzanti, di metalli che si depositano sulla pelle e dentro il derma nella sede della ferita”.

“La presenza – prosegue – di metalli in queste armi che non lasciano frammenti era stata ipotizzata, ma mai provata prima. Con nostra sorpresa, oltre a identificare i metalli presenti nelle armi amputanti, anche le bruciature da fosforo bianco contengono metalli in quantità elevate. La presenza di metalli in tutte queste armi implica anche la loro diffusione nell’ambiente in quantità ed in un’area di dimensioni a noi ignote, variabili secondo il tipo di arma. Questi metalli sono dunque anche inalati dalla persona ferita e da chi si trovava nelle adiacenze anche dopo l’attacco militare. La presenza di questi metalli comporta così un rischio sia per le persone coinvolte direttamente, che per quelle che invece non sono state colpite”.

Tratto da: it.peacereporter.net

Antimafia Duemila – La strage di Pizzolungo voluta dai forti intrecci criminali internazionali

Antimafia Duemila – La strage di Pizzolungo voluta dai forti intrecci criminali internazionali.

di Rino Giacalone – 2 aprile 2010
Non sono elementi che restano sullo sfondo dell’attentato, non sono delle ombre, dietro il botto del 2 aprile 1985 si vede benissimo che c’è la mafia potente, quella che sopravvive con gli intrecci storici e le alleanze con pezzi dello Stato, i servizi e la massoneria deviati, le banche e i banchieri spregiudicati, i traffici di droga e di armi, le rotte internazionali del crimine.
E’ la mafia che lega le organizzazioni criminali italiane con quelle turche per esempio, o ancora la mafia che gestisce le «casseforti» del riciclaggio, dei denari di Cosa Nostra e una serie di investimenti illeciti. Le sentenze di condanna sono vaghe sulle motivazioni ma ugualmente i giudici sono riusciti ad infliggere l’ergastolo a Totò Riina, al capo mafia di Trapani Vincenzo Virga, ai loro gregari Balduccio Di Maggio e Nino Madonia, una condanna per ricettazione per il castellamarese Gino Calabrò, dalla sua officina passò una delle auto usate per la strage, lui poi si è dimostrato esperto di esplosivi e di strategie terroristiche, è a scontare l’ergastolo anche per gli attentati del 1993. Ma dentro i fascicoli giudiziari ci sono nomi che tornano in altre inchieste, quelle sul crimine internazionale, sulle alleanze tra mafia e borghesia.
Le indagini di Carlo Palermo insomma per le quali venne rimosso da  pm di Trento e nel 1985 arrivò a Trapani. «Nell’85 scelsi di venire a Trapani per proseguire un’attività avviata 5 anni prima a Trento. L’attentato ritengo sia da inquadrare in un progetto preventivo». Palermo ha poi ricordato: «Nonostante la chiedessi in continuazione, non vi era alcuna vigilanza sulla mia abitazione (una villetta al Villaggio Solare, in territorio di Valderice), nè fu mai eseguita un’attività di bonifica lungo il percorso che facevo ogni mattina». Per l’ex magistrato, «l’assenza di un controllo preventivo ha concorso nell’attentato».Venticinque anni dopo riaffiorano nella memoria di Palermo «l’isolamento, sia da parte delle istituzioni che della popolazione che mi pesò veramente molto. Oggi la situazione è cambiata, margherita asta ne ha molti meriti».Parlando delle indagini, Carlo Palermo, ha rimarcato la «contraddizione» legata al fatto che il processo a carico dei presunti esecutori materiali, «svoltosi a poca distanza dai fatti, sfociò nelle assoluzioni» e che «la condanna dei presunti mandanti avvenne molti anni dopo e solo per le dichiarazioni rese da collaboratori di giustizia, questi ultimi neppure ascoltati organicamente».
«Pensare – dice Palermo – che la mafia si sconfigga con l’arresto di qualche referente locale di Cosa nostra significa avere una visione parziale del fenomeno. Ancor’oggi combattiamo contro le ombre del passato: chi ha fornito l’esplosivo per gli attentati a Chinnici, Falcone e Borsellino? Chi ha fornito e l’esplosivo utilizzato a Pizzolungo? L’ex magistrato ricorda che «in tutti i delitti eccellenti c’è sempre l’agenda che scompare, come in via D’Amelio, o la cassetta che non si trova più, come nel delitto Rostagno, avvenuto a Trapani».
«Pizzolungo fa parte della strategia mafiosa e terroristica condotta da Cosa Nostra e dall’ala cosiddetta corleonese di Totò Riina». Ma non solo. Lo scenario ricostruito dalla sentenze di condanna, per i mandanti, Totò Riina, Vincenzo Virga, e i loro «gregari» Balduccio Di Maggio, Nino Madonia, è quello che vede coinvolti gli uomini della mafia, come il castellammarese Gino Calabrò, condannato solo per la ricettazione dell’ auto rubata usata per la strage, o l’alcamese Vincenzo Milazzo, morto ammazzato nell’ estate del ’92, che più di altri hanno avuto stretti contatti con la massoneria e quei soggetti facenti parte dell’area «oscura» dello Stato, servizi deviati e quant’ altro la storia d’ Italia ci ha nel tempo rassegnato. Riina e Calabrò sono oggi nelle patrie galere, riconosciuti uomini e assassini della cupola, mai hanno fatto un passo indietro, sono rimasti pure dietro le sbarre rispettati «mammasantissima». Milazzo fu ucciso nel luglio del 1992, qualche settimana prima della strage Borsellino: Milazzo fu ucciso assieme alla sua convivente, Antonella Bonomo, forse perchè testimoni scomodi della strategia stragista di Cosa Nostra, i pentiti parlarono dei contatti «sotto banco» che la donna in particolare avrebbe avuto con agenti dei servizi segreti.
«Pizzolungo – continuano a dire i giudici che si sono occupati di Pizzolungo mandando all’ergastolo per la strage del 2 aprile Totò Riina, Vincenzo Virga, Balduccio Di Maggio e Nino Madonia – fa parte di un elenco di fatti e attentati eclatanti che furono deliberati dalla “cupola” guidata da Totò Riina». È però una strage della quale non si ha contezza del movente.Ed è attorno a Gino Calabrò, lattoniere e capo mafia di Castellammare, l’uomo che affiancò Messina Denaro nelle stragi del ’93, e per questo sconta l’ ergastolo, che si ha la forte sensazione che si celi il «movente» sull’ attentato di Pizzolungo. Il l lattoniere di Castellammare è uno che risulta avere stretto mani importanti, massoni come quelli della Iside 2 di Trapani, non tutti andati «ancora in sonno», alcuni ancora «in sella»; e di massoni e servizi deviati nell’attentato di Pizzolungo si ha percezione della presenza.
Cosa Nostra certamente c’ entra e lo raccontano i pentiti. L’1 aprile del 1985 il capo del mandamento Vincenzo Virga incontrò Francesco Milazzo (che lo ha riferito dopo il pentimento) e Vito Parisi, uomini d’ onore di Paceco: li avvertì che per l’ indomani era meglio che a Trapani non si facessero vedere, «ci sarà un attentato» disse loro; quel giorno stesso Virga fu fermato ad un posto di blocco, la relazione di servizio è saltata fuori anni dopo, era assieme ad un imprenditore Francesco Genna, tutti e due erano all’epoca degli insospettati e degli insospettabili, nella relazione venne annotato che tra le mani avevano uno stradario della frazione di Pizzolungo.
Per Francesco Di Carlo, altro pentito, palermitano, «la mafia doveva dimostrare di essere più forte dello Stato, si era fatto un gran parlare di questo magistrato che arrivava da Trento a Trapani, divenne obiettivo per questa ragione». Giovan Battista Ferrante, altro ex «picciotto» di Palermo, ha ricordato quando qualche giorno dopo la strage fu testimone di un incontro tra il capo mandamento di San Lorenzo, Pippo Gambino, con il mazarese Calcedonio Bruno, l’ architetto affiliato alla potente cosca di Mazara: «Gambino lo accolse facendogli un gesto, del genere per chiedergli “che cosa avete fatto”, Calcedonio aprì le braccia per dire “è successo”, per quella donna e quei bimbi morti. Nino Cascio, pentito alcamese, ha detto di avere appreso dal capo cosca Vincenzo Milazzo della strage, «mi disse che se l’avesse avuto lui in mano il telecomando non lo avrebbe premuto». A premere il timer per Cascio fu Nino Melodia, altro boss di Alcamo, in carcere, condannato per altri reati.
Esecutori non più processabili, Milazzo è morto, gli altri sono stati assolti in forma definitiva dalla Cassazione quando ancora non c’erano state le confessioni dei pentiti e a conclusione di un primo troncone di processo «offuscato», quando divenne immodificabile, da una rivelazione di Giovanni Brusca che disse (durante il Borsellino ter) di sapere che il nisseno «Piddu» Madonia doveva «avvicinare» chi si occupava negli anni ’80 del processo ai killer stragisti di Pizzolungo.
Sono un centinaio le pagine della sentenza che ricostruiscono quello che è stato possibile ricostruire su quanto accadde quel giorno a Pizzolungo, si fa cenno ai «segnali» premonitori dei giorni antecedenti, le telefonate minacciose, quelle giunte anche alla base di Birgi, quando il pm Palermo vi alloggiava, con la quale gli si preannunziava la consegna di un «regalo». Quel giorno, il 2 aprile, col giudice Palermo c’ era la scorta composta da Raffaele Di Mercurio, Salvatore “Totò” La Porta e Antonino Ruggirello; Ruggirello e Di Mercurio seguivano su di una normalissima Ritmo l’ auto, una Fiat 132 blindata sulla quale sitrovava il magistrato, l’autista Rosario Maggio, l’altro agente, La Porta:per un caso fortuito Palermo sedeva nel sedile posteriore alle spalle dell’autista, dunque sul lato sinistro, la deflagrazione devastò il lato destro della vettura e spinse Palermo fuori dall’auto. Tra i detriti e i resti delle vittime.
Quegli attimi della mattina del 2 aprile 1985 furono raccontati in Tribunale dal magistrato, Carlo Palermo, e dalla sua scorta, Raffaele Di Mercurio (morto da qualche anno per una malattia cardiaca), Totò La Porta, Antonino Ruggirello. Carlo Palermo: «Giunti in località Pizzolungo nell’affiancare altra autovettura in fase di sorpasso, è avvenuta la deflagrazione. Ebbi l’impressione che provenisse dal motore. Fui sbalzato al di fuori dell’auto dal lato sinistro in quanto lo sportello si aprì perché non avevo inserito la sicura. Immediatamente mi sono reso conto che vi erano tracce di un’ altra autovettura che doveva essersi disintegrata. Quindi insieme all’autista abbiamo estratto il corpo dell’agente di tutela che si presentava quasi esanime».
Rosario Maggio: «Avvenuta l’esplosione la Fiat 132 si bloccò quasi impuntandosi, infatti il motore è finito a terra ed i copertoni si sono dilaniati. Io ho sentito una botta violenta ma non ho visto la fiamma che invece hanno visto gli uomini che erano di scorta». Raffaele Di Mercurio: «Ad un tratto proveniente dalla destra vidi un bagliore con una fiammata di colore arancione e sentii un violento boato, mi sentii come una morsa tutta intorno. Vidi alzarsi anche una massa oscura, era l’ asfalto. La Ritmo si bloccò quasi su se stessa. Trovai Ruggirello a terra davanti la Ritmo. Aveva il braccio sinistro all’altezza delle spalle, spezzato, aveva un buco alla guancia destra e sinistra, al collo destro e gli occhi ricoperti di sangue. Aveva addosso molto ferro frantumato».
«Ci guardavamo attorno – ricorda Palermo – e cercavo quell’ altra auto che avevo visto mentre la sorpassavamo. Era sparita, in alto su di una casa una macchia rossa, appena sotto per terra la scarpa di un bambino».

Antimafia Duemila – In ricordo di una strage ignorata

Fonte: Antimafia Duemila – In ricordo di una strage ignorata.

di Antonella Randazzo – 30 marzo 2010
Barbara Rizzo Asta e i suoi due bimbi gemellini di sei anni Salvatore e Giuseppe morivano il 2 aprile 1985. Non erano loro il bersaglio dell’ordigno di potenza micidiale attivato da mani mafiose. La persona che si voleva colpire si salvò miracolosamente.

Si tratta di un giovane giudice, Carlo Palermo, che quel giorno transitava con la sua vettura tra Pizzolungo e Trapani e avvicinandosi ad una curva vede esplodere l’ordigno che avrebbe dovuto ucciderlo.
La solita regia simile a quella di Capaci e di altri terribili attentati. Ma questa strage ha qualcosa di particolare: è stata pressoché ignorata o “dimenticata” dai politici, dai media e persino negli ambienti giudiziari. Un’altra particolarità è che il magistrato condannato a morte non stava affatto conducendo indagini nel Sud Italia e si trovava a Trapani soltanto da poche settimane.
Chi è Carlo Palermo? E’ un magistrato che dopo l’attentato ha perso il senso dell’olfatto e ha avuto due infarti. Già negli anni Settanta si occupava di indagini molto scottanti, che toccavano tasti che di solito si cerca di tralasciare: i legami fra mafia e massoneria nei traffici di droga, armi, e nel riciclaggio del denaro sporco.
Palermo lavorò come giudice istruttore a Trento nel periodo che va dal 1975 al 1984, e all’inizio degli anni Ottanta si occupò di un’inchiesta sui traffici di droga, sulla mafia e sulla corruzione politica. A quel punto si attivarono diverse autorità nell’intento di bloccare l’indagine, e il giudice fu trasferito a Trapani. Quaranta giorni dopo subirà l’attentato e dopo qualche mese si trasferirà a Roma. Nel 1989 lascia la magistratura e diventa deputato.
Ma Palermo porterà sempre con sé la consapevolezza della realtà che aveva scoperto e che tutti dovrebbero capire perché sta alla base del sistema attuale, creando problemi e sofferenze nel nostro paese e non soltanto.
Per capire qual è questa realtà leggiamo le parole del giudice, dette in un’intervista a Rai Educational:
“Purtroppo certe situazioni si possono spiegare solo rendendosi conto del fatto che in Italia esistono dei segreti. Nella storia di quasi tutti gli episodi criminali più micidiali della nostra storia – quelli che hanno visto la soppressione di investigatori, di magistrati e anche di politici – vi è sempre un aspetto ‘preventivo’ che non è mai stato sufficientemente approfondito, proprio perché viene eliminato colui che è il custode dei segreti. Colui che viene ucciso è portatore e custode di carte, di documenti, di conoscenze, e solo attraverso la ricostruzione di tutto quello che si nasconde dietro l’individuo è possibile risalire agli avversari che lo hanno eliminato.
Certo si può solo constatare il dato di fatto che, ad esempio, quando venne ucciso il generale Dalla Chiesa sparirono dei documenti dalla sua cassaforte. Anche nel caso della strage di Capaci sono avvenute alterazioni, successive alla morte, di agende che erano in possesso del magistrato. Lo stesso è stato per l’agenda rossa di Borsellino, sparita dal luogo dell’attentato. Vi è sempre questo strano effetto concomitante, accanto alla eliminazione di bersagli scomodi: l’occultamento e la sparizione di carte, documenti. A distanza di trent’anni continuiamo a parlare dei documenti Moro. Dopo tanto tempo la verità su questi fatti , le verità racchiuse in qualche cassaforte, non sono ancora conosciute… La mia convinzione è che vi sia una ricorrenza periodica di fatti legati alla massoneria, dalla Seconda guerra mondiale in poi, fino alla P2 ma anche oltre. Questo dimostra che la massoneria ha costituito un punto di raccordo e di incontro di soggetti eterogenei, legati prevalentemente alla destra, i quali hanno operato per acquisire il controllo della società italiana… La massoneria è tutt’altro che una cosa nazionale, bensì una rete di rapporti internazionali. La italiana ha una sua peculiarità – legata alla presenza storica della mafia – ma la massoneria è qualcosa di molto più ampio. Aspetti come il traffico di armi e di droga, il petrolio e le guerre trovano nella massoneria un canale di comunicazione ‘naturale’… Delle operazioni in cui si mescolano insieme forniture di armi, traffici di droga, fondi occulti, finanziamenti illeciti, tangenti o ‘lecite’ intermediazioni, una traccia rimane spesso in quei sacri santuari, le banche, ove tutto per necessità transita. Al di là degli specifici episodi e delle responsabilità penali, esistono alcune possibili chiavi di lettura, utili per decifrare il significato che legami presenti in quel torbido intreccio di interessi che più volte ha visto uniti mafia, terrorismo, massoneria, integralismo, poteri trasversali nazionali e internazionali.”13

Chi cerca di far ricordare la strage di Pizzolungo è la signora Margherita Asta, figlia della donna uccisa e sorella dei gemellini. Questa giovane donna chiede che si faccia luce sui mandanti della strage. Spiega il suo avvocato Giuseppe Gandolfo: “i processi hanno chiarito il ruolo avuto dalla mafia, ma non la commistione tra massoneria e politica”. Aggiunge la signora Asta: “Per la nostra drammatica vicenda sono state emesse dopo molti anni delle condanne. Ma queste non ricostruiscono appieno la verità. Non sono ‘tutta’ la verità purtroppo… Secondo me è così: massoneria, politica collusa, servizi segreti deviati… Nella strage di Pizzolungo c’è una miscela di tutto questo. Carlo Palermo, se si osserva su un piano storico la vicenda delle sue indagini su complesse vicende di criminalità, è stato sicuramente oggetto di una strategia omicida che andava oltre il puro fatto mafioso. Gran parte delle sue indagini il giudice Palermo le ha condotte nel Nord Italia, da Trento, toccando la vasta area grigia che si colloca tra la politica, la finanza e la mafia. Queste sono le ragioni che decretano la sua morte. Il giudice Palermo rimase a Trapani solo quaranta giorni. E in quei quaranta giorni tutto questo gran fastidio alla mafia non lo poteva dare, oggettivamente… La fase storica in cui avviene la strage di Pizzolungo è il momento in cui Carlo Palermo chiede di procedere contro il presidente del consiglio (all’epoca Bettino Craxi N.d.A.) e in cui contemporaneamente riceve violente intimidazioni. Forse è troppo scomodo parlare di questa strage; parlare di quello che Carlo Palermo stava facendo. Secondo me è questa la ragione della rimozione. Perché se si parlasse di quello che stava facendo Carlo Palermo secondo me si capirebbe la vera storia del nostro Paese. E si capirebbe anche quello che sta succedendo attualmente… Dietro la strage dei miei familiari, c’è un intreccio terribile di mafia, massoneria e politica che purtroppo è stato e resta esplosivo. Vogliamo parlare del Centro Scontrino di Trapani dove le logge coperte si mischiavano alla malavita? Del suo presidente, il gran maestro Giovanni Grimaudo, sotto posto a numerosi procedimenti penali? In Italia si processano solo i criminali di basso livello, delle connivenze di alto livello i giornali non parlano. Recentemente ho rivisto Carlo Palermo, e alla mia domanda se non fosse possibile fare qualcosa, riaprire le indagini, mi ha detto: ‘Sono ancora troppo potenti le persone che volevano la mia morte. Sono lì, in posizioni di enorme forza’”.14

Nel suo libro dal titolo Il Quarto livello, Palermo spiega che non si permette di indagare sul “quarto livello” ovvero sui rapporti fra politica, massoneria e mafia, che potrebbero svelare la vera natura su cui si basa il sistema attuale, e che personaggi di primo piano della vita politica, economica e finanziaria sono strettamente legati agli affari criminali della mafia e della massoneria.
Dietro la strage di Pizzolungo c’è questa realtà, ma si è voluto che essa fosse collegata soltanto alla mafia, per questo un magistrato che conduceva le sue indagini al Nord Italia è stato trasferito in Sicilia: la sua condanna a morte era stata decisa ma soltanto i mafiosi dovevano risultare responsabili.
Come in altre stragi, i mandanti coincidono con alcune autorità che ufficialmente alzano la propria voce per condannare i colpevoli.

13 Il grillo, Rai Educational, “Un giudice in prima linea”, 16 dicembre 1997.

14 Pinotti Ferruccio, Fratelli d’Italia, Bur, Milano 2007, pp. 595- 598.

Tratto da: NUOVA ENERGIA NUMERO 14 – 30 MARZO 2010

VISITA: lanuovaenergia.blogspot.com

Casa della Legalita’ e della Cultura – Onlus – Affari di scorie nucleari tra Emilia e Liguria… spuntano i Mamone

Fonte: Casa della Legalita’ e della Cultura – Onlus – Affari di scorie nucleari tra Emilia e Liguria… spuntano i Mamone.

Si aggiungono tasselli a quanto stiamo seguendo da tempo.
La notizia resa nota dal giornalista Gianni Lannes ad un convegno è inquietante e, comunque, non ci stupisce.
Al centro via sarebbe di nuovo la ECO.GE dei Mamone, famiglia della ‘ndrangheta, indicata come tale sin dal 2002 dalla DIA, che da anni denunciamo per i suoi legami, le sue entrature politiche, i suoi disastri ambientali, gli appalti pubblici ed il legame solido con il mondo delle cooperative emiliane, e che è entrata in molteplici inchieste giudiziarie, tra cui l’Operazione Pandora, false fatturazioni per costituzione di fondi neri, episodi di corruzione e smaltimenti illeciti di rifiuti pericolosi.

I mezzi della ECO.GE ha dichiaro il giornalista Lannes sono stati fotografati da lui stesso al lavoro nella centrale nucleare di Caorso, in provincia di Piacenza, per gli smaltimenti connessi allo smantellamento della più grande centrale nucleare italiana. Il giornalista ha seguito poi quei mezzi marchiati ECO.GE ed ha evidenziato che ripartivano per Genova per poi giungere a La Spezia. Fatto curioso questo, da Caorso a Genova e poi La Spezia… quando La Spezia è vicinissima a Piacenza, capire il perché di questo assurdo girovagare sui camion sarebbe utile, anche considerando che a Genova non esistono aree per lo stoccaggio di scorie radioattive.
Questo lavoro relativo allo smantellamento degli impianti ed al conseguente smaltimento delle scorie è seguito dalla SOGIM, la struttura affidataria dell’incarico dal Governo, che, quindi, a quanto si apprende, ha affidato in subappaltato l’opera alla società dei Mamone, la nota ECO.GE…
I traffici di rifiuti nucleari e non, in ed attraverso la Liguria non sono una novità.
Non lo sono rispetto al confine con la Francia e non lo sono considerando che il più grande porto turistico del mediterraneo – prima del faraonico “porticciolo” di Imperia, dove lavorava sempre la ‘ndrangheta-, quello di Lavagna, è in mano ad un noto personaggio il cui nome ricorre in atti relativi a fatti inquietanti di traffici internazionali di rifiuti, tra Servizi ed ‘ndrangheta, ovvero Jack Roc Mazreku. Il nome di Mazreku lo si è trovato in molteplici filoni delle inchieste sulle navi dei veleni, lungo le rotte delle scorie e di armi, a partire da quelli per via delle navi dei Messina con, su tutte, la Jolly Rosso, per arrivare ai porti dell’Africa, dove la Comerio company era di casa, in mezzo agli “aiuti umanitari” del nostro Paese. Ora costui è a Lavagna, dove controlla quel porto mai collaudato con una diga dove il “sapore” dei veleni sembra celarsi alle terre di riempimento per l’ampliamento effettuato violando le prescrizioni più elementari… mentre i pescatori parlano di decine e decine di imbarcazioni affondate al largo di Lavagna, direzione Corsica.

Rifiuti ed armi, scorie e morte sono rotte che dalla Liguria sono sempre partite e dove le diverse province hanno giocato ruoli determinanti per gli smaltimenti illeciti di rifiuti tossici. Province dove sono accertati i “locali” della ‘ndrangheta, da Ventimiglia a Savona, da Genova a Lavagna…

Un capitolo mai pienamente chiuso è quello, ad esempio, della Rifiuti Connection dei primi anni Novanta, che vedeva noti “imprenditori” al fianco di pericolosi soggetti legati alla ‘ndrangheta, come i Fazzari – Gullace. Una cava nella ridente località turistica di Borghetto Santo Spirito, nel savonese, venne scoperta con oltre 12 mila fusti tossici. Altri 40 mila fusti vennero indicati, agli inquirenti, occultati nel levante genovese, nell’altra ridente terra di turismo e massoneria, il Tigullio, non sono mai stati cercati e potrebbero essere sepolti in quella che è divenuta una bomba ecologica innescata ed ancora inesplosa, tra le gallerie dell’immane ex Miniera di Libiola, sulle alture di Sestri Levante.

A La Spezia è tenuto in sordina e ignorato uno dei processi cardine dei traffici illeciti, quello che fa riferimento alla discarica di Pitelli, dove erano coinvolti uomini di primo piano della sinistra e dove la prescrizione per i reati principali è giunta salvifica praticamente per tutti… e dove i politici sono riusciti ad uscire di scena in fretta. Prima era un ostacolo dopo l’altro che veniva posto sulla strada dell’inchiesta coordinata dal pm Franz e poi, quando questi abbandonò il Palazzo di Giustizia spezzino, tutto cadde nel silenzio.
Ed è qui a La Spezia, dove si stava recando il capitano De Grazia prima di morire, che vi è un impatto devastante, da un lato, quella intorno alla discarica dei veleni di Pitelli dove i tumori infantili sono un record (negativo) nazionale, mentre dall’altro, quello del Porto, con l’Arsenale militare, vi è un’incidenza devastante di malattie autoimmunizzanti come la sclerosi multipla.

E’ a La Spezia che operava il boss Iamonte per riempire le navi da affondare… è qui che è pesante ed accertata, ancora una volta, la presenza di Cosa Nostra proprio nel settore portuale… e sempre da qui passava la rotta dei rifiuti derivanti dalle bonifiche di Seveso, che paiono ancora stoccate tra capannoni nella zona di Garlasco ed in alcuni lungo le banchine di La Spezia. E’ qui che vennero provati i missili “penetretor” della banda di Comerio per sparare nei fondali marini le scorie tossiche. E’ qui che recentemente un Gabriele Volpi, campione dello sport, anche lui con notevoli affari e traffici lungo le rotte con l’Africa, ed al centro di molteplici inchieste giudiziarie, ha avuto qualche banchina in concessione proprio in questo porto dell’estremo levante ligure.

Un panorama devastante dove le società di famiglie di mafia da quelle dei Fazzari-Gullace, su tutti la Sa.Mo.Ter. a quelle dei Fotia con la Scavo-Ter – entrambe già in rapporto con le società Mamone -, vedono assecondare le loro iniziative per adibire le cave a “discarica” da parte della dirigenza del settore ambiente della Regione Liguria, sempre il settore cave, sempre quella dott.ssa Minervini che era già stata indicata dalla Guardia di Finanza alla Procura di Genova tra i soggetti che, sulla partita dell’ex stabilimento “killer” della Stoppani, hanno operato per agevolare i Mamone, amici, ad esempio, del potente presidente della Regione Liguria, Claudio Burlando. Fatti le cui responsabilità delle Pubbliche Amministrazioni sono pesanti e che vedono reggere il ruolo di assessore all’ambiente della Regione Liguria quell’uomo che pare un perenne distratto, ovvero Franco Zunino, già responsabile del procedimento – nella veste di funzionario comunale di Celle Ligure – relativo all’appalto irregolare alla società Co.For. dei fratelli Guarnaccia (colpiti da arresto e sequestro, da parte della DDA di Reggio Calabria, dei beni in quanto esponenti della ‘ndrangheta impegnata nell’infiltrazione negli appalti pubblici, con l’operazione Arca).

Questa è la Liguria che ora, grazie anche alla linea del Governo Berlusconi, su impulso del “sovrano” imperiese e ministro della Repubblica, Claudio Scajola, sempre in tandem con Claudio Burlando, punta sul business del nucleare, pronta, sul nastro di partenza, per divorare la sua buona fetta di affari.

ComeDonChisciotte – I PIANI MILITARI DEGLI STATI UNITI IN AMERICA LATINA

Fonte: ComeDonChisciotte – I PIANI MILITARI DEGLI STATI UNITI IN AMERICA LATINA.

DI DECIO MACHADO
Diagonal

La strategia degli USA in America Latina incontra nella Colombia un forte alleato. Le sette nuove basi assicurano all’esercito statunitense una totale operatività militare nella regione.

Lo scorso 18 agosto, il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti inviava un rapporto informativo al gruppo di cancellieri della UNASUR (Unione delle Nazioni Sudamericane): “Il 14 agosto 2009, i governi di Stati Uniti e Colombia sono arrivati ad un ‘intesa provvisoria sul referendum sull’Accordo di Cooperazione in Materia di Difesa (DCA). L’accordo ora dovrà essere revisionato per la firma definitiva”.

Questo episodio ha risvegliato in tutta l’America Latina molte voci critiche provenienti tanto dagli organi istituzionali quanto dalla società civile e dal suo tessuto sociale. Questa questione ha implicato che si organizzasse alla fine di agosto il Vertice Straordinario dei Capi di Stato della UNASUR nella turistica città di Bariloche (Argentina) , così come il successivo Vertice dei Cancellieri e dei Ministri della Difesa a Quito a metà di Settembre. In entrambi gli appuntamenti, il governo colombiano si trovò solo dinanzi al resto dei paesi membri, difendendo una posizione di segretezza e di mancanza di compromesso per assumere le misure di fiducia che vengono richieste dal resto degli Stati membri della UNASUR, presieduta in questo momento temporaneamente dal presidente ecuadoriano Rafael Correa.

Nella foto: Obama col presidente colombiano Uribe.

Nuova dottrina militare

Secondo il rapporto “Un continente sotto minaccia”, emesso in agosto dall’Osservatorio Latinoamericano di Geopolitica, la politica militare statunitense ha preparato “scenari tra coalizioni relativamente simili o equilibrate a guerre assimetriche in due modi: a) guerre tra Stati con enormi differenze di potenzialità bellica, di mobilità e gestione di un insieme di meccanismi di pressione economica e politica; b) guerre contro non Stati, con regole di gioco incerte che non sono circoscritte a quelle stabilite dai codici internazionali e senza restrizioni equivalenti a quelle degli Stati”.

Un funzionario della Difesa brasiliano, il comandante di fregata Nelson Morantes, accomunato da una visione simile indica: “ La logica militare statunitense sviluppata dopo l’11-S solleva la possibilità del conflitto bellico da parte degli USA con i cosiddetti ‘Stati Falliti’. Il nostro esempio nel continente sarebbe Haiti, anche se gli statunitensi considerano di più il Venezuela e la Bolivia e incluso l’Ecuador; così come la possibilità di conflitti con organizzazioni tipo Al Qaeda, che nel nostro continente si tradurrebbero in organizzazioni popolari, ecologiste o indigene. Per fare una correlazione, quelle di Al Qaeda in Afganistan sarebbero le organizzazioni Mapuche del sud del Cile.”

In contrapposizione ai rischi indicati, la politica militare degli USA per l’America Latina contempla quattro modelli di posizionamento militare differenziati nel continente. Per primo ci sono le basi grandi, modello Guantanamo, con installazioni militari complete, equipaggiamento e un corpo di militari effettivi accompagnati da nuclei familiari permanenti.

Il secondo modello sono le basi di formato medio, modello Soto Cano (Palmerola) in Honduras, con installazioni che permettono missioni lunghe, ma con personale che si rinnova ogni sei mesi.

Il terzo sono le basi piccole, quelle chiamate FOL (Foreign Operating Locations), ribattezzate politicamente come Cooperative Security Locations (CLS). Si tratta di basi come Manta, Curacao o Comolapa, con molto poco personale ma con molto sviluppo in materia di comunicazioni, tanto per monitorare come per garantire le connessioni e l’invio di informazioni ai centri di raccolta e trasformazione che esistono nel territorio statunitense (Network, Centric Warfare). Sono basi di risposta rapida e strutturazione regionale soprattutto diretta alle basi più piccole.

E, per ultimo, le basi piccole: postazioni che consentono l’appoggio ed il decollo rapidi come dei “salti di rana” – spostandosi per approvvigionarsi ed avere maggiore raggio di azione – permettendo che con una sequenza ben programmata da queste basi si possa controllare un’area molto ampia, snodo per operazioni di rapida risposta con costi inferiori rispetto alle precedenti. Un esempio sarebbe la base Iquitos nel Perù.

Secondo gli analisti Ana Esther Cecena e Rodrigo Yedra, “ il cambio nelle caratteristiche delle basi in America Latina inizia nel 1999 con l’installazione delle tre FOL (Manta, Curacao e Comalapa) che sostituiscono la base di Howard a Panama”. E proseguono: “Non si tratta di basi USA, ma di basi dei paesi in questione in cui si approva l’uso delle installazioni per il personale statunitense.

Ma, al di sopra della figura giuridica con cui si legalizza l’occupazione, sono basi amministrate da personale locale, che non sa quello che succede dentro e nemmeno le operazioni effettuate dal personale situato nelle basi dei territori circostanti.”

In questo senso, lo stesso Presidente Correa avvertì pubblicamente in varie occasioni rispetto alla possibilità che qualche aereo statunitense che operava dal FOL di Manta facesse parte della operazione di attacco ad Angostura, il 1 marzo dell’anno scorso, in cui morì l’allora numero due delle FARC, Raul Reyes, il tutto sotto la totale ed assoluta inconsapevolezza delle autorità locali ecuadoriane.

Basi in Colombia

Secondo la nota informativa emessa dagli USA, l’Acuerdo de Cooperacion en Materia de Defensa (l’ Accordo di Cooperazione in Materia di Difesa ) approfondirà la cooperazione bilaterale in materia di sicurezza sui temi di produzione e traffico di droghe illegali, terrorismo, contrabbando di ogni tipologia, disastri umanitari e naturali.

Comunque, secondo fonti del coordinatore della Sicurezza Interna ed Esterna dell’Ecuador, questo è una mancanza: “ Basi con le caratteristiche richieste che si vogliono organizzare in Colombia mancano di efficacia per gli obiettivi indicati. Prima che l’Ecuador recuperasse la sovranità sulla base di Manta, fatto accaduto il mese passato, negli ultimi cinque anni di controllo statunitense si produsse un incremento del traffico di droghe nel Pacifico, nonostante la vigilanza che giornalmente si realizzava”.

L’analista e professore universitario argentino Gilberto Bermudez spiega a DIAGONAL: “ Le navi, aeromobili ed equipaggi superano lungamente le vere necessità di controllo a gruppi illegali armati e narcotrafficanti. Riguardo gli obiettivi reali di queste basi ci sono varie interpretazioni. La mia è che, nonostante il presidente Uribe lo neghi, esistono velate intenzioni ad organizzarsi in basi per un controllo extraterritoriale.”

“Il problema reale è Palanquero, madre della basi colombiane, visto che attualmente è il centro operativo delle Forze Armate colombiane e diventerà fondamentale per il controllo statunitense in Sudamerica”, indica a questo giornale Armando Acosta, membro del Polo Democratico Alternativo e militante dei movimenti per la pace in Colombia.

Secondo Acosta: ”Palanquero ha una pista di più di tre chilometri di lunghezza, dalla quale possono decollare tre aerei da combattimento insieme ogni due minuti, ha un’infrastruttura con centinaia di hangar e aerei e può alloggiare 2.000 militari effettivi.”

Per gli esperti militari dei 12 paesi che compongono la UNASUR (Unione delle Nazioni Sudamericane), eccetto la Colombia, Palanquero è una “base adatta alle spedizioni, ha la capacità di contenere C-17, aerei di trasporto, e per il 2025 si prevede che questa base avrà la capacità di mobilitare 175.000 militari con i loro equipaggiamenti in sole 72 ore”. Come dire, una base per mobilitare interi eserciti in qualsiasi punto del continente. Secondo Emilio Lopetegui, militante sociale cileno affiliato alla rete antimilitarista del continente, la situazione è la seguente: “Assistiamo ad una escalation del dispendio militare nella regione. Il Brasile ha comprato nel 2007 e nel 2008 un numero importante di aerei da caccia, barche ed elicotteri, la sua stima di spesa militare quest’anno è di 24.000 milioni di dollari, approssimativamente 1,47% del suo PIL. In questo momento i brasiliani stanno sviluppando un importante programma militare con i francesi. Il programma include la fabbricazione di un sottomarino a propulsione nucleare e quattro convenzionali. Allo stesso modo, gli altri paesi della zona, incrementano la spesa militare. La Colombia è quattro o cinque volte più piccola del Brasile, ma presenta una stima di spesa quest’anno di 10.000 milioni di dollari, il 2,82% del suo PIL, ineguagliabile da nessun paese latinoamericano”. Il professor Bermudez spiega: “La Colombia è un Israele nel nostro continente. Con le sette nuove basi, più gli operativi già esistenti attualmente da parte delle forze militari nordamericane in questo territorio, stiamo parlando del fatto che da qua a pochi anni la Colombia potrà avere una capacità operativa simile o anche maggiore a quella di Israele nel Medio Oriente.”

Le basi dell’accordo

L’accordo militare tra USA e Colombia assicura nello specifico l’accesso continuo degli Stati Uniti alle installazioni colombiane: tre basi della Forza Aerea (Palanquero, Apiay e Malambo), due basi navali (Cartagena e Malaga) e due installazioni dell’esercito (Tolemaica e Larandia). Allo stesso tempo, l’accordo contempla l’utilizzazione delle altre installazioni militari colombiane previo comune accordo.

Escalation militare nella regione

Secondo il rapporto Military Balance 2009 dell’Istituto Internazionale di Studi Strategici di Londra, la spesa totale per la difesa dell’America Latina è aumentata del 91% negli ultimi cinque anni. Tutte le previsioni indicano che il 2009 verrà chiuso con una spesa decisamente maggiore. Uno dei paesi con spese maggiori è il Brasile. Il gigante latinoamericano mantiene una linea geopolitica orientata a consolidare la sua posizione di prima potenza regionale. Questo, unito alla sua volontà di formare parte dei membri del Consiglio di Sicurezza della ONU, così come il suo ruolo di protagonista nella missione dei Caschi Blu nell’isola di Haiti, spiegano questo incremento della spesa militare. Un altro paese con un enorme potenziale militare è il Cile. Recentemente, la presidente Michelle Bachelet ha inviato un progetto al Congresso per modificare la Ley Reservada del Cobre* che destina il 10% delle entrate dalla vendita della spesa alle Forze Armate, che ha permesso negli anni una forte inversione tecnologica ed un rinnovamento permanente dell’armamento. Il Cile ha confermato quest’anno l’acquisto di aerei antisottomarini e di otto elicotteri di fabbricazione francese, inoltre la acquisizione di 18 aerei F-16 dall’Olanda, per un valore di 270 milioni di dollari. Allo stesso modo, il presidente del Venezuela, Hugo Chavez, ha annunciato l’acquisto di carrarmati russi per contrastare la presenza statunitense in Colombia. Tra il 2007 ed il 2008, il Venezuela ha comprato armi del valore di 1.531 milioni di dollari dalla Russia.

51.000 MILIONI DI DOLLARI IN ARMI

Nel 1994, L’America Latina ha speso 17.600 milioni di dollari. Nel 2003, la cifra era salita a 21.800 milioni di dollari, in corrispondenza delle tensioni provocate dall’11-S. Secondo il rapporto pubblicato dal centro di studi argentino Nueva Mayoria, questa cifra si è innalzata nel 2008 a 51.100 milioni di dollari.

IL CILE GUIDA LA SPESA PRO CAPITE

Il Cile guida la spesa militare per abitante, che è salita a 290 dollari pro capite nel 2008, mentre la Colombia ne ha spesi 115, l’Ecuador 89 e il Brasile 80. I militari cileni si finanziano con una tassa del 10% sopra le vendite lorde dell’ente statale Corporacion del Cobre, stabilita dalla dittatura militare (1972-1990) denominata Ley Reservada del Cobre.

IL RACKET LATINOAMERICANO IN SPESE MILITARI

Il Brasile ha speso l’anno scorso 27.540 milioni di dollari in spese militari (55%), seguito dalla Colombia con 6.746 milioni (14%) e il Cile, con 5.395 milioni (6,5%). Il Venezuela, d’altro canto, è il quarto paese sudamericano nelle spese militari e il secondo in acquisizione, con 5.000 milioni di dollari spesi in acquisti nell’ultimo anno, costituiti da aerei da caccia Sukhoi, di origine russa, elicotteri, sistemi di difesa aerea e fucili di assalto.

* (la legge 13.196 per cui il 10% delle entrate dovute alla vendita di rame sono destinate all’acquisto di nuovi armamenti per le forze armate).

Titolo originale: ” Los planes militares de Estados Unidos en Latinoamérica “

Fonte: http://www.diagonalperiodico.net
Link
22.10.2009

Traduzione per http://www.comedonchisciotte.org a cura di MATHILDA

ComeDonChisciotte – IL COMMERCIO DELLE CLUSTER BOMBS E’ FINANZIATO DALLE PIU’ GRANDI BANCHE MONDIALI

ComeDonChisciotte – IL COMMERCIO DELLE CLUSTER BOMBS E’ FINANZIATO DALLE PIU’ GRANDI BANCHE MONDIALI.

DI NICK MATHIASON
guardian.co.uk/

Il commercio mortale delle bombe a grappolo è finanziato dalle più grandi banche mondiali che hanno prestato o concordato il finanziamento per un valore di 20 miliardi di dollari (12.5 miliardi di sterline [12.6 miliardi di euro, ndt]) ad imprese che producono le controverse armi, nonostante i crescenti sforzi internazionali per bandirle.

La HSBC [uno dei più grandi istituti di credito del mondo con sede a Londra,ndt], guidata dal prete ordinato Anglicano Stephen Green, ha fatto profitti più di ogni altro istituto con compagnie che producono bombe a grappolo. La banca britannica, con sede nell’importante distretto finanziario londinese Canary Wharf, ha guadagnato un totale di 657.3 milioni di sterline in parcelle stipulando obbligazioni e offerte di titoli per la Textron, che realizza munizioni a grappolo descritte dall’azienda statunitense come “quelle che lasciano un campo di battaglia pulito”.

Gli attivisti affermano che le armi mortali possono esplodere anni dopo i combattimenti, uccidendo o mutilando gente innocente.

La HSBC oggi dovrà vedersela con proteste davanti la sua sede centrale a Londra [29 ottobre 2009, ndt]. La Goldman Sanchs, la Bank of America, la JP Morgan e la banca con sede in Gran Bretagna Barclays sono state menzionate fra le peggiori banche in un dettagliato rapporto di 126 pagine realizzato dai gruppi di attivisti olandese e belga IKV Pax Christi e Netwerk Vlaanderen.

La Goldman Sachs, la banca statunitense che ha fatto 3.19 miliardi di sterline di profitti in appena tre mesi, ha guadanato 588.82 milioni di dollari per servizi bancari e ha prestato 250 milioni di dollari alla Alliant Techsystems e alla Textron.

Delle banche menzionate solo la Barclays era disposta a replicare. Questa ha detto: “Il gruppo Barclays fornisce servizi finanziari al settore della difesa all’interno di una specifica e circoscritta linea di condotta. E’ nostra politica non finanziare il commercio in armi nucleari, chimiche, biologiche o altre armi di distruzione di massa.

“La nostra politica proibisce esplicitamente anche di finanziare il commercio di mine terestri, bombe a grappolo o qualunque altro armamento designato per essere usato come uno strumento di tortura.” Un portavoce ha aggiunto che la Barclays ha stanziato soldi per la Textron, che realizza bombe a grappolo, ma che l’azienda statunitense era un produttore di armi diversificate fra loro.

Lo scorso dicembre 90 nazioni, inclusa la Gran Bretagna, si sono impegnate a mettere al bando le bombe a grappolo entro il prossimo anno. Ma gli Stati Uniti non erano una di quelle. Fino ad ora 23 nazioni hanno ratificato la convezione. La Gran Bretagna deve ancora farlo, ma il ministero degli esteri ha confermato che farebbe parte del programma legislativo del governo prima delle prossime elezioni.

Un portavoce del ministero degli esteri ha detto che è stato disposto ordine del più stretto controllo sull’esportazione di bombe a grappolo, il quale si estende alle banche che forniscono soldi ai produttori. Il governo era consapevole che l’ordine di controllo non stava funzionando e “sta lavorando su questo”.

Esther Vandenbroucke, della Netwerk Vlaanderen e uno degli autori del rapporto, ha detto: “La responsabilità di bandire le munizioni a grappolo è un responsabilità comune. Richiede coraggio, e richiede uno sforzo. Siamo a distanza di pochi mesi dall’entrata in vigore di un trattato internazionale ed è tempo che gli stati firmatari della Convenzione sulle Munizioni a Grappolo agiscano nei confronti degli stati non firmatari e delle istituzioni finanziarie.”

Lo scorso dicembre, il fondo pensionistico del governo della Nuova Zelanda ha venduto azioni della Lockheed Martin a causa del suo legame con la costruzione delle bombe a grappolo. Simili azioni sono state intraprese dai governi irlandese e olandese.

Milioni di persone saranno in pericolo a causa di fino a dieci milioni di bombe a grappolo che non sono ancora esplose, cosa che è causa di un danno economico e sociale alle collettività in più di 20 nazioni nelle prossime decadi, hanno avvertito gli attivisti. La grande maggioranza di perdite di vite umane a causa delle bombe a grappolo avvengono mentre le vittime stanno portando avanti le loro vite quotidiane.

Lunedi, ad un libanese di 20 ani gli è stata amputata la gamba dopo che una bomba a grappolo è esplosa ad Houla un villaggio del sud del Libano. Una fonte del servizio di sicurezza ha detto che stava raccogliendo legna nel suo villaggio di confine quando è avvenuta l’esplosione.

L’esercito Israeliano ha fatto un uso intensivo delle bombe a grappolo durante la guerra nel sud del Libano tre anni fa. Le bombe a grappolo sono state usate più recentemente sia dai georgiani che dai russi nella controversia sull’Ossezia del Sud. Sono state usate anche nelle invasioni dell’Iraq e dell’Afghanistan.

Nick Mathiason
Fonte: http://www.guardian.co.uk/
Link: http://www.guardian.co.uk/business/2009/oct/29/banks-fund-cluster-bomb-trade
29.11.2009

Traduzione per http://www.comedonchisciotte.org a cura di ANGELO

Bombe cluster: anche IntesaSanpaolo tra i finanziatori delle ditte produttrici / Notizie / Home – Unimondo

Bombe cluster: anche IntesaSanpaolo tra i finanziatori delle ditte produttrici / Notizie / Home – Unimondo.

Investimenti, prestiti e servizi finanziari per un totale di 20 miliardi di dollari sono stati forniti negli ultimi due anni da 138 banche e istituti di credito occidentali a otto industrie di armamenti che producono “bombe a grappolo”: e questo nonostante il sostegno economico e la produzione delle cosiddette “cluster bombs” sia stato vietato dalla Convenzione siglata a Oslo lo scorso dicembre. Lo rivela il recente dettagliato rapporto Worldwide investments in cluster munitions: a shared responsability pubblicato dalle olandesi IKV Pax Christi e di Netwerk Vlaanderen (la rete della società civile olandese) con la consulenza della società di ricerche Profundo che è stato presentato in Italia dalla campagna Crbm.

Metà delle industrie occidentali che producono tra l’altro di “cluster bombs” hanno sede negli Stati Uniti (Alliant Techsystems ATK, L-3 Communications, Lockheed Martin e Textron); due sono basate in Corea del Sud (Hanwha e Poongsan), una in Turchia (Roketsan) e una a Singapore (Technologies Engineering). Capofila per investimenti il colosso bancario HSBC con sede a Londra (650 milioni di dollari di investimenti) seguito da Goldman Sachs, Merril Lynch, Deutsche Bank, JP Morgan, Citigroup, Barclays e Bank of America. L’elenco comprende anche una banca italiana, IntesaSanpaolo, per i propri rapporti con la statunitense Lockheed Martin, una delle più grandi aziende produttrici di armi al mondo.

Nonostante il gruppo IntesaSanpaolo già nel luglio del 2007 avesse annunciato di “sospendere definitivamente la partecipazione a operazioni finanziarie che riguardano il commercio e la produzione di armi e di sistemi d’arma”, proprio nello stesso periodo – spiega il rapporto olandese a pg. 44 – “Lockheed Martin ha rinnovato la sua attuale apertura di credito rotativo (cioè un prestito) di 1,5 miliardi di dollari fino a luglio 2012. Intesa Sanpaolo ha contribuito con 52,5 milioni di dollari al cartello (syndicate) delle 31 banche” erogatrici del prestito.

Appare però singolare però la conseguenza temporale: mentre il 10 luglio 2007 il gruppo IntesaSanpaolo emanava la nuova policy sugli armamenti (testo in .pdf) – che afferma come “con decorrenza immediata, le strutture territoriali e centrali del Gruppo Intesa Sanpaolo devono operare in linea con il divieto di porre in atto nuovi finanziamenti alla clientela per operazioni aventi a oggetto commercio e produzione di armi o sistemi di arma” – il 26 luglio 2007 la stessa banca rinnovava con il suddetto cartello di 31 banche il credito rotativo a Lockheed Martin (industria bellica americana tra i principali produttori al mondo di bombe a grappolo – ndr) fino al 2012.

Come assicura a Luca Rasponi di Peacereporter una “fonte interna ad Intesa Sanpaolo” i “contratti come quello con Lockheed Martin hanno tempi di realizzazione di diversi mesi”. Per cui la vicinanza tra rinnovo del prestito e nuova policy sugli armamenti “è solo una coincidenza: il controllo sulla concreta applicazione della policy è tuttora in corso di affinamento” – afferma la fonte. “Il contratto con il colosso Usa della difesa, poi, è in syndication, cioè in comune con altre 30 banche. Cosa che complica eventuali exit strategies. Da ultimo, l’investimento di Intesa Sanpaolo a favore di Lockheed Martin è non finalizzato. Ma l’azienda statunitense produce quasi esclusivamente armi” – sottolinea Rasponi.

Proprio per questo il rapporto delle Ong olandesi afferma (pg. 83) che “Intesa Sanpaolo deve escludere i produttori di bombe a grappolo dai suoi asset management e dalle attività d’investimento. Non solo dai prestiti”. E che la banca “non deve ammettere eccezioni e porre fine ad ogni relazione con le aziende produttrici di munizioni cluster, a meno che vi siano impedimenti legali” e che – in caso vi siano tali eccezioni – “la banca deve renderle note al pubblico attraverso il proprio sito internet”.

In attesa che la Convenzione di Oslo sulle cluster bombs sia legalmente vincolante – per arrivare al limite di 30 mancano sette ratifiche da parte di 100 dei Paesi firmatari – ci sono però già Stati e istituzioni che hanno deciso di seguire i dettami dell’accordo internazionale. I Parlamenti di Belgio, Irlanda e Lussemburgo hanno già approvato delle leggi che vietano gli investimenti nelle cluster bombs, mentre i fondi pensione di Nuova Zelanda, Norvegia e Svezia e numerose banche etiche di tutta Europa già da tempo hanno troncato qualsiasi legame con le compagnie produttrici. “Le legislazioni nazionali in materia sono sicuramente molto utili, però adesso è arrivato il momento che anche le istituzioni finanziarie facciano la loro parte ed escano da questo business” – ha affermato Esther Vandenbroucke, esponente di Netwerk Vlaanderen e tra gli estensori del rapporto.

“Il rapporto delle ong olandesi è un’ulteriore conferma dei legami che esistono tra la finanza internazionale e il mondo della produzione armiera” – commenta Francesco Vignarca, coordinatore della Rete italiana Disarmo. “E dimostra come, per creare una vera prospettiva di disarmo, non bisogna solo lavorare sull’ambito politico, ma anche sugli intrecci economici che perpetuano una situazione che va a vantaggio di pochi a scapito della collettività. E che porta le armi nel cuore dei conflitti dove sono gli ultimi del globo – in particolare i bambini – a pagare con la propria pelle”.

“Nel rapporto troviamo molti paesi che hanno firmato la Convenzione per la messa al bando delle bombe e munizioni cluster, ma le cui banche e attori finanziari continuano a sostenere le imprese che producono tali armi” – aggiunge Andrea Baranes della campagna Crbm. “Questo dimostra ancora una volta di come sia necessario e urgente che le banche migliorino la trasparenza e le informazioni che forniscono in merito a tutti i rapporti che intercorrono con l’industria delle armi”.

“I legami della finanza con la produzione armiera ed il totale disinteresse per la dimensione umana ed umanitaria non può che stimolare richieste chiare e non eludibili da parte della società civile, volte ad obbligare gli Istituti bancari a reali politiche di responsabilità sociale non solo di facciata” – commenta Giuseppe Schiavello della Campagna italiana per la messa al bando delle mine. “A tale proposito la nostra campagna proporrà alle associazioni impegnate a vario titolo nella difesa dei diritti umani e del disarmo di promuovere insieme un disegno di legge nazionale teso a proibire il sostegno finanziario ad aziende coinvolte nella fabbricazione di ‘cluster bombs’, sub-munizioni e mine antipersona, e di estendere il divieto anche al finanziamento tramite i fondi pensione”- conclude Schiavello.

Giorgio Beretta

Scorie a perdere

Fonte: Scorie a perdere.

Questa è una storia particolare. Questa è una storia di uomini, mezz’uomini, ominicchi, pigliainculo e quaquaraquà, come diceva Leonardo Sciascia. Questa è una storia di nebbie. Nebbie che avvolgono tutto. Avvolgono uomini che scavano nella verità e avvolgono uomini che quella verità tentano di occultarla. Ed avvolgono navi.

Per iniziare questa storia partiamo dalla provincia del Guangdong, Cina. Ogni anno 150 milioni di televisori, lavatrici, frigoriferi ed altra immondizia “tecnologicamente avanzata” viene portata in queste terre, note non certo per la ferrea normativa ambientale. Più del 90% di questi rifiuti però non viene portato in qualche azienda per il riutilizzo o per il definitivo smaltimento. Finisce invece nei garage delle abitazioni, in strada, negli orti e viene trattato senza la minima precauzione. Da dove viene quell’immondizia? Alcuni di quei rottami… partono da Aiello del Friuli, Udine, dove confluiscono i rottami di ditte friulane, liguri, venete e lombarde allocate in un sito di stoccaggio non autorizzato e dove arriva quello stesso materiale di scarto che le “grandi ditte” del Nord (quelle che portano sulle loro spalle – a detta loro – il peso economico dell’azienda Italia) spesso imbarcano su carrette del mare per mandarle in qualche altra zona lontana dall’aura di magnificenza con la quale vengono dipinti dai nostri quotidiani. Le mandano così lontane che spesso queste carrette si perdono nel mar Tirreno. Italia.

Cetraro (Cosenza) – Un mezzo telecomandato sottomarino messo a disposizione dalla Regione Calabria ha ritrovato a 500 metri di profondità nel mare antistante le coste cosentine il relitto di una nave. Cosa che di per sé non dovrebbe destare dubbi o far porre troppe domande, tant’è vero che la notizia è passata praticamente inosservata sui media del circuito mainstream. Ma una nave dai cui oblò si vedono due scheletri (o almeno questo è quel che sembra vedersi…) e dalla quale si potrebbero prelevare ben 120 fusti pieni di materiale non identificato si può considerare “normalità”?
Cosa contengano quei fusti è irrilevante ai fini ambientali. Che contengano vernici, solventi, acidi o materiale di altro tipo la cosa certa è che quel materiale non fa bene alle nostre acque, visto che dai rilevamenti effettuati in passato sono stati accertati eccessivi livelli di piombo. La prua della Cunski, questo il nome della motonave affondata, è squarciata. Che qualcuno abbia voluto portar via quei fusti prima che potessero essere ritrovati? Cosa contenevano di tanto “importante” da avere tutta questa premura di portarsi dietro 120 fusti non certo occultabili in un paio di tasche?
E, cosa forse anche più importante: quante altre “Cunski” ci sono disseminate nei nostri mari?

A quest’ultima domanda stava tentando di rispondere il Capitano di vascello Natale De Grazia, 39 anni, una di quelle persone che la divisa che indossano la onorano sul serio. In quel periodo (siamo nel 1995) faceva il consulente tecnico del pm Francesco Neri. De Grazia stava indagando non solo – e forse non tanto – sugli affondamenti. Ma sulle rotte; quelle stesse rotte che lo avevano portato a girare in lungo e in largo l’Italia e l’Africa. Seguendo una di quelle rotte aveva scoperto un cimitero ambulante che partendo dal Nord Italia – nell’area dei c.d. “porti delle nebbie” come La Spezia e Livorno – finiva nei mari del sud o, più facilmente, lungo le coste africane. Conoscere certe cose però, in un paese che convive ed accetta i fenomeni mafiosi, può portarti a fare conoscenze indesiderate. O può portarti alla morte com’è successo a De Grazia, stroncato da un infarto il 13 dicembre del 1995 mentre da Amantea – dove si era recato per indagare sullo spiaggiamento della “Jolly Rosso”- si stava dirigendo proprio al porto di La Spezia. Si dice che ad Amantea abbia parlato con qualcuno, ma non esistono riscontri (verbali e quant’altro…) che ne possano dare l’ufficialità. Con chi ha parlato il Capitano De Grazia? Cosa gli ha detto di tanto “importante” da non permettere che quella storia fosse conosciuta da tutti? Perché il Capitano a La Spezia non ci arriverà mai. Colto da infarto o da avvelenamento? Anche questa – per ora – rimane una domanda avvolta nella nebbia, in quanto i risultati dell’autopsia fatta sul cadavere non confermerebbero l’infarto.

Se il capitano avesse potuto portare a termine le indagini, probabilmente si sarebbe imbattuto in personaggi particolari. Degni delle migliori storie di spie e controspionaggi. Come Giorgio Comerio. Di mestiere fa l’imprenditore. Settore antenne ed apparecchiature di indagine geognostica. Insomma: uno che spesso aveva a che fare con affondamenti e carichi “particolari”. Come particolari erano le sue frequentazioni, che andavano dai servizi argentini ed iracheni fino a trafficanti di armi o ad alcuni clan della costa jonica, come si evince dai libri contabili dell’azienda di cui era titolare: la O.d.m. (acronimo di Oceanic Disposal Management) con sede a Lugano che dal proprio sito internet offriva i suoi servigi di affondamento navi a chiunque ne avesse bisogno – una specie di mercenario dell’affondamento, insomma – sostenendo di non commettere reato (la Convenzione di Londra del 1972 vieta espressamente lo scarico di rifiuti radioattivi in mare) perché lui i rifiuti non li buttava “in” mare, ma “sotto” il mare in quanto – tramite l’utilizzo di una sorta di siluri d’acciaio – li spediva a 40-50 metri di profondità.

Molto prolifico per Comerio doveva essere il mercato africano, visti i frequenti contatti con i governi della Sierra Leone, del Sudafrica e con le milizie che in quegli anni lottavano in Somalia per definire chi tra Ali Mahdi e Aidid (appoggiato in un primo momento dagli U.S.A. che poi – come al solito – gli danno la caccia…) dovesse prendere il posto che fu di Siad Barre, una sorta di Gheddafi d’antan, considerato amico dell’Italia all’epoca del governo Craxi. Al governo somalo Comerio propone 5 milioni di $ per poter inabissare rifiuti radioattivi di fronte alla costa e 10.000€ di tangente al capo della fazione vincente dell’epoca (Ali Mahdi, appunto) per ogni missile inabissato. Pagamento estero su estero, ovviamente.

Come se non bastasse, in tutta questa storia c’è un giallo. Giallo come il colore della cartellina che è stata rinvenuta a casa dell’imprenditore identificata con il numero 31 ed intitolata “Somalia”. Uno potrà dire: magari ci saranno i resoconti e le carte dei suoi affari. Può anche essere. Ma che tra queste carte sia stato rinvenuto il certificato di morte di Ilaria Alpi dovrebbe quantomeno far riflettere. Interessanti poi sono anche gli appunti trovati a casa di un socio di Comerio, Gabriele Molaschi, nei quali vi sono annotati carri armati Leopard, Mig, mitragliatrici “Breda”, artiglieria pesante e leggera. Insomma, qualcuno aveva fatto la lista della spesa (probabilmente rappresentava il prezzo da pagare per lo sversamento davanti alle coste somale dei rifiuti radioattivi).

Questo dovrebbe far quantomeno riflettere, dicevo. Come dovrebbe far riflettere quello che è successo nei giorni in cui la giornalista del Tg3 e Miran Hrovatin – il suo operatore – venivano uccisi a Mogadiscio il 20 marzo del 1994. O sarebbe meglio dire venivano giustiziati. Spariscono tre block notes di appunti, sparisce l’agendina con i numeri telefonici e c’è una Commissione d’inchiesta – presieduta dall’onnipresente Carlo Taormina – che predilige una fantomatica pista “islamica”, tanto da arrivare a dire che l’uccisione dei due giornalisti sia da attribuire ad un rapimento finito male.

“1.400 miliardi di lire (che erano poi i soldi della cooperazione italiana, ndr): che fine ha fatto questa ingente mole di denaro?” Era questa la domanda che aveva spinto Ilaria Alpi a tornare di nuovo in quella terra che tanto amava: la Somalia. La stessa domanda che aveva posto al “sultano di Bosaaso” (al secolo Abdullahi Mussa Bogor, ex Ministro della Giustizia ai tempi di Siad Barre). «Stia attenta, signorina. Da noi, chi ha parlato del trasporto di armi, chi ha detto di aver visto qualcosa, poi è scomparso. In un modo o nell’altro, è morto» era stata la risposta.

Mai affermazione fu più profetica, verrebbe da dire guardando a questi 15 anni di depistaggi, imbrogli, verità parziali e verità fittizie. Quel che è certo, però, è che armi e tangenti erano i mezzi di pagamento per il disturbo dei rifiuti tossici nelle acque somale.
Ilaria Alpi era partita – anzi, ri-partita visto che era già il suo settimo od ottavo viaggio in Somalia – sulle tracce di una nave della compagnia Shifco, discussa società somala che spesso trasportava rifiuti tossici provenienti dalla Trisaia di Rotondella (MT) una sorta di immenso outlet (come nella scena iniziale di Canadian Bacon di Michael Moore) per chi aveva necessità “atomiche” come l’acquisto di uranio depleto, che ritrattato serve a costruire bombe. Mi chiedo quanto di questo uranio sia oggi tra quello con cui gli americani vorrebbero far costruire la bomba atomica all’Iran…

L’omicidio Alpi smuove un po’ la situazione, visto che dagli anni Novanta questo via vai sulla rotta dei rifiuti sembra quantomeno calmarsi. Quel che non si calma, invece, è lo sdegno della società civile.

Francesco Gangemi è sindaco di Reggio Calabria nel 1992 (anche se solo per tre settimane). Quel che interessa in questa sede, però, è il fatto che Gangemi sia anche direttore del mensile calabrese “Il Dibattito”, dalla linea spesso aggressiva verso politici e magistrati. Firma un’inchiesta a puntate dal titolo quanto mai eloquente: “Chi ha ucciso Ilaria Alpi?” che inizia così:

«Fin dai primi passi di questa mia lunga strada, che immagino irta di ostacoli e contraccolpi, voglio informare i nostri lettori e le autorità che eventuali rappresaglie che dovessi subire non sarebbero certo riconducibili alla ‘ndrangheta o ad altre organizzazioni criminali, ma ai servizi segreti deviati e assoggettati a taluni magistrati inadempienti ai loro doveri d’uffico e al governo, che rimane il fulcro delle operazioni sporche che stanno inginocchiando l’umanità intera a fronte di vantaggi di varia natura».

Questa è una storia di nebbie.
Nebbie che avvolgono cose, avvolgono luoghi e persone.
Come le nebbie che avvolgono un altro dei grandi misteri d’Italia.
Il 27 giugno 1980 un Douglas DC-9 appartenente alla compagnia aerea Itavia si squarcia in volo, nel cielo tra le isole di Ustica e Ponza. E’ questo il “mistero di Ustica”. Ma c’è un mistero anche più “misterioso” che succede quella notte. Il 18 luglio, infatti, sui monti della Sila (Calabria) viene trovato un Mig 23 libico abbattuto la notte della strage di Ustica. Il maresciallo Mario Alberto Dettori, radarista della base di Poggio Ballone (Grosseto) confessa alla moglie: «Quella notte è successo un casino, per poco non scoppia la guerra». Dettori morirà suicida nel marzo dell”87, ossessionato da una scritta che – dice – non lo abbandona mai: “il silenzio è d’oro e uccide”. Cos’è successo “quella notte” di così grave da aver sfiorato una guerra?

Una delle tesi più accreditate – e ritenute più verosimili persino dagli “esperti”- è che il Dc9 sia stato “buttato giù” da missili americani, i quali evidentemente non accettavano che il centro Enea di Rotondella fosse un “outlet aperto a tutti”, in particolare a paesi allora nemici come la Libia. Nel marzo del 1993, ad avvalorare questa tesi ci pensa Alexj Pavlov, ex colonnello del KGB il quale sostiene che il Dc9 fu abbattuto da missili americani, i sovietici videro tutto dalla base militare segreta in Libia, ma furono costretti a non rivelare quanto sapevano per non scoprire il loro punto di osservazione. Quella notte furono fatte allontanare tutte le unità sovietiche della zona perché si sapeva che ci sarebbe stata un’esercitazione a fuoco delle forze americane. Se lo sapevano i sovietici, come mai noi non ne eravamo a conoscenza? O forse lo sapevamo e – volutamente – abbiamo deciso di lasciare andare il Dc9 che, dunque, più che un aereo quella notte fu utilizzato come “tiro a segno” per i caccia americani?

Il fenomeno dello smaltimento dei rifiuti tossici è uno di quelli sui quali chi riesce a metterci le mani prende la tanto agognata “galline dalle uova d’oro”. Per capire la grandezza di questo fenomeno basti pensare che la quantità di rifiuti da smaltire prodotti nel nostro paese crea per le organizzazioni criminali (in questo caso Cosa Nostra, ‘Ndrangheta e Camorra non si fanno certo la guerra…) un giro d’affari tra i 1.000 ed i 3.000 miliardi circa di euro annui. E in queste cifre è presente solo il 15% dei rifiuti da smaltire, cioè la quantità che viene smaltita legalmente.

C’è poi un altro mistero nella faccenda delle navi a perdere.
Il 20 Giugno 1991 sulla Gazzetta del Sud compare questo articolo a firma Gaetano Vena: “Quasi completata l’operazione di demolizione della Rosso. Nessun materiale nocivo rinvenuto all’interno dei container che trasportava la nave della società Ignazio Messina S.p.A. di Genova che proveniente da Malta e diretta a La Spezia si arenò il 14 dicembre 1990 per una violenta tempesta di mare”. La “Jolly Rosso” (chiamata così perché riportò in Italia le diossine di Seveso sparse per il globo e in attesa di smaltimento…) stava tornando da Beirut, dove aveva caricato 2.200 tonnellate di rifiuti tossici da trasportare in Italia, al porto di La Spezia. C’è però una particolarità in questa storia, e i “vecchi lupi di mare” me ne daranno probabilmente ragione. Dopo questo viaggio, infatti, la Jolly Rosso diventa semplicemente la “Rosso”. E cambiare il nome di un’imbarcazione è considerato un elemento foriero di cattiva sorte (come poi succederà di lì a poco…) Quando la “Rosso” affonda, viene chiamata per il ripescaggio una società olandese, la Smit Tak: una delle società più competenti nel recupero navi e salvataggi marini. Passano 17 giorni, poi la S.T. rescinde il contratto con tanti saluti ed abbandona l’affare. Incompetenza? Non sembra, visto che la stessa Smit Tak si è occupata del recupero del Kursk, il sottomarino nucleare russo affondato nel mare di Barents balzato agli onori della cronaca qualche anno fa. Gli inquirenti sono incuriositi da due aspetti di questa società:
Così come oggi, anche agli inizi degli anni ‘90 la Smit Tak era un’impresa molto grossa, forse la più grande a livello internazionale, forse troppo grossa per un affare da poco come il recupero di una imbarcazione tutto sommato piccola come la “Rosso”; e poi è nota principalmente per il ramo di società legato alla bonifica di incidenti che hanno a che fare con materiale radioattivo.

Ad un giorno dallo spiaggiamento, a bordo del relitto della Rosso si presentano agenti dei servizi segreti che rinvengono documenti siglati O.d.m. (la società di Comerio che abbiamo visto in precedenza…). Una volta visionati, i documenti vengono restituiti alla Messina S.p.A. Perché i documenti vengono restituiti? Non servono forse come “prova” in un’eventuale indagine sui motivi che hanno portato allo spiaggiamento della Rosso? E perché questi uomini si presentano lì e – apparentemente senza alcuna autorità e senza che nessuno vi si opponga – rinvengono tali documenti, magari anche trafugando quelli che potevano essere “sconvenienti”? E per quale motivo si smuovono i servizi segreti se – ufficialmente – la Rosso trasportava “sostanze alimentari e generi di consumo”?

Servizi segreti deviati, organizzazioni criminali, l’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin e la strage di Ustica. Cosa c’è davvero dietro all’affondamento della Cunski e delle altre “navi a perdere”? E soprattutto chi?

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“Che cosa ci facciamo ancora in Afghanistan?”. Se lo chiedeva – all’indomani dell’ultima strage di soldati italiani – anche il leader dell’Italia dei Valori, Antonio Di Pietro (che pure, quando stava al governo, aveva votato per continuare la “missione di pace”, senza fiatare). Un interrogativo che in questi giorni, in queste settimane, si devono essere posto molti italiani. Anche perchè a otto anni dallo scoppio del conflitto – conflitto che per alcuni è guerra al terrorismo; per altri una pura e semplice invasione – i più manco si ricordano cosa ci siamo andati a fare a Kabul. Sempre che lo abbiano mai saputo.

Bene. Le risposte a questa benedetta domanda – “Che cosa ci facciamo ancora in Afghanistan?” – sono state tante. Politici, giornalisti e opinionisti di arte varia ci si sono dedicati per giorni tra prime pagine di giornali e prime serate tivù. Dicendo tutto e il contrario di tutto. Ma oggi Curzio Maltese – giornalista e firma di punta di “Repubblica”è riuscito a dire qualcosa di più e di diverso. Spiegando che pace e democrazia e terrorismo c’entravano e c’entrano fino a un certo punto. E che molto, invece, c’entrano le armi. Armi che le aziende tricolori vendono copiosamente. Tanto ai nostri soldati. Quanto – e per quanto faccia male, è bene farlo sapere in giro – a ribelli, insorgenti o resistenti (comunque, insomma, li si voglia chiamare).

Maltese parte da un numero che pochi conoscono. E scrive:

Una settimana prima della strage di Kabul, lo studio ricerche del congresso Usa aveva stilato il rapporto annuale sul commercio d’armi, con una buona notizia per l’industria militare italiana, tornata la seconda esportatrice del mondo. Primi, naturalmente, gli Stati Uniti, con 37,8 miliardi di dollari; staccata l’Italia con 3,7 miliardi, ma pur sempre davanti alla Russia e al resto del mondo.

Ecco, allora, osserva il giornalista di “Repubblica” che:

Le missioni militari nel mondo spesso si rivelano un doppio affare. Aumentano le commesse militari nei Paesi occidentali, ma soprattutto fanno espandere la domanda nei Paesi mediorientali, africani e in genere del Terzo mondo, dove si dirige il settanta per cento del mercato.

Qualche esempio. Maltese ne cita due. Con tanto di nomi, o meglio è il caso di dire di cognomi. Primo:

Prendete il simbolo stesso dell’arma italiana, la pistola Beretta. In Iraq la usano tanto i soldati americani e italiani, quanto i terroristi di Al Qaeda. Quattro anni fa l’esercito americano ne trovò scatoloni interi in un arsenale di terroristi. (…) In teoria non si potrebbero vendere armi non solo ai terroristi, com’è ovvio, ma anche a molti Paesi belligeranti e non, sparsi per il mondo. Ma i sistemi per aggirare l’embargo sono moltissimi, noti eppure non controllati, come la vendita a pezzi da assemblare (…)

E secondo (esempio):

Le nostre mine antiuomo (…) sono state trovate in una ventina di nazioni. A cominciare dall’Afghanistan, la nazione più minata della Terra. I Talibani usano materiali di mine russe e italiane per comporre gli esplosivi degli attentati kamikaze.

Attentati come quello che ha ucciso i nostri soldati? Sì, esatto. Ma di tutto questo – all’indomani della strage di Kabul – quasi non si è parlato. E non lo si è fatto, secondo il giornalista di “Repubblica”, per una ragione molto semplice: “(…) quando si parla di ritiro delle truppe in Iraq e Afghanistan, si parla di perdite di miliardi di commesse militari per l’industria bellica. Lo sa Berlusconi, amico personale di Guido Beretta. Lo sa Barack Obama, molto prudente sulla questione. Gli ultimi presidenti, candidati alla presidenza e primi ministri che hanno annunciato ritiri dal fronte e tagli alle spese militari, sono morti giovani“.

Tutto vero? Tutto faso? Difficile dire. Quel che è certo è che il “j’accuse” di Maltese è finito non in qualche angolino in fondo al giornale. Ma direttamente in uno spazio grosso come una cartolina dell’inserto di oggi (”il Venerdì” di Repubblica). E chissà: se fossero esiste – chessò – delle pagine locali distribuite solo su Marte, magari queste poche righe sulle ragioni di Guerra&Pace sarebbero state confinate lì. In compenso – domenica scorsa – sempre Repubblica, ma in prima pagina, ospitava un fondo firmato dal suo fondatore, Eugenio Scalfari. Titolo eloquente: “Come e perché restare a Kabul”. E giudizi tranchant sui politici italiani più propensi al ritiro: “Bossi vuole che i soldati italiani tornino a casa. Anche Di Pietro ha inalberato lo slogan del ritiro. L’anima populista dell’opposizione. Senza capire che questi slogan puramente velleitari non fanno che aumentare i rischi per i nostri militari: se la presenza italiana in Afghanistan diventasse incerta, gli assalti dei terroristi si concentrerebbero contro il nostro contingente per affrettarne la partenza”.

Forse: che parlare di ritiro è pericoloso, lo sanno bene anche a “Repubblica”.

P.S. L’articolo di Curzio Maltese – “Non esportiamo democrazia. Ma armi sì”, Venerdì di Repubblica, 25 settembre 2009 – non è ancora disponibile on line. Dovrebbe esserlo – come tutti gli articoli di “Repubblica” – a qualche giorno dalla pubblicazione. E allora, lo metteremo on line.

IL BEL PAESE DELLE ARMI | Tutto Gambatesa .net

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di Monica Centofante

C’è un business che non conosce crisi e che in controtendenza con l’andamento generale del mercato è sempre in rapida espansione: è quello delle armi, un comparto in continua crescita con miliardi di dollari di fatturato. E una delle principali fonti di guadagno per il nostro Paese, che dal 1945 in poi si è sempre posizionato tra i primi dieci produttori di armamenti al mondo. A fare la nostra “fortuna”, in particolare, i Paesi del Terzo Mondo, dove da oltre trent’anni esportiamo ogni sorta di arma e di armamento, rendendoci complici di sanguinari conflitti e di violazioni dei diritti umani.
Dal secondo dopoguerra ad oggi, pizza a parte, c’è un solo made in Italy che tra alti e bassi non tramonta mai. E che in tempi di crisi, con un evidente effetto trainante sull’economia, registra un saldo attivo commerciale in netto contrasto con il deficit del Paese.
E’ il mercato delle armi, un comparto aziendale con decine di migliaia di addetti e miliardi di Euro di fatturato. Il fiore all’occhiello dell’economia italiana e uno dei principali responsabili della morte e della distruzione di milioni di vite umane.
Il rapporto annuale del Presidente del Consiglio dei Ministri – (come di consueto) pubblicato a fine marzo di quest’anno e riferito alle attività del 2008 – è coerente con i trend di crescita del settore. Che l’anno scorso ha ottenuto 1880 autorizzazioni all’esportazione per oltre 3 miliardi di Euro: il 28,58% in più rispetto al 2007, con consegne realmente effettuate per 1 miliardo e 800 milioni, autorizzazioni relative a programmi intergovernativi per 2 miliardi e 700 milioni e un volume d’affari di oltre 7 miliardi e 500 milioni di Euro.
Dati che da soli valgono a dimostrare il consolidamento e l’incremento nel “mercato globale” dell’industria bellica italiana, che si conferma come “un competitivo integratore di sistemi, capace di affermarsi in mercati tecnologicamente all’avanguardia”.
Lo rivendica con orgoglio il documento, una trentina di pagine in tutto più una ventina di tabelle, che presentano una serie di numeri dei quali però c’è ben poco da andare fieri. Più del 30% delle nostre esportazioni, si apprende, raggiunge i Paesi del sud del mondo e il 35,86% la Turchia, che ha immesso nella nostra economia oltre 1 miliardo di Euro grazie a commesse che comprendono non meglio identificati “elicotteri”.
Il termine è generico, ma le dichiarazioni pubblicate nel settembre del 2007 sul sito ufficiale del ministero della difesa turco lasciano spazio a pochi dubbi: “Nel quadro del programma Atak (Tactical Reconnaissance and Attack Helicoper ndr.) – si legge – lo scorso 7 settembre è stato raggiunto l’accordo con Agusta Westland: seguirà presto una cerimonia ufficiale”. L’accordo prevedeva la commessa di 1,2 miliardi di euro per 51 elicotteri A129 da combattimento destinati al Comando turco delle forze di terra e all’avvio delle trattative il Presidente e Amministratore Delegato di Finmeccanica, Pier Francesco Guarguaglini, si mostrava più che soddisfatto. “La scelta degli elicotteri Agusta Westland da parte della Turchia – aveva detto – conferma l’elevata competitività dei nostri prodotti e le ottime relazioni industriali” che esistono tra i due Paesi. In Turchia, tra l’altro, “Finmeccanica è presente da molti anni in diversi settori. Questa scelta rinnova i rapporti di stima e amicizia reciproci e apre la strada a nuove interessanti opportunità di collaborazione tra i due Paesi”. Agusta Westland è infatti una controllata di Finmeccanica, di cui il principale azionista è il Governo, e “forse per il semplice fatto che la Turchia sia un partner Nato e che si trattava di elicotteri ha fatto ‘sorvolare’ su qualche denuncia ribadita dalle associazioni per la difesa dei diritti umani”.
Il commento è di Giorgio Beretta, della Rete Italiana per il Disarmo, che ricorda inoltre come la stessa azienda abbia inaugurato lo scorso anno ad Ankara i suoi nuovi “Regional Business Headquarters”. D’altronde, come si dice, “business is business” e così, mentre a parole, strette di mano e visite ufficiali l’Italia si eleva a paladina dei diritti dei più deboli contro l’asse del male, dall’altra non esita a fornire ai Paesi che i diritti umani li violano costantemente i mezzi per poter proseguire a perpetrare ogni sorta di violenza.
Nell’ultimo rapporto di Amnesty International, la Turchia figura come il Paese in cui “il sentimento e la violenza nazionalisti sono aumentati sull’onda di un’accresciuta incertezza politica e degli interventi armati. La libertà di espressione ha continuato a essere limitata”, non si sono fermate le “denunce di tortura e altri maltrattamenti” ed eccessivo è l’”impiego della forza da parte delle forze dell’ordine”. “Le incriminazioni per violazioni dei diritti umani – ancora – sono state inefficaci e insufficienti”, anche nei confronti “di rifugiati e richiedenti asilo”. E “non sono cessate le preoccupazioni per la mancanza di equità processuale”.
Nessuna meraviglia.
Non è l’unica nazione interessata da violazioni dei diritti umani, né da conflitti o tensioni a cui l’Italia vende materiali d’armamento. E a cui, nel corso della storia, li ha venduti.
Basti pensare che nella rosa dei migliori clienti non mancano neppure stati canaglia come la Siria, che da noi ha comprato sistemi di puntamento per 2,8 milioni di Euro e fino al 2007 anche l’Iraq. Nel pieno della “guerra preventiva” contro l’Occidente del mondo.
Contemporaneamente, è ovvio, gli affari si fanno anche con gli Stati avversari, quelli della “lotta al terrorismo”, che sono nostri alleati. E con operazioni come quella chiusa alla fine del 2008 quando Alenia North America, controllata di Finmeccanica, ha siglato un contratto del valore di 287 milioni di dollari con l’Usaf per la fornitura di 18 velivoli da trasporto tattico G.222. Velivoli che saranno girati alle forze armate afgane (Afghanistan National Army Air Corps) dal Combined Air Power Transition Force dell’Usaf di Kabul. “Siamo orgogliosi – ha dichiarato per l’occasione Giuseppe Giordo, presidente ed amministratore delegato di Alenia – di supportare ancora una volta le Forze Armate Usa nella lotta globale al terrorismo, con la fornitura di un velivolo robusto – che ha dimostrato nel corso della sua carriera delle eccellenti capacità – per il suo utilizzo in Afghanistan da parte dell’Anaac”.
Come dire: un colpo al cerchio e uno alla botte. Lucrosissimi tutti e due.
E se questi sono i principali dati riguardanti la vendita di armamenti da guerra non sono da sottovalutare altri dati: quelli riferiti alle cosiddette “armi leggere” di fabbricazione nostrana – utilizzate per lo più nei conflitti a “bassa intensità” dei Paesi in via di sviluppo – delle quali è pieno il mondo. Con risultati, in termini di diritti umani, a dir poco disastrosi.
E il principio costituzionale secondo il quale “l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”?
Carta straccia. Aggirato da una serie di stratagemmi volti ad eludere le norme in materia di vendita di armi (peraltro relativamente recenti), da accordi internazionali, da operazioni non proprio limpide, che hanno caratterizzato tutta la storia dell’industria armiera italiana e, in modo particolare, gli ultimi quarant’anni.
Nel corso dei quali il modo di “concepire la guerra” si è lentamente trasformato: non più d’assalto, ma, dicevamo, a “bassa intensità”, recentemente definita “chirurgica”, “elettronica” o più ipocritamente “in funzione della pace, della democrazia, della libertà”.
La metamorfosi, concepita negli anni Novanta protagonisti del secondo conflitto del Golfo e della guerra in Jugoslavia, avviene l’11 settembre del 2001. E porta con sé – oltre a una serie di problematiche politico-sociali che in questa sede non tratteremo – un consistente incremento nella produzione di armi ed armamenti. Che va a sovrapporsi a quel “dividendo della pace”, seguito al crollo dell’Unione Sovietica, il quale ha avuto vita relativamente breve e che dopo una iniziale riduzione della spesa militare nei principali Paesi occidentali ha presto ceduto il passo a una nuova corsa agli armamenti. D’altronde, come giustamente annotano Riccardo Bagnato e Benedetta Verrini in Armi d’Italia, “le guerre hanno bisogno di armamenti almeno quanto gli armamenti hanno bisogno di guerre”.
E in quest’ottica, i dati raccolti da Vincenzo Comito (Le armi come impresa) e riportati nei rapporti annuali del Sipri, l’Istituto Internazionale di Ricerche sulla Pace di Stoccolma, parlano chiaro: se già dagli ultimi anni Novanta le prime cento imprese del settore a livello mondiale erano in crescita, nel 2005 la spesa per gli armamenti ha raggiunto la cifra di 1.001 miliardi di dollari, nel 2006 ha toccato i 1.204 e nel 2007 i 1.339. Cifre che corrispondono grosso modo al 2,5% del pil mondiale nei due anni e a 173 dollari per ogni abitante della terra nel 2005, a 184 dollari nel 2006, a 202 nel 2007”. Oltre ad un incremento nel 2007, rispetto al 1998, del 45%.
Anche il 2008, rispettando i ritmi di crescita a dispetto della crisi finanziaria internazionale, ha visto un incremento della spesa militare mondiale pari al 4%, ossia 1.464 miliardi di dollari. 40,6 dei quali sono stati spesi dal nostro Paese, che quest’anno si posiziona all’ottavo posto per spese militari con un aumento del budget militare nazionale pari all’1,8%.
L’Italia, si legge nel Sipri Yearbook 2009, ricopre il 2,8% della spesa militare mondiale che vede gli Stati Uniti al primo posto seguiti dalla Cina (per la prima volta dal secondo dopoguerra), da Francia, Gran Bretagna, Russia, Germania, Giappone, Italia – appunto -, Arabia Saudita e India.
E fatta eccezione per l’Europa occidentale e centrale, dal 1999 tutte le regioni del mondo hanno registrato “significativi incrementi” della spesa militare anche perché, annota il Sipri, “durante gli otto anni della presidenza di George W. Bush la spesa militare è aumentata a livelli che non si registravano dalla Seconda Guerra Mondiale”.
All’origine della tendenza alla crescita vi è dunque la spesa Usa. Dovuta non solo alla guerra in Iraq e in Afghanistan, ma come annota ancora Comito ad “una chiara visione ideologica dell’amministrazione Bush volta al mantenimento, anzi all’accrescimento, del dominio militare del paese nel mondo”. Mirato, non va sottovalutato, anche e soprattutto ad assicurarsi il controllo di zone strategiche del pianeta in vista del progressivo esaurimento delle risorse naturali ed energetiche.
Anche l’Italia – che grazie all’amicizia e all’alleanza strategica con gli Stati Uniti ha incassato lauti guadagni con la guerra all’Iraq – non si discosta da questa intenzione, tanto che nella relazione di esercizio del 2007 dell’Aiad (Associazione Industrie per l’Aerospazio, i sistemi e la Difesa) si parla dell’esigenza di una maggiore sicurezza dopo l’11 settembre, considerato “il punto di partenza per l’avvio accelerato del processo di sviluppo di nuovi mezzi tecnologici necessari per la sicurezza della collettività”. In termini di “controllo delle frontiere”, “sicurezza del sistema dei trasporti”, “protezione delle infrastrutture critiche”, “sicurezza energetica e degli approvvigionamenti”.
Per fare questo, come abbiamo già accennato e come vedremo, occorre superare una serie di “ostacoli”: dalle leggi che frenano l’industria armiera agli scontri con le associazioni pacifiste e con la società civile organizzata. Che hanno difeso strenuamente, finora con non poco successo, la legge 185/90 dagli attacchi di una politica bipartisan e senza scrupoli che intendeva cancellare con un colpo di spugna anni di lotte per ottenere più trasparenza e più etica nella produzione e nella vendita di armi e armamenti. In un’Italia pronta a sacrificare la spesa sociale, la ricerca e la cooperazione allo sviluppo, ma non certamente l’industria bellica controllata, in modo più o meno diretto, dallo stesso governo. Per questo, sottolineano ancora Bagnato e Verrini, “non è stata affatto una battuta quella del premier Silvio Berlusconi che, nell’ottobre del 2004 – non diversamente da altri prima di lui – ha promesso ai vertici di Finmeccanica di trasformarsi nel loro ‘commesso viaggiatore’ per far aumentare le commesse dei nostri aerei e sistemi di difesa. La sua è stata una dichiarazione che fotografa una realtà e avalla una tradizione storica”.
La stessa che tenteremo di ripercorrere nelle pagine che seguono, prendendo spunto dall’ultimo rapporto del Presidente del Consiglio dei Ministri “sui lineamenti di politica del Governo in materia di esportazione, importazione e transito dei materiali d’armamento” e ripercorrendo i tratti salienti della complessa storia dell’industria armiera italiana, dal secondo dopoguerra fino ai giorni nostri.
Nel farlo abbiamo attinto a diverse fonti, in particolare al prezioso e già citato testo di Benedetta Verrini e Riccardo Bagnato Armi d’Italia, nonché ad articoli, rapporti ufficiali, comunicati di associazioni pacifiste che da anni tentano di fare chiarezza su un tema controverso, per oltre quarant’anni coperto dal “segreto di Stato”.
L’intento è quello di contribuire a prendere coscienza del ruolo svolto dall’Italia nell’insicurezza mondiale, partendo da un concetto di base: che sin dal 1945 il nostro Paese si è sempre posizionato tra i primi dieci produttori di armamenti nel mondo e ha esportato senza controllo non solo armi da guerra che hanno alimentato ogni sorta di conflitto, ma anche pistole, cluster bombs, mine che (sebbene queste ultime siano state messe al bando) uccidono lentamente milioni di innocenti. Giorno dopo giorno e non soltanto quando scoppia un conflitto degno delle prime pagine.

Doppio gioco | L’espresso

Doppio gioco | L’espresso.

di Gianluca Di Feo e Stefania Maurizi

Montagne d’armi per alimentare le guerre africane. Vendute da italiani. Un regime che chiede tangenti su tutti gli affari. Ecco la Libia con cui Berlusconi stringe patti segreti

C’è un governo affamato d’armi. Cerca arsenali perché si sente debole dopo quarant’anni di regime e teme le rivolte popolari. E vuole montagne di mitragliatori per proseguire la sua spregiudicata politica di potenza che negli scorsi decenni ha contribuito a riempire l’Africa di guerre civili. Questa è la Libia che si materializza negli atti della più sconvolgente inchiesta sul traffico d’armi realizzata in Italia: verbali, intercettazioni, pedinamenti e rogatorie che raccontano l’ultimo eldorado del commercio bellico. E dove dignitari vicinissimi al colonnello Gheddafi si muovono con grande spregiudicatezza tra affari di Stato, interessi personali e trame segrete. Questa è la Libia dove si recherà Silvio Berlusconi (scheda a pag. 51), invocando accordi strategici per il rilancio dell’economia ma soprattutto per stroncare definitivamente le partenze di immigrati ed esuli verso Lampedusa. Mentre dagli atti dell’indagine – come può rivelare “L’espresso” – spunta il nome del più importante ente libico che si occupa di quei migranti rispediti indietro dall’Italia. Deportazioni che stanno creando perplessità in tutta Europa e non riescono a scoraggiare la disperazione di chi sfida il mare e spesso muore nel disinteresse delle autorità maltesi.

Prima di Berlusconi un’altra incredibile squadra di imprenditori italiani era corsa a Tripoli per fare affari. Sono i nuovi mercanti di morte, figure inedite e sorprendenti di quarantenni che riforniscono gli eserciti africani di missili, elicotteri e bombardieri. E che passano in poche settimane dai cantieri edili alla compravendita di fucili d’assalto, tank e cannoni. Improvvisarsi commercianti di kalashnikov è facilissimo: trovarne mezzo milione sembra un gioco da ragazzi. Ma tutto è a portata di mano: caccia, radar, autoblindo. Si va direttamente alla fabbrica, in Cina, nell’ex Urss o nei paesi balcanici.

L’importante è avere le conoscenze giuste, conti offshore e una scorciatoia per evitare i controlli. Tutto documentato in tre anni di indagini dalla procura di Perugia. Tutto confermato nella sostanza – anche se non sempre nella rilevanza penale – dagli stessi interessati nei lunghi interrogatori davanti al pubblico ministero Dario Razzi.

Un filo di fumo Come spesso accade le grandi trame hanno un inizio banale, perso nella noia della campagna umbra. Nel dicembre 2005 i carabinieri di Terni stavano indagando su un piccolo giro di hashish. L’attenzione dei militari si è concentrata su Gianluca Squarzolo, che lavorava per una azienda insolitamente attiva negli appalti della cooperazione internazionale: la Sviluppo di Terni. Soprattutto in Libia è riuscita a entrare tra i fornitori della nomenklatura più vicina al colonnello Gheddafi. Ha ristrutturato palazzi e ville. Merito soprattutto dei contatti che si è saputo costruire Ermete Moretti, vulcanico manager toscano. Al pm Razzi racconta di avere accompagnato uno specialista di ozonoterapia per curare il leader massimo della Jamairhia: “Anche solo a livello di fargli fare delle iniezioni, sicuramente un bello screening me l’hanno fatto prima, per vedere se ero una persona di qualche servizio segreto”. Come in tutti i paesi arabi, anche a Tripoli per fare affari ci vogliono conoscenze e mazzette. Così Moretti non si sorprende quando nel marzo 2006 gli viene proposto un nuovo business: una fornitura colossale di mitragliatori. A parlarne è Tafferdin Mansur, alto ufficiale nel settore approvvigionamenti dell’esercito libico, “vicino al capo di stato maggiore generale Abdulrahim Alì Al Sied”. Muoversi in questo settore, però, richiederebbe figure con una certa esperienza. Invece per la prima missione viene incaricato Squarzolo che parte verso Tripoli con un piccolo campionario. Quando i carabinieri gli ispezionano i bagagli a Fiumicino invece dell’hashish trovano tutt’altra merce: un catalogo di armamenti. Capiscono di essersi imbattuti in qualcosa di grosso: lo lasciano andare e fanno partire le intercettazioni. Che individuano gli altri soci.

Mister Gold Rock C’è Massimo Bettinotti, 42 anni, radicato nello Spezzino e abile nello scovare contratti bellici. C’è Serafino Rossi, imprenditore agricolo a lungo vissuto in Perù che legge Jane’s, la rivista militare più autorevole, e tra una semina e l’altra sa riconoscere ogni modello di caccia. Il nome più misterioso è quello di Vittorio Dordi, 44 anni, nato a Cazzaniga in provincia di Bergamo e studi interrotti dopo la licenza media. E la sua carriera pare ricalcata da un romanzo. Racconta di essere emigrato dalle fabbrichette tessili lombarde all’Uzbekistan per costruire impianti e telai. Nel ’98 apre un ufficio in Congo: spiega di essere stato chiamato dal presidente Kabila per rivitalizzare la coltivazione del cotone. Ma la sua vocazione è un’altra. In Congo diventa una sorta di consigliere del ministro della Difesa, ottiene un passaporto diplomatico e la concessione per una miniera di diamanti. Nel 1999 a Cipro fonda la Gold Rock e comincia a muoversi sul mercato russo degli armamenti: “Diciotto anni di esperienza, sa: sono abbastanza conosciuto…”, si vanta con il pm. La sua specialità – racconta – è la Georgia, dove si producono ordigni pregiati. Nell’interrogatorio cita il Sukhoi 25, un bombardiere che è la fenice dei conflitti africani. Un aereo corazzato, progettato ai tempi dell’invasione dell’Afghanistan: robusto, semplice, decolla anche da piste sterrate e non teme né le cannonate né i missili. Ogni tanto stormi fantasma di questi jet, con equipaggi mercenari, spuntano all’improvviso nei massacri del continente nero. Anche in Congo, ovviamente. Dordi non si presenta come un semplice compratore: parla di un suo ruolo nell’azionariato delle aziende che costruiscono caccia ed elicotteri. Millanterie? I depositi bancari rintracciati dai magistrati a Malta, a Cipro e a San Marino sembrano indicare transazioni rilevanti e un tesoretto di 22 milioni di euro al sicuro sul Titano.

Ma le sorprese di Mister Gold Rock non sono finite. “Voi pensate a Dordi come a uno che vende solo armi, mica è vero”, spiega al pm il suo amico Serafino Rossi: “M’ha detto che lui è socio di un grosso costruttore spagnolo, che fa strade, ponti, quello che stava comprando il Parma”. È Florentino Perez quel costruttore spagnolo, deduce il procuratore: il boss del Real Madrid che ha speso cifre folli per la sua squadra stellare. Perez, racconta sempre Rossi, avrebbe investito forte in Congo e Dordi conta di lavorarci insieme, “visto che sono molto amici “. Assieme ai nuovi sodali, Dordi discute anche qualche altro affaruccio: 50 mila kalashnikov e 5000 mitragliatrici russe destinate “a un sedicente rappresentante del governo iracheno” da spedire con “il beneplacito del governo americano”; cannoni navali per lo Sri Lanka, elicotteri per il Pakistan, Mig di seconda mano dalla Lituania.

Operazioni coperte Per uno come lui, i kalashnikov sono merce di scarso valore. Ma sa che i libici cercano ben altro: venti anni di embargo, decretati dopo gli attentati di Lockerbie e Berlino, hanno reso Tripoli ghiotta. Dordi spera di sfruttare i contatti partiti dall’Umbria per strappare qualche commessa più ricca. Descrive al pm nel dettaglio gli incontri con i responsabili del riarmo libico: vogliono apparati per modernizzare i carri armati T72, elicotteri da combattimento, missili terra-aria di ultimissima generazione. Insomma, il meglio per riportare l’armata di Gheddafi ai fasti degli anni Settanta.E allora perché tanta insistenza nel cercare una montagna di vecchi kalashnikov, tutti del modello più antico e rustico? Mezzo milione di Ak47 e dieci milioni di proiettili, una quantità di gran lunga superiore alle necessità dell’esercito libico. Sono gli stessi indagati a dare una risposta nelle intercettazioni: “Li vogliono regalà a destra e manca, capito?”. Il pm parla di “esigenze politico-militari, gli indagati sanno che parte della commessa sarà ceduta a terzi. Nessun problema per loro se le armi dovessero essere destinate a Stati o movimenti in contrasto con la politica estera italiana”. È una vecchia storia. Dalla fine degli anni Settanta i libici hanno cercato di esportare la loro rivoluzione verde in mezzo mondo, donando casse di ordigni: dal Ciad al Nicaragua, dal Sudan alla Liberia.

Tangentopoli a Tripoli I nostri connazionali sono maestri nell’esperanto della bustarella. Pagano le rette del college londinese per il figlio del colonnello Mansur, più una mazzetta da 250 mila dollari; altrettanti all’ingegnere libico che esamina lo shopping bellico. I soldi li fanno gonfiando i costi: i kalashnikov vengono pagati 85 dollari e rivenduti a Tripoli per 136. “Su 64 milioni e 800mila dollari che i libici pagheranno, il 60 per cento andrà agli italiani”. Ma i soldi non restano nelle loro tasche: “Non sono poi infondate le pretese dei libici di ottenere un prezzo della corruzione più elevato rispetto a quanto finora corrisposto”, continua con un filo di ironia il pm. Gli oligarchi della Jamairhia sanno però che il loro potere va difeso. Nella primavera 2006 la rivolta islamica di Bengasi, nata come protesta contro la t-shirt del ministro Calderoli, li sorprende. Si teme anche per la salute di Gheddafi. Per questo chiedono con urgenza strumenti anti-sommossa: 250 mila pallottole di gomma, 750 lancia granate lacrimogene, scudi e corpetti protettivi.

Email a raffica Come si fa a trovare mezzo milione di mitragliatori? Basta scrivere una mail alla Norinco, il colosso cinese dove i compratori con buone referenze sono accolti sempre a braccia aperte. “Nessun problema, noi non andiamo in ferie: in tre mesi avrete i primi 100mila”, rispondono al volo. Si trovano anche le società – a Malta e a Cipro – che secondo gli inquirenti servono ad aggirare i divieti della legge italiana. I libici però sono tutt’altro che sprovveduti: prima vogliono provare dei campioni della merce. Così Moretti e Bettinotti organizzano l’invio dalla Cina a Tripoli di 6 fucili d’assalto e 18 caricatori. Ma c’è un intoppo: nel documento di spedizione, i cinesi hanno indicato il nome di Bettinotti, vanificando la rete di copertura. C’è il rischio che l’affare salti. Tra le due sponde del Mediterraneo si cerca una soluzione. Che porta il nome di Khaled K. El Hamedi, presidente della grande holding libica Eng Holding. Secondo la procura questa holding “ha intermediato l’affare dei kalashnikov “. El Hamedi è un pezzo da novanta della nomenklatura libica. È cognato di uno dei figli di Gheddafi. In più, come ricostruisce a “L’espresso” una fonte che chiede l’anonimato “il padre è il generale Khweldi El Hamedi, il membro più rispettato del Consiglio del Comando della Rivoluzione: una personalità che ha ricoperto varie cariche nei ministeri della Difesa, dell’intelligence e dell’istruzione”.

Mitra e diritti umani La notte del 14 settembre 2006, Bettinotti invia un fax allo 00218214780777: è destinato alla Eng Holding, all’attenzione di Khaled El Hamedi, per trasmettere la bolla di spedizione dei kalashnikov “artefatta dal Bettinotti per evitare che si possa risalire a lui”. Quel numero di fax corrisponde anche, come “L’espresso” è in grado di rivelare, a una importante Ong di cui Khaled El Hamedi è presidente: la “International organization for peace, care, and relief” (www.iopcr.org) di Tripoli. Un’organizzazione molto attiva nel soccorso alla popolazione palestinese, ma anche nell’assistenza agli immigrati che transitano per la Libia. Racconta a “L’espresso” una fonte autorevole che opera nel settore dei diritti umani: “È la più grande organizzazione libica attiva nel settore degli immigrati. Hanno accordi con l’Alto commissariato Onu per i rifugiati per consentire l’accesso al campo di detenzione di Misratah”. Si tratta di una delle strutture dove finiscono anche i migranti respinti dal nuovo accordo Italia-Libia. “Loro sono gli unici che possono entrare in certe strutture. Ogni associazione che lavora nel settore dell’immigrazione deve passare da loro. Hanno lavorato anche con il Consiglio Italiano per i Rifugiati (Cir)”. Nel 2008 Savino Pezzotta, presidente del Cir, e Khaled El Hamedi si sono incontrati a Roma per firmare un accordo di collaborazione in difesa dei migranti.

Game over I sogni bellici degli impresari all’italiana si sono fermati al campionario di sei kalashnikov. Nel febbraio 2007 partono gli ordini d’arresto. Squarzolo, Moretti, Rossi e Bettinotti vengono catturati subito. Vittorio Dordi invece resta in Congo. Le entrature, come lui stesso dichiara, non gli mancano: “Il 16 agosto 2007 sono andato nell’ambasciata d’Italia e ho parlato con il console generale Edoardo Pucci, che è un mio conoscente da quattro anni, che veniva a casa mia a cena e io andavo pure a casa sua. L’ho messo al corrente della situazione”. Poi – continua – è la volta dell’ambasciata americana dove parla “con il security officer della Cia”. Ma la sua posizione ormai è compromessa. Nel settembre 2008 Dordi viene espulso dal Congo come persona non gradita e finisce agli arresti. L’udienza preliminare si è tenuta a giugno: in due hanno patteggiato una condanna a 4 anni. La Sfinge invece si prepara a respingere le accuse nel processo, forte dell’assistenza di Giulia Bongiorno, deputato del Pdl e presidente della Commissione giustizia. La migliore arma di difesa possibile.

Antimafia Duemila – In Italia le banche sono sempre piu’ armate

Antimafia Duemila – In Italia le banche sono sempre piu’ armate.

di Giorgio Beretta – 28 aprile 2009
Nel mondo le banche si armano sempre di più, soprattutto quelle italiane. La «regina» è la Banca Nazionale del Lavoro [BNL] seguono San Paolo, Unicredit, Antonveneta e Banco di Brescia. Finiti nel nulla i proclami di rinuncia ad appoggiare le industrie armiere dopo le campagne di pressione perché, secondo le regole della Ubi [Unione Banche Italiane], si può commerciare in armi fuori dalla Ue o dalla Nato.

Antimafia Duemila – Business delle armi: numeri da capogiro


Antimafia Duemila – Business delle armi: numeri da capogiro
.

di Aaron Pettinari – 6 aprile 2009

Roma. Sarà tempo di crisi economica, ma se c’è un mercato che non sembra subire rallentamenti è sicuramente quello delle armi.
Grandi movimentazioni di denaro finite nelle casse delle aziende produttrici e delle banche.

I dati elaborati dal ministero dell’Economia parlano chiaro, +222% nel
2008, per un volume d’affari che ha superato quota 4,2 miliardi di euro
contro l’1,3 del 2007. Un’ascesa che è stata riscontrata anche nel
numero delle esportazioni autorizzate che nell’ultimo anno sono salite
a quota 3,7 miliardi di euro rispetto l’1,2 dell’anno precedente. Sono
questi i numeri inseriti nel documento dell’ufficio per la prevenzione
dei reati finanziari  del  dipartimento del Tesoro che è stato inviato
nei giorni scorsi alla Presidenza del Consiglio.
A monte dell’incremento del volume d’affari, secondo i dati del Mef,
c’è da registrare l’aumento delle autorizzazioni concesse nel 2008 agli
istituti bancari per le transazioni economiche: 1612 contro le 880 del
2007. 
Palazzo Chigi ha già fatto sapere di essere molto soddisfatta
sottolineando che «l’industria italiana per la difesa ha, quindi,
consolidato e incrementato la propria presenza sul mercato globale dei
materiali per la sicurezza e difesa». 
Partner principali negli affari
sono paesi membri dell’ Ue e dell’Osce (per il 63,6%), ma anche l’Asia
(19%), il Medioriente (4,3%) e l’Africa (circa il 4%). Fra i paesi
extra Ue, maggiori destinatari delle armi prodotte, ci sono la Turchia,
la Libia e l’Algeria, immediatamente seguite dalla Nigeria, dal Kuwait,
dall’Arabia Saudita, dagli Emirati Arabi e dal Venezuela. 
Fra le
aziende che volano nelle transazioni c’è la Agusta (costola di
Finmeccanica) che copre da sola il 37,2% del mercato. Un aumento
giustificato dagli accordi con la Turchia per l’acquisizione di
elicotteri da combattimento. Poi c’è la “Fincantieri Cantieri navali
italiani” che ha coperto il 7% del mercato italiano degli armamenti e,
poco più in basso, la  Oto Melara (azienda del consorzio Iveco Fiat-Oto
Melara, controllata da Finmeccanica) che produce soprattutto carri
armati e mezzi cingolati.  
Affari d’oro che hanno visto coinvolte
anche le banche con evidenti guadagni per quegli istituti di credito
che finanziano l’esportazione. In cima a questa classifica c’è la Bnl
(33,8%), entrata nell’universo della Bnp Paribas. Stabile la Deutsche
Bank (14,03%) seguita dalla Societe Generale, la seconda banca francese
la nona in Europa per capitalizzazione, con l’11,4%. Segnalate nel
rapporto anche le quote di mercato coperte da Intesa San Paolo (4,79%),
Banco di Brescia (4,7%) Citybank (3,7%) e Cassa di Risparmio di La
Spezia (2,36%).

PeaceReporter – Per la guerra i soldi non mancano

PeaceReporter – Per la guerra i soldi non mancano.

Mentre infuriano le polemiche su come reperire i finanziamenti per i terremotati d’Abruzzo (oggi si parla di 12 miliardi di euro), le Commissioni parlamentari Difesa approvano il piano governativo da 13 miliardi di euro per l’acquisto di 131 caccia-bombardieri

Antimafia Duemila – Business delle armi: numeri da capogiro


Antimafia Duemila – Business delle armi: numeri da capogiro .

di Aaron Pettinari – 6 aprile 2009

Roma. Sarà tempo di crisi economica, ma se c’è un mercato che non sembra subire rallentamenti è sicuramente quello delle armi.
Grandi movimentazioni di denaro finite nelle casse delle aziende produttrici e delle banche.
I dati elaborati dal ministero dell’Economia parlano chiaro, +222% nel 2008, per un volume d’affari che ha superato quota 4,2 miliardi di euro contro l’1,3 del 2007. Un’ascesa che è stata riscontrata anche nel numero delle esportazioni autorizzate che nell’ultimo anno sono salite a quota 3,7 miliardi di euro rispetto l’1,2 dell’anno precedente. Sono questi i numeri inseriti nel documento dell’ufficio per la prevenzione dei reati finanziari  del  dipartimento del Tesoro che è stato inviato nei giorni scorsi alla Presidenza del Consiglio.
A monte dell’incremento del volume d’affari, secondo i dati del Mef, c’è da registrare l’aumento delle autorizzazioni concesse nel 2008 agli istituti bancari per le transazioni economiche: 1612 contro le 880 del 2007. 
Palazzo Chigi ha già fatto sapere di essere molto soddisfatta sottolineando che «l’industria italiana per la difesa ha, quindi, consolidato e incrementato la propria presenza sul mercato globale dei materiali per la sicurezza e difesa». 
Partner principali negli affari sono paesi membri dell’ Ue e dell’Osce (per il 63,6%), ma anche l’Asia (19%), il Medioriente (4,3%) e l’Africa (circa il 4%). Fra i paesi extra Ue, maggiori destinatari delle armi prodotte, ci sono la Turchia, la Libia e l’Algeria, immediatamente seguite dalla Nigeria, dal Kuwait, dall’Arabia Saudita, dagli Emirati Arabi e dal Venezuela. 
Fra le aziende che volano nelle transazioni c’è la Agusta (costola di Finmeccanica) che copre da sola il 37,2% del mercato. Un aumento giustificato dagli accordi con la Turchia per l’acquisizione di elicotteri da combattimento. Poi c’è la “Fincantieri Cantieri navali italiani” che ha coperto il 7% del mercato italiano degli armamenti e, poco più in basso, la  Oto Melara (azienda del consorzio Iveco Fiat-Oto Melara, controllata da Finmeccanica) che produce soprattutto carri armati e mezzi cingolati.  
Affari d’oro che hanno visto coinvolte anche le banche con evidenti guadagni per quegli istituti di credito che finanziano l’esportazione. In cima a questa classifica c’è la Bnl (33,8%), entrata nell’universo della Bnp Paribas. Stabile la Deutsche Bank (14,03%) seguita dalla Societe Generale, la seconda banca francese la nona in Europa per capitalizzazione, con l’11,4%. Segnalate nel rapporto anche le quote di mercato coperte da Intesa San Paolo (4,79%), Banco di Brescia (4,7%) Citybank (3,7%) e Cassa di Risparmio di La Spezia (2,36%).

Non solo fosforo bianco: su Gaza l’arma del futuro

Da http://senzanome.leonardo.it/blog/non_solo_fosforo_bianco_su_gaza_larma_del_futuro_2.html:

Prima ancora della fine dell’offensiva israeliana sulla Striscia di Gaza, l’accusa di aver usato armi al fosforo bianco aveva già fatto il giro del pianeta. Secondo molti mezzi d’informazione l’esercito israeliano avrebbe fatto un uso massiccio di armi al fosforo bianco. Sia chiaro, non si vuole in questa sede smentire questa ipotesi: sicuramente è stato usato del munizionamento illuminante al fosforo, principalmente bombe ad uso aereo e proiettili per artiglieria pesante, ma siamo proprio certi che si sia trattato di fosforo bianco? Se qualcuno viene colpito da fosforo incendiato, e non è possibile spegnerlo con acqua, le parti colpite presentano tracce profonde di fusione. Le immagini fotografiche e televisive arrivate da Gaza non smentiscono affatto l’uso del fosforo bianco, ma non tutte le ferite mostrate sono compatibili con questa sostanza incendiaria.

A causa della scarsa conoscenza, in Italia come altrove, al di fuori di ambienti medici dei vari tipi di ferite, sono state indicate come “mutilazioni e ustioni da fosforo bianco” anche ferite non del tutto compatibili con questo tipo di munizioni. In effetti, come dichiarato da un medico norvegese di un’organizzazione indipendente presente a Gaza, molti feriti e molti cadaveri presenterebbero lesioni la cui origine non è sicura e non riconducibile a quelle provocate dalle armi normalmente utilizzate, come vaste bruciature, tessuti scarnificati e mummificazione dei tessuti molli; quest’ultimo tipo di offesa non è riconducibile agli effetti provocati dal fosforo bianco. Ma allora, che tipo di munizione può aver provocato questi tipi di ferite irreversibili, e che spesso hanno condotto alla morte? Il medico norvegese avrebbe dichiarato, mediante un’interposta persona per cui il condizionale è d’obbligo, di “non aver mai visto un simile tipo di ferite”.

A raccontare un’ipotesi tanto inquietante quanto plausibile è il Generale di Brigata italiano Fernando Termentini, ex comandante del Genio dell’Esercito Italiano, che ha maturato un’esperienza ventennale nel settore della bonifica degli Ordigni Esplosivi e delle mine in varie aree del mondo. Il Generale ha scritto sulla rivista Pagine di Difesa, testata di politica internazionale e della Difesa, un’interessante articolo nel quale dimostra la compatibilità delle orrende mutilazioni e mummificazioni di Gaza con l’uso di armi a microonde o al plasma.

Secondo la sua analisi, queste armi dovrebbero essere state sperimentate “in Iraq, in Libano e forse anche in occasione della prima guerra del Golfo, contro le truppe irachene in fuga da Kuwait City”. Ma di cosa si tratta? Si tratta di sistemi d’arma che non sparano proiettili, ma fasci di energia più o meno potente. Si tratta di strumenti studiati e realizzati, per conto dell’amministrazione americana, a scopo di ordine pubblico, e poi modificate per essere anche in grado di uccidere. Le armi a microonde nascono infatti come sistemi d’arma non letali a scopo antisommossa. Sono prodotte dalla Raytheon, società americana che, secondo dati del 2007, detiene il 90% delle entrate da contratti nel settore della difesa americana ed è il quarto appaltatore mondiale in questo settore per entità dei guadagni. Le armi a microonde costruite dalla Raytheon, e diffusissime in USA come in Francia, da arma anti-sommossa possono essere trasformate in armi letali aumentando la potenza della radiazione emessa.

La materia organica colpita da queste armi perde istantaneamente tutta la componente liquida, pertanto si accartoccia su se stessa perdendo volume e trasformandosi in un oggetto mummificato. Per questo motivo, le immagini provenienti da Gaza, che presentano cadaveri rimpiccioliti con i tessuti molli mummificati, le parti ossee scollate e gli indumenti praticamente indenni, ricordano molto di più un’arma a microonde, piuttosto che una munizione incendiaria al fosforo. Da notare che cadaveri in queste condizioni sono stati trovati anche a Falluja dopo i combattimenti casa per casa. Anche per quanto riguarda Gaza, non appare affatto sensato che i cadaveri mummificati siano stati resi tali da munizioni aeree o di artiglieria al fosforo: le armi a microonde sono armi corte, a cominciare dal prototipo più famoso, quel Taser che può emettere una scarica elettrica fino a 60.000 Volt; sono armi che riescono ad essere più efficaci di quelle a munizioni convenzionali soprattutto in combattimenti negli abitati, in spazi stretti come vicoli, cunicoli e locali sotterranei.

Come a Gaza, come a Falluja. Armi sicure per chi le usa, visto che non c’è il rischio di proiettili di rimbalzo, che invece normalmente c’è quando con munizioni convenzionali si spara in ambienti ristretti. Come si conclude su Pagine di Difesa, l’ipotesi delle armi a microonde è forse più condivisibile sul piano tecnico, ed anche sul piano militare, rispetto all’uso generalizzato per scopi offensivi di munizionamento al fosforo bianco.

Tirando le somme, si sono viste immagini di cadaveri rimpiccioliti fino ad essere lunghi un metro, senza segni di proiettile, senza arti o con la testa mozzata. Sono queste le testimonianze di civili e medici iracheni, o provenienti oggi da Gaza, come ieri da Falluja, come dalla battaglia dell’aeroporto di Baghdad. Sono armi leggere e maneggevoli, che possono ridurre l’uso di armi di tipo cinetico. E probabilmente sono queste le armi usate negli scontri di terra a Gaza, e non quelle al fosforo bianco. Come dicevamo, quest’ultimo, tecnicamente non può provocare sugli oggetti e sulle persone effetti simili a quelli visti, come la carbonizzazione delle sostanze organiche, quasi nessun danno ai tessuti, pochi danni alle infrastrutture. Il dubbio principale riguarda il fatto che i corpi siano disidratati senza la combustione degli indumenti o dell’ambiente circostanze.

Invece i corpi di Gaza, che come tutti i corpi umani hanno un alto contenuto di liquidi, presentano una carbonizzazione del volume organico, senza che i vestiti, l’involucro esterno, sia intaccato. Al momento, non esiste alcuna convenzione internazionale che regoli o limiti l’uso delle armi ad energia, che ufficialmente risultano essere ancora allo stato di prototipi di ricerca. Forse Gaza è stato il quarto esperimento di questi prototipi.

di Alessandro Iacuelli per Altrenotizie

Gioco criminale

http://www.antimafiaduemila.com/index.php?option=com_content&task=view&id=9816&Itemid=78

di Giorgio Bongiovanni – 16 ottobre 2008
Siamo alla catastrofe. Ormai è chiaro nonostante i goffi tentativi di nascondere la verità, per l’ennesima volta, all’opinione pubblica mondiale. L’iniezione di 700 miliardi di dollari alle banche americane non salverà l’Occidente dal crollo economico, come Bush ha cercato di rassicurare.

Al contrario, rappresenterà soltanto un sedativo – neppure tanto efficace – che al termine della sua azione momentaneamente benefica ripresenterà l’infezione in un quadro clinico ancora più grave.
Quel che accadrà dopo non è difficile prevederlo.
Poiché sarà l’unica strada ritenuta possibile – come sempre in questi casi e mai più di ora – per provare affannosamente ad uscire dalla gravissima crisi economica che sta trascinando inesorabilmente tutta l’economia mondiale in una rovina come mai la nostra storia, dagli anni ‘30 ad oggi, ricordi.
E quell’unica strada è la guerra. La sola in grado di rimpinguare le casse dei governi con entrate, letteralmente, da brivido. Sul punto i dati parlano chiaro. Secondo un recente articolo del New York Times gli Stati Uniti avrebbero già da tempo triplicato le vendite di armi nel mondo – sotto l’energica spinta della Casa Bianca – principalmente ad acquirenti del cosiddetto “asse del male” come l’Iraq e l’Afghanistan. In un’assurda e patetica logica espressa dal sottosegretario alla Difesa Bruce Lemkin secondo il quale uno degli scopi principali della vendita di armi da parte degli Usa è cercare di aiutare i Paesi vicini a proteggersi dalla possibile minaccia armata di Iran e Corea del Nord.
Nel recente rapporto di Amnesty International si legge invece che Cina, Russia e Stati Uniti, divisi su tutto, sono in perfetto accordo nel pilotare il commercio delle armi. E in aperto contrasto, insieme a Egitto, India e Pakistan, con le richieste di Amnesty di impedire i trasferimenti di armamenti laddove vi sia “il rischio sostanziale” che essi possano essere usati “per compiere gravi violazioni del Diritto internazionale dei diritti umani e del Diritto internazionale umanitario”.
“Nonostante il massiccio semaforo verde della maggior parte dei Paesi – ha dichiarato Brian Wood, responsabile della Ong – una piccola minoranza di scettici vuole mantenere l’attuale carneficina e continuare a chiudere un occhio su trasferimenti di armi palesemente irresponsabili, rendendo deboli e inefficaci i controlli nazionali e gli embarghi dell’Onu sulle armi”. E così mentre Cina e Russia rimangono i principali fornitori di armamenti convenzionali al Sudan – che l’esercito usa per perpetrare gravissime violazioni dei diritti umani in Darfur, dove si contano più di 400mila morti tra i civili – gli Stati Uniti, dal 2003, hanno finanziato la maggior parte della fornitura di oltre un milione di fucili, pistole e armi da fanteria per i 531.000 membri delle forze di sicurezza irachene. Fornitura che ha contribuito alla proliferazione di armi e al perdurare di quel sistema di violenza e repressione già in corso ai tempi di Saddam Hussein.
Anche in Birmania, recente protagonista della protesta non violenta dei monaci, repressa nel sangue, le ben note violazioni dei diritti umani non hanno impedito a Cina, Serbia, Russia, Ucraina e India di fornire mezzi blindati, camion, fucili e munizioni. Stesso discorso per la Colombia, il Guatemala, la Guinea, la Somalia e l’Uganda.
E la nostra Italia? Dove si colloca in questo criminale quadro internazionale?
Il nostro piccolo Paese, culla del cristianesimo, sede dello Stato Pontificio, ha speso in un solo anno 33,1 miliardi di dollari per il commercio delle armi, è piazzato ai primi posti della classifica per la loro vendita e grazie all’industria Beretta si pone ai vertici della produzione internazionale della pistola.
Milioni di mine made in Italy sono pronte ad esplodere nel Sudest asiatico e nei Balcani, decine di Paesi che agiscono in violazione dei diritti umani sono stati armati da noi e i presidenti delle più importanti realtà armiere europee sono sempre nostri connazionali.
Ancora. In epoca di grandi privatizzazioni, per il tramite di Finmeccanica la massima produzione di armi rimane nelle mani dello Stato mentre dal 1945 ad oggi il Bel Paese si è piazzato, di anno in anno, tra i primi dieci produttori di armi di tutto il pianeta.
In Italia, come nel resto del mondo, l’industria bellica rimane quindi ai primi posti per fatturato, seguita soltanto da quella della droga. E per avere un’idea della solidità economica di questo mercato basti pensare che mentre tutte le aziende tracollano in Borsa le azioni delle industrie di armi sono le uniche a risalire nelle quotazioni.
Nel solo 2008, ce lo dicono ancora i dati, il fatturato mondiale della vendita di armi ha raggiungerà i 1.500 miliardi di dollari. Una cifra inimmaginabile che corrisponde a più del doppio di quella che sarebbe necessaria a risollevare l’intero sistema economico mondiale.
Ma allora perché vogliono farci credere che l’economia non sia sanabile?
Cosa si nasconde dietro questa facciata?
Chi veramente gestisce il potere nel mondo?
Chi mantiene vivo questo sistema economico?

Assassini, criminali per nulla scalfiti dalla gravissima crisi, al contrario arricchiti sul sangue degli innocenti. Una mafia peggiore, se possibile, di quella violenta e sanguinaria di Totò Riina, che siede nei salotti bene delle nostre città e pianifica a tavolino la morte di milioni di persone per puro interesse personale.
Una mafia cinica che noi, nel nostro piccolo, continueremo a denunciare.