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Antimafia Duemila – Moro: Ciancimino, ”Mio padre impedi’ sua liberazione”

Antimafia Duemila – Moro: Ciancimino, ”Mio padre impedi’ sua liberazione”.

12 febbraio 2010
Palermo.
Secondo Massimo Ciancimino suo padre Vito conosceva il luogo dove era tenuto prigioniero Aldo Moro ma impedi’ la sua liberazione.

E’ una delle ultime rivelazioni rese da Massimo Ciancimino ai pm di Roma confluite nel processo al senatore del Pdl Marcello Dell’Utri. ”Nel 2000 – ha raccontato Ciancimino – mio padre mi disse che i cugini Salvo e l’onorevole Rosario Nicoletti, ex segretario della Dc siciliana, si erano rivolti a Salvo Lima dicendo di essere in grado di dare indicazioni sul luogo in cui era tenuto prigioniero Aldo Moro. In seguito a mio padre era stato chiesto di impedire la liberazione dello statista dal segretario della Dc Zaccagnini attraverso Attilio Ruffini. Analoga richiesta gli era giunta da appartenenti a Gladio, nella cui struttura mio padre era inserito, e dai servizi segreti”.

Le linee dirette di casa Ciancimino

Fonte:Le linee dirette di casa Ciancimino.

L’interrogatorio di Massimo Ciancimino non si concluderà il 2 febbraio come previsto. Le udienze continueranno oggi e lunedì prossimo perché il teste che sta deponendo al processo contro il generale Mori e il colonello Obinu, accusati di favoreggiamento alla mafia per la mancata cattura di Provenzano nel ‘95, dovrà ancora approfondire il capitolo relativo alla trattativa avviata nel 1992 dai carabinieri del Ros con Cosa Nostra.

Il quarto figlio dell’ex sindaco di Palermo, interrogato dal pm Nino Di Matteo, ha iniziato ricostruendo l’atavico rapporto tra don Vito e Bernardo Provenzano. Un legame che risale agli anni ‘60 quando il piccolo Ciancimino aveva appena 7 anni e i genitori andavano insieme in villeggiatura a Baida. “Mio padre e Provenzano che conoscevo come il Signor Lo Verde si incontravano frequentemente, almeno tre o quattro volte al mese fino agli anni della stretta del pool di Giovanni Falcone negli anni ‘80”. “Da quel momento si era resa necessaria un po’ più di attenzione” e gli incontri avvenivano un po’ più di rado, spesso sostituiti dai pizzini. Messaggi che don Vito e zu Binnu s’inviavano tramite suo figlio Massimo che, diversamente dagli altri tre fratelli più grandi già laureati, suo malgrado, era stato investito di questo compito.

Massimo ha descritto così i periodi di detenzione di suo padre intervallati dai soggiorni obbligati a Rotello, Roma e dai divieti di dimora a Palermo. Dal ’84, anno in cui l’ex sindaco era stato arrestato dal Giudice Falcone, fino al giorno della sua morte mentre era ai domiciliari (’99- 2002), il giovane Ciancimino lo aveva seguito e accompagnato. Per questo è diventato il testimone diretto di quel sistema colluso tra mafia, politica e imprenditoria che per certo è passato attraverso casa sua. Quella di via Sciuti a Palermo dove don Vito incontrava i geometri Pino Lipari e Tommaso Cannella e dove esisteva una linea telefonica preferenziale riservata agli on. Gioia, Lima, Ruffini e poi ancora a Provenzano e al misterioso uomo dei Servizi Segreti, il sig. Franco – Carlo.  Ed ancora la casa di Mondello e Roma in Via San Sebastianello, sede dei ripetuti incontri tra il capo di Cosa Nostra e lo stesso Ciancimino durante la sua  detenzione nell’appartamento romano. Incontri che Binnu organizzava senza accorgimenti particolari privo di tutele poiché, aveva detto don Vito a suo figlio, era garantito da un accordo stretto con uomini delle istituzioni tra il maggio e il dicembre del 1992.

Proprio a Roma i due avevano avuto modo di parlare di molte cose. Oltre a scelte di natura politica che avevano visto Don Vito nel ’92 fuori dai giochi politici, l’ex sindaco continuava a essere messo al corrente delle logiche interne all’organizzazione. Da consigliori di Provenzano qual era, per anni aveva mandato avanti lucrosi affari nei quali il Ragioniere di Cosa Nostra percepiva la sua parte. Investimenti a Milano, Montreal e Palermo e quelli legati alla società di metano dell’ing. Ezio Brancato e del tributarista Gianni Lapis, nella cui azienda don Vito Ciancimino deteneva il suo 15 per cento come socio occulto. “Mio padre ci era entrato nel momento in cui i due soci non riuscivano ad aggiudicarsi l’appalto per metanizzare Caltanissetta” ha detto Ciancimino alla Corte presieduta dal giudice Fontana. La gara sarebbe dovuta essere vinta da esponenti vicini ai Madonia, per questo su richiesta di Brancato Lima consigliò loro di rivolgersi a Ciancimino. Alla fine, grazie al suo intervento, la Gas riuscì a cambiare le sorti della gara e a ottenere l’appalto quella volta in maniera pulita e lecita. Si stabilì così che il 2 per cento sarebbe andato a Provenzano mentre i lavori sarebbero stati subappaltati a ditte legate a Cosa Nostra. Una percentuale che Matteo Messina Denaro aveva contestato pretendendo per dei lavori eseguiti nel suo territorio un surplus di 500 milioni di lire, versati solo per metà dai soci Brancato. Una circostanza di cui i magistrati di Palermo hanno trovato conferma nel 2006, in occasione del sequestro dei pizzini di Provenzano nel suo covo di Montagna dei Cavalli dove, in una missiva il boss di Castelvetrano chiedeva allo Zio di “aggiustare” la situazione “del figlio del suo paesano”.

Ciancimino quella volta non ne volle sapere di pagare. Col suo solito fare irriverente fece arrivare il messaggio a Matteo Messina Denaro che i suoi soldi se li stava “mangiando” lui nella capitale tra macchine e donne. Un atteggiamento irriverente che per don Vito non era inusuale. L’ex sindaco non aveva mai avuto riguardi particolari per chi considerava inferiore a lui, la lista di queste persone era lunga. Uno di questi era Salvatore Riina che non stimava perché troppo impulsivo e protagonista. Il loro rapporto era maturato da una “conoscenza obbligata”, in quanto entrambi corleonesi che si erano frequentati sin da ragazzini. Infatti, ha sottolineato Massimo Ciancimino, tra i due “non c’è stato mai un buon sangue, Riina a casa mia c’è stato solo tre o quattro volte. Quando arrivava mio padre lo faceva aspettare. Prima mangiava e poi lo incontrava”. Tanto che nel 1992 don Vito, dopo essere stato contattato dai Carabinieri del Ros per chiedere a Riina la fine delle bombe, arriva al capo di Cosa Nostra attraverso la mediazione di Antonino Cinà. Quel medico e capomafia di San Lorenzo che don Vito aveva conosciuto tra il ’78-’79 in occasione di una riunione con Liggio e lo stesso Riina a Sirmione. Allora il medico di San Lorenzo “doveva rappresentare lo stato di salute di Liggio per favorire la sua situazione giudiziaria” mentre don Vito era stato incaricato di trovare una risoluzione per la condanna del capomafia.
Da allora anche Cinà aveva fatto strada in Cosa Nostra. Fungendo da “ponte di collegamento” tra Riina e don Vito Ciancimino per la consegna del famoso papello, il medico di San Lorenzo dopo la cattura di Totò u Curtu era poi passato dalla parte della nuova Cosa Nostra capeggiata da Provenzano, diventando anni dopo il capomafia di una delle zone più importanti di Palermo insieme ai boss Nino Rotolo e Francesco Bonura. Entrambi legati a doppio filo agli affari di don Vito.

Silvia Cordella e Lorenzo Baldo (ANTIMAFIADuemila, 2 febbraio 2010)

Ciancimino jr: “Nel covo di Riina carte da far crollare l’Italia”

Ciancimino jr: “Nel covo di Riina carte da far crollare l’Italia”.

Gli interrogatori del figlio di don Vito, desecretati 23 verbali: è questa la ragione per cui il nascondiglio non fu perquisito.


PALERMO
– Il covo di Totò Riina non l’hanno mai perquisito “per non far trovare carte che avrebbero fatto crollare l’Italia”. E la cattura del capo dei capi è stata voluta da Bernardo Provenzano dentro quella trattativa che, fra le uccisioni di Falcone e di Borsellino, la mafia portò avanti con servizi segreti e ufficiali dei reparti speciali dei carabinieri. É la “cantata” di Massimo Ciancimino, quinto e ultimo figlio dell’ex sindaco di Palermo, sui misteri siciliani. Ventitré verbali desecretati – milleduecento pagine – e depositati al processo contro il generale Mario Mori, accusato di avere favorito la lunga latitanza di Provenzano dopo quell’arresto “concordato”.
Ma se sulla cattura di Totò Riina esistono già atti ufficiali d’indagine che smontano la versione dei carabinieri, le altre rivelazioni del rampollo di don Vito svelano tanto altro di Palermo. Dalla fine degli anni ’70 sino all’estate del ’92. É la sua verità, ereditata per bocca del padre. La storia di alcuni delitti eccellenti, il sequestro di Aldo Moro, la strage di Ustica, i rapporti di Vito Ciancimino con l’Alto Commissario antimafia Emanuele De Francesco e il suo successore Domenico Sica. É l’impasto fra Stato e mafia che ha governato per vent’anni la Sicilia.

Il covo del capo dei capi. Massimo Ciancimino conferma il patto fra Bernardo Provenzano e i carabinieri del Ros, mediato da don Vito, per la cattura di Riina: “Una delle garanzie che mio padre chiese ai carabinieri, e che loro diedero a mio padre, era che nel momento in cui si arrestava Riina bisognava mettere al sicuro un patrimonio di documentazione che il boss custodiva nella sua villa”. E ha aggiunto: “Provenzano riferì a mio padre che Totò Riina conservava carte e documenti di proposito con un obiettivo: se l’avessero arrestato avrebbero trovato tante di quelle cose, di quelle carte, che avrebbero fatto crollare l’Italia. Mio padre commentò con me il fatto dicendo che quello era un atteggiamento tipico di Riina. Secondo lui, conoscendo bene molti di questi documenti, sarebbero stati conservati apposta dal Riina con il solo fine di rovinare tante persone in caso di un suo arresto, visto che solo una spiata poteva far finire la sua latitanza”.

La trattativa fra le stragi del 1992. Il negoziato con Cosa Nostra iniziò dopo l’uccisione di Falcone. Da una parte Totò Riina. Dall’altra il vice comandante dei Ros Mario Mori, il capitano Giuseppe De Donno e “il signor Franco”, un agente dei servizi segreti legato all’Alto commissariato antimafia. E in mezzo Vito Ciancimino. Se in un primo momento Totò Riina è stato un terminale della trattativa per fermare le bombe, dopo la strage Borsellino “è diventato l’obiettivo della trattativa”. Racconta ancora il figlio dell’ex sindaco: “Della trattativa erano informati i ministri Virginio Rognoni e Nicola Mancino, questo a mio padre l’ha detto il signor Franco e gliel’hanno confermato il colonnello Mori e il capitano De Donno”.

La trattativa dopo le stragi. Nel 1993, un anno dopo Capaci e via D’Amelio, la trattativa mafiosa è andata avanti. E al posto di Vito Ciancimino ormai in carcere, sarebbe stato Marcello Dell’Utri a sostituirlo nel ruolo di mediatore: “Mio padre sosteneva che era l’unico a poter gestire una situazione simile… ha gestito soldi che appartenevano a Stefano Bontate e a persone a lui legate”.

L’omicidio Mattarella. Il Presidente della Regione siciliana, ucciso il 6 gennaio del 1980, per Vito Ciancimino fu “un omicidio anomalo”. Spiega suo figlio: “Dopo il delitto, mio padre chiese spiegazioni ai servizi segreti… un poliziotto poi gli disse che c’era la mano dei servizi nella morte di Mattarella. Ci fu uno scambio di favori su quell’omicidio.. “.

Il sequestro Moro. Il figlio di don Vito dice che suo padre è sempre stato legato all’intelligence fin dal sequestro di Moro. “La prima volta che mio padre mi ha raccontato di contatti di Cosa Nostra con apparati dello Stato risale al sequestro. E mi ha detto che era stato pregato, e per ben due volte, di non dare seguito alle richieste per fare pressioni su Provenzano perché si attivasse per aiutare lo Stato nelle ricerche del rifugio di Aldo Moro”.

Don Vito e Gladio. “Mio padre faceva parte di Gladio”, ha rivelato Massimo. E ha spiegato: “Mi disse che all’origine c’era mio nonno Giovanni che, all’epoca dello sbarco degli Alleati in Sicilia, era stato assoldato come interprete”. Il figlio di don Vito ricorda poi che il padre aveva costituito le prime società di import export “insieme a un colonnello americano” e che ha partecipato “a diversi incontri” organizzati dalla struttura militare segreta.

L’uccisione del prefetto dalla Chiesa. É la parte più “omissata” dei verbali di Ciancimino. Suo padre gli aveva parlato dell’uccisione di Carlo Alberto dalla Chiesa e dell’omicidio del giornalista Mino Pecorelli “che sono legate”, poi il verbale è ancora tutto coperto dal segreto.

La strage di Ustica. Nei racconti del figlio dell’ex sindaco c’è il ricordo dell’aereo precipitato in mare il 27 giugno del 1980: “Quella notte mio padre fu chiamato dal ministro della Difesa Attilio Ruffini che gli disse che era successo un casino: fece chiamare anche l’onorevole Lima. Si seppe subito che era stato un aereo francese che aveva abbattuto per sbaglio il Dc 9, ma bisognava attivare un’operazione di copertura perché questa informazione non venisse fuori”.

Gli autisti senatori.
Massimo Ciancimino, ricordando di un “pizzino” inviato da Provenzano a suo padre dove si faceva riferimento “a un amico senatore e al nuovo Presidente per l’amnistia”, ha confermato che i due erano Marcello Dell’Utri e Totò Cuffaro. Poi ha spiegato dove ha conosciuto l’ex governatore: “L’ho incontrato nel 2001 a una festa dell’ex ministro Aristide Gunnella, credevo di non averlo mai visto prima. Si è presentato e mi ha baciato. Poi, l’ho raccontato a mio padre che mi ha detto: ‘Ma come, non te lo ricordi, che faceva l’autista al ministro Mannino? Anche lui aspettava in macchina, fuori, come te che accompagnavi me … Poi ho collegato… perché quando accompagnavo mio padre dall’onorevole Lima fuori dalla macchina aspettava pure, con me, Cuffaro e anche Renato Schifani che faceva l’autista al senatore La Loggia. Diciamo, che i tre autisti eravamo questi… andavamo a prendere cose al bar per passare tempo.. Ovviamente, loro due, Cuffaro e Schifani, hanno fatto altre carriere: c’è chi è più fortunato nella vita e chi meno… ma tutti e tre una volta eravamo autisti”.

Fonte: repubblica.it (Attilio Bolzoni e Francesco Viviano, 13 Gennaio 2010)