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Quella ‘trattativa’ per salvare 7 politici

Fonte: Quella ‘trattativa’ per salvare 7 politici.

Nel 1991 la mafia è pronta a uccidere su indicazione di Riina. Ma qualcuno le fa cambiare strategia

Questa è una storia inconfessabile. Fatta di sangue, polvere da sparo e paura. Non prendetela per la verità. Perché per ora è solo una verità possibile. Una ricostruzione verosimile che si è affacciata nelle menti degli investigatori dopo la deposizione dell’ex Guardasigilli, Claudio Martelli, davanti ai giudici che stanno processando per favoreggiamento aggravato l’ex comandante del Ros, generale Mario Mori. Ridotta a una frase – ma come si sa, quando si parla di mafia le cose sono molto più complicate – suona più o meno così. Nel 1992 lo Stato trattò con Cosa Nostra per salvare la vita a un lungo elenco di politici: i ministri o ex ministri Calogero Mannino, Salvo Andò, Martelli, Giulio Andreotti e Carlo Vizzini, il deputato regionale Sebastiano Purpura e il presidente della regione Rino Nicolosi. Sette nomi eccellenti, considerati a torto o ragione dai clan dei traditori, ai quali si deve aggiungere la lista, compilata come la prima in più fasi, dei nemici a tutto tondo: i magistrati Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Piero Grasso e i poliziotti Arnaldo La Barbera, Gianni De Gennaro e Rino Germanà. Per capire come si giunge a questa ipotesi, bisogna però cominciare dai fatti certi.

Vediamoli. A partire dal febbraio del 1991, mese in cui Falcone, osteggiato dai colleghi, lascia Palermo per diventare di fatto il braccio destro di Martelli, la situazione per Cosa Nostra precipita. Da una parte arriva nelle mani dei magistrati (ma subito dopo degli uomini d’onore e dei politici) un rapporto, redatto proprio dai carabinieri di Mori, su mafia e appalti in Sicilia che rischia di far saltare affari per mille miliardi di lire. Dall’altra, con Falcone al ministero, le cosche capiscono che la musica è cambiata. Subito il governo (presidente del Consiglio Andreotti) vara un decreto per rimettere in prigione 16 importanti boss scarcerati per decorrenza termini. Poi Martelli si muove per evitare che in Cassazione i processi per mafia finiscano sempre alla prima sezione presieduta da Corrado Carnevale, il giudice allora soprannominato ammazzasentenze.

Totò Riina, all’epoca capo incontrastato di Cosa Nostra, diventa una belva. All’improvviso capisce che le garanzie ricevute sul buon esisto del maxi-processo, istruito negli anni ‘80 da Falcone e Paolo Borsellino, in cui lui stesso è stato condannato all’ergastolo non valgono niente. Anche in terzo grado il verdetto sarà sfavorevole. Nella seconda parte dell’anno, raccontano le sentenze, si svolgono così una serie di vertici tra capi-mafia in cui Riina annuncia la decisione di “pulirsi i piedi”. Cioè di ammazzare, non solo i nemici, ma anche chi nei partiti aveva fatto promesse e non le manteneva. Si discute dei nomi dei personaggi da eliminare e intanto parla di fare guerra allo Stato con attentati a poste, questure, tralicci dell’Enel, caserme dei carabinieri e alle sedi della Democrazia cristiana (quattro verranno colpite in Sicilia).

“Si fa la guerra per fare la pace”, spiega a tutti il boss corleonese, in quel momento già alla ricerca di una nuova sponda politica con cui stringere un nuovo accordo. Poi, il 31 gennaio del ‘92, come pronosticato, la Cassazione priva di Carnevale, conferma le condanne del maxi. E così il 12 marzo, a campagna elettorale appena iniziata, l’eurodeputato Salvo Lima, da anni proconsole di Andreotti, in Sicilia muore sotto i colpi dei killer. E’ un messaggio diretto al divo Giulio che sarebbe dovuto giungere nell’isola l’indomani. Falcone intuisce quanto sta accadendo. E, come scriverà La Stampa, commenta: “Il rapporto si è invertito: ora è la mafia che vuole comandare. E se la politica non obbedisce, la mafia si apre la strada da sola”.

I politici siciliani cominciano davvero a tremare. Il 20 febbraio, ma questo lo si scoprirà solo molti anni dopo, in casa di Girolamo Guddo (un amico dell’ex fattore di Arcore, Vittorio Mangano) si è tenuta un riunione operativa in previsione della “pulizia dei piedi”: si è parlato della morte di Lima, di quella di Ignazio Salvo (18 settembre ‘92), dell’attentato a Falcone e di molte delle altre persone da eliminare. Il programma prevede che a essere colpito, dopo Falcone, sia l’ex ministro dell’Agricoltura e leader siciliano della sinistra Dc, Mannino. Quale sia la forza della mafia gli italiani se ne rendono conto il 23 maggio osservando le centinaia di metri asfalto divelti dal tritolo a Capaci.

Morto Falcone, tutto sembra perduto. Mentre nel nord infuria Tangentopoli, gli apparati investigativi antimafia appaiono in ginocchio. È a quel punto che, secondo l’accusa, Mori e il suo braccio destro, Giuseppe De Donno, decidono di battere la strada che porta a don Vito Ciancimino, l’ex sindaco mafioso di Palermo, legato a doppio filo all’alter ego (apparente) di Riina: Bernardo Provenzano. A giugno, ha sostenuto due giorni fa Martelli, De Donno contatta un’importante funzionaria del ministero, Liliana Ferraro. L’ufficiale le spiega di essere in procinto di vedere don Vito “per fermare le stragi”. E, secondo l’ex ministro, chiede una sorta di “supporto politico”. Ferraro avverte di quanto sta accadendo Borsellino, amico fraterno di Falcone e favorito nella corsa alla poltrona di procuratore nazionale antimafia. Intanto Giovanni Brusca, il boss oggi pentito che ha azionato il telecomando di Capaci, si sta già muovendo con pedinamenti e sopralluoghi per far fuori Mannino. Ai primi di giugno il ministro Dc viene però avvertito da un colonnello dell’Arma (chi?) dei rischi che sta correndo. Visibilmente teso lo racconterà lui stesso in un colloquio dell’8 luglio con Antonio Padellaro, allora vicedirettore de L’Espresso (il settimanale lo pubblicherà in parte a fine luglio e integralmente nel 1995). Mannino dice: “Secondo i carabinieri c’è un commando pronto ad ammazzarmi”. L’ufficiale gli ha consegnato un rapporto di sette pagine con sopra stampigliata la parola “segreto” in cui è riassunta tutta la strategia di morte di Cosa Nostra. Mannino – che oltretutto annovera nella sua corrente molti esponenti legati ai clan – sa dunque perfettamente cosa sta accadendo. E nella conversazione spiega pure che Lima è stato ucciso per non aver potuto rispettare i patti sul maxi-processo.

Le paure di Mannino sono però destinate a rientrare. Salvatore Biondino, un colonnello di Riina, sempre a giugno comunica a Brusca che il progetto di omicidio è sfumato. La mafia ha cambiato strategia. Nel mirino all’ultimo momento è stato messo Borsellino che morirà il 19 luglio in via D’Amelio. Perché? Oggi gli investigatori riflettono su due episodi. I presunti incontri precedenti alla bomba di via D’Amelio tra Mori e don Vito Ciancimino in cui vennero avanzate le prime richieste allo Stato. E la nascita del governo Amato del 28 giugno. A sorpresa il ministro dell’Interno Vincenzo Scotti (durissimo con Cosa Nostra), viene sostituito da Nicola Mancino (sinistra Dc come Mannino). Mentre pure Martelli (contrario a ogni ipotesi di trattativa) per qualche giorno, su proposta di Bettino Craxi, rischia di perdere la poltrona di guardasigilli. “Ero preoccupato”, ha spiegato l’ex ministro, “era come si fosse esagerato con la lotta alla mafia…Il messaggio pareva essere: ‘Troviamo una forma più blanda di contrasto, ci abbiamo vissuto per 50 anni’”. Il risultato è comunque che Cosa Nostra lascia perdere i politici (tranne Martelli, intorno alla cui casa ancora il 4 dicembre si aggirano boss impegnati in sopralluoghi) e si dedica invece a Borsellino, notoriamente contrario ad ogni ipotesi di patto. La trattativa aveva dunque come obiettivo la loro sopravvivenza? O semplicemente i politici si sono salvati in conseguenza della trattativa? Il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso, lo scorso dicembre, sembrava propendere per la seconda ipotesi: “Probabilmente”, diceva, “i mafiosi cambiarono obiettivo perché capirono che non potevano colpire chi avrebbe dovuto esaudire le loro richieste”. Oggi però sappiamo che quell’elenco di politici da ammazzare, già a giugno, era in gran parte noto. E la storia potrebbe cambiare. Di molto.

Peter Gomez (il Fatto Quotidiano, 8 aprile 2010)

Antimafia Duemila – Gomez: Il clan degli onorevoli

Fonte:Antimafia Duemila – Gomez: Il clan degli onorevoli.

di Peter Gomez – 25 febbraio 2010
È il nostro Parlamento ma sembra la Chicago di Al Capone: tutti gli uomini mandati da Cosa Nostra per “fare il lavoro”. Guardi il Parlamento e pensi al consiglio comunale di Chicago. Quello degli anni Venti, in cui Al Capone teneva il sindaco William “Big Bill” Hale Thompson jr e tutti gli altri a libro paga.

E, almeno nei film, apostrofava i pochi poliziotti onesti urlando “Sei tutto chiacchiere e distintivo”. Il caso di Nicola Di Girolamo, il senatore Pdl che si faceva fotografare abbracciato ai boss e si metteva sull’attenti quando gli dicevano “tu sei uno schiavo e conti quanto un portiere”, è infatti tutt’altro che isolato. Tra i nominati a Montecitorio e Palazzo Madama, gli uomini (e le donne) risultati in rapporti con le cosche sono tanti. Troppi. Anche perché farsi votare dalla mafia non è reato. Frequentare i capi-bastone nemmeno. E così, mentre la Confidustria espelle non solo i collusi, ma persino chi paga il pizzo (persone che, codice alla mano, non commettono un reato, ma lo subiscono), i partiti imbarcano allegramente di tutto . Anche chi potrebbe aver fatto promesse che oggi non può, o non vuole, più rispettare.

Quale sia la situazione lo racconta bene la faccia di Salvatore Cintola, 69 anni, uomo forte dell’Udc siciliano dopo che pure in secondo grado Totò Cuffaro ha incassato una condanna (sette anni) per favoreggiamento mafioso. Pier Ferdinando Casini lo ha fatto entrare al Senato (come Cuffaro) sebbene Giovanni Brusca, il boss che uccise il giudice Falcone, lo considerasse un suo “amico personale”. Quattro archiviazioni in altrettante indagini per fatti di mafia, una campagna elettorale per le Regionali del 2006 (17.028 preferenze) condotta ad Altofonte – stando alle intercettazioni – dagli uomini d’onore e persino una breve militanza in Sicilia Libera, il movimento politico fondato per volontà del boss Luchino Bagarella, non sono bastate per sbarrargli le porte.

Anche perché, se si dice di no al vecchio Cintola, si finisce per dire no pure al giovane deputato Saverio Romano. Anche lui ha la sua bella archiviazione alle spalle (concorso esterno). Ma nel palmares può fregiarsi del titolo di candidato Udc più votato alle ultime Europee (110.403 preferenze nelle isole). Per questo, anche se di fronte a testimoni anni fa pronunciò una frase minacciosa che pare tratta dalla sceneggiatura del Padrino (“Francesco mi vota perché siamo della stessa famigghia” disse rivolgendosi al pentito Francesco Campanella), Romano fa carriera. È membro della commissione Finanze, Il segretario Lorenzo Cesa, lo ha nominato commissario dell’Udc a Catania, mentre Massimo Ciancimino, il figlio di Don Vito, lo ha incluso con Cintola, Cuffaro, e il presidente della commissione Affari costituzionali del Senato, Carlo Vizzini, nell’elenco dei parlamentari a cui sarebbero finiti soldi provenienti dal tesoro di suo padre.

Così Romano è oggi indagato come gli altri per corruzione aggravata dal favoreggiamento a Cosa Nostra. E se mai finirà alla sbarra qualcuno in Parlamento, c’è da giurarlo, dirà: “È giustizia ad orologeria”. Ma la verità è un’altra. I rapporti di forza tra la mafia e la politica stanno cambiando. Il dialogo tra i due poteri e sempre meno paritario. Nel 2000, quando una microcamera immortala l’attuale senatore del Pd, Mirello Crisafulli, mentre discute di appalti con il boss di Enna, Raffaele Bevilacqua (appena uscito di galera), negli investigatori della polizia resta ancora il dubbio su chi sia a comandare. “Fatti i cazzi tuoi” dice infatti chiaro Crisafulli (poi archiviato), al mafioso. In altri dialoghi, invece, il rapporto sembra invertirsi.

A bordo della sua Mercedes nera Simone Castello (un ex iscritto al Pci-Pds diventato un colonnello di Bernardo Provenzano) ascolta così il capo del clan di Villabate, Nino Mandalà (nel 1998 membro del direttivo provinciale di Forza Italia), mentre sostiene di aver “fatto piangere”, l’ex ministro Enrico La Loggia. “Gli ho detto: Enrico tu sai chi sono e da dove vengo e che cosa ero con tuo padre. Io sono mafioso come tuo padre. Ora lui non c’è più, ma lo posso sempre dire io che tuo padre era mafioso” racconta Mandalà al compare aggiungendo che La Loggia, in lacrime, si sarebbe messo a implorare: “Tu mi rovini, tu mi rovini”. In questo caso la minaccia (smentita da La Loggia, che però ammette l’incontro) è quella di svelare legami inconfessabili. Un po’ quello che sta accadendo in questi mesi con Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi che, secondo molti osservatori, starebbero subendo una sorta di ricatto. Dell’Utri, dicono i giudici, ha stretto un patto con i clan. Un patto non rispettato o solo in parte. E così adesso, visto che è difficile organizzare un attentato ai suoi danni (nel 2003 Dell’Utri e una serie di avvocati parlamentari erano stati inclusi dal Sisde in un elenco di personaggi politici che la mafia voleva ammazzare perché di fatto considerati traditori), la vendetta potrebbe passare attraverso le rivelazioni nei tribunali. Fantascienza? Mica tanto. Perché, almeno nel caso di Dell’Utri, ogni volta (o quasi) che intercetti un telefono di un presunto uomo delle cosche, corri il rischio di ascoltare la sua voce. È successo nell’indagine su Di Girolamo (vedi articolo a pagg. 4-5 de Il Fatto Quotidiano del 25 febbraio 2010). Ed è accaduto due anni fa, poco prima delle elezioni, con gli affiliati del clan Piromalli. Il loro referente Aldo Micciché (vedi articolo a fianco) chiamava il senatore in ufficio dal Venezuela, mentre a uno dei ragazzi della ‘Ndrina Dell’Utri affida il compito di aprire un circolo del Buon governo a Gioia Tauro.

Ovvio che tanta disponibilità al dialogo (Dell’Utri si è giustificato dicendo che lui “parla con tutti”) anche se non dovesse nascondere accordi illeciti, espone quantomeno al rischio di pericolosi equivoci. Se alla Camera entra una bella ragazza di Bagheria, priva di esperienza politica, come Gabriella Giammanco (Pdl), e poi si scopre che suo zio, Michelangelo Alfano, è un boss condannato in via definitiva, è chiaro come qualcuno nelle famiglie di rispetto possa pensare (sbagliando) di trovarsi di fronte a una sorta di messaggio. E se nel governo siede ancora un sottosegretario, Nicola Cosentino, con parenti acquisti detenuti al 41-bis e una richiesta di arresto per Camorra che pende sulla sua testa, è inevitabile che gli uomini di panza considerino il premier un loro amico. Un politico come tutti quelli con cui i patti sono stati siglati con certezza. E ai quali, parafrasando Al Capone, si può sempre gridare, in caso di cocente delusione: “Sei solo chiacchiere e distintivo”.

Tratto da: antefatto.ilcannocchiale.it

“Ci ho fatto un papello così” « Blog di Giuseppe Casarrubea

Fonte: “Ci ho fatto un papello così” « Blog di Giuseppe Casarrubea, http://casarrubea.wordpress.com/2009/10/28/ci-ho-fatto-un-papello-cosi/

Della mafia, e cioè di un fenomeno sommerso che affonda le sue radici maligne in tutto il tessuto sociale e istituzionale dell’Italia, si è parlato e scritto spesso come di una realtà circoscritta alla Sicilia e all’America, per un lungo periodo della storia del ‘900. Assai poco si è riflettuto, invece, sulle sue caratteristiche attuali. Quelle cioè che ne hanno favorito la penetrazione sul piano nazionale o quelle altre che si manifestano con violenza all’indomani della caduta del muro di Berlino. Quando, ad esempio, vengono alla ribalta in modo dirompente la mafia russa, che condurrà al potere Yeltsin, quella albanese o ungherese e degli altri Paesi dell’ex blocco sovietico, non dimenticando le ex repubbliche asiatiche dei Soviet.

A tale proposito non è forse superfluo ricordare le ingerenze dell’intelligence Usa, a partire dall’era reaganiana e dal suo successore Bush senior, per destabilizzare prima l’ex impero sovietico e dopo i nuovi Stati formatisi dalla disgregazione dell’Urss.

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Lungo questo percorso, già dalla seconda guerra mondiale e fino ai nostri giorni, le mafie si sono dimostrate braccio armato delle vocazioni imperialistiche dello zio Sam. Valga per tutti l’esempio dell’Afghanistan: il fratello di Karzai, capo del governo fantoccio della Nato, è il maggior narcotrafficante in oppio dell’Asia centrale.

Si tratta di mafie nuove, come nuovo era stato nel dopoguerra il sistema messo in piedi da Lucky Luciano tra Europa, America latina e Usa. La loro modernità consiste nella nuova realtà geopolitica mondiale che, come un’infinita trama planetaria, ne ha favorito lo sviluppo riorientandole verso nuove forme di potere politico, nuove realtà istituzionali, dagli Urali al Mediterraneo e al Medio Oriente.

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I caratteri di queste mafie sono la  mondializzazione e l’emersione progressiva delle loro connessioni con i singoli Stati, sotto l’egida di Washington.

Solo all’interno di questo quadro possono essere spiegati i fatti che accadono in Italia a partire dal 1992, con l’avvertenza, però, che le stragi di quell’anno non arrivano all’improvviso come banali colpi di testa di una mafia ringalluzzita, ma sono l’approdo di un percorso iniziato almeno un biennio prima, con la crisi del sistema-Stato e con la connessa caduta dei grandi valori tradizionali.

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E veniamo alle rivelazioni dei collaboratori di giustizia degli ultimi  mesi. Cominciamo con Giovanni Brusca. Immaginiamoci un grande palcoscenico dove si muovono vari personaggi. Ciascuno recita la sua parte. Quella in cui crede veramente.

La scena – così come è stata raccontata da molti giornali – rappresenta “Totò u Curtu” alla vigilia di Natale del 1992. Il grande capo riunisce i boss più fidati per gli auguri, in una casa alla periferia di Palermo. Lima, Falcone e Borsellino sono già stati eliminati nei mesi precedenti e Totò è euforico. Esclama: “Finalmente si sono fatti sotto!” E aggiunge: “Ci ho fatto un papello così!”

L’euforia di  Riina ci spiega una sola cosa: non aveva capito niente. Tronfio e pieno di sè, era stato preso da una sorta di megalomania acuta. Pensava di dominare sullo Stato e sull’universo. Esattamente come quell’altro criminale della storia: il bandito Salvatore Giuliano che aveva sulle spalle quattrocento fascicoli per reati penali. Non per ultimo quello riguardante l’accusa di insurrezione armata contro i poteri dello Stato.

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Riina pensava di dettare lui le regole del gioco, ricorrendo alle  bombe e al tritolo. Ma era quello che gli avevano fatto credere. Non poteva immaginare che tre settimane dopo, a metà gennaio 1993, sarebbe finito in manette come un qualsiasi picciotto alle prime armi. Che le cose non stessero per nulla come  le stava vivendo il corleonese,  è dimostrato dal fatto che tutto concorreva alla sua liquidazione, analoga e parallela al crollo del sistema politico italiano travolto da Mani pulite.

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Dai verbali inediti di cui l’Espresso del 21 ottobre 2009 anticipa i contenuti, risulta che esponenti istituzionali avrebbero coperto nel 1992 la presunta trattativa tra Totò u Curtu, capo di Cosa Nostra, e lo Stato. Mediatori: Vito Ciancimino, ex sindaco di Palermo per conto dei corleonesi, da un lato; il colonnello Mori e il capitano De Donno, per conto dello Stato, dall’altro. Ci sarebbe anche, secondo Brusca, un elemento invisibile che muove le fila in questo teatrino: Bernardo Provenzano, alias “ingegner Lo Verde”, in contatto permanente con Vito Ciancimino a Roma, come confermato da Massimo Ciancimino ad “Anno Zero”, l’8 ottobre 2009.

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Detta così, questa storia si presta a molti gravi equivoci e a forme di sottile depistaggio. Il problema, infatti, non è la trattativa che oggettivamente conduce solo all’arresto di Totò Riina, ma quello che succede nei quindici mesi successivi. Cioè le grandi e sotterranee manovre che porteranno al passaggio delle consegne tra vecchia e nuova guardia a livello delle gerarchie mafiose e dei poteri dominanti.

Le rivelazioni di Brusca trovano conferma nelle dichiarazioni del mafioso Gaspare Spatuzza, uomo d’onore della famiglia di Brancaccio, di professione killer, che comincia a “cantare” nell’aprile 2008 e indica ai pm di Firenze e Palermo i rapporti tra alcuni boss e Marcello dell’Utri. Il senatore del Pdl, sempre secondo Spatuzza, avrebbe creato una connessione tra Silvio Berlusconi e Cosa Nostra in vista della nascita di Forza Italia. Saranno i magistrati a stabilire come stanno le cose e se Spatuzza sia un pentito credibile o meno. Saranno i magistrati ad accertare se le sue dichiarazioni trovano riscontri in altri atti documentari. Sta di fatto, però, che il quadro generale sembra concordare con le confessioni di un altro mafioso pentito. Si tratta di Gaspare Mutolo che, come dice Lirio Abbate nel suo articolo dell’Espresso, aveva parlato di un incontro tra Mancino e Borsellino a Roma, circa un mese dopo la strage di Capaci. Il pentito sostiene che dopo l’incontro Borsellino era sconvolto. Perchè? E’ logico pensare che un giudice di tale esperienza e levatura possa essere rimasto sconvolto da affermazioni ovvie sui rapporti tra mafia e Stato? E’ evidente che quel giorno Borsellino sarebbe venuto a conoscenza di informazioni fuori dall’ordinario. Ma quali? Ci può aiutare nella risposta, forse, ciò che accadrà quando, secondo Spatuzza, Cosa Nostra aggancia il suo nuovo referente politico. Da quel momento  in poi,  nel 1994, le sorti del nostro Paese non saranno più quelle di prima.

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Ma Spatuzza dice anche altre cose, secondo il Corriere della Sera del 23 ottobre 2009: “Giuseppe Graviano  [un boss mafioso] mi disse che la persona grazie alla quale avevamo ottenuto tutto era Berlusconi e c’era di mezzo un nostro compaesano, Dell’Utri… mi disse anche che ci eravamo messi il Paese nelle mani”.

Continua Spatuzza nel suo verbale del 6 ottobre scorso, riportato da Attilio Bolzoni su Repubblica del 24 ottobre 2009: “Incontrai [metà gennaio 1994] Giuseppe Graviano all’interno del bar Doney in via Veneto, a Roma. Graviano era molto felice, come se avesse vinto al Superenalotto, una Lotteria. E mi spiega che si era chiuso tutto e ottenuto quello che cercavamo”. Conclude il pentito riferendosi al patto accennato da Giuseppe Graviano: “… Tutto questo grazie a Berlusconi, la persona che aveva portato avanti questa cosa diciamo, mi fa [Graviano] il nome di Berlusconi, io all’epoca non conoscevo Berlusconi, quindi gli dissi se era quello del Canale 5 e mi disse che era quello del Canale 5″.

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Ma dell’Utri se la ride. “Sono tutte grandi cazzate” – dice il senatore già condannato a nove anni di reclusione in primo grado per concorso esterno in associazione mafiosa. Lo scrive il Corriere della Sera del 23 ottobre 2009. Sulle dichiarazioni di Spatuzza si registra anche l’intervento di Ghedini (Pdl), legale del presidente del Consiglio. Ghedini esclude categoricamente che le dichiarazioni di Spatuzza possano essere prese sul serio.

Sarà. Ma ieri, davanti alla Commissione parlamentare antimafia, il Procuratore Piero Grasso non ha avuto peli sulla lingua: “Non c’è dubbio che la strage che colpì Falcone e la sua scorta sia stata commessa da Cosa Nostra. Rimane però l’intuizione, il sospetto, chiamiamolo come vogliamo, che ci sia qualche entità esterna che abbia potuto agevolare o nell’ideazione, nell’istigazione, o comunque possa aver dato un appoggio all’attività della mafia”.

Non vi è dubbio, infatti, che la tecnica della strage di Capaci, sia di natura terroristica. Ricorda in tutto e per tutto i metodi dei narcotrafficanti colombiani, degli “insorti” iracheni e delle squadre neofasciste italiane manovrate dalla Cia.

Giuseppe Casarrubea e Mario J. Cereghino

intervista di Ruotolo a Massimo Ciancimino

Intervista a Salvatore Borsellino

 

Tra mafia e Stato | L’espresso

Fonte: Tra mafia e Stato | L’espresso.

di Lirio Abbate

Brusca rivela: Riina disse che il nostro referente nella trattativa era il ministro Mancino. Ma dopo l’arresto del padrino, i boss puntarono su Forza Italia e Silvio Berlusconi

E’ la vigilia di Natale del 1992, Totò Riina è euforico, eccitato, si sente come fosse il padrone del mondo. In una casa alla periferia di Palermo ha radunato i boss più fidati per gli auguri e per comunicare che lo Stato si è fatto avanti. I picciotti sono impressionati per come il capo dei capi sia così felice. Tanto che quando Giovanni Brusca entra in casa, Totò ù curtu, seduto davanti al tavolo della stanza da pranzo, lo accoglie con un grande sorriso e restando sulla sedia gli dice: “Eh! Finalmente si sono fatti sotto”. Riina è tutto contento e tiene stretta in mano una penna: “Ah, ci ho fatto un papello così…” e con le mani indica un foglio di notevoli dimensioni. E aggiunge che in quel pezzo di carta aveva messo, oltre alle richieste sulla legge Gozzini e altri temi di ordine generale, la revisione del maxi processo a Cosa nostra e l’aggiustamento del processo ad alcuni mafiosi fra cui quello a Pippo Calò per la strage del treno 904. Le parole con le quali Riina introduce questo discorso del “papello” Brusca le ricorda così: “Si sono fatti sotto. Ho avuto un messaggio. Viene da Mancino”.

L’uomo che uccise Giovanni Falcone – di cui “L’espresso” anticipa il contenuto dei verbali inediti – sostiene che sarebbe Nicola Mancino, attuale vice presidente del Csm che nel 1992 era ministro dell’Interno, il politico che avrebbe “coperto” inizialmente la trattativa fra mafia e Stato. Il tramite sarebbe stato l’ex sindaco mafioso di Palermo, Vito Ciancimino, attraverso l’allora colonnello Mario Mori e il capitano Giuseppe De Donno. L’ex responsabile del Viminale ha sempre smentito: “Per quanto riguarda la mia responsabilità di ministro dell’Interno confermo che nessuno mi parlò di possibili trattative”.

Il contatto politico Riina lo rivela a Natale. Mediata da Bernardo Provenzano attraverso Ciancimino, arriva la risposta al “papello”, le cui richieste iniziali allo Stato erano apparse pretese impossibili anche allo zio Binu. Ora le dichiarazioni inedite di Brusca formano come un capitolo iniziale che viene chiuso dalle rivelazioni recenti del neo pentito Gaspare Spatuzza. Spatuzza indica ai pm di Firenze e Palermo il collegamento fra alcuni boss e Marcello dell’Utri (il senatore del Pdl, condannato in primo grado a nove anni per concorso esterno in associazione mafiosa), che si sarebbe fatto carico di creare una connessione con Forza Italia e con il suo amico Silvio Berlusconi. Ma nel dicembre ’92 nella casa alla periferia di Palermo, Riina è felice che la trattativa, aperta dopo la morte di Falcone, si fosse mossa perché “Mancino aveva preso questa posizione”. E quella è la prima e l’ultima volta nella quale Brusca ha sentito pronunziare il nome di Mancino da Riina. Altri non lo hanno mai indicato, anche se Brusca è sicuro che ne fossero a conoscenza anche alcuni boss, come Salvatore Biondino (detenuto dal giorno dell’arresto di Riina), il latitante Matteo Messina Denaro, il mafioso trapanese Vincenzo Sinacori, Giuseppe Graviano e Leoluca Bagarella.

Le risposte a quelle pretese tardavano però ad arrivare. Il pentito ricorda che nei primi di gennaio 1993 il capo di Cosa nostra era preoccupato. Non temeva di essere ucciso, ma di finire in carcere. Il nervosismo lo si notava in tutte le riunioni, tanto da fargli deliberare altri omicidi “facili facili”, come l’uccisione di magistrati senza tutela. Un modo per riscaldare la trattativa. La mattina del 15 gennaio 1993, mentre Riina e Biondino si stanno recando alla riunione durante la quale Totò ù curtu avrebbe voluto informare i suoi fedelissimi di ulteriori retroscena sui contatti con gli uomini delle istituzioni, il capo dei capi viene arrestato dai carabinieri.

Brusca è convinto che in quell’incontro il padrino avrebbe messo a nudo i suoi segreti, per condividerli con gli altri nell’eventualità che a lui fosse accaduto qualcosa. Il nome dell’allora ministro era stato riferito a Riina attraverso Ciancimino. E qui Brusca sottolinea che il problema da porsi – e che lui stesso si era posto fin da quando aveva appreso la vicenda del “papello” – è se a Riina fosse stata o meno riferita la verità: “Se le cose stanno così nessun problema per Ciancimino; se invece Ciancimino ha fatto qualche millanteria, ovvero ha “bluffato” con Riina e questi se ne è reso conto, l’ex sindaco allora si è messo in una situazione di grave pericolo che può estendersi anche ai suoi familiari e che può durare a tempo indeterminato”. In quel periodo c’erano strani movimenti e Brusca apprende che Mancino sta blindando la sua casa romana con porte e finestre antiproiettile: “Ma perché mai si sta blindando, che motivo ha?”. “Non hai nulla da temere perché hai stabilito con noi un accordo”, commenta Brusca come in un dialogo a distanza con Mancino: “O se hai da temere ti spaventi perché hai tradito, hai bluffato o hai fatto qualche altra cosa”.

Brusca, però, non ha dubbi sul fatto che l’ex sindaco abbia riportato ciò che gli era stato detto sul politico. Tanto che avrebbe avuto dei riscontri sul nome di Mancino. In particolare uno. Nell’incontro di Natale ’92 Biondino prese una cartelletta di plastica che conteneva un verbale di interrogatorio di Gaspare Mutolo, un mafioso pentito. E commentò quasi ironicamente le sue dichiarazioni: “Ma guarda un po’: quando un bugiardo dice la verità non gli credono”. La frase aveva questo significato: Mutolo aveva detto in passato delle sciocchezze ma aveva anche parlato di Mancino, con particolare riferimento a un incontro di quest’ultimo con Borsellino, in seguito al quale il magistrato aveva manifestato uno stato di tensione, tanto da fumare contemporaneamente due sigarette. Per Biondino sulla circostanza che riguardava Mancino, Mutolo non aveva detto il falso. Ma l’ex ministro oggi dichiara di non ricordare l’incontro al Viminale con Borsellino.

Questi retroscena Brusca li racconta per la prima volta al pm fiorentino Gabriele Chelazzi che indagava sui mandanti occulti delle stragi. Adesso riscontrerebbero le affermazioni di Massimo Ciancimino, figlio di don Vito, che collabora con i magistrati di Palermo e Caltanissetta svelando retroscena sul negoziato mafia- Stato. Un patto scellerato che avrebbe avuto inizio nel giugno ’92, dopo la strage di Capaci, aperto dagli incontri fra il capitano De Donno e Ciancimino. E in questo mercanteggiare, secondo Brusca, Riina avrebbe ucciso Borsellino “per un suo capriccio”. Solo per riscaldare la trattativa.

Le rivelazioni del collaboratore di giustizia si spingono fino alle bombe di Roma, Milano e Firenze. Iniziano con l’attentato a Maurizio Costanzo il 14 maggio ’93 e hanno termine a distanza di 11 mesi con l’ordigno contro il pentito Totuccio Contorno. Il tritolo di quegli anni sembra non aver portato nulla di concreto per Cosa nostra. Brusca ricorda che dopo l’arresto di Riina parla con il latitante Matteo Messina Denaro e con il boss Giuseppe Graviano. Chiede se ci sono novità sullo stato della trattativa, ma entrambi dicono: “Siamo a mare”, per indicare che non hanno nulla. E da qui che Brusca, Graviano e Bagarella iniziano a percorrere nuove strade per riattivare i contatti istituzionali.

I corleonesi volevano dare una lezione ai carabinieri sospettati (il colonnello Mori e il capitano De Donno) di aver “fatto il bidone”. E forse per questo motivo che il 31 ottobre 1993 tentano di uccidere un plotone intero di carabinieri che lasciava lo stadio Olimpico a bordo di un pullman. L’attentato fallisce, come ha spiegato il neo pentito Gaspare Spatuzza, perché il telecomando dei detonatori non funziona. Il piano di morte viene accantonato.

In questa fase si possono inserire le nuove confessioni fatte pochi mesi fa ai pubblici ministeri di Firenze e Palermo dall’ex sicario palermitano Spatuzza. Il neo pentito rivela un nuovo intreccio politico che alcuni boss avviano alla fine del ’93. Giuseppe Graviano, secondo Spatuzza, avrebbe allacciato contatti con Marcello Dell’Utri. Ai magistrati Spatuzza dice che la stagione delle bombe non ha portato a nulla di buono per Cosa nostra, tranne il fatto che “venne agganciato “, nella metà degli anni Novanta “il nuovo referente politico: Forza Italia e quindi Silvio Berlusconi”.

Il tentativo di allacciare un contatto con il Cavaliere dopo le stragi era stato fatto anche da Brusca e Bagarella. Rivela Brusca: “Parlando con Leoluca Bagarella quando cercavamo di mandare segnali a Silvio Berlusconi che si accingeva a diventare presidente del Consiglio nel ’94, gli mandammo a dire “Guardi che la sinistra o i servizi segreti sanno”, non so se rendo l’idea…”. Spiega sempre il pentito: “Cioè sanno quanto era successo già nel ’92-93, le stragi di Borsellino e Falcone, il proiettile di artiglieria fatto trovare al Giardino di Boboli a Firenze, e gli attentati del ’93”. I mafiosi intendevano mandare un messaggio al “nuovo ceto politico “, facendo capire che “Cosa nostra voleva continuare a trattare”.

Perché era stata scelta Forza Italia? Perché “c’erano pezzi delle vecchie “democrazie cristiane”, del Partito socialista, erano tutti pezzi politici un po’ conservatori cioè sempre contro la sinistra per mentalità nostra. Quindi volevamo dare un’arma ai nuovi “presunti alleati politici”, per poi noi trarne un vantaggio, un beneficio”.

Le due procure stanno già valutando queste dichiarazioni per decidere se riaprire o meno il procedimento contro Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri, archiviato nel 1998. Adesso ci sono nuovi verbali che potrebbero rimettere tutto in discussione e riscrivere la storia recente del nostro Paese.

(21 ottobre 2009)

Papelli e amnesie : Pietro Orsatti

Fonte: Papelli e amnesie : Pietro Orsatti.

di Pietro Orsatti su Terra

Sono tutti abbottonati al palazzo di giustizia di Palermo, ovviamente, ma la notizia è certa. L’avvocato di Massimo Ciancimino ha consegnato le carte promesse dal suo cliente ai pm che stanno indagando sulla presunta trattativa fra Stato e Cosa nostra, compresa una fotocopia del famoso papello, le richieste di . Questa volta «non è una minchiata», si mormora nell’ambiente, dopo mesi di presunte consegne mai avvenute. E la notizia ha un suo peso, perché per la prima volta sarà agli atti una prova “fisica”, documentale, che la trattativa ci fu.
Ora, però, è necessario capire di che trattativa si parla, se fu solo una, se davvero uno dei prezzi pagati dalla per far accogliere certi tipi di proposte sia stata la consegna di , con il contributo di Vito Ciancimino e, come si ipotizza, di Bernardo Provenzano. E su questo fronte la questione muta radicalmente, si complica, ridiventa in qualche modo “mistero”. Del papello si sa quasi tutto, anche se finora nessuno l’aveva visto fisicamente. Ne aveva iniziato a parlare Giovanni Brusca nel ’98, raccontando un dialogo intercorso fra lui e Riina. «Si sono fatti sotto – gli disse il “capo dei capi” – gli ho presentato un papello di richieste lungo così». A farsi avanti sarebbero stati i . In particolare, a sondare un contatto attraverso Vito Ciancimino e poi a ricevere le richieste di Riina sarebbe stato il capitano Giuseppe Di Donno su ordine del generale Mario Mori. Questa una delle ricostruzioni più accreditate. Finora. Ma rimane aperta ancora la questione degli “altri” documenti consegnati dal legale di Ciancimino due giorni fa ai pm palermitani. Si tratta, come si ipotizza, di corrispondenza del padre di Massimo con politici, imprenditori e membri di Cosa nostra sia in relazione alla trattativa che al mutare del quadro politico nel biennio 1992-93? Ci sarebbero supporti documentali anche sul ruolo che avrebbe ricoperto Marcello Dell’Utri? Intanto rimane lo stupore del lungo silenzio a cui si sono sottoposti per 17 anni politici, pezzi delle istituzioni e collaboratori e amici di Falcone e Borsellino. Luciano Violante, Claudio Martelli e Liliana Ferraro gli ultimi ad aver superato un lungo periodo di amnesia. Ma già c’erano state le dichiarazioni di alcuni colleghi di Borsellino a Marsala, a luglio, “sui traditori”. A non ricordare, finora, sembra solo Mancino, allora ministro dell’Interno. E tutti parlano di una trattativa, di un intreccio pericoloso fra indagini e cedimenti e strategie al limite della legalità. E dalle tante ombre di quel periodo convulso (non solo le stragi, ma anche Tangentopoli e Gladio a fare da scenografia) emerge la figura di Bernardo Provenzano, da sempre posta in secondo piano se confrontata a quella di Riina. Un Provenzano che tratta, condiziona, consegna pezzi fondamentali (Riina compreso) dell’ala militare di Cosa nostra e poi gestisce la sommersione dell’organizzazione. Impunito e impunibile. Addirittura protetto da una possibile cattura, come si ipotizza nel processo al generale Mori e al colonnello Obinu dei .

Consegnato ai magistrati il papello di Riina

Fonte: Consegnato ai magistrati il papello di Riina.

Palermo – 14 ottobre 2009. Sarebbe stato consegnato da Massimo Ciancimino il famoso papello di Riina ai magistrati di Palermo. Sembrava una leggenda invece il foglio contenente le richieste che il capo di Cosa Nostra nel 1992 avanzò allo Stato in cambio della fine della strategia stragista, è ora una realtà oggettiva. Già questa mattina il procuratore aggiunto Antonio Ingroia, durante un dibattito contro la mafia organizzato dagli studenti di sinistra, al polo di scienze politiche dell’Università di Firenze, aveva accennato all’ ipotesi che presto la Procura ne sarebbe venuta in possesso. Ora finalmente il “papello” sarebbe negli uffici giudiziari di Palermo disponibile al vaglio degli inquirenti.
Se autenticato il documento tanto atteso potrebbe mettere in discussione molte delle versioni fornite dai vari soggetti che al tempo erano venuti a conoscenza della trattativa e rappresentare davvero una svolta nella ricerca della verità sulle stragi.
A parlare per primo del “papello” era stato il pentito Giovanni Brusca il 13 gennaio 1998. Interrogato nel corso del processo di Firenze sulle stragi del ’93, il pentito aveva riferito dell’esistenza di una trattativa tra il capo di Cosa Nostra e lo Stato, intavolata dopo la strage di Capaci. Fu lo stesso capo di cosa nostra ad informarlo di quel dialogo .”Si sono fatti sotto – gli disse –  gli ho presentato un ‘papello’ di richieste lungo cosi’”. Dodici istanze che avrebbero compreso una serie di agevolazioni per cosa nostra tra cui la revisione del Maxiprocesso, l’abolizione del carcere duro per i mafiosi, la revisione della legge sulla confisca dei beni, l’annullamento della legge sui pentiti ed altri ancora. Richieste  che il capo di Cosa Nostra avrebbe inoltrato alle istituzioni dopo che il capitano del Ros dei carabinieri Giuseppe De Donno e il generale Mori avevano cercato con lui un dialogo con Riina attraverso la mediazione di Vito Ciancimino. Ora resta da stabilire chi oltre ai vertici del Ros aveva garantito questa negoziazione. Le ultime dichiarazioni dell’ex Ministro Martelli e la lunga audizione della dottoressa Liliana Ferraro, nel 1992 alla direzione del Ministero degli Affari Penali, durata quattro ore proprio nella giornata di oggi forse hanno già contribuito a fare chiarezza.

«Borsellino sapeva? Forse non si è fidato dei suoi superiori…. » – l’Unità.it

«Borsellino sapeva? Forse non si è fidato dei suoi superiori…. » – l’Unità.it.

di Nicola Biondo

Luca Tescaroli, oggi sostituto procuratore a Roma, è stato pubblico ministero nel processo per la strage di Capaci. Ha condotto le indagini sui mandanti occulti per gli eccidi di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Segue con attenzione le recenti rivelazioni sui contatti tra esponenti dello stato e emissari della Cupola avvenuti nella primavera estate del 1992.

Dottor Tescaroli la procura di Palermo ha un’indagine aperta sulla trattativa tra Stato e mafia. Qual è il suo convincimento? «Sull’inchiesta in corso ovviamente mi astengo da qualsiasi commento. Noto che ci sono uomini delle istituzioni che hanno una memoria “al contrario”: ricordano meglio i fatti lontani nel tempo che quelli vicini».

Come giudica le rivelazioni di Martelli secondo cui Borsellino avrebbe saputo da Liliana Ferraro degli incontri tra Vito Ciancimino e i carabinieri?
«Sia la Ferraro che Martelli hanno reso testimonianza in istruttoria e in aula per la strage di Capaci. Ma non hanno mai fatto riferimento a trattative o a cose simili. Queste ultime rivelazioni a distanza di così tanto tempo mi confermano un’idea: c’è stata una cortina di ferro intorno all’accertamento della verità, di tutta la verità, sulle stragi. Potevamo fare passi in avanti importanti che non ci è stato concesso di fare. C’è un nodo irrisolto».

Quale fra i tanti?
«Quello con cui ha inizio questa storia. Andare a parlare con Ciancimino significava parlare con la Cupola. È un’ammissione di debolezza o ancora peggio una tecnica di approccio che ammette il compromesso. Il mostro mafioso andava schiacciato non blandito, non esistono vie di mezzo».

Lei crede che la trattativa abbia influito sulla strage di via D’Amelio?
«È un dato acquisito che vi fu un’accelerazione per la strage. Dopo Capaci Cosa nostra aveva messo in preventivo l’eliminazione di Calogero Mannino ma tutto si bloccò e Borsellino diventò un obiettivo da colpire nel più breve tempo possibile. La domanda è perché?».

Perché si trovò davvero sovraesposto: chi lo candidava alla procura nazionale antimafia, chi addirittura alla Presidenza della Repubblica.
«Sì, vi fu una sovraesposizione del giudice. Ma che non spiega la fretta nel volerlo eliminare ad ogni costo e dopo solo 57 giorni dalla strage di Capaci. Nessuno è sprovveduto dentro Cosa nostra. Non potevano non immaginare che stavolta lo Stato avrebbe reagito. Di sicuro Borsellino si sarebbe opposto a qualsiasi trattativa».

Ci si chiede perché se il giudice, venuto a conoscenza di un contatto tra Stato e mafia, poi non l’abbia denunciato.
«Intanto bisognerebbe sapere con certezza se qualcosa gli venne detto e in che termini. Poi mi chiedo se lui avesse fiducia in coloro che lo avrebbero dovuto sentire. Vi fu una chiara omissione».

Da parte di chi? «Borsellino era un uomo delle istituzioni. Ebbe il tempo di dire pubblicamente che sapeva fatti che avrebbe detto solo all’autorità giudiziaria. È normale che nessuno per 57 giorni lo chiami a Caltanissetta per testimoniare sulla strage del suo più caro amico e collega?».

Lei ha indagato a lungo sui possibili mandanti esterni delle stragi del 1992. Un’inchiesta poi archiviata. «È stata una pista investigativa che ci ha fatto capire molto. È curioso che il primo a parlare chiaramente di questi contatti tra Stato e mafia è stato Giovanni Brusca, un mafioso seppure pentito. Qualcuno avrebbe dovuto sentire il dovere morale di affrontare questa vicenda che oggi è davanti agli occhi di tutti».

Conveniva a tutti dire che era solo mafia? «Certo. Con le stragi l’obiettivo era l’intero Stato e una parte dello Stato ha risposto con la politica del compromesso, se non forse con una convergenza di interessi. Non credo alla follia di Cosa nostra. Qualcuno diede ai boss precise garanzie».

Salvatore Borsellino: “Dovevano parlare subito dopo la strage”

Fonte: Salvatore Borsellino: “Dovevano parlare subito dopo la strage”.

Scritto da Pierangelo Maurizio

Il fratello del magistrato ucciso dalla mafia commenta le ultime rivelazioni sulla strage. “Credo in questi magistrati che vogliono andare fino in fondo”.

Ha visto che cosa l’ex ministro Vizzini ha dichiarato al Tempo?
«Sì, ho letto».

Dice che nel loro ultimo incontro, tre giorni prima della strage, Paolo si soffermò in particolare sui rapporti tra mafia e appalti…

«In quel tempo gli interessi di mio fratello erano concentrati sul nesso mafia-appalti. E su quella trattativa con lo Stato, io ripeto. Comunque nelle carte, nell’agenda grigia di Paolo. Ho anche trovato tracce di questi loro incontri. E vorrei chiedere a Vizzini se Paolo gli parlò del dossier che aveva appena ricevuto dal sindacalista Gioacchino Basile riguardo alle infiltrazioni del clan Galatolo nel porto di Palermo. Così…»

E che cosa pensa delle rivelazioni di Claudio Martelli che l’ex sindaco Ciancimino nel giugno del ’92 si sarebbe offerto di collaborare in cambio di protezioni politiche?
«Penso quello che penso per Violante. Tante persone cominciano a ricordare cose che se avessero detto 16, 15 anni fa non ci troveremmo al punto in cui ci troviamo… Non vorrei che questi improvvisi sussulti di memoria avvengano ora, magari prima di essere sentiti da questi magistrati che stanno portando avanti le indagini adesso».

Salvatore Borsellino è il fratello del magistrato ucciso con la sua scorta a via d’Amelio il 19 luglio ’92. Ingegnere in pensione, vive a Milano da 40 anni. E io mi scuso con questo uomo mite, ma dalla volontà ferrea di fare chiarezza, se non tutto di quanto mi ha raccontato mi sembra condivisibile. Perché a volte il dolore può far aggrappare a certezze che tali non sono. Ma ci sono due o tre cose che ripete e che vanno ascoltate. Da tempo insiste che vuole vedere nelle vesti di imputato Nicola Mancino, divenuto ministro dell’Interno poco dopo la strage di Capaci in cui furono uccisi Falcone, la moglie e tre agenti della scorta e poco prima che fosse ucciso Borsellino, attuale vicepresidente del Csm. Perché?
«Perché è reticente. Perché sull’incontro con mio fratello, il primo luglio del ’92 a Roma, ha dato versioni inverosimili. Prima ha detto di non ricordarlo, l’incontro. Poi ha detto di averlo visto al ministero dell’Interno sì, ma di avergli solo stretto la mano. Cose diverse. Ogni tanto dice qualcosa in più. Se Paolo sull’agenda grigia al primo luglio scrive la parola “Mancino” è perché aveva un appuntamento preciso con lui. Un’agenda che compilava la sera, ora per ora con gli impegni della giornata, fino alla partenza da Fiumicino per tornare a Palermo».


L’agenda grigia è quella che non è sparita, il magistrato vi annotava gli appuntamenti. Ad essere scomparsa dopo l’attentato è invece l’agenda rossa, secondo l’opinione più diffusa – e Salvatore Borsellino l’ha fatta sua – perchè conteneva «i segreti sulla strage di Capaci» in cui fu ucciso Giovanni Falcone.
Ma Lino Jannuzzi su questo giornale ha acutamente osservato che è un’offesa per un servitore dello Stato come Paolo Borsellino pensare che potesse confinare «segreti» di quella portata in un diario senza tradurli in atti e provvedimenti giudiziari. E invece?

«Mancino ha sostenuto di non ricordare l’incontro perché non conosceva la fisionomia, fisicamente mio fratello, e Paolo non era uomo da andare ad omaggiare nessuno. È una menzogna. Dopo Falcone tutti si aspettavano che ammazzassero anche lui. Mancino, ministro dell’Interno, come fa a dire che non lo conosceva? Il suo predecessore al Viminale, Enzo Scotti, lo conosceva bene. Semmai sarebbe da chiedersi perché Scotti fu sostituito in fretta e furia…»


Cosa vuol dire?

«Che se Mancino sostiene ciò che non è credibile, sono portato a pensare che stia nascondendo qualcosa».

Da 3-4 anni Salvatore Borsellino – «ma è un’opinione personale» – si è convinto che quel giorno il fratello Paolo andò da Mancino a parlargli «della trattativa che i Ros avevano avviato con la criminalità organizzata per mettere fine all’offensiva stragista della mafia».
«In cambio lo Stato avrebbe dovuto ammorbidire i provvedimenti presi dopo la morte di Falcone. Con Paolo vivo quella trattativa non sarebbe andata avanti».


Ma ha l’onestà intellettuale di sottolineare che è «un’opinione personale». Al contrario di tanti mafiologi. Perché a distanza di anni e di molti processi la «trattativa» scellerata tra Stato e Antistato resta un teorema. Alla base del quale c’è il «papello» – ovvero l’elenco di richieste che sarebbe stato presentato dal boss Totò Riina – ma in origine lo ha visto e ne ha parlato solo Attilio Bolzoni di Repubblica, spalleggiato da Saverio Lodato dell’Unità, salvo poi non fare un’ottima figura nelle aule di giustizia una volta chiamati a darne conto. Aria fritta.
Ma torniamo ad ascoltare Salvatore Borsellino. Suo fratello lasciò trapelare qualcosa con i familiari?

«È quasi offensivo quello che mi sta chiedendo. Paolo era una persona seria, non parlava in casa del suo lavoro anche per la tutela dei familiari. Però aveva ripetuto più volte che avrebbe detto ciò che sapeva della strage di Capaci ai magistrati di Caltanisetta».

Ma non ne ha avuto il tempo?
«No, non ne ha avuto il tempo».


E bisogna seguire il ragionamento di quest’uomo che a distanza di 17 anni non ha visto diminuire, anzi, dolore e rabbia. Una rabbia, vissuta in modo molto borghese, molto composto, ma anche molto determinato.

«Vede, l’assassinio di Paolo era stato progettato dalla mafia ma non per quel momento. Come ha rivelato Giovanni Brusca (collaboratore di giustizia ndr) quando Riina disse che si doveva fare l’attentato di Capaci molti si opposero. Falcone era inviso all’interno della magistratura. Ma era molto sostenuto dall’opinione pubblica. La sua uccisione avrebbe provocato la reazione più forte dello Stato, come effettivamente fu».

Dopo il massacro di Capaci il Parlamento convertì in legge il cosiddetto decreto Falcone sui collaboratori di giustizia, furono trasferiti nelle carceri speciali 400 boss mafiosi.
«Nel luglio ’92 non era alla mafia che interessava l’eliminazione di mio fratello. La mafia doveva fare un favore a qualcuno. Quello che è accaduto non possiamo stabilirlo né io né lei. Io ho fiducia nella magistratura, in questi magistrati che ora stanno dimostrando di voler andare in fondo. E allora si capirà perché altri giudici, altri magistrati non hanno voluto vedere, non hanno voluto accertare, non hanno voluto capire».


Pierangelo Maurizio (
Il Tempo, 11 ottobre 2009)

Le arance di Mangano ed i messaggi dei boss alla Fininvest

Le arance di Mangano ed i messaggi dei boss alla Fininvest.

Scritto da Peter Gomez

La nascita di Forza Italia

Le arance di Mangano ed i messaggi dei boss alla Fininvest

Alla fine non è rimasto quasi niente: solo una condanna per corruzione e un giro milionario di fatture false. Le accuse di mafia sono cadute. Quelle per traffico di droga pure. Del presunto favoreggiamento al genero di Vittorio Mangano, Enrico Di Grusa, latitante a Milano negli anni Novanta, poi, è meglio non parlare. In cassazione è evaporato anche quello. Eppure la storia delle grandi cooperative di pulizie e servizi gestite a Milano dai messinesi Natale Sartori e Antonino Currò, due buoni amici dell’ex fattore di Arcore, è centrale per capire che cosa è successo negli anni delle stragi. A sentire il pentito Giovanni Brusca, infatti, un pezzo della trattativa tra Stato e mafia (la seconda, da non confondere con la prima condotta dall’ex sindaco di Palermo, Vito Ciancimino), è passata proprio attraverso quegli uffici dove, tra i quasi duemila dipendenti, lavorano pure due delle tre figlie di Mangano.



Brusca ne parla più di dieci anni fa. Racconta di aver convocato Mangano nel settembre del 1993 e di avergli chiesto di prendere contatto con Silvio Berlusconi. La prima trattativa è fallita: il 41 bis (il carcere duro) non è stato revocato, la pressione dello Stato su Cosa Nostra non si è allentata e, quello che è peggio, Totò Riina è in galera da 9 mesi. Discutere con i carabinieri come aveva fatto Ciancimino, non è insomma servito a niente. Così persino Luchino Bagarella, il cognato di Riina, quando gli si chiede come vanno le cose, allarga le braccia e dice: “Siamo in mezzo al mare”. Certo nè lui, nè Brusca sanno nulla dei legami politici che Riina aveva coltivato prima della sua cattura. L’altro corleonese, Bernardo Provenzano, che di rapporti ad alto livello ne ha molti, sembra poi sparito.


I fratelli Graviano, i boss del Brancaccio che per tutta l’estate avevano messo a ferro e fuoco l’Italia, sono latitanti al nord. E se anche hanno qualche filo per le mani, non lo fanno sapere. Per questo Brusca, dopo aver letto su “L’espresso ”
del 26 settembre ‘93 che Marcello Dell’Utri, per conto di Berlusconi, sta’ creando un partito, incontra Mangano: sul settimanale è riportata la storia dei suo antico legame con il braccio destro del Cavaliere. Una storia che lui non conosce, ma che adesso può essere importante.


L’ex fattore di Arcore prende appunti su un foglietto: deve dire a Berlusconi che “la sinistra (intesa come la sinistra Dc ndr) sapeva”, cioè era al corrente di tutti i retroscena delle bombe visto che tra Stato e mafia c’era stata una trattativa. Poi va a Milano e in novembre vede Dell’Utri (risulta da delle agende sequestrate al senatore azzurro). A far da tramite con l’ideatore di Forza Italia, spiega però il pentito, sono “dei suoi amici, dei suoi parenti, che avevano a che fare con una ditta di pulizie”. Attraverso di loro, secondo Brusca, vengono inviati messaggi alla Fininvest e, forse, per tutto il ‘94 giungono anche le risposte.


Quando invece era Mangano a muoversi, gli imprenditori telefonavano al gruppo del Biscione e dicevano: “Sono arrivate le arance ”. Brusca però non sa chi siano esattamente questi amici dell’ex fattore. A scoprirlo, grazie anche un nuovo pentito, saranno gli investigatori. Le indagini della Dia (Direzione investigativa antimafia) svelano come Dell’Utri ancora nel 1998 sia in contatto con Sartori, mentre l’analisi sui tabulati telefonici delle cooperative del super esperto informatico
Gioacchino Genchi, dimostrano che i legami sono molto antichi. Dell’Utri ha sulle sue agende un numero dell’imprenditore di Messina che risale a prima del 1990, e certamente, proprio come raccontato da Brusca, nel ’94 riceve a casa una sua telefonata. È un bel riscontro anche se non basta ancora per chiudere il cerchio.


Nessuno infatti può discutere i legami tra i vertici delle cooperative e la famiglia Mangano. Quando Vittorio viene arrestato, nel ’95, Sartori si precipita a
Palermo; in altri casi le indagini hanno evidenziato passaggi di denaro e, persino, festività trascorse in famiglia tutti assieme. Il problema è che le cooperative per Publitalia per le reti televisive del Cavaliere ci lavorano: le pulizie negli uffici le fanno loro. E così, dal punto di vista processuale, il fatto che Sartori dia un impiego pure alle figlie del boss e si sia ritrovato a difendersi dalle accuse di aver favorito la latitanza di suo genero, resta una coincidenza. A Milano le dichiarazioni del pentito Vincenzo La Piana non bastano per ottenere la condanna di Sartori e del suo socio Currò per mafia. E anche se La Piana parla di un traffico di cocaina che, a metà anni Novanta, doveva essere finanziato dal senatore azzurro, la storia a poco a poco si scolora. Nei faldoni restano a prender polvere pure le informative che descrivono Sartori come un uomo legato persino al boss-imprenditore di Bagheria, Michelangelo Alfano e alla mafia di Messina. In aula, invece, l’avvocato di Sartori esulta. “Questa è una vittoria anche per Dell’Utri”, dice. Il legale è un onorevole. Si chiama Gaetano Pecorella e di solito assiste Berlusconi. Ma anche questa è solo una coincidenza.


Peter Gomez (Fonte: il Fatto Quotidiano, 11 ottobre 2009)

Stragi, il ricatto bipartisan dei boss – Peter Gomez – Voglio Scendere

Stragi, il ricatto bipartisan dei boss – Peter Gomez – Voglio Scendere.

da Il Fatto Quotidiano, 10 ottobre 2009

Ci sono dentro tutti. Gli uomini di Governo e di opposizione: quelli che tra il 1992 e il 1993, mentre per strada scoppiavano le bombe di mafia, erano al corrente della trattativa intavolata tra Cosa Nostra, i servizi servizi segreti e i carabinieri. E ci sono dentro anche i leader di oggi: il premier Silvio Berlusconi e il suo braccio destro Marcello Dell’Utri che, tra il ’93 e il ’94, proprio nei giorni in cui stava nascendo Forza Italia, furono informati, secondo il pentito Giovanni Brusca, di tutti i retroscena delle stragi.

A Berlusconi – ha più volte spiegato Brusca in aula e in una serie d’interrogatori davanti ai pm – la mafia fece arrivare, dopo i primi articoli di giornale che parlavano dei suoi legami con il boss Vittorio Mangano, un messaggio preciso: non ti preoccupare se adesso scrivono di te, intanto i tuoi avversari politici non possono far finta di cadere dalle nuvole, non ti possono tenere sotto schiaffo, perché ci sono di mezzo anche loro; dacci invece una mano per risolvere i nostri problemi altrimenti noi continuiamo con le bombe e finiremo per renderti la vita impossibile.

All’indomani della puntata di “Annozero” in cui l’ex Guardasigilli, Claudio Martelli, ha svelato di essersi opposto al dialogo tra Stato e Antistato e di aver fatto arrivare la notizia della trattativa in corso a Paolo Borsellino (che si mise di traverso e forse anche per questo fu ucciso), la storia oscura di quei giorni insanguinati assomiglia sempre più a quella di un grande ricatto. Un ricatto in cui affonda le sue radici la Seconda Repubblica. In troppi, infatti, sapevano, e in troppi hanno taciuto. La prima parte della vicenda è ormai nota. Borsellino, intorno al 23 giugno del 1992, viene avvertito da una collega del ministero dei colloqui che il colonnello Mario Mori e i capitano Giuseppe De Donno hanno avviato con l’ex sindaco mafioso di Palermo, Vito Ciancimino. Capisce che è in corso un gioco pericoloso. In quel momento parlare con i vertici dell’organizzazione vuol dire convincere Totò Riina che le stragi pagano perché lo Stato è disposto a scendere a patti. Dice di no da subito e per questo il 25 giugno, durante un dibattito pubblico, spiega di aver ormai i giorni contati. Poi incontra Mori e De Donno. E, il primo luglio, vede il nuovo ministro degli Interni, Nicola Mancino (che continua a negare di avergli parlato) e il numero due del Sisde, Bruno Contrada.

Che cosa si dica con loro non è chiaro. Fatto sta che Riina cambia strategia. Evita di uccidere, come programmato, il leader della sinistra Dc siciliana, Lillo Mannino, (considerato un traditore) e fa invece saltare in aria il 19 luglio Borsellino e la scorta. Un attentato reso più semplice dall’assenza di controlli in via D’Amelio, la strada dove viveva sua madre. E da un’incredibile dimenticanza: Borsellino non viene informato dell’esistenza di una relazione dell’Arma che dà per imminente un’azione di Cosa Nostra contro di lui e contro l’allora pm, Antonio Di Pietro.

Se questo è il quadro (Brusca e Massimo Ciancimino, il figlio di Vito, assicurano che Cosa Nostra era al corrente di come il presunto referente governativo della trattativa fosse Mancino), diventa chiaro quanto la notizia fosse politicamente esplosiva. Anche perché pure l’ex comunista Luciano Violante, all’epoca presidente della commissione antimafia, sapeva che i carabineri parlavano con l’ex sindaco mafioso.

È a questo punto che, secondo Brusca, entrano in scena Berlusconi e Dell’Utri. Un anno dopo, intorno al 20 settembre del ‘93, Brusca legge un’articolo su L’Espresso in cui si parla del Cavaliere e di Vittorio Mangano. Riina, che non gli aveva mai parlato di questo legame con la Fininvest, è ormai in carcere. Durante la primavera e l’estate le bombe di mafia sono esplose a Roma, Firenze e Milano. Ma le stragi non sono servite per far ottenere a Cosa Nostra norme meno dure. Così Brusca pensa di utilizzare Mangano per fare arrivare al Cavaliere il suo messaggio. Ne parla con Luchino Bagarella, il cognato di Riina, che dà l’assenso. Verso metà ottobre Mangano parte in missione. A novembre, come risulta da un’agenda sequestrata a Dell’Utri, l’ideatore di Forza Italia lo incontra. Poi i colloqui, mediati secondo il pentito da degli imprenditori delle pulizie di Milano, proseguono almeno fino alle elezioni del marzo ‘94. Il futuro premier è soddisfatto Brusca ricorda: “Mangano mi disse che Berlusconi era rimasto contento”.

Le “trattative” tra Cosa Nostra e pezzi dello stato – parte seconda

Fonte: Le “trattative” tra Cosa Nostra e pezzi dello stato – parte seconda.

Scritto da Martina Di Gianfelice e Federico Elmetti

Gli elementi contraddittori concernenti una presunta trattativa tra Cosa Nostra e pezzi dello Stato a cavallo delle stragi del ’92-’93, sembrano oggi assumere una valenza diversa con l’emergere di nuovi scenari che rivelano l’esistenza di almeno tre distinte trattative datate in periodi differenti.

La presunta “seconda trattativa”

Mentre alcuni dei nomi degli interlocutori e degli obiettivi della “prima trattativa” sono stati individuati dalla magistratura con sentenze definitive, i volti dei protagonisti e i contenuti della presunta “seconda trattativa” sono ancora oggetto di valutazione da parte dell’autorità giudiziaria. Tuttavia dalla sentenza di primo grado con la quale il sen. Marcello Dell’Utri è stato condannato a nove anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa (11 dicembre 2004), dalle dichiarazioni di diversi collaboratori di giustizia e da altre acquisizioni investigative sono emersi numerosi elementi che rimandano ad una possibile convergenza degli interessi di Cosa Nostra con il programma politico del partito “Forza Italia”, presentato ufficialmente da Silvio Berlusconi il 18 gennaio 1994.

E’ un fatto processualmente accertato che Totò Riina, dopo aver rinnegato l’appoggio politico alla DC, rea di non essere stata in grado di fornire le necessarie coperture a livello istituzionale e non aver impedito la buona riuscita del maxiprocesso, abbia spinto Cosa Nostra nel 1987 a votare alle elezioni politiche in massa il PSI nel tentativo non troppo nascosto di agganciare Bettino Craxi, che in quegli anni si era proposto come uno degli esponenti più potenti e carismatici del panorama politico italiano. Allo stesso modo, è noto che questa decisione, per altro non da tutti i mafiosi condivisa, si rivelerà sbagliata. In particolare, il ministro della giustizia di allora, il braccio destro di Craxi, Claudio Martelli, aveva tradito le aspettative di Cosa Nostra portando a Roma Giovanni Falcone. A quel punto, la mafia, in cerca di nuovi referenti politici, vira verso la stagione delle stragi secondo la logica del “fare la guerra per fare la pace”. Dopo le stragi di Capaci e Via D’Amelio, l’obiettivo è stato raggiunto in pieno. Lo stato si è detto disposto a dialogare con Totò Riina. “Si sono fatti sotto”, rivela il capo di Cosa Nostra.


La mafia vota Forza Italia


E’ a quel punto che Cosa Nostra sente la necessità di far valere di nuovo il proprio peso all’interno delle istituzioni. L’idea iniziale è quella di creare un movimento separatista, Sicilia Libera, una nuova forza politica autonoma ad uso e consumo della mafia, gestita da Leoluca Bagarella. Il progetto naufraga quasi subito. Cosa Nostra ha già cambiato idea. Rivela Bagarella: “Ci stiamo orientando verso un’altra direzione che è di più facile realizzazione, mentre un progetto indipendentista passa per anni ed anni di lavoro, noi abbiamo degli agganci”. Siamo nel periodo immediatamente successivo alle stragi di Capaci e Via D’Amelio. Riina è appena stato catturato, il 15 gennaio 1993. Nel continente esplodono bombe in successione, a Roma, Firenze e Milano. Di che agganci politici parla Bagarella? E’ il pentito Tullio Cannella a rivelarlo senza mezzi termini: “Si stavano appoggiando, lo dico con onestà, con Forza Italia, quindi loro avevano dei vari candidati, amici di alcuni esponenti di Cosa Nostra e ciascun candidato con questi loro referenti aveva realizzato una sorta di patto elettorale, una sorta di impegno e quindi votavano per questi, tant’è vero che anche Calvaruso mi disse: ma sai, Giovanni Brusca mi porta in questi posti, riunioni, escono tutto il giorno volantini a tappeto di Forza Italia”.

E’ in questo contesto che riappare, misteriosa, la figura di Vittorio Mangano. Già “stalliere” nella villa di Silvio Berlusconi ad Arcore tra il ’74 e il ’75, Mangano in quel periodo è appena uscito dal carcere ed è tornato a lavorare a pieno regime per Cosa Nostra. Intrattiene contatti stretti sia con Bagarella che con Giovanni Brusca e diviene referente di Cosa Nostra per la zona di Palermo-Centro. Bagarella in realtà non si fida di Mangano, ma allo stesso tempo lo tiene in pugno perché “serve territorialmente e politicamente”. Già nell’estate del ’93, quando ancora non si è sopito l’eco delle bombe, nel quartier generale di Berlusconi si lavora alacremente all’idea di fondare un nuovo partito. Il principale sostenitore della discesa in campo di Berlusconi è proprio Dell’Utri, che la ritiene “assolutamente necessaria”. Fedele Confalonieri e Gianni Letta sono invece contrari.Dopo un periodo di incertezza, Berlusconi decide di dare ancora una volta fiducia a Dell’Utri e gli affida l’incarico di fondare Forza Italia. A quel punto, Provenzano ha deciso: quello è il cavallo di Troia su cui salire per entrare nei gangli vitali delle istituzioni. Spiega il pentito Nino Giuffrè, braccio destro di Bernardo Provenzano: “Noi abbiamo avuto da sempre l’astuzia di metterci sempre con il vincitore, questa è stata la nostra furbizia. Quando ce ne andiamo a metterci con i socialisti già si vede che il discorso non regge. Stesso discorso con Forza Italia. Forza Italia non l’abbiamo fatta salire noi. Il popolo era stufo della Democrazia Cristiana, il popolo era stufo degli uomini politici, unni putieva cchiù, e non ne può più. Allora ha visto in Forza Italia un’ancora a cui afferrarsi e lei con chi parlava parlava e io lo vedevo, le persone tutte, come nuovo, come qualche cosa, come ancora di salvezza. E noi, furbi, abbiamo cercato di prendere al balzo la palla, è giusto? Tutti Forza Italia. E siamo qua”.

La decisione ufficiale di scendere in campo arriva nell’autunno del 1993. Provenzano gioca tutta la sua credibilità all’interno di Cosa Nostra sulla carta Forza Italia. Ancora Giuffrè: “Provenzano stesso ci ha detto che eravamo in buone mani, che ci potevamo fidare. Diciamo che per la prima volta il Provenzano esce allo scoperto, assumendosi in prima persona delle responsabilità ben precise e nel momento in cui lui ci dà queste informazioni e queste sicurezze ci mettiamo in cammino, per portare avanti, all’interno di Cosa Nostra e poi, successivamente, estrinsecarlo all’esterno, il discorso di Forza Italia”.

C’è un altro pentito, Salvatore Cucuzza, che spiega come l’intermediazione tra Cosa Nostra e il partito del duo Dell’Utri-Berlusconi sia stata gestita ancora una volta proprio da Vittorio Mangano. Cucuzza riferisce di aver saputo dallo stesso Mangano che questi si era incontrato “un paio di volte con Dell’Utri” alla fine del ’93. Le date combaciano perfettamente. I due incontri avvengono infatti il 2 e il 30 novembre 1993, come si ricava da due annotazioni rinvenute nelle agende personali di Dell’Utri. Di cosa parlano i due? Lo rivela ancora Cucuzza: “Dell’Utri aveva promesso che si sarebbe attivato per presentare proposte molto favorevoli a Cosa Nostra sul fronte della giustizia, ovvero modifica del 41bis e sbarramento per gli arresti relativi al 416bis”. C’è un ulteriore collaborante, Francesco La Marca, che racconta di un episodio avvenuto nei primi mesi del 1994, quando Berlusconi è già sceso in campo ufficialmente. Mangano, poco prima delle elezioni, su preciso ordine di Bagarella e Brusca, si reca un paio di giorni a Milano per parlare con Dell’Utri. Tornato in Sicilia, Mangano è raggiante: “Tutto a posto! Dobbiamo votare Forza Italia! Così danno qualche possibilità di fatto del 41bis, i sequestri dei beni e per dedicare a noi collaboratori, per ammorbidire la legge”.

Sono proprio le richieste che Totò Riina aveva vergato di suo pugno sul “papello”, destinato poi a Vito Ciancimino perché lo facesse pervenire alle più alte cariche istituzionali, e che aveva come  oggetto dell’accordo una serie di benefici per i mafiosi: revisione del maxiprocesso, l’abolizione del 41 bis, l’annessione dei condannati ex. art. 416 bis c.p. ai benefici per i detenuti previsti dalla “Legge Gozzini”, normative di legge favorevoli agli appartenenti all’organizzazione criminale e garanzie per gli interessi economici, quali appalti e finanziamenti statali, degli stessi.

I contatti tra Provenzano e la Fininvest


A corroborare la tesi secondo cui Provenzano avrebbe instaurato una sorta di trattativa parallela con Dell’Utri, ci sono tre lettere indirizzate tra il ’91 e il ’94 a Berlusconi dal boss corleonese e recuperate nella documentazione sequestrata ai familiari di Vito Ciancimino. A parlarne è stato qualche mese fa Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino. Stando alla testimonianza di Ciancimino jr., la prima lettera fu a questi consegnata prima della trattativa del cd. “papello” da Pino Lipari, amministratore dei beni di Bernardo Provenzano e punto di riferimento per i contatti politici, alla presenza dello stesso boss corleonese nel villino di San Vito Lo Capo di proprietà del Lipari. Le altre due lettere risalirebbero al dicembre ’92 e ad inizio ’94. Il contenuto dell’ultima lettera indirizzata a Berlusconi (ritrovata durante una perquisizione nel 2005) concerne la richiesta, avanzata da Provenzano, di “mettere a disposizione (di Provenzano nda) le sue reti televisive (di Berlusconi nda)”, al fine di scongiurare il “triste evento” dell’uccisione di suo figlio. Il foglio su cui Provenzano ha avanzato questa offerta al futuro Onorevole Berlusconi è stato ritrovato strappato. Quando i magistrati di Palermo lo hanno mostrato a Massimo Ciancimino, questi si è detto preoccupato perché – ha riferito – “si tratta di cose troppo più grandi di me”.

Un altro documento importante al fine dell’accertamento della verità è un assegno, di cui parla sempre Ciancimino jr. dell’importo di 35 milioni firmato da Silvio Berlusconi; Ciancimino fu sorpreso a parlare dell’assegno con la sorella in un’intercettazione telefonica disposta dalla Procura di Palermo che indagava sul riciclaggio del patrimonio di Vito Ciancimino da parte del figlio. Ci sono poi tutta una serie di pagamenti, accertati in sede di giudizio, che pervenivano regolarmente nelle casse di Cosa Nostra dai conti correnti della Fininvest, in parte come riconoscimento per la protezione offerta Cosa Nostra alle antenne di Canale5 installate sul monte Pellegrino a Palermo. Le testimonianze in proposito sono molteplici e concordi. Giovan Battista Ferrante, ritenuto dal Tribunale un collaboratore di giustizia serio ed affidabile, profondo conoscitore delle dinamiche più interne di Cosa Nostra, riferisce che Salvatore Biondino, l’autista personale di Totò Riina, riceveva periodicamente, con cadenza semestrale o annuale, somme di denaro provenienti da Canale5 per tramite di Raffaele Ganci. Lo sa perché in alcune occasioni era presente lui stesso a queste consegne. Ferrante è certo che tutte queste somme di denaro (richieste e non) arrivavano almeno dal 1988 ed erano proseguite almeno fino al 1992. Queste dichiarazioni collimano perfettamente con quelle di un altro pentito, Galliano, che aveva spiegato come Raffaele Ganci, una volta scarcerato nel 1988, aveva ripreso in mano, su ordine di Riina, la situazione relativa ai soldi provenienti da Canale5 per mezzo di Dell’Utri e Cinà.

Esistono addirittura delle agende che testimoniano inconfutabilmente come per esempio nel 1990 Canale5 aveva versato nelle tasche di Cosa Nostra 5.000.000 di lire a titolo di “regalo”. A corroborare la versione dei vari pentiti c’è anche la dichiarazione del boss Galatolo, il quale si lamenta del fatto che fosse l’unico a non percepire somme di denaro da parte di Canale5: questa emittente pagava regolarmente “U cuirtu”, cioè Riina e i Madonia, ma non lui, che pur aveva sotto il suo controllo la zona palermitana di Acquasanta, in cui rientrava anche il monte Pellegrino. Ma c’è un altro pentito eccellente che su questa vicenda ha qualcosa da dire. Si tratta di Salvatore Cancemi. Egli conferma che fino a pochi mesi prima della strage di Capaci (23 maggio 1992) Berlusconi ancora era solito versare somme di denaro a Cosa Nostra per le “faccenda delle antenne”, una sorta di contributo all’organizzazione mafiosa di Totò Riina. Cancemi afferma di essere stato presente varie volte alla consegna di queste somme di denaro presso la macelleria di Raffaele Ganci: le mazzette erano da 50 milioni di lire, legate con un elastico. La somma annuale, secondo Cancemi, era di 200 milioni di lire.


Le rivelazioni di Luigi Ilardo


Dopo la vittoria alle elezioni del neonato partito di Berlusconi, secondo il boss e collaboratore di giustizia Luigi Ilardo “Provenzano ha ottenuto delle promesse dal nuovo apparato politico che ha vinto le elezioni in cambio dei voti ricevuti”. Infatti uno dei primi a parlare nello specifico di questa trattativa fu proprio Luigi Ilardo che rivelò alcune importanti informazioni al colonnello dei carabinieri Michele Riccio, principale accusatore del generale Mario Mori nel procedimento in cui quest’ultimo è imputato assieme al colonnello Mauro Obinu per favoreggiamento aggravato a Bernardo Provenzano. Il generale Mori ed il colonnello Obinu sono accusati di aver agevolato la latitanza di Provenzano non avendo fatto quanto possibile per catturarlo in occasione di un summit mafioso che si tenne il 31 ottobre del 1995 nelle campagne di Mezzojuso (PA) e che fu preannunciato dall’Ilardo al colonnello Riccio. Riguardo alle direttive di voto impartite da Cosa Nostra, il colonnello Riccio racconta di un episodio significativo raccontatogli da Ilardo poco prima di essere assassinato: “Ilardo viene a sapere che c’era stata anche una riunione a Caltanissetta presieduta dai palermitani e, se non ricordo male, i palermitani avevano mandato, così lui mi racconta, un personaggio insospettabile dell’organizzazione, non noto alle forze dell’ordine, dove già erano stata date delle prime nuove linee della strategia evolutiva di governo di Cosa Nostra. (…) Avevano tentato di fare prima un partito per conto loro, ma era fallita questa strategia di fare un loro soggetto politico gestito direttamente da Cosa Nostra. Era fallita e Provenzano aveva stabilito un contatto con un esponente dell’entourage di Berlusconi, di Forza Italia. Per cui c’era l’indirizzo di votare di lì a poco tutti per Forza Italia. Quindi avevano stabilito un contatto con un personaggio dell’entourage di Berlusconi il quale aveva già dato assicurazioni che ci sarebbero state normative giudiziarie a loro più favorevoli e anche aiuti nell’aggiudicazione degli appalti e dei finanziamenti statali. Ovviamente Cosa Nostra doveva raggiungere una sua compattezza unitaria. Infatti la direttiva che allora era stata data è che ogni provincia doveva nominare un unico responsabile provinciale, risolvere i contrasti interni ad ogni famiglia, ritornare a una serie di attività criminali meno esposte, meno violente in modo da ridurre progressivamente la repressione dello stato”.

Chi era quell’uomo insospettabile delle istituzioni? Riccio lo scoprirà più tardi, sempre dalla voce di Ilardo: “Fu un momento fortuito. Questo avvenne già quando non ero più alla Dia. Ilardo venne un giorno in macchina…avevo sempre…come tante mattine prima di incontrare Ilardo prendevo il giornale e se non ricordo male c’era sul giornale un articolo che riguardava problematiche tra Dell’Utri e Rapisarda… per cui dissi: – E’ questo qui…? – E lui: – Ci ha messo tanto a capirlo? Lei lo sapeva già. Perchè me lo chiede? – (…) Quindi io inserii nella mia agenda il nome di Dell’Utri

Martina Di Gianfelice e Federico Elmetti

LINK

a) Le “trattative” tra Cosa Nostra e pezzi dello stato – parte prima (Martina Di Gianfelice, 19luglio1992.com, 3 ottobre 2009)

b) Sentenza di primo grado Dell’Utri-Cinà emessa dalla seconda sezione penale del Tribunale di Palermo presieduta dal dott. Leonardo Guarnotta (11 dicembre 2004)

c) “Marcello, Silvio e la mafia”, il libro curato da Federico Elmetti per la guida alla lettura della sentenza di primo grado Dell’Utri-Cinà  (19luglio1992.com)

mafia berlusconi contatto diretto per costruire il partito di cosa nostra

mafia berlusconi contatto diretto per costruire il partito di cosa nostra.

scritto da Gianni BarbacettoC’è un contatto diretto, nel 1994, tra Silvio Berlusconi,
e un uomo al lavoro per costruire il «partito di Cosa nostra».
È emerso al processo palermitano per mafia contro Dell’Utri

C’è stato un contatto telefonico diretto, nel 1994, agli albori di Forza Italia, tra Silvio Berlusconi e un uomo allora impegnato a costruire
«il partito di Cosa nostra». Lo ha raccontato un consulente della procura di Palermo, Gioacchino Genchi, in una delle udienze del processo in corso nella città siciliana con imputato Marcello Dell’Utri, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa. A telefonare ad Arcore, al numero riservato di Berlusconi, alle ore 18.43 del 4 febbraio 1994, è il principe Domenico Napoleone Orsini.

Esponente dell’aristocrazia nera romana, massone, Orsini è in contatto con il capo della P2 Licio Gelli, che va anche a incontrare a villa Wanda, ad Arezzo. Dopo una gioventù nell’estrema destra neofascista, nei primi anni Novanta Orsini si scopre leghista. Nel novembre 1993 accoglie Umberto Bossi che scende nella Roma ladrona per incontrare i suoi sostenitori nella capitale: si riuniscono nella villa di Trastevere di Gaia Suspisio per una cena e brindisi con Veuve Cliquot, costo politico centomila lire, a cui partecipano, tra gli altri, il giornalista Fabrizio Del Noce, la vedova del fondatore del Tempo Maria Angiolillo e Maria Pia Dell’Utri, moglie di Marcello. Mentre viene servita la crostata di frutta, Bossi si avventura in un comizio di tre quarti d’ora, che si conclude solo quando la brigata si trasferisce al Piper, storica discoteca romana.Orsini si impegna nella Lega Italia federale, articolazione romana della Lega nord. Ma, forte dei contatti con Gelli, lavora per un progetto più ampio: riunire tutti i movimenti «separatisti», tutte le «leghe» nate in quei mesi nel Sud del Paese. Sono per lo più uomini della massoneria a fondare in molte regioni del Sud, dalla Calabria alla Lucania, dalla Puglia alla Sicilia, piccoli gruppi che si ispirano alla Lega di Bossi. I partiti storici, Dc in testa, sono allo sbando, anche per effetto delle inchieste di Mani pulite. Molti lavorano sotto traccia per riempire quel vuoto politico, mentre le stragi del ’92, in cui muoiono Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, e del’93, a Firenze, Roma e Milano, destabilizzano il Paese.

Il principe Orsini è tra i più attivi in quei mesi: contatta i notabili che hanno fondato le «leghe del Sud», li riunisce, si offre come loro candidato unico alle elezioni, proponendo la costituzione di un’unica, grande «Lega meridionale», in rapporti ambivalenti con la Lega di Bossi: contrapposizione polemica, dichiarata riscossa del Sud contro il Nord, ma sostanziale alleanza e convergenza d’intenti, nel comune progetto di spezzare e frantumare l’Italia. Nello stesso periodo, qualcun altro era molto attivo negli stessi ambienti. Lo racconta Tullio Cannella, uomo molto vicino al capo militare di Cosa nostra, Leoluca Bagarella, impegnato nelle stragi: «Sin dal 1990-91 c’era un interesse di Cosa Nostra a creare movimenti separatisti; erano sorti in tutto il Sud movimenti con varie denominazioni, ma tutti con ispirazioni e finalità separatiste. Questi movimenti avevano una contrapposizione “di facciata” con la Lega nord, ma nella sostanza ne condividevano gli obiettivi. Successivamente, sorgono a Catania il movimento Sicilia libera e in altri luoghi del Sud movimenti analoghi. Tutte queste iniziative nascevano dalla volontà di Cosa nostra di “punire i politici una volta amici”, preparando il terreno a movimenti politici che prevedessero il coinvolgimento diretto di uomini della criminalità organizzata o, meglio, legati alla criminalità, ma “presentabili”». È la mafia che si fa partito: dopo aver constatato l’inutilizzabilità della Democrazia cristiana, che aveva lasciato diventare definitive le condanne al maxiprocesso di Palermo, Totò Riina e i suoi cercano figure «presentabili» per varare in proprio una nuova forza politica.

«Nell’ottobre 1993», continua Cannella, «su incarico di Bagarella costituii a Palermo il movimento Sicilia libera», che apre una sede in via Nicolò Gallo e ha tra i suoi animatori, oltre allo stesso Cannella, anche Vincenzo La Bua. A Catania era nata la Lega Sicilia libera, controllata da Nando Platania e Nino Strano. Programma: la separazione dall’Italia della Sicilia, che doveva diventare «la Singapore del Mediterraneo», con conseguente possibilità di varare leggi più favorevoli a Cosa nostra, bloccare i «pentiti», annullare l’articolo 41 bis dell’ordinamento carcerario che aveva introdotto il carcere duro per i mafiosi, formare in Sicilia una autonoma Corte di cassazione…

I fondatori di «cosa nuova»
Agli uomini di Cosa nostra non sfugge fin dall’inizio che questo progetto è ambizioso e di difficile realizzazione. Per questo si lasciano aperta un’altra possibilità: cercare rapporti e offrire sostegno a nuove forze politiche nazionali che stanno nascendo sulle rovine del vecchio sistema dei partiti. «Le due strategie già coesistevano», racconta Cannella, «e lo stesso Bagarella sapeva della prossima “discesa in campo” di Silvio Berlusconi».

È Forza Italia, dunque, la carta di riserva di Cosa nostra. I suoi uomini sono informati in anticipo, attraverso canali privilegiati, dei programmi di Forza Italia. Li conoscono addirittura prima che il nome Forza Italia sia lanciato da Berlusconi sul mercato della politica. Prosegue infatti Cannella: «Bagarella, tuttavia, non intendeva rinunciare al programma separatista, perché non voleva ripetere “l’errore” di suo cognato (Riina, ndr), cioè dare troppa fiducia ai politici, e voleva, quindi, conservarsi la carta di un movimento politico in cui Cosa nostra fosse presente in prima persona. Inoltre, va detto che vi era un’ampia convergenza tra i progetti, per come si andavano delineando, del nuovo movimento politico capeggiato da Berlusconi e quelli dei movimenti separatisti. Si pensi Si pensi al progetto di fare della Sicilia un porto franco, che era un impegno dei movimenti separatisti e un impegno dei siciliani aderenti a Forza Italia. Si pensi ancora che, all’inizio del 1994, da esponenti della Lega nord (Tempesta, Marchioni e il principe Orsini), con i quali avevo avuto diretti contatti, ero stato notiziato dell’esistenza di trattative fra Bossi e Berlusconi per un apparentamento elettorale e per un futuro accordo di governo che prevedeva, fra l’altro, il federalismo tra gli obiettivi primari da perseguire. Marchioni mi aveva riferito che un parlamentare della Lega nord, questore del Senato, aveva confermato che il futuro movimento, che avrebbe poi preso il nome di Forza Italia, aveva sposato in pieno la tesi federalista».

Giovanni Marchioni, un imprenditore vicino alla Lega Italia federale, l’articolazione romana della Lega nord, ha confermato che i promotori delle «leghe del Sud» si sono riuniti a Lamezia Terme. Erano presenti, tra gli altri, La Bua e Strano per Sicilia libera, oltre ai rappresentanti di Calabria libera, Lucania libera e Campania libera. In questa occasione il principe Orsini si propone come candidato unico del futuro raggruppamento di tutte quelle organizzazioni. Orsini conferma tutto ai magistrati palermitani e ammette «di avere chiaramente intuito il tipo di interessi che Sicilia libera intendeva tutelare», scrivono i magistrati di Palermo, «specialmente dopo che Cannella gli disse esplicitamente che “occorreva tenere un discorso all’Ucciardone per poi perorare la causa del noto 41 bis dell’ordinamento penitenziario”».

Già verso la fine del 1993, comunque, un boss di Cosa nostra impegnato in prima persona nella strategia delle stragi avverte Cannella che quella del movimento separatista non è l’unica via: «Nel corso di un incontro con Filippo Graviano, questi, facendo riferimento al movimento Sicilia libera di cui ero notoriamente promotore, mi disse testualmente: “Ti sei messo in politica, ma perché non lasci stare, visto che c’è chi si cura i politici… Ci sono io che ho rapporti ad alti livelli e ben presto verranno risolti i problemi che ci danno i pentiti». Graviano e, nell’ombra, Bernardo Provenzano, nei mesi seguenti constatano che la strada separatista non è percorribile. È in questo clima che si intrecciano rapporti frenetici tra esponenti delle «leghe» e uomini di Forza Italia.

Gioacchino Genchi è un poliziotto esperto in analisi dei traffici telefonici. Da tempo è in aspettativa dalla Polizia e dal suo ufficio di Palermo pieno di computer svolge il ruolo di consulente per diverse procure italiane. Per quella di Palermo ha analizzato, con i suoi programmi e i suoi data base, i flussi telefonici dei protagonisti della stagione di Sicilia libera. Scoprendo nei tabulati della Telecom e degli altri gestori telefonici una serie di contatti insospettabili.

Quel 4 febbraio 1994
Il giorno chiave è il 4 febbraio 1994. Il principe Orsini alle 10.50 telefona a Stefano Tempesta, esponente leghista vicino a Sicilia libera. Nel primo pomeriggio, alle 15.55, raggiunge al telefono Cannella, l’inviato di Bagarella nella politica. Subito dopo, alle 16.14, chiama la sede di Sicilia libera a Palermo. Alle 18.43 chiama Arcore: il numero è quello riservato a cui risponde Silvio Berlusconi. Immediatamente dopo chiama Marcello Dell’Utri. Alle 19.01 telefona di nuovo a Tempesta, che raggiunge ancora alle 19.20. Nei giorni successivi i contatti di Orsini continuano. Il 7 febbraio 1994, alle 17.34, chiama Sicilia libera. Il giorno dopo parla due volte con Dell’Utri. Il 10 febbraio alle 13.26 telefona a Cesare Previti. Il 14 febbraio contatta ancora Dell’Utri e, alle 16.04, Vittorio Sgarbi.

L’analisi al computer dei tabulati di migliaia di telefonate, naturalmente, non può far conoscere i contenuti dei contatti. Ma rivela i rapporti, le connessioni. Un deputato regionale siciliano dell’Udc, Salvatore Cintola, per esempio, nel periodo tra il 9 ottobre 1993 e il 10 febbraio 1994 chiama 96 volte il cellulare di Tullio Cannella, l’uomo di Sicilia libera. In quei mesi cruciali a cavallo tra il ’93 e il ’94 sono molti i contatti tra la sede di Sicilia libera e i numeri della Lega nord, a Roma, a Verona, a Belluno. Poi, quando l’opzione «leghista» tramonta, crescono i rapporti telefonici con uomini di Forza Italia. Gianfranco Micciché, Gaspare Giudice, Pippo Fallica, Salvatore La Porta. E Giovanni Lalia, che di Forza Italia siciliana è uno dei fondatori. È lui che dà vita al club forzista di Misilmeri, che anima il gruppo che si riunisce all’Hotel San Paolo di Palermo, formalmente posseduto dal costruttore Gianni Ienna, ma considerato dagli investigatori proprietà dei Graviano e per questo confiscato. È sempre lui, Lalia, che cede il suo cellulare a mafiosi di Misilmeri, il giro di Giovanni Tubato (poi ucciso) e Stefano Benigno (cugino di Lalia, in seguito condannato per le stragi del ’93).

Le analisi dei traffici telefonici mettono in risalto anche gli intensi rapporti tra Marcello Dell’Utri e un gruppo di imprenditori siciliani attivi a Milano nel settore delle pulizie, capitanati da Natale Sartori e Antonino Currò, arrestati poi nel 1998 a Milano. Il gruppo di Sartori e Currò era a sua volta in strettissimi rapporti con il mafioso Vittorio Mangano, un tempo «stalliere» nella villa di Berlusconi ad Arcore. Un capomafia del peso di Giovanni Brusca ha testimoniato a Palermo che il tramite tra Berlusconi e Cosa nostra, a Milano, sarebbe proprio «un imprenditore nel settore delle pulizie». Chissà, si sono chiesti gli investigatori del caso Sartori-Currò, se ha a che fare con i nostri eroi.
Ma per ora quell’imprenditore – ammesso che esista – è rimasto senza volto e senza nome.

Restano soltanto i fili sottili dei rapporti intrecciati, nel momento forse più drammatico della storia italiana del dopoguerra,
tra gli uomini di Cosa nostra, i promotori delle leghe, i fondatori di Forza Italia.
Che questi contatti ci siano stati è ormai certo.
Che cosa si siano detti, quali trattative, quali eventuali promesse si siano fatti non è invece ancora dato di sapere con certezza. Il momento fondativo della cosiddetta Seconda Repubblica resta avvolto nel mistero.

Diario, 21 marzo 2003

Verbo violare, participio presente

Verbo violare, participio presente – da voglioscendere

Signornò
da l’Espresso in edicola

Dieci anni fa, terrorizzati dalle prime dichiarazioni dei pentiti sui mandanti esterni delle stragi e sulle trattative Stato-mafia, centrodestra e centrosinistra smantellarono la legge sui pentiti: drastica riduzione degli incentivi e tempo massimo di sei mesi per raccontare tutto. “Basta dichiarazioni a rate, i mafiosi dicano tutto subito”, cantavano in coro berluscones e progressisti sdegnati per la “memoria a orologeria” dei collaboranti. La legge passò a maggioranza bulgara in entrambe le Camere, presiedute da Nicola Mancino e Luciano Violante. Risultato: non si pentì quasi più nessuno, anzi molti si pentirono di essersi pentiti. Ora si scopre che, per quanto lenti a ricordare, questi erano fulmini di guerra a confronto di certi politici. Tipo Mancino e Violante.

Mancino, vicepresidente del Csm, seguita a contraddirsi sul presunto incontro con Paolo Borsellino il 1° luglio ‘92 (annotato nel diario del giudice, assassinato due settimane dopo): ora lo esclude, ora non lo ricorda, ora lo riduce a fugace stretta di mano, ora – almeno a sentire Giuseppe Ayala, altra memoria a orologeria – lo conferma. Intanto, 17 anni dopo, rammenta di avere respinto possibili trattative con la mafia (senza spiegare chi gliele prospettò e perché non le denunciò). Poi fa marcia indietro. Ma Violante lo supera. L’ex campione dell’antimafia progressista – tomo tomo cacchio cacchio, direbbe Totò – si presenta alla Procura di Palermo per rivelare con 17 anni di ritardo che, dopo Capaci e via d’Amelio, il colonnello Mario Mori, allora vicecapo del Ros, gli propose di incontrare l’ex sindaco mafioso Vito Ciancimino, intermediario di una trattativa fra i carabinieri e il duo Riina-Provenzano. Rivelazione più spintanea che spontanea: il Corriere ha appena informato che Massimo Ciancimino, figlio di don Vito, ha raccontato ai pm che suo padre chiese una “copertura politica totale” alla trattativa: da Mancino per il governo e da Violante per la sinistra. Violante dice di aver rifiutato il faccia a faccia e di aver chiesto a Mori se avesse informato la Procura. Ma, alla risposta negativa (“è cosa politica”), si guardò bene dal farlo lui.

E dire che a Palermo stava arrivando il suo amico Caselli, lasciato all’oscuro di tutto. E dire che Violante presiedeva l’Antimafia, competente sulle “cose politiche” di mafia, con i poteri della magistratura. E dire che nel ’93 Caselli interrogò Ciancimino sui suoi rapporti con l’Arma. E dire che nel ’96 Giovanni Brusca, al processo sulle stragi, svelò la trattativa Riina-Ciancimino-Ros con tanto di “papello”. E dire che Mori fu imputato di favoreggiamento mafioso per non aver perquisito il covo di Riina (assoluzione) e non aver catturato Provenzano nel ‘96 (processo in corso). Le rivelazioni di Violante sarebbero state molto utili, in quei processi. Ma Violante taceva e faceva carriera, anche a colpi di antimafia. Se i pentiti devono “dire tutto subito”, Violante ha impiegato 17 anni per ritrovare la memoria. Non è mica pentito, lui.

Paolo Franceschetti: LE TRATTATIVE TRA STATO E MAFIA E LA FAVOLA DI BIANCANEVE

Paolo Franceschetti: LE TRATTATIVE TRA STATO E MAFIA E LA FAVOLA DI BIANCANEVE.

Di Solange Manfredi

A 17 anni di distanza si torna a parlare delle c.d. Trattative che, tra il ’92 e il ’93, vi sarebbero state tra stato e mafia.

Quotidiani gli articoli di giornale sulle testimonianze di protagonisti di quegli anni che pare, solo ora, abbiano recuperato la memoria o, cosa ancora più grave soprattutto per quanto riguarda i soggetti istituzionali, solo ora abbiano deciso di parlare e mettere al corrente la magistratura di quanto a loro conoscenza sulla grave vicenda.

Speriamo che nuovi processi possano far chiarezza su quelle trattative che, nelle ricostruzioni delle precedenti sentenze, presentavano diversi punti irrisolti.
Vediamo quali.

MORI-CIANCIMINO

Secondo le sentenze che si sono occupate del periodo stragista del ’92-’93, tra l’agosto e il dicembre 1992 vi sarebbe stata una sorta di Trattativa tra Stato e mafia che vedeva: da un lato il Generale Mori e il cap. De Donno del Ros; dall’altro Vito Ciancimino e Antonino Cinà.

Dopo i primi contatti con Cinà: “…il Ciancimino – si legge negli appunti dello stesso Vito– avrebbe realizzato che non c’erano margini per alcuna trattativa, alla quale, tra l’altro, neppure “l’ambasciatore” aveva dimostrato vero interesse, per cui decise – come da sua annotazione testuale – di “passare il Rubicone”, ovvero intraprendere una reale collaborazione con i carabinieri, proponendo di infiltrarsi nell’organizzazione per conto dello Stato, intenzione che esplicitò ai nominati Mori e De Donno nel corso di un successivo incontro avvenuto a dicembre 1992, chiedendo in cambio che i suoi processi “tutti inventati” si concludessero con esito a lui favorevole ed il rilascio del passaporto” (sentenza Mori – Capitano Ultimo sulla mancata perquisizione al covo di Riina).

Immediatamente dopo questa proposta di collaborazione, ovvero il 19 dicembre 1992, Vito Ciancimino è stato arrestato.

All’udienza del 24 gennaio 1998 (processo di Firenze sulla strage dei Georgofili), escusso come testimone, il Generale Mori ha affermato: “Ciancimino non ha dato nessun contributo alla cattura di Riina, la vicenda dopo fu del tutto diversa. Ma il mio parere è che se fossero proseguiti i rapporti, lui Riina ce lo avrebbe fatto prendere davvero!2”

Problemi irrisolti.

1. Perchè Vito Ciancimino viene arrestato proprio nel momento in cui decide di voler collaborare con il ROS? La sua condanna non era ancora definitiva, perchè dunque? Chi decise quell’arresto e con quale motivazione? Possibile che sia stato improvvisamente ravvisato un pericolo di fuga? Non è possibile, invece, che Ciancimino sia stato arrestato proprio perchè aveva deciso di collaborare? Perchè questo intempestivo arresto è stato considerato irrilevante? Perché la sentenza ha lasciato aperto un interrogativo di questo tipo?

2. Cosa intendeva dire il Generale Mori quando, escusso come teste al processo di Firenze, ha afferma che se Ciancimino non fosse stato arrestato: Riina ce lo avrebbe fatto prendere davvero? Questa affermazione ha qualcosa a che vedere con l’anomalo arresto di Riina e con l’ancor più anomala mancata perquisizione del covo ove era latitante il boss di Corleone? Ed è possibile che i processi che hanno visto, e vedono, il gen. Mori imputato di favoreggiamento a Cosa nostra siano, come afferma il suo avvocato, un tentativo di linciaggio morale nei confronti di chi ha saputo mantenere la schiena dritta?

BELLINI-GIOE’

Nella sentenza sulla strage dei Georgofili viene presa in esame anche la trattativa Bellini-Gioè, svoltasi nello stesso periodo della trattativa tra Mori e Ciancimino.

Paolo Bellini, contattato nel 1992 dal mar.llo Tempesta del Nucleo Tutela Patrimonio Artistico dell’Arma dei Carabinieri perché si interessasse al recupero di alcuni quadri rubati alla Pinacoteca di Modena, ha testimoniato di aver girato la richiesta al suo amico Gioè, conosciuto nel 1981 mentre si trovava ristretto nel carcere di Sciacca sotto falso nome (impossibile identificarlo con certezza perchè le sue impronte digitali erano sparite dagli archivi), si faceva chiamare Roberto De Silva (???).

Gioè gli avrebbe detto che per i quadri della pinacoteca di Modena non si poteva fare nulla, ma che avrebbe potuto fargli recuperare opere molto più importanti. In cambio chiedeva l’ammissione in ospedali, o agli arresti domiciliari per causa malattia, di alcuni detenuti tra cui: Luciano Leggio, Pippò Calò, Brusca (il padre di Giovanni).

Bellini ha raccontato anche che Gioè gli fece capire che la mafia aveva intenzione di attentare al patrimonio artistico dello stato: “che ne direste se una mattina non trovaste più la torre di Pisa?” (sentenza sulla strage dei Georgofili).

Antonino Gioè non può confermare quanto raccontato da Bellini visto che è morto, presumibilmente suicida, nel carcere di Rebibbia il 29 luglio 1993 (Su questo suicidio, nel corso del processo, gli avvocati della difesa hanno sollevato molti dubbi. Ufficialmente Gioè si sarebbe ucciso perché’ aveva parlato troppo al telefono e, saputo delle intercettazioni e temendo una vendetta di Riina, prima di impiccarsi, in un estremo tentativo di salvare la faccia, avrebbe scritto una lettera cercando di farsi passare per pazzo).

Il mar.llo Tempesta ha testimoniato che, verso il 28-29 agosto 1992, andò dal gen. Mori e gli spiegò la situazione, parlandogli di Bellini, di Gioè e dei discorsi fatti sui monumenti e sulla Torre di Pisa.

Se queste sono le testimonianze, sostanzialmente coincidenti, di Bellini e Tempesta, diverse sono le versioni del Generale Mori e di Brusca.

Il generale Mori ha testimoniato che non ricorda che Tempesta gli parlò della possibilità di recuperare opere d’arte attraverso il Bellini, né che le agevolazioni carcerarie per i cinque mafiosi potessero costituire la contropartita di un recupero di opere d’arte, né tanto meno che Tempesta gli parlò di progetti criminosi eclatanti contro il patrimonio artistico della nazione (in riferimento alla Torre di Pisa Mori afferma: “sono portato ad escluderlo, è un fatto così enorme che me ne sarei ricordato”).

Brusca, invece, ha dichiarato addirittura che l’idea di colpire i monumenti artisti della penisola fu suggerita a Cosa Nostra proprio da Bellini, considerato dai mafiosi un uomo dei servizi segreti.

Brusca riferisce anche che Bellini avrebbe motivato tale idea affermando che in quel periodo era Presidente del Senato Spadolini, persona molto sensibile a queste cose. Per uno strano caso del destino il 27 maggio 1993 un’autobomba esplodeva a Firenze in via della Lambertesca e, tra gli appartamenti devastati dall’esplosione, vi era anche la sede dell’Accademia dei Georgofili, centro studi di cui all’epoca faceva parte, guarda caso, proprio il Presidente Spadolini.

Problemi irrisolti.

1. Paolo Bellini, personaggio “particolare” indicato da più fonti (diverse da Brusca) come persona legata ai servizi segreti sin dal 1970, è un ex estremista di destra imputato, e poi prosciolto, per falsa testimonianza e concorso nella strage di Bologna che, arrestato, nel 1999, ha confessato più di 10 omicidi. Perchè non è stato ritenuto rilevante approfondire la storia criminale di Paolo Bellini, anche al fine di valutarne la sua attendibilità?

2. Se Brusca, collaboratore di giustizia, è stato ritenuto credibile dalla Corte, perché non approfondire le sue gravissime dichiarazioni riguardo Paolo Bellini, dichiarazioni peraltro coincidenti con quelle di un altro collaboratore di giustizia, Tony Calvaruso?

DELFINO-DI MAGGIO

L’08 gennaio 1993, secondo quanto riportato nelle sentenze, i carabinieri captarono casualmente (?????????????) una conversazione che li indusse a sospettare (?????????) fosse in atto un traffico di stupefacenti e, vista la possibile fragranza di reato, intervennero.

Nel locale perquisito nessuna traccia di droga, ma trovarono tal Balduccio di Maggio in possesso di un giubbotto antiproiettile e di una pistola. Il Di Maggio era incensurato, e l’accusa era lieve, eppure, portato in caserma, si era mostra agitato e aveva chiesto di poter parlare con l’ufficiale più alto in grado, sostenendo di avere informazioni importanti su Riina.

Da pochi mesi (dal 06.09.1992) il comando della regione Piemonte e Valle D’Aosta era stato assunto dal Generale Francesco Delfino (attualmente sotto processo a Brescia con l’accusa di concorso in strage) che, avvertito della richiesta, si era precipitato nella notte e raccoglie le spontanee dichiarazioni del Di Maggio.

Di Maggio ha affermato di non conoscere il gen. Delfino e sicuramente è così, vi è però da da segnalare che: “il 28 o 29 giugno del 1989, proprio quando prestava servizio in Sicilia come vice comandante della Regiona Palermo, Delfino aveva diretto un’operazione nel territorio di San Giuseppe Iato, contrada Ginestra. L’operazione aveva lo scopo di localizzare e perquisire una grande e lussuosa villa in costruzione che, fonte confidenziale, aveva indicato come di proprietà di tale Baldassare Di Maggio, autista per il Riina, e presso la quale poteva trovarsi ospitato il boss di Corleone. La perquisizione, però, aveva dato esito negativo e al Di Maggio furono in seguito notificati solo verbali di accertamento di violazioni di tipo edilizio” (sentenza Mori -Cap. Ultimo).

Giunto a Palermo il pentito Di Maggio, preso in carico dai Ros, aveva indicato la “zona” presso la quale si sarebbe dovuto trovare Riina (affermando di non conoscere l’esatta ubicazione).

Il 15 gennaio 1993 Riina, venne arrestato presso un’area di servizio poco distante dal suo “covo”. Il luogo di latitanza del boss di Corleone, poi, non venne perquisito, né tenuto sotto osservazione, per giorni permettendo a Cosa Nostra di far sparire qualsiasi prova.

Per questa “collaborazione” Di Maggio ha ricevuto dallo stato italiano, 500 milioni di lire. Alcuni imputati del processo di Firenze (Francesco Giuliano e Cosimo Lo Nigro), che si sono dichiarati innocenti, hanno affermano che in carcere sono stati promessi loro soldi se si autoaccusavano e accusavano altre persone delle stragi.

Problemi irrisolti.

1. Per Riina: “La storia di Balduccio Di Maggio fu soltanto uno specchietto per le allodole, è chiaro. Il mio arresto fu pilotato dall’alto. Ma da chi?”.

2. Anche per Brusca la storia del pentimento Di Maggio sarebbe stata solo una copertura perchè, sostiene il pentito, Di Maggio era perfettamente a conoscenza del luogo ove si nascondeva di Riina ma: “aveva fatto un patto sotto banco con i carabinieri per far arrestare Riina in mezzo alla strada e per non individuarne la casa“(processo sulla strage dei Georgofili, udienza 15 maggio 1993). Perchè anche quest’affermazione di Brusca, ricordiamo collaboratore di giustizia e, pertanto, ritenuto credibile dalla Corte, non viene approfondita?

3. Per Brusca l’arresto di Riina si deve, in realtà, all’attività del M.llo Lombardo (apparentemente suicidatosi nel cortile dei ROS di Palermo il 04/03/1995) e alle informazioni del suo confidente Brugnano (ucciso il 26/02/1995). Secondo la stampa il mar.llo Lombardo, accusato di collusione con Cosa Nostra, si si sarebbe suicidato per la vergogna. Ad accusarlo falsamente era stato Angelo Siino, guarda caso, un uomo molto vicino a Balduccio Di Maggio. Perchè anche questo interrogativo viene lasciato senza risposta? Perchè la morte del m.llo Lombardo è stata frettolosamente archiviata come suicidio, pur presentando forti anomalie non ultima quella della sparizione, dopo la sua morte, di tutti i suoi appunti?

CONCLUSIONI


Questi i punti irrisolti lasciati dai precedenti processi. Punti non da poco. Punti che se approfonditi, forse, avrebbero potuto permettere una lettura completamente diversa di quanto successo in quel periodo.

Speriamo allora che le indagini in corso facciano un po’ di luce e (finalmente) ci spieghino perché Ciancimino, quando finalmente decide di collaborare col ROS, viene arrestato.

Speriamo che ci spieghino cosa voleva dire Mori quando ha affermato che se il rapporto con Ciancimino fosse continuato Riina lo avrebbero preso per davvero.

Speriamo, inoltre, che si faccia luce su quanto affermato da Brusca, e cioè che Di Maggio avrebbe fatto un accordo sottobanco con i carabinieri per far prendere il boss di Corleone lontano dal suo covo, (dichiarazione che non può non richiamare alla memoria il fatto che, subito dopo l’arresto di Riina, fu proprio un comunicato stampa rilasciato dai Carabinieri a “bruciare” il covo, impedendo così al Ros di proseguire in sicurezza l’osservazione dei luoghi).

Speriamo che si faccia luce anche sulla figura di Bellini, e sulle dichiarazioni che lo indicano come uomo dei servizi che aveva “suggerito” a cosa Nostra gli attentati da fare.

Speriamo, infine, che si faccia luce sulle contraddizioni insanabili che sono emerse fino a qui.

Le contraddizioni di una mafia che farebbe degli attentati per costringere lo Stato a trattare però, contemporaneamente, cercherebbe di depistare rivendicando le stragi con la sigla “Falange Armata”, senza che nessuno si preoccupi di capire da dove nasce la sigla, chi c’è dietro, chi l’ha consigliata, ecc…

Perchè chissà, magari se si fossero approfonditi i punti su elencati, si sarebbe scoperto che:

– Ciancimino era stato arrestato proprio per impedirgli di collaborare con il gen. Mori;

– Bellini era stato infiltrato dai servizi per “suggerire” a cosa nostra, braccio armato di qualche potere occulto, cosa colpire;

-Riina, ormai “bruciato” dalle indagini del m.llo Lombardo e ritenuto dall’organizzazione “sacrificabile”, grazie al “suggerito” pentimento di Di Maggio, era stato volutamente arrestato lontano dal suo covo, per impedire che la documentazione che teneva nell’abitazione venisse scoperta e sequestrata dalla magistratura;

– L’omicidio del m.llo Lombardo, persona scomoda perchè a conoscenza della verità e non corruttibile, era stato “preparato” grazie al “suggerito” pentimento di Siino, uomo molto vicino a Di Maggio che, accusandolo falsamente di collusione con Cosa Nostra, aveva permesso di preconfezionare la menzogna del suicidio per vergogna.

Magari, approfondendo i punti che abbiamo indicato, si sarebbe scritta una storia completamente diversa, la storia di un “sistema criminale” di cui la mafia era solo il braccio armato. Ma queste sono solo ipotesi.

Ora, a 17 anni di distanza, si torna a parlare di quel periodo, si parla di servizi segreti, di innocenti in carcere, di “pentiti” patacca, e si delinea un’altra verità processuale.

A noi non resta che aspettare l’esito delle indagini e dei processi, non ci resta che aspettare un nuovo capitolo (sentenza) di questa dolorosa vicenda, nella speranza che, la verità processuale che ne scaturirà, (depistaggi permettendo) possa apparire, una volta tanto, più credibile della favola di biancaneve e i sette nani.

Chi uccise il giudice Borsellino?

Chi uccise il giudice Borsellino?.



Scritto da Miguel Mora (
EL PAIS, 19 luglio 2009), Traduzione a cura di Valentina Culcasi

Il “capo” Totò Riina rompe 17 anni di silenzio dal carcere e conferma i sospetti sui servizi segreti.

Roma – Il 19 luglio del 1992, il giudice antimafia Paolo Borsellino fu assassinato insieme a cinque uomini della scorta con un’autobomba caricata con 100 chili di dinamite. La bomba esplose in via Mariano D’ amelio a Palermo, quando il magistrato stava andando a visitare sua madre. Due mesi prima, e solo alcuni giorni dopo l’assassinio del suo amico e collega Giovanni Falcone, Borsellino aveva parlato in una intervista alla Rai delle relazioni tra Cosa Nostra e alcuni industriali di Milano, citando i nomi di Marcello Dell’ Utri, condannato in seguito per associazione mafiosa, e Silvio Berlusconi, capo e socio politico del precedente.
Adesso, 17 anni dopo la sua morte, i magistrati siciliani hanno riaperto il caso dopo il ritrovamento di documenti e testimoni che indicano che la mafia eseguì la strage in alleanza con i servizi segreti.

Il capo dei capi, Totò Riina, detenuto nel carcere di Opera (Toscana) e condannato all’ergastolo per, tra gli altri, l’omicidio di Falcone e Borsellino, ha appena rotto un silenzio di 17 anni e ha confermato questa versione. Informato dai giornali della nuova direzione delle indagini giudiziarie, il padrino di Corleone sabato ha detto con foga al suo avvocato la sua verità: “Lo uccisero loro”, ha affermato. E ha aggiunto: “Non guardate sempre e solo a me, guardatevi anche voi quello che avete dentro”.

Nella traduzione del suo avvocato, Luca Cianferoni, Riina afferma che l’uccisione di Borsellino fu un crimine di Stato. L’affermazione rafforza i sospetti delle procure di Caltanissetta e Palermo, che hanno riaperto un’indagine che sembrava sepolta grazie alle rivelazioni di due nuovi pentiti, Giovanni Brusca e, soprattutto, Massimo Ciancimino.

Il secondo è il figlio del capo defunto e detenuto don Vito Ciancimino, un corleonese che fu sindaco demoscristiano (corrente andreottiana) di Palermo negli anni settanta, e che, stando a quanto ha rivelato il recente libro Vaticano S.P.A., del giornalista Gianluigi Nuzzi, riceveva denaro dalla mafia tramite l’Istituto per le Opere di Religione (IOR), la banca vaticana.

Durante il suo mandato, Don Vito costruì una Palermo di sana pianta e si portò nella tomba un tesoro di milioni di euro. Accusato di riciclaggio di questa fortuna, Ciancimino junior ha tentato di cavarsela confessando l’origine di alcuni documenti cruciali che custodiva suo padre.

In uno di questi, che risulta strappato nella sua metà superiore, Cosa Nostra minacciava Silvio Berlusconi “con un luttuoso evento” (il sequestro di uno dei suoi figli) se non avesse messo a disposizione un canale televisivo che curasse i suoi interessi. Secondo Ciancimino, la nota fu scritta dal capo Bernardo Provenzano, sebbene egli l’avesse vista intera e non strappata: “In questa storia c’è qualcosa più grande di me” ha detto, aggiungendo che Provenzano inviò a Berlusconi altre due lettere, tramite suo padre e Dell’ Utri.

Altro del contenuto dei documenti, che Ciancimino attribuisce allo stesso Riina, proverebbe che l’omicidio di Borsellino fu conseguenza di una trattativa tra la mafia e due capi dei servizi segreti.

Riina, con la credibilità che si può dare al mafioso più spietato e sanguinoso della storia, non ha tardato neppure 48 ore per apparire in scena: ha negato che fosse lui colui che trattò con lo Stato, però ha detto che questa trattativa ci fu e che i negoziatori furono gli assassini.

Anche i fratelli del giudice Borsellino credono a questa versione, che è sempre stata qualcosa simile a un segreto aperto. Sabato, Rita e Salvatore Borsellino hanno diretto una manifestazione di protesta che è terminata di fronte al Castello Utveggio, sede palermitana dei servizi segreti.

“Oggi, finalmente, dopo anni oscuri la lotta che stanno facendo le procure di Caltanissetta e Palermo va finalmente nella giusta direzione”, ha detto Salvatore Borsellino.

Al grido di “Resistenza, l’agenda rossa esiste”, circa 300 persone hanno preteso che compaia l’agenda rossa di Paolo Borsellino. L’agenda conteneva quello che il giudice sapeva. Si ritiene che fu raccolta da un carabiniere il giorno della strage. Nessuno ha avuto più notizie di entrambi da allora.

Rita Borsellino, eurodeputata per il Partito Democratico, si domanda perchè tutte queste piste vengano alla luce 17 anni dopo. “Ho molti dubbi, però non accuso nessuno”, dice.

Si conoscerà un giorno la verità, o le verità? Questa domenica la manifestazione dell’anniversario è stata rivelatrice. È venuta a fatica qualche persona, e non si è visto un solo politico nazionale. L’unico rappresentante dello Stato è stato il procuratore antimafia, Piero Grasso. E il lavoro non gli manca. Il pentito Ciancimino ha dichiarato in televisione: “Ho paura, certo che ho paura. Ogni volta che parlo, Riina esce dal suo nascondiglio”.

Verrà un giorno: Il senso delle parole

Sempre ben argomentate le analisi del blog “Verrà un giorno”.

Verrà un giorno: Il senso delle parole.

Questa storia sta assumendo contorni sempre più grotteschi. Parlo dell’affaire Mancino e di tutta quella ridda di dichiarazioni, smentite, aperture, indietreggiamenti, rivelazioni, ritrattazioni, ricordi, dimenticanze, verità (poche), bugie (tante), quei non so, non sapevo, non potevo sapere e anche se avessi saputo non ricordo. Qualcosa che puzza tremendamente di marcio e che vorrei provare a ricostruire dati alla mano. Sono due le questioni che agitano i sonni del vicepresidente del Csm. La presunta trattativa tra stato e mafia e quell’ormai famigerato incontro fantasma con Paolo Borsellino il 1 luglio 1992.

Partiamo dalla trattativa. Tutto nasce dalle dichiarazioni che il figlio di Vito Ciancimino sta rilasciando da mesi ai magistrati inquirenti. Massimo Ciancimino ha rivelato che il padre fu avvicinato da esponenti di Cosa Nostra per conto di Totò Riina che voleva far pervenire ai piani più alti delle Istituzioni le sue richieste indecenti, vergate di proprio pugno sul famoso “papello”. Vito Ciancimino a quel tempo aveva intrapreso delle relazioni delicate con le forze dell’ordine, che volevano a tutti i costi arrivare, grazie alle sue conoscenze, alla cattura di qualche pezzo grosso di Cosa Nostra. In particolare, erano stati il colonnello Mario Mori e il tenente Giuseppe De Donno ad avviare i primi contatti col sindaco mafioso di Palermo. Questo è stato ormai accertato. Il punto è che Massimo Ciancimino rivela per la prima volta che Riina non si accontentava di questi contatti. Voleva avere l’assicurazione che i piani alti delle istituzioni fossero a conoscenza della trattativa e in qualche modo la legittimassero. Massimo Ciancimino fa il nome di Nicola Mancino, allora ministro dell’Interno, che avrebbe dato l’ok per trattare con Cosa Nostra.

Come si difende Mancino da queste accuse?

La sua prima dichiarazione è di rifiuto assoluto: ”

Escludo in maniera netta e categorica che lo Stato abbia trattato con esponenti della mafia: nessuno dei vertici delle forze di polizia me ne parlò, né chiese il mio parere, che sarebbe stato decisamente negativo sull’apertura di una trattativa con la malavita organizzata. Ignoro le assunte trattative che comunque avrei fermamente osteggiato, tra gli uomini del Ros e il signor Ciancimino rese a far accantonare da parte della mafia l’offensiva contro lo Stato“.

A ben vedere, sono dichiarazioni ambigue, contraddittorie. Come può escludere che ci sia stata una trattativa tra Ros e Cosa Nostra (verità processualmente accertata) se mai nessuno degli interessati gliene parlò? Se “esclude”, significa che è sicuro che nessun apparato dello Stato trattò con i mafiosi. Come fa a esserne certo? Soprattutto alla luce di quanto è emerso nei vari processi celebratisi sulle stragi. In proposito, voglio riportare due brani inquietanti, tratti dalle deposizioni di due pentiti, Giovanni Brusca e Calogero Pulci.

Brusca: “Io capisco che quella trattativa…cioe’, quella strage del dottor Borsellino e’ per me per due motivi: una e’ per accelerare, due, che il dottor Borsellino poteva essere l’ostacolo, quello che poteva non garantire quelle trattative che erano state richieste e, quindi, un elemento di ostacolo…un elemento di ostacolo da togliere di mezzo a tutti i costi, visto che non era abbordabile con la corruzione o con qualche altro sistema. Perchè allora si parlava del dottor Borsellino che doveva andare qua, doveva andare la’, doveva fare questo, pero’ era la persona che poi, piu’ di tutti, togliendo gli incarichi istituzionali che avrebbe potuto avere, ma era la persona che denunciava pubblicamente fatti e misfatti, quindi, era un ostacolo a tutti i livelli. Quindi per me i motivi sono due: uno, che Cosa nostra lo doveva eliminare necessariamente, l’accelerazione per spingere a questa trattativa, e due, che poteva essere un ostacolo per continuare questa trattativa.

Pulci: “Le due stragi furono decise contemporaneamente, ma si dovevano fare in date separate. Solo che quella del dottor Borsellino fu accelerata per una imprudenza del dottor Borsellino, in quanto dopo la strage di Capaci si confidò con un uomo delle Istituzioni a Roma, con l’uomo direi io sbagliato, che quello ci avverti’ e accelerammo la…Io non lo so il contenuto, ma questo si confido’ al punto tale da fare spaventare quella persona delle Istituzioni da farci accelerare la strage. Fummo avvisati per fare la strage, perche’ la strage e’ diventata dopo, si doveva ammazzare il dottore Borsellino, come si doveva ammazzare il dottore Falcone, perche’ collegati sono”.

Queste parole di Calogero Pulci suonano ancora più sinistre se si pensa che proprio oggi è trapelata la notizia per cui due magistrati, ex giovani colleghi di Borsellino, hanno dichiarato qualche giorno fa alla procura di Caltanissetta: “Un giorno di quell’estate siamo andati a trovare Paolo nel suo ufficio a Palermo, era stravolto. Si è alzato dalla sedia, si è disteso sul divano, si è coperto il volto con le mani ed è scoppiato a piangere. Era distrutto e ripeteva: “Un amico mi ha tradito, un amico mi ha tradito“. Questo amico di cui parlano questi due (ancora anonimi) magistrati ha qualche cosa a che fare con l’uomo delle Istituzioni che secondo Pulci avrebbe tradito Borsellino? Mancino ha qualche sospetto in proposito? O, alla luce di tutto ciò, ha ancora il coraggio di dichiarare di non aver saputo nulla della trattativa e dei ricatti incrociati che avvenivano sotto il suo naso?

E infatti Mancino un piccolo passo avanti lo fa e adombra l’ipotesi che la trattativa ci sia effettivamente stata: “Noi la trattativa l’abbiamo sempre respinta. L’abbiamo respinta anche come semplice ipotesi di alleggerimento dello scontro con lo Stato portato avanti dalla mafia.” E’ chiaro che se la trattativa è stata respinta, significa che qualcuno l’ha proposta e intavolata. E poi quel plurale, “noi”. A chi si riferisce Mancino? Sta parlando anche per i vertici del Ros, che come sappiamo erano tutt’altro che allergici ad una trattativa, o è un semplice plurale maiestatis?

Passa qualche giorno e il piccolo passo avanti, evidentemente troppo azzardato, è subito rimangiato. In un’intervista al Corriere Mancino dichiara: “Per quanto mi riguarda non ci fu, né ci furono trattative. Parlo naturalmente di dopo il mio arrivo al Viminale: nessuno ha mai proposto, a me e allo Stato nei suoi vertici istituzionali, impossibili trattative con la mafia“. L’arguto giornalista gli fa notare: “Ma allora cosa avete respinto?“. Mancino si arrotola su se stesso: “Mi riferivo al fatto che, a partire dal capo della polizia fino ai direttori dei Servizi, quando qualcuno avanzò l’ipotesi che la mafia aveva alzato il tiro contro le istituzioni per ottenere un’attenuazione dei provvedimenti di contrasto già assunti dal governo o ancora all’esame del Parlamento, questa eventualità fu immediatamente scartata”.

Dunque quando Mancino parla di “trattativa respinta” intende l’ipotesi di un fantomatico “qualcuno”, secondo cui le bombe di Cosa Nostra dovevano servire a far venire a patti lo Stato. Questo “qualcuno” deve essere stato davvero un genio dall’intelligenza spiccata e fuori dalla norma per aver intuito un così sottile piano diabolico. Evidentemente nessuno al Ministero dell’Interno ci era ancora arrivato. Però una cosa è certa. Quando questo “qualcuno” glielo spiegò per filo e per segno, magari con un bel disegnino, loro (chiunque fossero questi “loro”) si opposero fermamente.

Veniamo ora alla questione dell’incontro con Paolo Borsellino. Mancino fu interrogato come teste dai magistrati di Caltanissetta nel lontano 1998 e a loro riferì di non potersi ricordare dell’accaduto. Oggi, a undici anni di distanza, conferma quelle parole: “Confermo di non averne memoria: non conoscevo fisicamente quel magistrato, ma non ho escluso che fra le tante strette di mano per congratularsi con me ci potesse essere anche quella del giudice Borsellino. Nessuno me lo presentò, neppure il capo della Polizia Parisi, che pure, nel pomeriggio di quel giorno, mi aveva chiesto se avessi avuto nulla in contrario a che il dott. Borsellino mi venisse a salutare. Ma perchè poi incontrare il Giudice Borsellino in una giornata in cui si festeggiava la mia nomina a Ministro dell’interno?“.

E’ credibile che un senatore della Repubblica Italiana, quale era Mancino a quei tempi, designato a succedere al Ministro Scotti al Viminale, scelto dunque per la sua esperienza in termini di conoscenza del fenomeno mafioso, non sapesse che faccia avesse Paolo Borsellino? Il giudice che riempiva le prime pagine di tutti i giornali dopo la morte di Falcone. Il giudice che rilasciava interviste, parlava alle televisioni, interveniva ad incontri pubblici. Il giudice considerato da tutta l’opinione pubblica come l’ultimo baluardo della lotta alla mafia. Il giudice che prese addirittura sei voti durante l’elezione del Capo dello Stato. Il giudice che portava a spalle la bara del suo amico e collega davanti a tutte le televisioni del mondo. E’ credibile tutto ciò? E’ credibile che un uomo navigato come Mancino e così esperto delle faccende italiane e che, come lui ama rimarcare, aveva firmato la legge Violante-Mancino per impedire la scarcerazione degli imputati del maxiprocesso, non avesse mai visto, nemmeno di sfuggita, in tutti quegli anni di lotta alla mafia colui che, insieme a Falcone, il maxiprocesso l’aveva istruito?

E’ credibile che Paolo Borsellino fosse stato invitato al Viminale da Parisi senza che nessuno lo presentasse al ministro? E’ credibile che Mancino possa aver stretto la mano a Paolo Borsellino senza che questi si presentasse? E soprattutto senza che il volto di Paolo gli rimanesse impresso nella mente? Non sarebbe dovuto essere lui, Mancino, il primo a chiedere della possibile presenza di Borsellino al Viminale e fare di tutto per farselo presentare? Non era Mancino ansioso di conoscere il magistrato che più di tutti poteva aiutare lo Stato a sconfiggere Cosa Nostra in quel periodo assolutamente tragico della storia della Repubblica? Non era ansioso di conoscere il magistrato che Cosa Nostra aveva già condannato a morte e che aveva dichiarato di aver capito perchè e da chi Falcone fosse stato ucciso? Oppure era troppo impegnato, a quanto pare, ad autocelebrarsi e a festeggiare il proprio insediamento al Viminale? E cosa c’era, di grazia, da festeggiare in quei terribili giorni in cui lo Stato pareva sull’orlo di crollare sotto gli attacchi eversivi della mafia?

Mancino dichiara: “Nella mia agenda, anno 1992, primo luglio, non è annotato nessun incontro e non potevano esserci incontri prestabiliti: salivo la prima volta al Viminale e una folla tra prefetti, funzionari, impiegati, amici riempì il corridoio dal quale si accede all’ufficio del ministro“. Ma chi ha detto che quello fosse un incontro prestabilito? Anzi. Quell’incontro sappiamo bene che fu qualcosa di assolutamente non pianificato. Dunque, se nelle agende il ministro è solito segnare solamente gli incontri prestabiliti e non quelli effettivamente avvenuti (anche improvvisi o casuali), è chiaro che il fatto che al primo luglio non ci sia scritto niente non dimostra nulla. Mancino infatti, in un’intervista per La7, ha mostrato un calendarietto, tirato fuori da un cassetto chiuso a chiave del suo studio, mostrato per qualche secondo alle telecamere e poi subito rimesso al proprio posto.

In proposito Mancino pronuncia la dichiarazione più sconcertante: “Ma non potevo dare un appuntamento a uno che non conoscevo! A meno che quello che non conoscevo non mi avesse detto ci ho un segreto di Stato…ci ho una mia valutazione urgentissima…allora io a quel punto .. perchè non riceverlo … ricevo tutti!“. Ma come? Allora Mancino sta dicendo che non solo non conosceva fisicamente Borsellino, ma ignorava addirittura chi fosse. Forse che aveva bisogno di conoscerlo fisicamente per convocare al Viminale il giudice antimafia più famoso d’Italia? Tutto ciò è ridicolo. Ridicolo e offensivo per la memoria del giudice. Offensive sono quelle parole (“ricevo tutti!“), come se Paolo fosse un funzionario qualunque giunto al Viminale solo per omaggiare sua maestà il neoministro.

Continua Mancino: “Ma si può parlare con un ministro neo nominato di trattative tra lo Stato e la criminalità organizzata? … a parte ragioni di stile … in quei giorni …a meno che non ci fosse stata una richiesta esplicita per notizie di carattere urgente … io non ho ricevuto nessuno e non avrei voluto ricevere nessuno … come in effetti mi pare che sia avvenuto“. Notate la spudoratezza di certe dichiarazioni. Ma che faccia tosta avrebbe avuto Paolo Borsellino a venire a rovinare la festa del ministro? Era il caso di parlargli di trattative tra stato e mafia proprio mentre lui stappava spumante e mangiava cannoli per l’importante poltrona ottenuta? Sarebbe stato davvero sfacciato questo Borsellino. E che diamine. Nemmeno un briciolo di stile!

E per difendersi, Mancino cita addirittura la deposizione del pentito Gaspare Mutolo che dimostrerebbe come l’incontro non sia avvenuto. Anzi accusa Salvatore Borsellino di raccontare sempre “una versione monca” della vicenda. Per dovere di verità riporto dunque qui di seguito lo stralcio delle dichiarazioni di Mutolo che dovrebbero “scagionare” Mancino.

Mutolo: “Quando il Giudice ando’ via mi aveva detto che gli aveva telefonato il ministro. Quindi, quando il Giudice ritorno’, che era passata un’ora, un’ora e mezza, ci siamo entrati di nuovo nella stanza, pero’ l’umore del dottor Borsellino era completamente cambiato, perche’ diciamo, quando incomincio’ l’interrogazione era molto soddisfatto e si vedeva che era contento che io ero iniziato la mia collaborazione; invece quando ritorno’ era molto agitato, tanto che io, ad un certo punto, notai questo, perche’ lui si era tolto la giacca, sudato. Ad un certo punto io mi accorgo che il dottor Borsellino c’ha una sigaretta accesa e se ne accende un’altra, quindi da quel momento io ho capito che era molto distratto. Anche se era con me, ma il pensiero era ad un’altra persona. Dopo c’ho detto – a tipo una battuta – che deve essere contento che e’ andato dal ministro. Dice: “Ma quale ministro e ministro…sono andato dal dottor Parisi e dal dottor Contrada”, quindi ho capito,che con quello che avevo detto io qualche ora prima, qualche due ore prima, insomma, il discorso era molto preoccupante. Comunque, ma me l’ha detto molto seccato, molto dispiaciuto, con fare stanco. Ma si vedeva chiaramente che la cosa non era gradita, diciamo; era stata una sorpresa che lui magari o non si aspettava o… Io non lo so, io non e’ che posso essere nella mente del Giudice, quello che pensava lui in quel momento. Cioe’, pero’ era completamente diverso di come era andato, di come quando ritornò”.

Se, come dice Mancino, questo resoconto è da prendere come buono si evince che:

1) il ministro Mancino ha chiamato personalmente Borsellino sul cellulare per convocarlo d’urgenza al Viminale.

2) quando Borsellino giunge al Viminale, invece che dal ministro, viene accolto dall’allora capo della Polizia Parisi (deceduto qualche anno fa) e dall’ex numero tre del Sisde Bruno Contrada, oggi condannato in via definitiva a dieci anni per mafia.


3) Borsellino ne rimane sconvolto, perchè Contrada era proprio colui che Mutolo gli aveva indicato come “a disposizione” di Cosa Nostra. Non solo: durante quel colloquio, rivela ancora Mutolo in un altro passaggio, Contrada mostra di essere già a conoscenza del fatto che Mutolo vuole collaborare e anzi si “mette a disposizione” di Paolo Borsellino. Questa è la cosa che inquieta di più il giudice, che non si fida assolutamente di Contrada.

Ora io chiedo a Mancino: in che modo questa ricostruzione potrebbe scagionarlo? Non si accorge che questa versione invece lo sbugiarda completamente? Come faceva ad avere il numero di cellulare di una persona che non conosceva? L’ha forse chiamato per sbaglio credendo che fosse qualcun altro? E cosa ci faceva Contrada (un uomo che, secondo Paolo Borsellino, al solo pronunciarne il nome si poteva morire) negli uffici del Viminale? E Mancino, che tanto ama far parlare (o tacere, a seconda dei casi) i morti, si ricorda almeno che nei suoi uffici si aggirava il numero tre del Sisde? O nemmeno lui sapeva che faccia avesse?

Ma la cosa più grottesca sono gli ultimi sviluppi della vicenda. Improvvisamente, dopo tanti anni, c’è gente che inizia a ricordare e a dare la propria versione dei fatti. Nel post precedente ho citato Giuseppe Ayala che, con una intervista dirompente, affermava con assoluta certezza: “Io ho parlato personalmente con Nicola Mancino e Mancino mi ha detto che ha avuto l’incontro con Borsellino, del tutto casuale, il giorno in cui Mancino andò per la prima volta al Viminale a prendere possesso della sua carica di ministro. No, no! Lui ha detto che lo ha avuto questo incontro! Come no? L’ha detto anche a me! Mi ha fatto vedere addirittura…forse svelo una cosa privata, ma insomma…mi ha fatto vedere l’agenda con l’annotazione…perchè lui è di quelli che ha le agende conservate con tutte le annotazioni.

In un colpo solo Ayala distrugge il castello di carta eretto da Mancino in propria difesa. Ayala svela che, in un colloquio privato di qualche mese fa, Mancino ha ricordato perfettamente di aver incontrato Borsellino e per di più gli ha mostrato un’agenda con una annotazione a conferma dell’avvenuto incontro. Evidentemente deve essere un’agenda diversa da quella che Mancino ha mostrato alle telecamere. Non passa nemmeno un giorno che spunta un altro partecipante al medesimo colloquio privato. Si tratta di Mario Fresa, consigliere del Csm, e quindi in stretti rapporti con Mancino, che sbugiarda Ayala: “Non è vero che Mancino raccontò di aver avuto un incontro con Borsellino il giorno del suo insediamento al Viminale. Piuttosto disse di non poter escludere di aver stretto anche le mani del procuratore di Marsala, che per altro non conosceva, tra le migliaia di quel giorno. Mancino ci disse di non aver avuto nessun appuntamento quel giorno con Borsellino e ci mostrò anche la pagina bianca della sua agenda alla data del primo luglio 1992“.

Sconcertante. Come è possibile che due persone che hanno partecipato al medesimo colloquio riportino fatti completamente opposti? Cosa ha detto veramente Mancino? Cosa c’era scritto veramente su quella agenda?

Non passa nemmeno un giorno che Ayala, con una lettera ufficiale, ritratta la propria versione: “Confermo di aver avuto modo di visionare la pagina relativa alla data del 1 luglio 1992 dell’agenda del presidente Mancino nel corso di un colloquio svoltosi qualche tempo fa nel suo ufficio a Palazzo dei Marescialli. Per chiarire un probabile equivoco, desidero chiarire che nella pagina dell’agenda di cui sopra non risulta annotato il nome di Paolo Borsellino. E’, cioè, proprio l’assenza di tale annotazione che, a dire del Presidente Mancino, conferma che tra i due non vi fu alcun incontro“.

Ma come? Possibile che tutti abbiano frainteso? Eppure, a riascoltare l’intervista rilasciata da Ayala, non sembra ci sia spazio per interpretazioni. E’ possibile che una persona un giorno ricordi una cosa e il giorno dopo l’esatto contrario? E’ possibile che una frase un giorno voglia dire una cosa e il giorno dopo l’esatto contrario? Ma Ayala è cosciente di quanto delicate siano certe dichiarazioni? Ha il senso dell’importanza di calibrare le parole? Ma Ayala ci è o ci fa? Perchè ha ritrattato in fretta e furia? E’ stato folgorato sulla via di Damasco? Ha subito dalle pressioni da qualcuno?

No, perchè in questo periodo stiamo assistendo a cose inaudite. E’ di oggi la notizia ufficiale che il processo Borsellino è da rifare. Il pentito Vincenzo Scarantino, mezzo analfabeta, sulle cui contraddittorie dichiarazioni (ritrattò e poi ritrattò la ritrattazione) erano stati basati tre processi penali ed erano stati inflitti decine di ergastoli, ora si scopre che fu “indirizzato” nelle sue confessioni. Da chi? Da alcuni membri del comando Falcone-Borsellino, che a quel tempo indagavano sulle stragi. E che a quanto pare verranno inquisiti per depistaggio. La mano lunga dei servizi segreti che depista e imbocca falsi pentiti per creare una falsa verità. A che pro? E per conto di chi? Da brivido. Persino la madre di Scarantino oggi conferma: “Su mio figlio sono state fatte pressioni“. A Scarantino non credette fin dal primo minuto Ilda Boccassini che per questo lasciò la procura di Catania. A Scarantino non credette fin dal primo minuto Gioacchino Genchi che capì immediatamente come un personaggio del genere non avrebbe potuto essere per nulla credibile. A Scarantino invece credette incondizionatamente l’allora procuratore di Caltanissetta, Giovanni Tinebra, detto Tenebra. Lo stesso che impose al giudice Luca Tescaroli (contro il suo parere) l’archiviazione delle indagini sui mandanti esterni a carico di alpha e beta (Dell’Utri e Berlusconi), salvo poi diventare l’anno successivo il presidente del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria su chiamata proprio di Berlusconi.

Volete sapere l’ultima? Con tutta probabilità il nuovo processo Borsellino si svolgerà a Catania. E sapete chi è oggi procuratore capo a Catania? Giovanni Tinebra.

Chi sarà il prossimo a ritrattare?

La mafia parla, lo Stato tace – Marco Travaglio – Voglio Scendere

La mafia parla, lo Stato tace – Marco Travaglio – Voglio Scendere.

Ora d’aria
in uscita su l’Unità del 20 luglio 2009

Ora che ne parla persino Totò Riina (a Bolzoni e Viviano, su la Repubblica di ieri), forse è il caso che anche i rappresentanti dello Stato dicano qualcosa sulle stragi del 1992-’93 e sulle trattative retrostanti.
Dal 1996 sappiamo da Giovanni Brusca, poi confermato dagli interessati e da Massimo Ciancimino, che due ufficiali del Ros dei Carabinieri, il colonnello Mario Mori e il capitano Giuseppe De Donno, dopo la strage di Capaci andarono a “trattare” con Vito Ciancimino e, tramite lui, con i capi di Cosa Nostra: lo stesso Riina e Bernardo Provenzano.

Sappiamo che Borsellino, dopo la morte dell’amico Giovanni Falcone, ingaggiò una forsennata lotta contro il tempo per individuare i mandanti di Capaci, e mentre interrogava uno dei primi pentiti, Gasparre Mutolo, fu convocato d’urgenza al Viminale dove si era appena insediato il ministro Nicola Mancino, poi tornò da Mutolo letteralmente sconvolto. Pochi giorno dopo, saltò in aria anche lui in via D’Amelio. Dopodichè la trattativa del Ros con Ciancimino e i corleonesi proseguì, tant’è che i secondi fecero pervenire ai due ufficiali un “papello” con le richieste della mafia per interrompere le stragi.

Ora, dal racconto di Ciancimino jr., apprendiamo che suo padre ricevette tre lettere di Provenzano indirizzate a Silvio Berlusconi: una all’inizio del 1992, prima delle stragi; una nel dicembre ‘92, dopo Capaci e via d’Amelio e prima delle bombe di Roma (via Fauro, contro Costanzo), Firenze,  Milano e Roma (basiliche); una nel 1994, dopo la discesa in campo del Cavaliere, non a caso chiamato “onorevole”.Nell’ultima lo Zu’ Binnu prometteva all’attuale presidente del Consiglio, che aveva appena fondato Forza Italia e vinto le elezioni, un sostanzioso “appoggio politico” in cambio della disponibilità di una delle sue reti tv, guardacaso protagoniste nei mesi successivi di feroci campagne contro i magistrati antimafia e in difesa di imputati eccellenti nei processi su mafia e politica.

Sappiamo infine che nei momenti topici delle stragi si agitavano misteriosi soggetti dei servizi segreti, tra i quali uno col volto mostruosamente sfregiato. Ci stanno lavorando le Procure di Palermo e Caltanissetta, accerchiate dal silenzio tombale della politica e delle istituzioni. Eppure i protagonisti e comprimari di quella stagione dalla parte dello Stato sono vivi e vegeti, anzi han fatto carriera. Mancino, indicato da Brusca e Massimo Ciancimino come al corrente della trattativa, nega di aver mai visto o riconosciuto Borsellino nel fatidico incontro al Viminale, ed è vicepresidente del Csm. Mori – imputato di favoreggiamento mafioso per la mancata cattura di Provenzano nel 1996 dopo essere stato assolto con motivazioni severe dall’accusa di aver favorito la mafia non perquisendo il covo di Riina dopo la sua cattura – è stato a lungo comandante del Sisde e ora è consulente per la sicurezza del sindaco Alemanno. Gli ex procuratori di Palermo, Grasso e Pignatone, che nel 2005 trovarono a casa Ciancimino l’ultima lettera di Provenzano a Berlusconi e non ne fecero un bel nulla, sono rispettivamente procuratore nazionale antimafia e procuratore di Reggio Calabria.
Ci raccontano qualcosa, per favore?

Mafia e servizi, telefonate e carte sparite ecco gli indizi nelle inchieste – cronaca – Repubblica.it

Mafia e servizi, telefonate e carte sparite ecco gli indizi nelle inchieste – cronaca – Repubblica.it.

L’ultima pista: “In un hotel la regia della strage di via D’Amelio”
Dalla sede degli 007 alle frasi di un pentito. E spunta anche la versione di Genchi

Mafia e servizi, telefonate e carte sparite
ecco gli indizi nelle inchieste

dai nostri inviati ATTILIO BOLZONI FRANCESCO VIVIANO

CALTANISSETTA – C’è puzza di spie in ogni strage siciliana. Misteri di mafia e misteri di Stato. Chiamate fatte da boss e dirette a uffici dei servizi segreti, biglietti con numeri telefonici intestati a capi degli apparati di sicurezza trovati sulla scena del crimine, esperti in bonifica ambientale in contatto con sospetti attentatori. E ancora: agende sparite (quella rossa di Paolo Borsellino), depistaggi, pentiti fasulli o pilotati. Dalle indagini sui massacri avvenuti in Sicilia fra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 stanno affiorando complicità e patti, intrecci, una rete di “interessi convergenti”.

I procuratori di Caltanissetta hanno riaperto tutte le inchieste sulle stragi ripescando vecchi fascicoli e interrogando nuovi testimoni, ripercorrendo piste frettolosamente abbandonate, scoprendo indizi che si orientano verso quelli che vengono chiamati “i mandanti occulti” o i “soggetti esterni” a Cosa Nostra.
Uno degli ultimi personaggi ascoltati dai magistrati è stato Gioacchino Genchi, uno dei protagonisti del “caso De Magistris” a Catanzaro, il consulente che 17 anni fa era con il questore Arnaldo La Barbera alla guida del “Gruppo Falcone Borsellino”, il pool di investigatori che indagò fin dall’inizio sulle stragi. Gioacchino Genchi ha parlato per un giorno intero, il 16 aprile scorso. E alla fine ha indicato una traccia: “Dovete scoprire chi c’era il 19 luglio del 1992 a Villa Igiea perché lì dentro c’era la regia…”.

A Villa Igiea, lo splendido albergo voluto dai Florio sul mare di Palermo, quel pomeriggio c’era – secondo Genchi – un ospite speciale che avrebbe praticamente “guidato” le operazioni per l’uccisione di Borsellino. Il consulente ha ricostruito il “movimento” telefonico nei minuti che hanno preceduto l’attentato. Ha accertato che dal cellulare clonato di un’ignara donna napoletana, A. N., sono partite prima alcune chiamate a mafiosi di Villagrazia di Carini (il luogo dove Borsellino quel pomeriggio è partito con la sua scorta), poi alcune chiamate a mafiosi di Palermo e infine – proprio quando l’autobomba è esplosa – l’ultima chiamata a Villa Igiea. Chi c’era dentro il lussuoso hotel? Chi era l’ospite innominabile che probabilmente i procuratori di Caltanissetta stanno cercando?

Un testimone che sarà interrogato nei prossimi giorni sarà il pentito Francesco Di Carlo, nei primi anni ’90 rinchiuso in un carcere londinese dove ricevette una visita di quattro uomini. “Tre erano stranieri e uno italiano”, ha risposto qualche anno fa al pubblico ministero Luca Tescaroli. Quattro 007. Il pentito Di Carlo non ha mai voluto fare il nome dell’agente segreto, però ha raccontato che gli 007 gli chiesero una sorta di “consiglio” su come ammazzare Falcone e Borsellino che tanto stavano dando fastidio a Cosa Nostra e ai suoi traffici. Lo stesso Totò Riina, usò per proprio tornaconto in un’udienza queste rivelazioni di Francesco Di Carlo: “Io con le stragi del 1993 non c’entro niente, chiedetelo a Di Carlo: era lui in contatto con i servizi segreti non io”.

Mafia e servizi, ci sono impronte dappertutto. Di chi era quel numero di telefono trovato sul bigliettino di carta recuperato a qualche metro da dove Giovanni Brusca fece esplodere l’autostrada a Capaci? Era di L. N., il capo del Sisde a Palermo. “Era un appunto sulla riparazione di un cellulare Nec P 300 che qualcuno dei miei uomini deve avere perso durante il sopralluogo”, ha risposto L. N. Fine della deposizione e fine delle indagini. C’è solo un particolare da ricordare: cellulari di quel tipo – Nec P 300 – sono stati trovati qualche tempo dopo nel covo di via Ughetti, la casa dove si nascondevano i macellai di Capaci e parlavano – ascoltati dalle microspie – “dell’attentatuni” che avevano preparato.

A chi erano indirizzate le telefonate di Gaetano Scotto – mafioso dell’Acquasanta, imputato dell’inchiesta sull’uccisione del procuratore – poco prima della strage di via D’Amelio? Al castello Utvegio, una costruzione degli Anni Venti che domina Palermo da Montepellegrino. Lì erano acquartierati alcuni “irregolari” del Sisde, i superstiti di quel carrozzone sfasciato che era l’Alto Commissariato antimafia. Spie.
E che lavoro facevano quei due fratelli di Catania, indagati l’anno scorso per la strage Falcone insieme a un noto imprenditore palermitano, che avevano a che fare con telecomandi a media e a lunga distanza? Avevano l’appalto per bonificare alcune “case” dei servizi segreti.

Coincidenze, tutte coincidenze che ora i procuratori di Caltanissetta stanno mettendo in fila e risistemando in un “quadro”. Forse in passato ci sono state “carenze investigative”. O forse c’è sempre stato qualcuno che non voleva spingersi oltre Totò Riina e i suoi Corleonesi.

(18 luglio 2009)

Blog di Beppe Grillo – Paese ad mafiam

Blog di Beppe Grillo – Paese ad mafiam.

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Sommario della puntata:
Brusca: so chi è l’uomo delle istituzioni
Panico a Matrix
La mafia a Lodi e Milano
Vietato parlare di Dell’Utri
“Il Fatto”, il nostro giornale

Testo:
“Buongiorno a tutti, la settimana scorsa si è celebrato a Palermo l’anniversario della strage di Capaci (23 maggio 1992), solita sfilata di politici, c’era persino Schifani, c’era persino il Ministro Alfano, tutti impegnati a parole, a cominciare dal capo dello Stato, a non abbassare la guardia, a promettere lotta dura senza paura a Cosa Nostra. Curiosamente qualche giorno prima due giornali, La Stampa e Il Corriere, avevano riportato le dichiarazioni di Giovanni Brusca, che è l’uomo che azionò il telecomando nella strage di Capaci che poi confessò, che poi aiutò i magistrati a scoprire i responsabili diretti e mandanti diretti di quella strage insieme a altri pentiti. Quindi è stato sempre ritenuto estremamente credibile sulle vicende di mafia.
Brusca è stato sentito nel processo a carico del generale Mori e di un suo collaboratore, il maggiore Obinu, per la storia che conoscete perché l’abbiamo già raccontata in passaparola, la storia della mancata cattura di Provenzano nel 1995, cioè 11 anni prima di quando poi Provenzano fu catturato. Lasciamo perdere quella storia, Brusca viene sentito in quel processo dove si parla naturalmente delle trattative tra esponenti dello Stato e della politica e esponenti della mafia negli anni delle stragi, cioè dopo Capaci, prima di via d’Amelio, dopo via d’Amelio e nel periodo poi delle stragi del 93 a Milano, Firenze e Roma.

Brusca: so chi è l’uomo delle istituzioni

E Brusca ha detto una cosa nuova rispetto a quello che aveva sempre detto e cioè che intanto gli risulta che ci fossero esponenti dello Stato italiano che trattavano con la mafia dopo la strage di Capaci e anche dopo la strage di via d’Amelio, ma che una trattativa avviata dopo la strage di Capaci e prima di via d’Amelio, quindi in quei 56 giorni che separano il 23 maggio dal 19 luglio, fu portata avanti da un uomo politico, da un uomo delle istituzioni, all’epoca c’era nell’estate del 92 il governo Amato che era appena nato, da un uomo politico al quale lui aveva sempre detto di essere giunto, per identificarlo e per individuarlo, tramite sue deduzioni. Invece nel processo ha detto che quel nome glielo fece esplicitamente il capo della mafia dell’epoca Toto Riina, dice testualmente Brusca “Riina mi fece il nome dell’uomo delle istituzioni con il quale venne avviata, attraverso uomini delle forze dell’ ordine, la trattativa con Cosa Nostra dopo la strage di Capaci”. Gli uomini delle forze dell’ ordine sono presumibilmente il generale Mori e il capitano Dedonno che avviarono, tramite Ciancimino, la trattativa con Riina e Provenzano che poi finì il 15 gennaio 93 quando Riina fu arrestato e chi è questo uomo politico? Anzi delle istituzioni? Delle istituzioni vuole dire che era un membro del governo o comunque un rappresentante delle istituzioni nell’estate del 92.
Brusca si avvale della facoltà di non rispondere sostenendo che su questo nome è in corso una indagine nuova, perché nessuno ne ha mai parlato e saputo nulla, alla Procura di Caltanissetta che è competente sulle indagini per i mandanti come per gli esecutori delle stragi avvenute a Palermo a carico di magistrati, per questa ragione se ne occupa Caltanissetta.
È piuttosto interessante che l’uomo che aziona materialmente l’ordigno che fa esplodere l’autostrada con Falcone, la moglie e gli uomini della scorta dentro alle macchine riveli in un pubblico dibattimento che il capo della mafia che gli aveva dato l’ordine di eseguire la strage di Capaci gli aveva anche detto dopo la strage di Capaci che si era avviata una trattativa con gli uomini delle forze dell’ ordine, ma per ordine di un esponente delle istituzioni più alto in grado rispetto a questi ufficiali dei Carabinieri.
Curiosamente questa domanda rimane con un bel punto interrogativo perché Brusca in questo momento non lo dice, ma immediatamente si è fatto silenzio su questo interrogativo, nessuno ci ha fatto trasmissioni televisive, nessuno ha avviato dibattiti, nessuno è andato a vedere chi potrebbe essere questo uomo politico, ripeto non stiamo ancora parlando della Seconda Repubblica e quindi non stiamo ancora parlando della pista che poi è stata archiviata durante la quale per un certo periodo erano stati indagati anche Berlusconi e Dell’Utri, stiamo parlando dell’ultimo governo della Prima Repubblica e cioè del governo Amato, a cui seguì poi il governo tecnico di Ciampi.
È interessante in quelle istituzioni Brusca dice c’è l’uomo che autorizzò quelle trattative all’indomani all’eccidio sull’autostrada di Capaci. È curioso che in questo paese dove si fa sempre scandalo su tutto anche sulle sciocchezze l’individuazione di questo uomo non sia stata oggetto di articoli di approfondimento, di trasmissioni televisive o forse non è affatto curioso. Ed è curioso, o forse non è affatto curioso, che nelle celebrazioni avvenute due giorni dopo a Palermo per la strage di Capaci nessuno di quelli che si sono alternati sui palchi a fare retorica antimafia abbia detto “vogliamo sapere il nome dell’uomo delle istituzioni che autorizzò la trattativa di questi ufficiali del Ros dei Carabinieri con la mafia, cioè lo Stato che tratta con la mafia all’indomani della strage”. Lo Stato che come al solito in pubblico si presenta con la faccia antimafia e in privato tratta con la mafia, il famoso doppio Stato, quello che non piace a certi giornalisti e a certe alte istituzioni di oggi, ma anche di questo ci siamo occupati recentemente.
Tenete presente dunque che c’è un nome di un esponente della Prima Repubblica e chi lo sa, visto che tanti della Prima Repubblica sono transitati immediatamente nella Seconda, se non sia ancora presente nelle istituzioni della Seconda, lo vedremo prossimamente quando si saprà qualcosa di più di queste indagini di Caltanissetta, c’è un signore che sa che Brusca sa. E nessuno pone nessuna domanda su chi sia, su che cosa faccia e soprattutto su che cosa abbia fatto.
Questa è una occasione forse per fare un po’ il punto sulla lotta alla mafia, vi dico soltanto una cosa incidentalmente, tenete a portata di mano una penna e un foglietto di carta perché poi alla fine del passaparola vi chiederò di segnarvi un indirizzo mail ma ci arriviamo. Questo politico, pare, abbia ricevuto anche lui, così come il figlio di Ciancimino dice lo abbia ricevuto anche il generale Mori, il famoso papello che Riina consegnava ai trattativisti dello Stato per dire queste sono le nostre condizioni per interrompere la strategia delle stragi. E se è vero quello che dice Brusca è curioso perché chiunque esso sia questo uomo delle istituzioni non è mai venuto fuori, non ha mai detto sì sono io, non ha mai detto “ecco qua il papello che ho ricevuto”, evidentemente l’ha tenuto in qualche cassaforte a doppia mandata.

Panico a Matrix

L’altra sera, fingendo di celebrare l’anniversario della morte di Falcone e Borsellino, Matrix ha messo in piedi la solita trasmissione dell’antimafia dei pupi e delle fiction dove naturalmente si faceva grande retorica, i cento passi, il film di Peppino Impastato, i film su Riina, i film su Falcone, i film su Borsellino, il procuratore Grasso con il libro da presentare, l’ex  procuratore Aiala con il libro da presentare. A un certo punto in questo idillio dove non si facevano nomi di politici – per carità – questo idillio viene rotto da un magistrato collegato da Palermo, Gaetano Paci, Gaetano Paci che sta tra l’altro seguendo insieme a un’altra magistrata, Anna Maria Picozzi, il processo Addio pizzo, processo nel quale il comune di Palermo aveva annunciato di costituirsi Parte Civile e poi il giorno della costituzione si era dimenticato di costituirsi Parte Civile e poi ha avuto i tempi supplementari per farlo, perché altrimenti sarebbe rimasto escluso. Bene, Gaetano Paci, Presidente di una fondazione che ricorda le stragi, ha interrotto l’idillio dei presenti in studio e ha detto “vorrei dire una cosa, un anno fa si sentì dire che Vittorio Mangano era un eroe” sapete chi lo ha detto, lo ha detto l’editore di Canale 5 su cui andava in onda il Matrix di Alessio Vinci per la strage di Capaci. Dice Gaetano Paci “volevo fare presente che Vittorio Mangano non era un eroe, gli eroi sono Falcone e Borsellino e Vittorio Mangano  era un mafioso sanguinario condannato per traffico di droga, per mafia e poi in primo grado per tre omicidi, all’ergastolo, ergastolo che poi non divenne definitivo anche perché Mangano morì prima che si arrivasse alla fase di appello”.
Chi di voi ha visto quella scena ha visto il gelo che in quel momento si è dipinto sul volto degli ospiti, tutti impietriti perché? Perché si stava parlando di corda in casa dell’impiccato, si stava parlando dell’amichetto di Berlusconi nella televisione di Berlusconi in una trasmissione che avrebbe dovuto occuparsi di mafia ma che naturalmente aveva tenuto fuori tutti i rapporti che la mafia ha al di sopra del suo livello militare. Questi si sono detti “oddio adesso questo magistrato dirà anche il nome di Berlusconi che si è tenuto Mangano in casa per due anni!” invece chiunque volesse intendere ha inteso e chiunque volesse vedere in quelle facce impietrite ha potuto vedere, Vinci naturalmente cuor di leone ha immediatamente mandato un servizio sui cento passi e su Peppino Impastato, in modo da tornare all’antimafia delle figurine e con ciò non voglio minimamente sminuire la figura di Peppino Impastato intendiamoci. È semplicemente che la creazione di queste icone dell’antimafia come Impastato, Falcone e Borsellino diventa spesso un alibi per fermarsi lì e non andare ai livelli superiori, al famoso doppio Stato che tanto poco piace a certi giornalisti e a certe alte cariche dello Stato.
Non mi risulta che la Commissione parlamentare antimafia abbia avviato accertamenti sulle dichiarazioni di Brusca, come non mi risulta che ci sia una grande mobilitazione, eppure quella era l’occasione le celebrazioni per la strage di Capaci, rispetto a una denuncia drammatica fatta dal procuratore aggiunto di Palermo Roberto Scarpinato, coordinatore del pool che si occupa dei reati finanziari legati alla mafia, il quale ha detto a Il Sole 24 ore anche lui alla vigilia delle celebrazioni per il 23 maggio, che il governo nelle persone del  Ministero della Giustizia e del Ministero dell’economia, Ministeri retti da Angelino Alfano presente alle celebrazioni e dal Ministro Tremonti, avevano deciso di togliere, per motivi burocratici chissà quali, l’accesso alla Procura di Palermo e a tutte le procure all’anagrafe dei conti correnti bancari, prima le procure avevano la password e poi gliela hanno tolta, non possono più entrate nella anagrafe dei conti correnti bancari e naturalmente entrare in questa anagrafe significa riuscire a recuperare enormi patrimoni di mafiosi, a dare nomi e cognomi agli intestatari di questi patrimoni per poterglieli portare via.
Casualmente è sparita la password e quindi i magistrati sono disarmati sul fronte della lotta ai patrimoni mafiosi e al riciclaggio, naturalmente per pura coincidenza questa denuncia è arrivata nel giorno dell’anniversario della strage di Capaci e nessuno ne ha parlato, proprio perché non si può andare al di là del teatrino dei pupi.

La mafia a Lodi e Milano

L’altra sera a Anno Zero abbiamo raccontato a quali livelli sono arrivate le infiltrazioni mafiose nel nord, abbiamo raccontato le possibili penetrazioni della mafia che sicuramente insieme alla ‘ndrangheta e alla camorra si avventerà su quei 15 miliardi di Euro che arriveranno per l’Expo a Milano e dintorni, Letizia Moratti ha risposto come rispondevano i sindaci di Palermo negli anni 50/60/70 e cioè “non bisogna infangare il buon nome della Sicilia parlando di mafia” e lei ha detto “non bisogna infangare il buon nome di Milano parlando di mafia”. Il giorno prima c’era stato un delitto mafioso proprio alle porte di Milano e il Consiglio Comunale di Milano aveva pensato bene di bocciare, di chiudere appena aperta la Commissione consiliare antimafia, anche lì per motivi burocratici o forse per non infangare il buon nome di Milano perché infangare il buon nome di Milano non significa aprire Milano alle infiltrazioni mafiose ma, nell’ottica di questa signora , significa parlare delle infiltrazioni e evidentemente combatterle. Chi di voi vuole un esempio di quello che sta succedendo in Lombardia con la mafia in grande spolvero può leggere una intervista a un giovane regista e attore del lodigiano pubblicata questa settimana da L’Espresso. È un ragazzo che praticamente vive sotto scorta da qualche mese perché ha osato mettere in scena uno spettacolo sui pizzini di Provenzano, uno spettacolo satirico e evidentemente mettere in scena uno spettacolo satirico sui pizzini di Provenzano a Lodi, è altrettanto pericoloso come farlo a Corleone. Tant’è che questo ragazzo ha avuto le gomme della macchina tagliate, ha avuto delle bare disegnate sulla porta di casa e adesso vive sotto scorta: a Lodi, non a Corleone!
Ma non bisogna parlarne perché altrimenti poi oltre a infangare il buon nome di Milano si infanga anche il buon nome di Lodi e non sia mai: lodi a Lodi bisognerebbe dire così!
Un’altra notizia scomparsa, questa veramente non l’ha data nessuno, riguarda una indagine aperta dalla Procura di Palermo e che ha portato addirittura l’altro giorno a una raffica di arresti (una ventina) di persone, diciamo manovalanza, capetti e capoccia della mafia che si dedicavano naturalmente alle loro attività preferite: da un lato il pizzo, dall’altro il sostegno ai detenuti mafiosi perché non parlino e dall’altro ancora alla compravendita di voti con politici. Abbiamo sfiorato l’argomento nel passaparola della settimana scorsa quando abbiamo parlato dell’assessore regionale Antonello Antinoro, candidato dell’Udc alle europee, assessore regionale alla cultura nella giunta Lombardo, il quale è indagato per voto di scambio mafioso in quanto avrebbe comprato, secondo l’accusa, proprio in cambio di soldi i voti o una parte dei voti ottenuti per essere eletto. Adesso lo mandiamo al Parlamento europeo: Udc.
In questa operazione c’è ovviamente un voluminosissimo ordine di custodia per questi mafiosi e tra i tanti che vengono catturati per il 416 bis, cioè per associazione a delinquere di stampo mafioso, per partecipazione e non per concorso esterno, sono proprio mafiosi membri interni, si leggono alcune intercettazioni telefoniche che ne riguardano due, uno si chiama Antonino Caruso, è stato arrestato perché è accusato di essere un membro del clan mafioso dell’Arenella a Palermo, di essere in affari illeciti con il clan del quartiere di Resottana, impegnatissimo nel pizzo e cioè nelle estorsioni, nel sostegno ai detenuti mafiosi e nel voto di scambio.

Vietato parlare di Dell’Utri

Questo signore dentro la sua macchina non sapendo che c’è una cimice nascosta sotto il sedile, il 4 novembre 2007 – stiamo parlando di un anno e mezzo fa, roba freschissima – parla, ripeto dentro la sua autovettura, con un certo Letterio Ruvolo che è il suo braccio destra e anche lui membro, così dice l’accusa, del clan della Arenella molto esperto nella riscossione del pizzo. I due parlano di tante cose e parlano anche di politica, è il 4 novembre 2007, cosa succede il 4 novembre 2007? Siamo ancora sotto il governo Prodi che sta per cadere nel gennaio poi del 2008, “il Caruso –  scrive il giudice nell’ordinanza di custodia – iniziava l’esposizione del problema – è un problema che riguardava la famiglia mafiosa – a un certo punto il Ruvolo – cioè il suo braccio destro – lo interrompeva per impartire un ordine perentorio, ovvero di non pronunciare mai il nominativo di Dell’Utri, bisogna proteggere   Dell’Utri”, non bisogna mai nominarlo nelle conversazioni perché c’è il rischio di essere intercettati e questi non sapevano che erano intercettati nel momento in cui progettavano di non nominarlo per non essere intercettati e quindi ce l’hanno ficcato dentro anche senza volerlo e questo naturalmente è molto interessante, perché è una intercettazione assolutamente spontanea.
Caruso dice “allora Tonino si è perso in un bicchiere d’acqua, ieri sera d’istante non li ha voluti mortificare” stanno parlando dei fatti loro e Ruvolo dice “no no niente quello che ti voglio dire pure a te – quindi sta passando la voce a tutti – il nome di là non lo dobbiamo nominare” che cos’è il nome di là? L’altro dice “qual è?” e l’altro dice “Dell’Utri, capisti!” è evidente che stavano già parlandone prima da un’altra parte non intercettati e infatti dice “il nome di là” e infatti lui gli vuole dire noi non dobbiamo parlare più. “Dell’Utri, capisti!” e Caruso dice “no” e allora Ettore Ruvolo gli dice “completamente non deve esistere, non deve esistere, Ni’ – cioè Nino – non deve esistere”.
Caruso poi va e dice “noi siamo portati che abbiamo e ci dobbiamo capire, abbiamo un governo regionale e un governo nazionale, basta. Noi qui siamo, ha a che fare con il governo regionale, hai capito. Il governo regionale è qua, il governo nazionale è là, ma lui dice guarda me governo nazionale, Talia – cioè guarda – puoi essere tu il governo nazionale, io quello non si sa. E l’altro cioè Ettore gli dice me ne sono andato io, quel nome non deve esistere completamente, l’ordine scrivono i giudici di non nominare mai Dell’Utri era riferito evidentemente a un precedente dialogo afferente a un argomento riguardante la sfera politica, infatti Caruso poi dice non esiste non esiste e vanno avanti. Insomma di Dell’Utri non si deve parlare più, perché? Perché già se ne è parlato troppo in tante conversazioni che poi sono confluite nelle intercettazioni acquisite agli atti del processo Dell’Utri che hanno portato questo sant’uomo a una condanna a nove anni in primo grado per concorso esterno in associazione mafiosa e come vedete Dell’Utri è sempre in cima ai pensieri di questi mafiosi, tant’è che o per parlarne o per dire di non parlarne ce l’hanno sempre presente davanti agli occhi come un santino.
Non mi pare che questa notizia l’abbiate letta da qualche parte, non mi pare nemmeno che durante le celebrazioni per il 23 maggio qualcuno abbia detto ai compagni di partito di Dell’Utri se avessero qualche dichiarazione da fare, qualcosa da dire, non so per esempio il Presidente del Senato così proiettato verso la lotta alla mafia, almeno a parole, per non parlare del Ministro Alfano che è proprio una specie di scalmanato dell’antimafia, perlomeno naturalmente a parole.
E poi vedete come a furia di fare scomparire i fatti poi ci si riduce a fare celebrazioni oleografiche, celebrazioni retoriche, declamazioni che poi non vanno nel profondo, pensate se dovesse mai succedere che si presenta una volta uno il 23 maggio in piazza e invece di fare le solite giaculatorie, l’amico Giovanni, l’amico Paolo, non abbassiamo la guardia, il bacio alla vedova, il bacio all’orfano etc. dicesse “io voglio sapere chi è l’uomo delle istituzioni che all’epoca del governo Amato avviò la trattativa tra lo Stato e la mafia, ricevette il papello, autorizzò i Carabinieri a andare a negoziare con un mafioso come Ciancimino, cioè con coloro che avevano appena fatto ammazzare Falcone”. Pensate che rivoluzione? Purtroppo dal 92 sono passati 17 anni, sarà perché il 17 porta sfiga, ma nemmeno quest’anno abbiamo avuto la fortuna di sentirne uno solo che facesse questo discorso o che magari sventolasse questa telefonata di due mafiosi che parlano di Dell’Utri e anzi dicono di non parlare di Dell’Utri, per dire ma possibile che noi ci teniamo in Parlamento uno così? O magari aggiungano che nella Giunta Regionale, quel giorno era ancora piedi Lombardo non l’aveva ancora sciolta, sedeva un altro indagato per compravendita di voti con i mafiosi e prossimamente spedito in Parlamento europeo.

“Il Fatto”, il nostro giornale

Vi ho detto prima di tenere a portata una biro e un foglio di carta perché devo darvi una notizia che mi auguro molti di voi gradiranno, è una notizia che riguarda un nuovo giornale, un nuovo giornale che faremo on line e faremo su carta e che dovrebbe essere pronto noi confidiamo a settembre, dovrebbe chiamarsi il Fatto, il Fatto nuovo, il Fatto quotidiano, adesso stiamo decidendo la testata ma comunque il fatto sarà centrale perché lo vogliamo dedicare a un grande come Enzo Biagi. Sarà diretto da Antonio Padellaro e sarà scritto da una piccola e agguerrita redazione di giovani appena usciti dalle scuole di giornalismo, gente che vuole fare con grande entusiasmo questo lavoro e poi avrà dei collaboratori, per esempio ci sarò pure io, ma ci saranno tanti altri che in questi anni avete imparato a conoscere nelle battaglie per la libertà di informazione contro questo regime berlusconiano e contro questa opposizione tra l’inesistente e il complice, decidete voi.
Non è un giornale di partito, non è un giornale di Stato, è un giornale che non ha padroni, è un giornale che non ha un editore, è un giornale molto strano per molti motivi, intanto quello di non avere un padrone ma di avere una società editoriale nella quale ci siamo messi in gioco e abbiamo investito anche qualche soldo noi che lo scriveremo, una società che non ha una figura dominante che ha diversi azionisti con piccole quote, chi lo vorrà diventare naturalmente lo potrà fare. E quindi questa è la prima anomalia.
La seconda anomalia è che sarà un giornale che dà le notizie, a cominciare dalle notizie che gli altri giornali non danno, le analisi che gli altri non fanno, tratterà gli argomenti che gli altri non trattano, insomma cercherà di riempire quel grande vuoto che molti di noi, e spero anche molti di voi, avvertono da diversi anni nel mondo dell’informazione ufficiale.
Non chiederà soldi pubblici e quindi non farà finta di essere organo di un partito o di un finto partito per acchiappare denaro pubblico, abbiamo fatto il V-day per denunciare quello sconcio e quindi mai ci saremmo sognati di ricorrere a un escamotage come quello, altra anomalia è un giornale che crede nel libero mercato, quello vero però non quello finto che abbiamo in Italia e anche in altri paesi dell’occidente. Cioè il libero mercato in questo senso, se ci sono dei lettori interessati a questo giornale noi questo giornale cercheremo di farlo, anzi siamo ormai sicuri di farlo, con le nostre forze, se non ci saranno lettori interessati a questo giornale noi il giornale non lo faremo, se ci sarà domanda ci sarà anche offerta, ecco noi mettiamo l’offerta, la domanda dipende naturalmente da tutti voi e da tutti quelli che voi conoscete.
Abbiamo deciso di fare così, come si fa a sapere se ci sono i lettori prima che esca il giornale? Abbiamo deciso di lanciare una grande campagna abbonamenti, grande nel senso che cercheremo di occupare tutta la rete perché non abbiamo i mezzi per fare spot televisivi o per comprare spazi sui giornali e quindi in rete sui social network, sui blog,  a cominciare da Voglio Scendere, da oggi il blog di Beppe e tutti i blog e i siti amici e chiunque di voi abbia blog o abbia pagine su Face Book è invitato naturalmente a passare parola anche su questo, una campagna abbonamenti preventiva per sapere chi si vuole prenotare per questo abbonamento o addirittura chi lo vuole sottoscrivere sulla fiducia, nel qual  caso naturalmente faremo dei prezzi superscontati per chi lo vuole acquisire prima fidandosi di noi. Chi invece lo vuole sottoscrivere l’abbonamento quando uscirà il giornale è ovvio che la tariffa sarà un’altra e sarà quella più o meno relativa al costo di un giornale.
Come fare per prenotarsi o per informarsi o per abbonarsi? Avevamo messo in piedi un service con un numero di telefono e un fax ma appena abbiamo annunciato la campagna abbonamenti il telefono e il fax sono andati in tilt, perché il service non era preparato a questa ondata di entusiasmo e quindi per il momento vi darei una mail che vi prego di segnare, la mail è dettofatto@ilfatto.info , vi do anche i numeri di telefono ma sarà difficile trovarli liberi, tra qualche giorno li troverete liberi perché metteremo in piedi proprio un call-center che non vi facciano attendere in linea e quindi se volete segnare c’è anche lo 02-66506795 e un fax 02-66505712. Se raggiungeremo un certo numero di abbonamenti, vi dico soltanto che nella prima giornata quando abbiamo dato l’annuncio abbiamo già avuto oltre 2.500 prenotazioni e quindi adesso nel week-end non lo sappiamo ma lo sapremo di nuovo da questa sera e da domani e vi terremo informati. Vi terremo informati anche su una pagina apposita che apriremo sul blog Voglio scendere che si chiamerà l’antefatto e sarà un po’ l’antipasto sul quale ogni giorno daremo delle informazioni su come sta andando la campagna abbonamenti, su quali saranno i collaboratori del giornale, cominceremo anche a dare delle notizie, dei commenti e delle analisi sulle notizie del giorno in modo da coprire l’estate e così da fare capire che genere di informazione vogliamo fare, una informazione molto interattiva per cui potrete anche ovviamente farla voi e segnalarla voi.
Il giornale uscirà su carta e uscirà anche su web, su web sarà gratuito naturalmente mentre su carta costerà l’Euro e venti che costano ormai i giornali, niente se volete prenotarvi per l’abbonamento o addirittura per diventare soci utilizzate quella mail oppure quei numeri di telefono che vi ho dato e passate parola a tutti quanti. Grazie.”

Antimafia Duemila – Riscontri incrociati. Brusca, Riina e Ciancimino sanno chi e’ il ”terminale” della Trattativa

Antimafia Duemila – Riscontri incrociati. Brusca, Riina e Ciancimino sanno chi e’ il ”terminale” della Trattativa.

di Giorgio Bongiovanni e Silvia Cordella – 27 maggio 2009

La sparizione di documenti importanti è sempre il finale di ogni delitto eccellente. In questo caso potrebbe essere la premessa di qualcosa di grave che potrebbe accadere.
Per evitare il peggio il sostituto della Dda di Bologna Walter Giovannini ha ottenuto così l’assegnazione immediata di una scorta a Massimo Ciancimino che nei giorni scorsi aveva denunciato la sparizione di un verbale d’interrogatorio e di alcuni promemoria che lui stesso aveva scritto in vista della sua comparsa come testimone chiave al processo Mori – Obinu. Dopo però nemmeno una settimana dalla disposizione, il comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica di Bologna ha indietreggiato e l’altro ieri, con una nota all’agenzia di stampa Ansa, ha rettificato “di non aver disposto alcuna tutela” ma solo “una protezione – su iniziativa del Questore – che sarà trasformata a breve in vigilanza radio collegata”. Uno sbaglio di valutazione o un segnale di discontinuità? Sicuramente una scelta che espone il figlio di don Vito a pesanti conseguenze proprio nel periodo cruciale che precede la sua convocazione in aula nell’ambito del processo sulla mancata cattura di Provenzano nel quale sarà  interrogato sulla spinosa questione della Trattativa.
Massimo Ciancimino è un obiettivo sensibile perché è il custode dei molti segreti che legano la vita di suo padre a quella di Bernardo Provenzano. Per lui la prima condanna a morte la decretò negli anni ’90 Totò Riina ciancimino-massimo-web1-big.jpgquando seppe del suo ruolo di tramite nei contatti tra suo padre e i carabinieri. Anche il boss di Trapani Matteo Messina Denaro con lui avrebbe un conto in sospeso per il mancato pagamento di una tangente nel territorio di Alcamo. Oggi però il pericolo più forte è rappresentato dalle dichiarazioni che sta rilasciando alle Dda di Palermo, Caltanissetta e Catania nelle quali, su suo input, hanno avviato e riaperto una serie di inchieste destinate ad allargarsi a settori della politica e del mondo imprenditoriale che hanno stretto rapporti con la mafia.
La revoca della scorta dunque si traduce in un segnale negativo non solo per lui ma anche per coloro che, impegnati nell’accertamento di verità scomode in queste attività investigative, colgono la drammatica assenza delle istituzioni. “In quei documenti vi erano una serie di appunti di cui avrei dovuto parlare con i magistrati di Palermo – ci aveva detto al telefono Ciancimino junior – ma, rientrato da un mio recente viaggio, mi sono accorto che quei fogli erano spariti”. La cosa inquietante è che chi è entrato in casa non ha forzato la porta. “E’ rimasto tutto in ordine”. Massimo Ciancimino sa che chi ha fatto irruzione nella sua abitazione ha certamente voluto dargli un messaggio preciso per scoraggiarlo a parlare. D’altra parte, da quando ha deciso di collaborare con le procure siciliane, malgrado i pedinamenti, le lettere anonime, la benzina sull’auto e la siringa di propano davanti casa, il figlio dell’ex Sindaco di Palermo non ha retrocesso di un solo passo. Le sue intenzioni erano quelle di raccontare, dopo tanti anni di silenzio, tante verità. La più delicata è certamente quella sulla famosa Trattativa a cui nel 1992 il padre partecipò come mediatore tra il Ros dei Carabinieri e Cosa Nostra.

L’appuntamento in aula del 23 maggio scorso era stato fissato dalla quarta sezione penale di Palermo per sentirlo proprio in merito a questi temi ma alla fine la sua deposizione è stata rinviata.
In compenso la Corte ha ascoltato i pentiti Ciro Vara e Giovanni Brusca ed entrambi hanno confermato quanto già in passato avevano detto. Brusca, in particolare, ha riferito alcuni dettagli vissuti in quei primi mesi del ’92 quando le condanne della Cassazione del primo maxiprocesso erano divenute definitive con la sentenza del 30 gennaio di quell’anno. Un tradimento che aveva spinto Salvatore Riina a ideare la strategia stragista per reagire con violenza a certe promesse che non erano state mantenute. Per questo fece uccidere Salvo Lima, il suo referente della democrazia cristiana vicino ad Andreotti e Giovanni Falcone, suo acerrimo nemico. Il capo di Cosa Nostra voleva spingere lo Stato a trattare e così avvenne, secondo il collaboratore, subito dopo la strage di Capaci. Successivamente alla morte di Falcone Riina arrivò “con aria soddisfatta” dicendo che “qualcuno dello Stato” “si era fatto sotto” e che, indicandolo con le mani, “gli aveva fatto un papello tanto”. “Cioè – spiega Brusca – tutta una serie di richieste per migliorare la nostra condizione”. L’obiettivo principale dei capi mandamento a livello regionale era infatti quello di ottenere la revisione del maxi uno ma anche  l’alleggerimento di alcune leggi sulla confisca dei riina-toto-web-big.jpgbeni e l’applicazione dei benefici carcerari previsti dalla legge Gozzini. Altre pretese invece erano state probabilmente ritenute inaccettabili. Per questo a un certo punto la trattativa aveva accusato uno stop. Siamo a cavallo delle due stragi e questa risposta negativa trovò “Riina un pò nervoso perché la trattativa si era arenata”. Inaspettatamente anche Brusca venne fermato durante la preparazione dell’attentato all’on. Mannino. Un delitto che rientrava nella strategia iniziale di Riina per controbattere alle promesse mancate dei politici. Dopo qualche giorno esplose la bomba in via d’Amelio in cui morirono il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta. Era il segno di un cambiamento nel programma stragista. Ma da cosa nasceva l’esigenza di eliminare il giudice? La risposta è da ricercare in quell’intreccio atavico tra potere mafioso, politico e imprenditoriale che in quella stagione sfociò in una trattativa che pezzi dello Stato intavolarono con Cosa Nostra. Una negoziazione di cui Brusca conosceva le fasi per averle apprese da Riina in persona ma che non portò avanti direttamente perché “nelle mani di altri”. Solo in seguito al suo arresto Brusca, durante una successiva fase processuale, apprese che il tramite della Trattativa era Vito Ciancimino in contatto con carabinieri del Ros, precisamente col generale Mario Mori e il capitano De Donno. La cosa però non lo sorprese affatto, Brusca le sue deduzioni le aveva già fatte. I militari glielo confermarono soltanto in sede di dibattimento, con la differenza che posdatarono quel “dialogo” con Cosa Nostra dopo luglio del ’92, motivandolo con la loro intenzione di catturare Riina e Provenzano.

Una data che però non coincide con le dichiarazioni dell’ex boss di San Giuseppe Jato e nemmeno con quanto sostiene Massimo Ciancimino, il figlio di don Vito, il quale colloca la trattativa al mese di giugno del 1992. Resta da chiarire chi potrebbe essere stato il terminale di questa Trattativa. Brusca, con un colpo di scena in udienza, ha detto di conoscere questo nome perché glielo disse Riina. Nonostante le insistenti domande della difesa di Mori e Obinu (avv. Milio e Musco) e quelle del Pubblico Ministero, rappresentato in aula dall’aggiunto Antonio Ingroia e dal sostituto Nino Di Matteo, il collaboratore si è trincerato dietro la formula della facoltà di non rispondere. Il motivo? Indagini in corso secretate. L’unica frase che la difesa riesce a scucirgli è “feci quel nome in tempi non sospetti, in fase d’indagine”. In effetti, tornando indietro negli anni Brusca parlò solo una volta di quel personaggio. Lo fece durante un dibattimento sulle Stragi, affermando che l’identità del terminale la disse ai procuratori Chelazzi e Grasso, in occasione di un interrogatorio in carcere, dopo l’approvazione della legge che limita il tempo delle dichiarazioni dei pentiti a 180 giorni. Così Brusca esordiva: la «buonanima» del procuratore Chelazzi (stroncato da un infarto il 17 aprile 2003) e il procuratore Grasso «mi hanno fatto fare dei ragionamenti in base a chi poteva essere colui che faceva da tramite per Salvatore Riina in questi contatti e io ho detto subito di Antonino Cinà, di Ciancimino e altri… Comunque anche se lo immaginavo non avevo le prove. Trovandomi a Palermo poi per altri problemi giudiziari leggo da Repubblica (che mi attacca quando conviene, sono bravo e non sono bravo, dipende dalle circostanze…) e trovo riscontro a quello che io avevo detto e viene fuori a chi Salvatore Riina aveva mandato il famoso papello per ottenere i benefici per Cosa Nostra (…)».
brusca-giovanni-web-big.jpgAnche se allora Brusca non fece quel nome direttamente indicò con precisione che era contenuto nell’articolo scritto da Viviano in cui l’unico nome che emerge è quello dell’attuale vicepresidente del CSM Nicola Mancino. Scriveva infatti Viviano: «I due pm (Grasso e Chelazzi citati da Brusca ndr.) sono gli autori del verbale di interrogatorio che è ancora secretato ed in quel verbale Brusca fa riferimento all’ex Ministro degli Interni, Nicola Mancino che s’insediò al Viminale il primo luglio 1992, proprio il giorno in cui Borsellino interrogava a Roma il pentito Gaspare Mutolo, (interrogatorio ndr) che interruppe per qualche ora per recarsi proprio al ministero dell’Interno. Mancino smentì però l’incontro con il giudice Borsellino sostenendo di non sapere nulla della trattativa».

Episodi che potrebbero essere invece attualizzati dalle rivelazioni di Massimo Ciancimino, testimone diretto di quella trattativa di fine primavera ‘92 e che potrebbero coinvolgere l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino il quale non si esclude possa averne fatto cenno al giudice Paolo Borsellino. Se così fosse sarebbe di rilevanza cruciale l’annotazione dell’agenda grigia del giudice nella quale alle ore 18.30 del 1 luglio 1992, diciotto giorni prima della sua morte, aveva segnato l’incontro col neo-ministro da cui era ritornato sconvolto. Un appuntamento che l’attuale vicepresidente del Csm non ricorda perché “fra tante strette di mano e persone che quel giorno (ad appena un mese dalla strage di Capaci non ricordava il volto di Borsellino, ndr) andavano ad omaggiarlo per il suo insediamento al Viminale non sa se ci fosse anche il giudice di Palermo”. Ricordi di Mancino a parte, l’unica cosa che sembra ormai certa è che la trattativa, contrariamente a quanto sostengono Mori e De Donno, a quella data era già ampiamente avviata.
E siccome don Vito non era un ingenuo né tantomeno uno sprovveduto non avrebbe mai portato avanti un affare di quella portata se non avesse avuto delle garanzie che i due militari non fossero portatori di un mandato superiore che ne garantiva il suo delicato intervento. E allora se è plausibile ritenere che Borsellino quel primo luglio 1992 fosse venuto a conoscenza di una negoziazione tra pezzi delle Istituzioni e Cosa Nostra e ancora più certo  che lui mai e poi mai, soprattutto dopo la morte di Giovanni Falcone, avrebbe potuto accettare un simile compromesso. In questo modo, come deducono varie sentenze, Borsellino si sarebbe messo di traverso ostacolando quel dialogo che irrimediabilmente causò l’accelerazione della sua morte, progettata in tutta fretta al posto di quella dell’on. Mannino. Ipotesi che, chissà, potrebbero trovare conferma nei documenti scottanti che Ciancimino potrebbe aver ereditato dal padre e rispondere alle tante, troppe domande che tutt’oggi non trovano risposte acclarate.
Per questo la sparizione di alcuni fascicoli nell’appartamento di Massimo Ciancimino desta grande preoccupazione così come la notizia della scorta, revocata non si sa bene perché, dopo nemmeno una settimana dalla sua applicazione. Episodi che minano la serenità del testimone eccellente. E forse è questo ciò che qualcuno vorrebbe ottenere, proprio adesso che le indagini sulla mancata cattura di Provenzano nel 1995 stanno prendendo vigore a Palermo così come quelle sulla strage di via d’Amelio a Caltanissetta. Non è una coincidenza che proprio Salvatore Riina nelle sue dichiarazioni spontanee del 2004, di fronte alla Corte che lo processava, aveva chiesto come mai nessuno fosse ancora andato a chiedere a Massimo Ciancimino il perché Mancino sapesse, cinque o sei giorni prima del suo arresto, che il capo di Cosa Nostra sarebbe stato catturato. Riina, anticipando anche le dichiarazioni del figlio di don Vito, rivela l’esistenza di una trattativa in cui lui stesso sarebbe stato “venduto” per poi venire usato come capro espiatorio per coprire le responsabilità di alti poteri che, come legittimamente lasciano supporre le sentenze, concorsero alla determinazione della strage di Capaci e quella di Via d’Amelio.

“Signor Presidente – aveva esordito Riina – le voleva dire che io in questo processo (per le stragi del continente, ndr) mi domando che cosa ci sto a fare. Perché praticamente io…quando è successo di queste stragi di Firenze, di Roma, di Milano io sono stato arrestato il 15 gennaio del ’93.. e quando sono stato arrestato mi hanno portato in isolamento a Roma. Quindi non avevo contatti con nessuno… telecamere dietro la porta, dietro le feritoie. Mi hanno messo le guardie penitenziarie quindi 5 anni e mezzo ho avuto sempre questa situazione per i primi mesi, sette, otto mesi fino al mese di luglio io non sentiva televisione, telegiornali, non sapeva se era vivo o se era morto cioè ero isolato da tutti. (…) Ecco perché io mi domando “io perché sono imputato in questo processo?” Allora mi si dice in un primo tempo mandante, poi mi si dice in un’altra maniera, ora all’ultimo nella sentenza mi si dice “ideatore”. Quindi io sono ideatore, condannato per ideatore, però signor Presidente la verità è che forse allo Stato servo per parafulmine perché tutto quello che succede in Italia e che è successo in Italia all’ultimo si imputa a Riina. Riina è parafulmine e Rina sta bene per tutte le pietanze per tutte le processe che si vengono fatte a Riina o ai compagni di Riina. Quindi che cosa succede che in questa situazione qua, di Firenze, ma se io sono lì che non ho contatti con nessuno a chi lo mandai a dire? come lo mandai a dire? come sono ideatore? Come lo ideai? (…) Poi ci sono i discorso degli altri processi. Per dire io mi trovavo nel processo Falcone. Nel processo Falcone c’è un aereo nel cielo che vola nel mentre che scoppia la bomba, questo aereo non si può trovare di chi è, chi è … e allora quindi si ombra-web.jpgcondanna Riina perché certamente Riina fa comodo. Mi troviamo nel processo di Borsellino e lì sul Monte Pellegrino c’è l’hotel e nell’hotel ci sono i servizi segreti e quando scoppia la bomba i servizi segreti scompaiono e non vengono mai citati perché si condanna Riina… perché l’Italia così è combinata! Cioè quando Scalfaro dice ‘io non ci sto’, io devo dire signor Presidente: io non ci sto. Io non ci sto a queste condanne fatte così. Queste sono condanne fatte a tavolino. Non sono condanne perché si cerca la verità perché io ho commesso questi delitti o ho fatto commettere questo delitto. Sono delle cose … delle trovate assurde…    perché se lei vede il Di Carlo viene creduto quando accusa me o ad altri ma quando il Di Carlo dice che ad andare a trovarlo nel carcere dell’Inghilterra i servizi segreti americani e quelli italiani e quell’dell’Inghilterra perché volevano aiuto ad uccidere Falcone lui ci ha nominato a suo cugino quello che si venne trovato poi impiccato lì al carcere di Roma. Quindi che cosa succede che il cugino… poverino si è messo a disposizione però poi ci ha lasciato le penne… (…). C’è Brusca che dice che ai Boboli feci mettere un proiettili e Riina non sapeva niente però tutte cose vanno avanti signor Presidente… sa quando l’avvocato chiede come testimonio il figlio di Ciancimino. Il figlio di Ciancimino non è stato mai citato, mai sentito. Perché non si sente dire il figlio di Ciancimino che era in contatto con il colonnello dei carabinieri che era allievo di quelli che mi hanno arrestato? Perché il figlio di Ciancimino che collaborava con sto colonnello non ci dice perché cinque, sei giorni prima l’onorevole Mancino ci dice: ‘Riina questi giorni viene arrestato’. Ma a Mancino chi ce lo disse cinque, sei giorni prima ‘Riina veniva arrestato’? E allora ci sono questi signori che mi ha venduto e allora cercare la verità non è che significa (…. ) La verità sta bene a tutti signor Presidente, può stare pure bene a me ma perché mi si deve condannare a me per cose che io non so, non ho commesso e non ho fatto. Io signor Presidente ringrazio lei e la Corte per avermi sentito però mi sento la persona additata per dire ‘tu sei il parafulmine d’Italia. Tu devi pagare il conto di tutti”.