Dal racconto che fa Massimo Ciancimino della vita di suo padre, dell’ex sindaco di Palermo, emerge un dato di grande importanza per interpretare la storia siciliana e italiana. Sarebbero esistiti fin dagli anni ’70 rapporti continui fra pezzi importanti della politica nazionale, uomini dei servizi e i capi di Cosa nostra. E al centro di questo intreccio vi erano alcuni uomini, fra cui lo stesso Vito Ciancimino. Nella puntata precedente (pubblicata su Terra) di questa ricostruzione delle versioni fornite da Massimo Ciancimino ai magistrati in più di un anno e mezzo di interrogatori, si vede il potente Vito entrare direttamente come intermediario, anche se laterale, in vicende centrali per la storia del nostro Paese: il caso Moro, la strage di Ustica, l’omicidio di Piersanti Mattarrella. E si nota anche come, con l’andar del tempo e con il progressivo deteriorarsi dell’immagine dell’ex sindaco (il primo arresto, le inchieste, le voci di stampa), Vito Ciancimino venisse messo a lato, continuando ad avere un ruolo ma non più di comando.
La forza di Ciancimino è e rimane comunque quella di avere, da sempre, un rapporto continuo ed univoco con Bernardo Provenzano. L’insistere da parte di Massimo Ciancimino su questo dettaglio è fondamentale per capire un dato che diventerà di importanza assoluta per capire sia la dinamica delle stagioni delle stragi del 1992/93, sia per districarsi nell’affaire della trattativa fra Stato e mafia. Bernardo Provenzano e Totò Riina hanno due linee e due approcci differenti, come due linee e due referenti diversi hanno Vito Ciancimino e l’andreottiano Salvo Lima. Lima che, secondo Ciancimino, è il canale diretto per Toto Riina.
Immediatamente dopo la strage di Capaci, anche se ormai marginalizzato, Vito Ciancimino ritorna ad essere fondamentale per riaprire un dialogo con Cosa nostra e interrompere la fase stragista che rischia di mettere a repentaglio decenni di equilibri di potere. Lima è stato ucciso pochi mesi primi, l’unico canale è l’ex sindaco. E qui i ricordi di Massimo Ciancimino si fanno chiari perché è lui protagonista del primo contatto. Secondo il racconto fatto ai magistrati, Massimo viene avvicinato, infatti, su un volo Palermo Roma dal capitano Di Donno dei Ros dei carabinieri e convinto a farsi tramite verso il padre per avviare una sorta di trattativa. Una sorta di pax in cambio della consegna di super latitanti del calibro di Totò Riina, apprenderemo poi. Contemporaneamente Antonino Cinà, medico ma organico a Cosa nostra e coimputato nel processo Dell’Utri, sta facendo invece da tramite sempre per una presunta trattativa (il famoso «si sono fatti sotto» attribuita al capo della cupola) con Totò Riina. I due momenti coincidono, e Ciancimino è chiamato a quella che i pm nell’interrogatorio al figlio definiscono una sorta di «consulenza».
Andiamo al racconto dell’intreccio politico mafioso descritto da Ciancimino. De Donno è uomo dell’allora colonnello dei Ros Mario Mori (attualmente i due sono sotto preocesso per aver favorito la mancata cattura di Provenzano nel 1995). Il primo contatto, ricordiamolo, avviene nel periodo che intercorre fra la strage di Capaci e quella di via D’Amelio. E avviene dopo che, da anni, Ciancimino ha allacciato una relazione di collaborazione con i servizi e in particolare con un fantomatico “signor Franco” (che a volte viene anche chiamato “signor Bruno”). «Ho sempre detto che mio padre da queste cose, sì, anche per un senso di schifo che aveva provato per tutto ma ne voleva trarre qualche minimo vantaggio, non pensava mai minimamente che questo potesse avvenire solo attraverso il Capitano De Donno e il Colonnello Mori – racconta ai pm Massimo Ciancimino -. Come ho già detto nei precedenti interrogatori ancor prima di iniziare la così detta trattativa mio padre aveva chiesto al signor Franco (l’uomo dei servizi, ndr) se era il caso e al signor Lo Verde (sotto questo nome si nascondeva Bernardo Brovenzano, ndr) se era il caso di ricevere il Colonnello e il Capitano». Avuta rassicurazione sia dall’uomo dei servizi che, a quanto si capisce, anche da Provenzano, Ciancimino si appresta a «mandare avanti questa trattativa». Da uomo accorto Ciancimino chiede al “signor Franco” se altri personaggi fossero a conoscenza della possibile trattativa. «Alla domanda di mio padre, (…) gli era stato riferito che di tutta la situazione erano a conoscenza sia l’Onorevole Mancino (Nicola Mancino, appena nominato ministro dell’Interno e attuale vicepresidente del Csm, ndr) che l’Onorevole Rognoni (Virginio Rognoni, all’epoca ministro della Difesa, ndr). Mi ricordo bene questa situazione perché mio padre di questo rimase un po’ deluso in quanto lui riteneva l’uomo chiave che potesse in quel momento storico dare un contributo, contributo positivo all’esito delle sue situazioni processuali, (sarebbe stato) l’Onorevole Violante (all’epoca presidente della commissione parlamentare Antimafia), difatti più volte chiese se era.. se non si riusciva a coinvolgere l’Onorevole Violante. (…) Non gli fu mai detto di un coinvolgimento dell’Onorevole Violante, ma (il signor Franco, ndr) disse soltanto di fidarsi (e di avere) come referenti l’Onorevole Rognoni e l’Onorevole Mancino». Questo dato, questo insistere in particolare su Nicola Mancino come referente informato, fa nascere innumerevoli dubbi. In particolare su quali furono le motivazioni reali, dopo la strage di Capaci, di una seconda strage così ravvicinata per uccidere anche Paolo Borsellino.
Emerge dal racconto di Massimo Ciancimino un altro elemento che ci consente di dare un’altra chiave di lettura alla storia degli ultimi vent’anni della Repubblica. Della possibile trattativa viene informato anche Totò Riina, attraverso Cinà, e questi presenta il cosiddetto “papello”, il foglio con richieste del gotha di Cosa nostra allo Stato. Richieste che Vito Ciancimino reputa, fina da subito, non recepibili se non una provocazione di un capo mafia che ormai si sente intoccabile, vincente, onnipotente. A questo punto, attraverso Bernardo Provenzano, si innescherebbe la vera trattativa, il cui prezzo sarebbe stata la cattura di vari boss fra cui l’arresto di Totò Riina. E Massimo Ciancimino spiega come sarebbe stato proprio suo padre, in collaborazione e probabilmente su indicazioni precise di Provenzano, a indicare come catturare il cosiddetto “capo dei capi”. Indicazioni fornite ai Ros di Mori che, infatti, il 15 gennaio del 1993 arrestarono Riina.
È a questo punto che Vito Ciancimino, dopo essersi esposto sia sul versante di Cosa nostra che su quello dei servizi e dei Ros, si trova ad essere scavalcato e rimosso. E secondo Massimo Ciancimino a subentrare all’ex sindaco, ormai “bruciato” e da lì a poco arrestato, sopraggiunge l’attuale senatore del Pdl Marcello dell’Utri, all’epoca capo di Publitalia e impegnato nella costruzione di Forza Italia: è il ’93. Il particolare emerge dall’interrogatorio del 9 luglio del 2008, quando Massimo Ciancimino racconta proprio della cattura del boss Totò Riina e di come suo padre cavalcando il malcontento di Provenzano verso la politica stragista del boss corleonese, fosse stato convinto a «consegnare» il latitante. Un’informazione che l’ex sindaco riferì ai carabinieri. E proprio nell’ultima fase della trattativa, nonostante il contributo fornito da don Vito, che l’ex sindaco Dc sarebbe stato sostituito da un altro soggetto. «Da qualcuno che l’aveva scavalcato?» chiede il pm al teste. Massimo Ciancimino annuisce e a domanda del magistrato risponde: «Mio padre disse che Marcello Dell’Utri poteva essere l’unico che poteva gestire una situazione simile secondo lui, dice poi per quanto ne sono a conoscenza io, di altri cavalli vincenti che possono garantire rapporti». Una convinzione che sarebbe stata più di un’ipotesi per il teste: «tant’è – prosegue – che lui (Ciancimino n.d.r.) una volta pure tentò di agganciare Dell’Utri perché voleva parlargli, poi non se ne fece più niente perché Dell’Utri aveva paura di incontrare mio padre». E mentre si aspettano gli altri verbali degli interrogatori di Ciancimino ancora non depositati, va in scena a Palermo proprio la fase conclusiva del processo d’appello al senatore Pdl.
Perché Ciancimino non è mai stato ascoltato. Eppure lui lo chiedeva.
Quel che si sa, dal racconto per altri versi contraddittorio, del generale Mario Mori e di Luciano Violante, è che dopo il delitto Lima e le stragi di Capaci e via d’Amelio, Vito Ciancimino voleva parlare alla commissione Antimafia. Mori chiese tre volte a Violante di incontrare Ciancimino. Violante dice di avere rifiutato perché l’incontro proposto era “riservato”, a tu per tu, e lui voleva sentirlo pubblicamente, in Antimafia. Il fatto è che il 26 ottobre ’92, appena s’insediò la commissione presieduta da Violante, Ciancimino chiese con una lettera aperta di esservi ascoltato per parlare del delitto Lima, che lui definiva “un avvertimento” che “va oltre la persona della vittima” e “punta in alto” perché “fa parte di un disegno più vasto… che potrebbe spiegare molte altre cose”. Un avvertimento a chi? Ovviamente al referente nazionale di Lima: Giulio Andreotti. Ma a quanto risulta al Fatto Quotidiano – dalle carte riservate dell’Antimafia, desecretate due giorni fa – la commissione fece di tutto per non sentire Ciancimino. Come se s’intuisse e si temesse quel che poteva rivelare: o sulla mafiosità della corrente andreottiana, o sulla trattativa avviata a giugno con i vertici del Ros, o su entrambe le cose.
Occhio alle date. Il 26 ottobre ’92 Ciancimino scrive a Violante per essere sentito in Antimafia. Il 27 ottobre si riunisce l’ufficio di presidenza: Violante propone accertamenti sul delitto Lima e “ricorda che l’on. Ciancimino (sic!, ndr) ha chiesto di essere ascoltato dalla Commissione, rinunciando alla presenza delle televisioni”. I rappresentanti dell’opposizione (Rete, Lega, Pds, Msi) chiedono di sentire “i politici coinvolti”, tra cui Andreotti; il missino Altero Matteoli “per Ciancimino è favorevole a procedere all’audizione in una fase successiva”. Il 10 novembre, altro ufficio di presidenza: si parla di nuovo di Ciancimino, ma non per decidere quando ascoltarlo, bensì per aggredirlo con un colpo assolutamente dovuto (le misure di prevenzione), ma che inferto in quel momento non sembra fatto apposta per scioglierli la lingua, anzi: “Viene auspicato un intervento del Csm perché sia finalmente portato a compimento il procedimento di applicazione delle misure di prevenzione nei confronti di Vito Ciancimino”. Non contento, “il presidente Violante ribadisce la necessità di seguire con attenzione gli sviluppi del processo di appello su Ciancimino, ricordando che la questione è stata segnalata al Ministro di grazia e giustizia ed al Vice Presidente del Csm”. Il 26 novembre sembra finalmente il gran giorno: l’Ansa informa che l’ufficio di presidenza ha “fatto il punto sul lavoro svolto e sono state tracciate le scadenze future: entro metà dicembre terminerà la fase istruttoria dell’inchiesta sui rapporti tra mafia e politica. Per quella data sarà ascoltato Vito Ciancimino”. Invece non se ne fa nulla. La melina dell’Antimafia continua, sempre più imbarazzante, di pari passo con la trattativa fra Ciancimino e il Ros. Finchè il 19 dicembre i giudici di Palermo levano le castagne dal fuoco ai politici e arrestano improvvisamente Ciancimino. Il quale, nel frattempo, ha potuto ben comprendere che nessuno lo vuole sentire. Almeno i politici. Lo sentirà Gian Carlo Caselli, poco dopo essersi insediato alla Procura di Palermo il 15 gennaio ’93 (lo stesso giorno dell’arresto di Totò Riina e della mancata perquisizione del covo da parte del Ros, forse nel timore di trovare carte inerenti la trattativa del papello). Ma Ciancimino, a quel punto, si ritrarrà a guscio e dirà ben poco sul delitto Lima e sul caso Andreotti. Anche perché sia Violante sia Mori si sono ben guardati dal rivelare a Caselli quel che sanno sui colloqui top secret fra il Ros e Ciancimino.
Intanto, in Antimafia, la manfrina prosegue: il 25 marzo ’93, in ufficio di presidenza, il senatore pds Guido Calvi “chiede di acquisire informazioni su Ciancimino, sui latitanti e sui sequestri di persona. L’Ufficio di Presidenza su Ciancimino non reputa, per il momento, opportuno richiedere notizie in merito alle presunte voci di collaborazione”. Passano altri due mesi e mezzo. L’8 giugno “il senatore Brutti (Pds, ndr) ritiene utile che la Commissione ascolti Ciancimino”. Ma nel mese successivo non accade nulla. Finchè il 6 luglio l’ufficio di presidenza dell’ Antimafia “approva la proposta… di procedere all’audizione di Vito Ciancimino… con le stesse modalità seguite nelle audizioni dei pentiti”. Proposta puramente virtuale: Ciancimino non verrà sentito né allora nè mai.
Nel giorno dell’audizione dell’ex presidente della Camera Violante, uno dei figli dell’ex sindaco conferma: «Mio padre era l’intermediario, Obinu e Mori la controparte»
E’ stata una mattinata di quelle che non si vedevano da tempo a Palermo. L’aula del tribunale dove si sta svolgendo il processo Mori-Obinu era stracolma di giornalisti, fotografi, telecamere. Stiamo parlando del processo al generale dei Ros, ex capo del Sismi e oggi prefetto Mario Mori e al colonnello Mauro Obinu, accusati di favoreggiamento aggravato a Cosa nostra per la mancata cattura del boss Bernardo Provenzano nel 1995 a Mezzojuso.
In aula era attesa l’audizione di Luciano Violante sugli incontri avuti con Mori e sulla presunta trattativa fra Stato e mafia. Presente solo Mori, mentre l’altro imputato, Obinu, era assente. L’ex presidente della Camera ha confermato quello che già aveva lasciato trapelare negli scorsi mesi, ovvero di aver ricevuto per tre volte Mori nel ’93, quando era il numero uno della commissione Antimafia, che gli sollecitava un incontro riservato con l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino. «La prima volta Mori mi disse che Vito Ciancimino, che viveva a Roma dalle parti di piazza di Spagna – ha raccontato in aula Violante – intendeva parlarmi riservatamente e che mi voleva dire delle cose importanti e che mi avrebbe chiesto qualcosa. In quell’occasione feci presente che non svolgevo colloqui riservati e che poteva chiedere un’istanza all’Ufficio di presidenza della commissione Antimafia, che avrebbe valutato la vicenda. Il 29 ottobre comunicai alla Commissione che Ciancimino voleva essere sentito». Nonostante l’insistenza di Mori, che ogni volta ripeteva la stessa richiesta, Luciano Violante respinse ogni appuntamento. I tre incontri e la richiesta di mettere in atto un approccio riservato con Ciancimino sono stati confermati anche dall’alto ufficiale che al termine dell’audizione di Violante ha rilasciato una dichiarazione spontanea e ha depositato una memoria scritta. Ma Mori ha negato che si trattasse di incontri finalizzati alla trattativa e anzi ha ribadito che il suo rivolgersi al presidente della commissione Antimafia testimonierebbe sulla sua buona fede e correttezza istituzionale. Ma, di fatto, Mori non ha spiegato per quale ragione così insistentemente si è fatto promotore di questo incontro come del resto Violante non ha dato conto di 17 anni di silenzio su questa vicenda nonostante ormai da anni si parli diffusamente della trattativa e di chi ne fu protagonista. Mori ha anche ricordato come ebbe «ripetuti contatti telefonici con Paolo Borsellino, che conoscevo da tempo, finché il magistrato mi chiamò dicendo che mi voleva parlare riservatamente insieme al capitano De Donno. Decidemmo di vederci a Palermo il 25 giugno 1992, negli uffici del Ros, perché il dottor Borsellino disse che non voleva che qualche suo collega potesse sapere dell’incontro». Questo confermerebbe in parte le dichiarazioni sia di Claudio Martelli sia di altri dipendenti del ministero di Giustizia che nelle scorse settimane avevano riaperto anche questo capitolo, ma Mori ha negato che si trattasse di comunicare al magistrato l’esistenza di un’ipotesi di trattativa. Ma una frase della sua deposizione ha creato stupore: «Nel salutarci, il dottor Borsellino raccomandò ancora la massima riservatezza sull’incontro e sui suoi contenuti, in particolare nei confronti dei colleghi della Procura di Palermo», aprendo di fatto un nuovo capitolo di questa già intricata vicenda, ovvero l’ipotesi di un “traditore” nella magistratura palermitana.
Ma ieri non hanno parlato solo Violante e Mori, ma anche l’altro figlio di Ciancimino, Giovanni, che ha invece ribadito che la trattativa ci fu, che suo padre ne era intermediario e che Mori e Obinu ne sarebbero stati la controparte. «Ricordo che mio padre fino al giugno del ’92 diceva sempre “farò la stessa fine di Salvo” (il riferimento è a Salvo Lima ucciso nel marzo ’91, ndr). Ma poi, dopo l’incontro di giugno con i “personaggi altolocati” di cui parlava, ringalluzzì. È come se avesse avuto altra linfa vitale».
E ha poi così proseguito: «Mio fratello Massimo era a conoscenza dell’argomento, mentre io evitavo di parlarne. Fu Massimo a dirmi che un colonnello doveva andare a parlare con mio padre a Roma per dei racconti confidenziali». E sempre nella stessa sede Giovanni Ciancimino ha ribadito anche lui di essere stato messo a conoscenza dell’esistenza del famigerato “papello”.
Di Peter Gomez – Il Fatto Quotidiano, 17 ottobre 2009
Basta poco per rendersene conto. Basta rileggere le cronache parlamentari. Nei 12 punti elencati da Totò Riina nel suo papello come condizione per chiudere la stagione delle bombe non vi è nulla di sorprendente. La trattativa tra Stato e mafia c’è stata, proprio come raccontavano, ben prima della scoperta del papello, le sentenze definitive sulle stragi del ’93. Non per niente, durante gli ultimi 17 anni, buona parte dei desiderata di Cosa Nostra sono stati discussi e, a volte approvati, da Camera e Senato. Le supercarceri di Pianosa e l’Asinara sono state chiuse nel 1997 dal centrosinistra. La legge sui pentiti, coi voti dell’Ulivo e il plauso del centro-destra, è stata riformata nel 2001, provocando un crollo verticale del numero dei collaboratori di giustizia. Il 41 bis, il cosiddetto carcere duro, è stato invece “stabilizzato” nel 2002. Ma la norma, anche questa volta bipartisan, è stata scritta male. Così i tribunali di sorveglianza, com’era perfettamente prevedibile, si sono trovati a dover revocare il 41 bis (già reso molto meno duro) a centinaia di boss. E persino quattro mafiosi condannati per la strage di via dei Georgofili a Firenze sono adesso detenuti in regimi penitenziari normali.
A partire del 1994, poi, si è cominciato a parlare pubblicamente della possibilità di concedere forti sconti di pena agli uomini d’onore che non si pentono, ma decidono invece di dissociarsi dall’organizzazione. Il primo a farlo è stato uno dei tanti testimoni di quella trattativa che oggi ritrovano miracolosamente la memoria: Luciano Violante. Subito dopo, nel 1996, un’apposita proposta di legge è stata presentata da tre senatori dell’allora Ccd, mentre nel 2001 il futuro ministro degli Esteri, Franco Frattini, se l’è presa con i giornali che parlando troppo di dissociazione avevano fatto saltare “l’intera operazione”. Leggendo la copia del papello in mano ai magistrati un’unica domanda ha quindi senso: la trattativa con Cosa Nostra è ancora in corso? Perché come diceva una delle sue vittime, il giudice Paolo Borsellino: “Politica e mafia sono due poteri che vivono sul controllo dello stesso territorio: o si fanno la guerra, o si mettono d’accordo”.
Massimo Ciancimino continua a parlare e a fornire documenti agli inquirenti. Lo ha fatto ancora ieri per più di quattro ore in Procura a Palermo davanti ai pm del capoluogo e di Caltanissetta. All’interrogatorio hanno partecipato, infatti, il procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia, i pm Nino Di Matteo e Roberto Scarpinato, il procuratore di Caltanissetta Sergio Lari e il suo aggiunto Domenico Gozzo. La presenza di entrambe le Procure significa che si è parlato non solo della trattativa e del famoso papello, ma anche della strage di via D’Amelio, di competenza del Tribunale di Caltanissetta. Poche ore prima si era lasciato sfuggire alcuni dettagli nuovi sulla vicenda della trattativa fra Stato e mafia, datandola nel periodo fra la strage di Capaci e quella di via D’Amelio nel 1992. «La trattativa è iniziata – ha spiegato il figlio dell’ex sindaco – quando il capitano (Di Donno) in aereo mi avvicina e mi dice che vuole avviare una trattativa. Mio padre, tramite altri canali, volle sapere se davvero questi due soggetti (i vertici del Ros) erano accreditati e avevano le coperture tali per potere mantenere questi impegni». E poi ha spiegato perché la scelta come mediatore fosse caduta proprio sul padre, raccontando che «il rapporto costante tra Cosa nostra e le istituzioni è stato duraturo e ha rappresentato la politica e l’imprenditoria degli ultimi anni in Sicila. Il ruolo di mio padre era di cercare un equilibrio e far sì che l’equilibrio reggesse». Queste dichiarazioni, quasi uno sfogo rilasciato a Rainews24, sono state probabilmente causate dalle “disavventure” della notte precedente, quando due uomini del reparto operativo dei carabinieri,
in borghese, sono stati identificati dalla scorta di Ciancimino sotto la sua casa. Strana coincidenza, anche se i carabinieri si sono affrettati a smentire che i due uomini stessero svolgendo qualche indagine relativa al figlio dell’ex sindaco di Palermo, anche perché ieri mattina, a poche ore dallo strano “incidente”, Ciancimino ha testimoniato proprio sul ruolo avuto dai Ros sulla trattativa fra Stato e mafia.
E sempre sui reparti speciali dell’Arma si attende per oggi in aula a Palermo la dichiarazione di Mario Mori, l’alto ufficiale indicato dai pentiti e da Ciancimino e oggi anche da alcuni esponenti del governo dell’epoca come uno dei protagonisti della presunta trattativa. E domani dovrebbe essere anche il giorno della deposizione in Procura di Luciano Violante che, all’inizio dell’estate, aveva ricordato alcuni dettagli mai resi pubblici su alcuni tentativi di abboccamento da parte di Vito Ciancimino con intermediario proprio Mori. Intanto si attendono gli originali del papello e degli appunti di Ciancimino, nonché le registrazioni effettuate dallo stesso ex sindaco durante i presunti incontri avvenuti con gli alti ufficiali dell’Arma. Tutti questi materiali sarebbero ancora in una cassetta di sicurezza all’estero, ma dovrebbero essere nelle mani dei magistrati entro la fine del mese.
Lo scenario Nuovi dettagli emergono dalle carte consegnate ai pm da Ciancimino. Dove nascono gli attentati e il tentativo di accordo con la politica operato dai boss
La trattativa fra Cosa nostra e lo Stato è in quel foglio, il famoso o famigerato papello, redatto da Riina, o da qualcuno per lui, e consegnato a Vito Ciancimino da Nino Cinà, già condannato per mafia e oggi sotto processo insieme a Marcello Dell’Utri a Palermo. Dodici richieste secche, scritte a stampatello. Consegnate al generale Mario Mori, come riportato in un appunto autografo dell’ex sindaco di Palermo, e destinate a due ministri: Mancino, titolare dell’Interno, Rognoni, ex ministro della Difesa. Mori ha sempre negato, come il suo collaboratore Di Donno. Ma anche le recenti dichiarazioni di Violante e di Martelli sembrano smentire i due alti ufficiali. Capiamo, perciò, cosa successe in quel periodo – siamo nella prima metà del ’92 – per comprendere per quali ragioni la mafia decise di colpo di alzare ulteriormente il tiro e attaccare frontalmente lo Stato. All’inizio dell’anno vennero confermate dalla Cassazione le condanne del maxi processo di Palermo, e il 12 marzo dello stesso anno venne ucciso l’uomo di riferimento di Giulio Andreotti nell’isola, Salvo Lima.
Il collaboratore Antonino Giuffré dichiara ai pm che con quell’omicidio «si è chiusa un’epoca». E, poi, spiega meglio: «Con quell’omicidio si è chiuso un rapporto che, come ho detto, non era più ritenuto affidabile. Si chiude un capitolo e se ne incomincia ad aprire un altro». All’interno di Cosa nostra si apre uno scontro non solo fra l’ala militare capeggiata da Riina e Bagarella e quella della “sommersione” che faceva riferimento a Provenzano sulle strategie di gestione, ma anche sulle scelte politiche dopo che si è spezzato il rapporto con la Dc. «Da un lato c’è un discorso di creare all’interno di Cosa nostra un movimento politico nuovo (d’ispirazione autonomista, ndr), cioè portato avanti direttamente da Cosa nostra», spiega il collaboratore, mentre dall’altro «si vede all’orizzonte un nuova formazione politica che dà delle garanzie che la Democrazia cristiana o, per meglio dire, parte di questa non dava più. Questa formazione politica, per essere io preciso, è Forza Italia».
Sul movimento “autonomista”, da quel poco che si è saputo, vi sono tracce anche negli appunti di Vito Ciancimino consegnati assieme alla fotocopia del papello ai pm palermitani. In questo scenario si inserisce la strage di Capaci, la necessità del morto eclatante e della sfida, per poi andare a patti, trovare altri soggetti con cui dialogare e ricominciare a tessere il potere nell’isola e a livello nazionale.
Poi, i 57 giorni che intercorrono fino alla strage di via D’Amelio. È qui che si inserirebbe, grazie ai racconti di Martelli e della Ferraro, l’inizio dei primi contatti fra Ciancimino e i Ros per avviare una trattativa. Sempre secondo la Ferraro, Borsellino sapeva della trattativa, e la sua morte è quindi motivabile dal suo rifiuto a percorrerla. Questa è anche una delle ipotesi che sta portando la Procura di Caltanissetta a riaprire il processo sulla strage di via D’Amelio.
Negli appunti di Ciancimino emergerebbe la necessità di mettere a conoscenza della trattativa esponenti di alto livello del governo e delle istituzioni, compreso l’appena nominato ministro dell’Interno Nicola Mancino. Ma Mancino nega, come del resto anche l’ex ministro della Difesa Rognoni. L’attuale vicepresidente del Csm è stato categorico, «né Mori né alcun altro», mi ha «consegnato» il papello, «né me ne ha mai parlato». Ma secondo le carte di Ciancimino le cose sarebbero andate diversamente. Ma forse c’è dell’altro, anche alla luce dei ricordi dell’ex guardasigilli Martelli – che avrebbe confermato ai pm di essere stato a conoscenza di una possibile trattativa – siamo davanti non solo alla necessità di riaprire i processi sui fatti del ’92 e del ’93, ma anche di riscriverne la storia.
Sono tutti abbottonati al palazzo di giustizia di Palermo, ovviamente, ma la notizia è certa. L’avvocato di Massimo Ciancimino ha consegnato le carte promesse dal suo cliente ai pm che stanno indagando sulla presunta trattativa fra Stato e Cosa nostra, compresa una fotocopia del famoso papello, le richieste di Totò Riina. Questa volta «non è una minchiata», si mormora nell’ambiente, dopo mesi di presunte consegne mai avvenute. E la notizia ha un suo peso, perché per la prima volta sarà agli atti una prova “fisica”, documentale, che la trattativa ci fu.
Ora, però, è necessario capire di che trattativa si parla, se fu solo una, se davvero uno dei prezzi pagati dalla mafia per far accogliere certi tipi di proposte sia stata la consegna di Totò Riina, con il contributo di Vito Ciancimino e, come si ipotizza, di Bernardo Provenzano. E su questo fronte la questione muta radicalmente, si complica, ridiventa in qualche modo “mistero”. Del papello si sa quasi tutto, anche se finora nessuno l’aveva visto fisicamente. Ne aveva iniziato a parlare Giovanni Brusca nel ’98, raccontando un dialogo intercorso fra lui e Riina. «Si sono fatti sotto – gli disse il “capo dei capi” – gli ho presentato un papello di richieste lungo così». A farsi avanti sarebbero stati i Ros. In particolare, a sondare un contatto attraverso Vito Ciancimino e poi a ricevere le richieste di Riina sarebbe stato il capitano Giuseppe Di Donno su ordine del generale Mario Mori. Questa una delle ricostruzioni più accreditate. Finora. Ma rimane aperta ancora la questione degli “altri” documenti consegnati dal legale di Ciancimino due giorni fa ai pm palermitani. Si tratta, come si ipotizza, di corrispondenza del padre di Massimo con politici, imprenditori e membri di Cosa nostra sia in relazione alla trattativa che al mutare del quadro politico nel biennio 1992-93? Ci sarebbero supporti documentali anche sul ruolo che avrebbe ricoperto Marcello Dell’Utri? Intanto rimane lo stupore del lungo silenzio a cui si sono sottoposti per 17 anni politici, pezzi delle istituzioni e collaboratori e amici di Falcone e Borsellino. Luciano Violante, Claudio Martelli e Liliana Ferraro gli ultimi ad aver superato un lungo periodo di amnesia. Ma già c’erano state le dichiarazioni di alcuni colleghi di Borsellino a Marsala, a luglio, “sui traditori”. A non ricordare, finora, sembra solo Mancino, allora ministro dell’Interno. E tutti parlano di una trattativa, di un intreccio pericoloso fra indagini e cedimenti e strategie al limite della legalità. E dalle tante ombre di quel periodo convulso (non solo le stragi, ma anche Tangentopoli e Gladio a fare da scenografia) emerge la figura di Bernardo Provenzano, da sempre posta in secondo piano se confrontata a quella di Riina. Un Provenzano che tratta, condiziona, consegna pezzi fondamentali (Riina compreso) dell’ala militare di Cosa nostra e poi gestisce la sommersione dell’organizzazione. Impunito e impunibile. Addirittura protetto da una possibile cattura, come si ipotizza nel processo al generale Mori e al colonnello Obinu dei Ros.
Ci sono dentro tutti. Gli uomini di Governo e di opposizione: quelli che tra il 1992 e il 1993, mentre per strada scoppiavano le bombe di mafia, erano al corrente della trattativa intavolata tra Cosa Nostra, i servizi servizi segreti e i carabinieri. E ci sono dentro anche i leader di oggi: il premier Silvio Berlusconi e il suo braccio destro Marcello Dell’Utri che, tra il ’93 e il ’94, proprio nei giorni in cui stava nascendo Forza Italia, furono informati, secondo il pentito Giovanni Brusca, di tutti i retroscena delle stragi.
A Berlusconi – ha più volte spiegato Brusca in aula e in una serie d’interrogatori davanti ai pm – la mafia fece arrivare, dopo i primi articoli di giornale che parlavano dei suoi legami con il boss Vittorio Mangano, un messaggio preciso: non ti preoccupare se adesso scrivono di te, intanto i tuoi avversari politici non possono far finta di cadere dalle nuvole, non ti possono tenere sotto schiaffo, perché ci sono di mezzo anche loro; dacci invece una mano per risolvere i nostri problemi altrimenti noi continuiamo con le bombe e finiremo per renderti la vita impossibile.
All’indomani della puntata di “Annozero” in cui l’ex Guardasigilli, Claudio Martelli, ha svelato di essersi opposto al dialogo tra Stato e Antistato e di aver fatto arrivare la notizia della trattativa in corso a Paolo Borsellino (che si mise di traverso e forse anche per questo fu ucciso), la storia oscura di quei giorni insanguinati assomiglia sempre più a quella di un grande ricatto. Un ricatto in cui affonda le sue radici la Seconda Repubblica. In troppi, infatti, sapevano, e in troppi hanno taciuto. La prima parte della vicenda è ormai nota. Borsellino, intorno al 23 giugno del 1992, viene avvertito da una collega del ministero dei colloqui che il colonnello Mario Mori e i capitano Giuseppe De Donno hanno avviato con l’ex sindaco mafioso di Palermo, Vito Ciancimino. Capisce che è in corso un gioco pericoloso. In quel momento parlare con i vertici dell’organizzazione vuol dire convincere Totò Riina che le stragi pagano perché lo Stato è disposto a scendere a patti. Dice di no da subito e per questo il 25 giugno, durante un dibattito pubblico, spiega di aver ormai i giorni contati. Poi incontra Mori e De Donno. E, il primo luglio, vede il nuovo ministro degli Interni, Nicola Mancino (che continua a negare di avergli parlato) e il numero due del Sisde, Bruno Contrada.
Che cosa si dica con loro non è chiaro. Fatto sta che Riina cambia strategia. Evita di uccidere, come programmato, il leader della sinistra Dc siciliana, Lillo Mannino, (considerato un traditore) e fa invece saltare in aria il 19 luglio Borsellino e la scorta. Un attentato reso più semplice dall’assenza di controlli in via D’Amelio, la strada dove viveva sua madre. E da un’incredibile dimenticanza: Borsellino non viene informato dell’esistenza di una relazione dell’Arma che dà per imminente un’azione di Cosa Nostra contro di lui e contro l’allora pm, Antonio Di Pietro.
Se questo è il quadro (Brusca e Massimo Ciancimino, il figlio di Vito, assicurano che Cosa Nostra era al corrente di come il presunto referente governativo della trattativa fosse Mancino), diventa chiaro quanto la notizia fosse politicamente esplosiva. Anche perché pure l’ex comunista Luciano Violante, all’epoca presidente della commissione antimafia, sapeva che i carabineri parlavano con l’ex sindaco mafioso.
È a questo punto che, secondo Brusca, entrano in scena Berlusconi e Dell’Utri. Un anno dopo, intorno al 20 settembre del ‘93, Brusca legge un’articolo su L’Espresso in cui si parla del Cavaliere e di Vittorio Mangano. Riina, che non gli aveva mai parlato di questo legame con la Fininvest, è ormai in carcere. Durante la primavera e l’estate le bombe di mafia sono esplose a Roma, Firenze e Milano. Ma le stragi non sono servite per far ottenere a Cosa Nostra norme meno dure. Così Brusca pensa di utilizzare Mangano per fare arrivare al Cavaliere il suo messaggio. Ne parla con Luchino Bagarella, il cognato di Riina, che dà l’assenso. Verso metà ottobre Mangano parte in missione. A novembre, come risulta da un’agenda sequestrata a Dell’Utri, l’ideatore di Forza Italia lo incontra. Poi i colloqui, mediati secondo il pentito da degli imprenditori delle pulizie di Milano, proseguono almeno fino alle elezioni del marzo ‘94. Il futuro premier è soddisfatto Brusca ricorda: “Mangano mi disse che Berlusconi era rimasto contento”.
Paolo Borsellino sapeva della trattativa tra mafia e Stato. Anche illustri uomini della politica e del governo di Giuliano Amato erano informati: oltre all’allora ministro degli Interni, Nicola Mancino, nell’intervista di Sandro Ruotolo a Massimo Ciancimino (non trasmessa giovedì da Annozero per questioni di tempo) compare per la prima volta il nome di Virginio Rognoni, ex ministro dell’Interno, della Giustizia e della Difesa. Rognoni è stato vicepresidente del Consiglio Superiore della magistratura sino al 2006. Il suo successore è Mancino. Ciancimino fa riferimento alle fasi iniziali della trattativa, quando il padre Vito prepara le richieste. Siamo nell’ estate-autunno del ’92. Il 23 maggio Giovanni Falcone viene ucciso. Il 19 luglio è la volta di Borsellino. Oggi 85enne, Rognoni sarà ascoltato dal procuratore aggiunto di Palermo, Antonio Ingroia.
c.t.
Il testo dell’intervista di Sandro Ruotolo a Massimo Ciancimino non trasmessa giovedì 8 ottobre 2009 da Annozero per questioni di tempo.
Ma suo padre si fida dei due Carabinieri?
“Mio padre per la sua natura corleonese non si fida dei Carabinieri. Ce l’ha proprio dentro il sangue. E quando il colonnello e il capitano per poter instaurare questo tipo di trattativa si propongono come persone che possono dare sia i benefici suoi che altri benefici ben piu’ importanti, e’ chiaro che in lui nasce il dubbio. Mi dice: ‘ma come fanno questi due soggetti che di fatto non sono riusciti nemmeno a fare il mio di processo!. (quello sugli appalti, ndr) Ma come fanno questi due soggetti a offrire garanzie concrete a due superlatitanti… non sono in grado!’. In un primo momento gli viene detto che c’è il loro referente capo, il generale Subranni. E mio padre non e’ che e’ molto confortato…”
Subranni è il comandante dei ROS
“Esatto. Poi questo suo quesito lo fa al signor Franco. Il signor Franco lo conosco allo stesso modo di Bernardo Provenzano (…)”.
Il signor Franco è dei servizi segreti?
“Sì. E il signor Franco risponde a mio padre che il carabinieri non sono cosi’ ingenui e sprovveduti, ma che c’erano due soggetti informati e… costantemente tenuti al corrente di quelle che erano le fasi della trattativa, e nel caso in grado di poter attuare le richieste. Il ministro dell’interno Mancino e un altro soggetto politico”
Rognoni?
“Sì”’.
Quindi suo padre sa questo dal signor Franco?
“…che sono informati, cosa che non entusiasma mio padre per niente”
E si fida del signor Franco?
“Ne parla anche con i Carabinieri e loro stessi gli confermano la stessa cosa”.
Il colonnello Mori?
“Sì, il colonnello Mori. Ma la cosa importante è che mio padre di questo diciamo rapporto a monte non è per niente soddisfatto”.
Quindi non gli bastano Mancino-Rognoni?
“Esatto, non gli bastano… secondo lui, l’unica persona che ha lo spessore morale per garantire la trattativa, e che era quasi un incubo di mio padre, perché era convinto che Violante comandasse…”
Comandasse che cosa?
“Era convinto che Luciano Violante comandasse la magistratura (…)”
E Mori ne parla con Violante?
“Questo io… l’ho appreso leggendo i giornali”.
E lei che apprende invece da suo padre?
“Che Mori gli dice che non si poteva coinvolgere l’onorevole Violante (…)”. Però suo padre chiede di essere ricevuto dal Presidente della Commissione Antimafia (..) “Quando Violante divenne Presidente della Commissione”.
Quindi Violante ha detto no alla trattativa perché non ha voluto essere il garante dell’operazione. E dice no anche semplicemente ad ascoltare Ciancimino…
“Strano come l’unico politico condannato per mafia non sia stato mai ascoltato nonostante le sue continue richieste…”
Misteri – Nell’udienza romana nuove rivelazioni di Antonino Giuffrè. Il collaboratore racconta delle missioni di don Vito nella Capitale e come “Binnu”, nel periodo di sommersione, fosse impegnato a riformare l’organizzazione
È in trasferta a Roma, nell’aula bunker di Rebibbia, il processo al generale Mori e al colonnello Obinu, per ascoltare il collaboratore Nino Giuffré. Il processo è relativo alla fuga di Bernardo Provenzano, come denunciato dal colonnello dei carabinieri Michele Riccio, il 31 ottobre 1995 in una cascina a Mezzojuso. Secondo Riccio l’ex capo dei Ros avrebbe in qualche modo consentito che il boss si allontanasse indisturbato. Informai il colonnello Mori – ha dichiarato al processo Riccio -. Lo chiamai subito a casa per riferirgli dell’incontro e rimasi sorpreso, perché non me lo dimenticherei mai, non vidi nessun cenno di interesse dall’altra parte».
Secondo il collaboratore di giustizia ascoltato invece in questi giorni, il capo della nuova Cosa nostra durante il cosiddetto periodo di sommersione, Bernardo Provenzano, avrebbe portato avanti una trattativa per risolvere i gravi problemi che stava attraversando la mafia a causati dalla forte pressione dello Stato in seguito alle stragi del ’92. I temi erano la confisca dei beni, gli ergastoli, i collaboratori di giustizia, i benefici carcerari. La trattativa in una prima fase avvenne tramite Vito Ciancimino. Giuffré, in relazione alla trattativa, ricorda come Provenzano dicesse di Ciancimino, quando questi si recava a Roma, che era «andato in missione», e poi in seguito come si consolidasse il contatto che avrebbe consentito l’aggancio con un nuovo interlocutore politico: Marcello Dell’Utri. I rapporti con il senatore Dell’Utri, sempre secondo Giuffrè, sarebbero stati intrattenuti tramite diversi intermediari, in particolare il costruttore Ienna e i fratelli Graviano. A conclusione dell’udienza il colleggio giudicante ha deciso di ascoltare in aula, questa volta a Palermo, Luciano Violante e Giovanni Ciancimino, l’altro figlio di Vito Ciancimino che ha iniziato a rilasciare dichiarazioni solo di recente.
Ma ritorniamo alla vicenda che ha dato il via a questo processo, e quindi all’incontro di boss a Mezzojuso dal quale fuggì indisturbato il capo di Cosa nostra. Il colonnello Riccio era sul posto, avrebbe potuto intervenire immediatamente appena avuto il via libera dal capo dei Ros in Sicilia. «Mi disse che preferiva impegnare i propri strumenti, dei quali al momento era sprovvisto – prosegue Riccio nel suo racconto -. Noi eravamo pronti e non ci voleva una grande scienza per intervenire». L’ ufficiale ha parlato anche di un incontro a Roma fra Luigi Ilardo, vice del capo mafia di Caltanissetta “Piddu” Madonia e ffidato direttamente a Riccio del quale diventa confidente, il colonnello e Mori. «Quando lo portai da Mori, Ilardo gli disse: “In certi fatti la mafia non c’entra, la responsabilità è delle istituzioni e voi lo sapete”. Io raggelai». Dopo qualche mese Ilardo venne ucciso a Catania pochi giorni prima del suo ingresso “ufficiale” nel programma di protezione per i collaboratori. Ilardo aveva parlato esplicitamente anche di un contatto tra Provenzano e Dell’Utri, «l’uomo dell’entourage di Berlusconi», e di un «progetto politico», la nascita di Forza Italia, che interessava ai vertici della Cupola mafiosa. E motore di quel nuovo progetto politico, non a caso, era proprio l’allora capo di Publitalia Dell’Utri. Riccio ha raccontato in aula nel 2002 di un incontro con l’avvocato Taormina e Marcello Dell’Utri: «Nello studio del professor Taormina mi venne detto che sarebbe stato positivo per il senatore Dell’Utri se nella mia deposizione avessi escluso che era emerso il suo nome nel corso della mia indagine siciliana».
Testo:
“Buongiorno a tutti, ben ritrovati dopo le vacanze anche se magari qualcuno c’è ancora. Io no, purtroppo.
Vorrei parlare subito di una questione che secondo me segnerà questa stagione della politica, dell’informazione, della cronaca, della giustizia ed è probabilmente la vicenda più importante che si sta svolgendo, anche se i giornali ne parlano poco, tra alti e bassi, tra fiammate e docce gelate. Anzi, forse proprio per il fatto che i giornali ne parlano poco, tanto per cambiare.
E’ la faccenda di questi improvvisi squarci che si sono aperti quest’estate sulla vicenda della trattativa tra lo Stato e la mafia nel 1992, che poi null’altro è se non il paravento che cela i mandanti esterni, i suggeritori occulti delle stragi del 1992, almeno per quanto riguarda quella di Borsellino, e del 1993 di Roma, Firenze e Milano.
Ci sono molte novità che è difficile notare: eppure basta incrociare e confrontare ciò che esce sui giornali, senza bisogno di andare a vedere verbali giudiziari che sono ancora segreti e quindi né io né voi possiamo conoscere. Già quello che si è letto sui giornali è piuttosto significativo su quello che sta venendo fuori e io penso che se ci sarà una spinta dal basso della società civile, se qualcuno sul fronte politico prenderà finalmente sul serio questa faccenda e se i magistrati verranno lasciati lavorare, soprattutto quelli di Palermo, Caltanissetta e Firenze che sono quelli competenti per materia e per territorio sulle trattative del “papello”, Palermo sui mandanti delle stragi. Si potrebbe riuscire a capire chi sono i veri padri fondatori della Seconda Repubblica che, come forse avete sentito dire, non è nata a differenza della Prima dalla Resistenza ma proprio dalle stragi, dalle trattative, dalle bombe e dal sangue dei morti.
E’ sempre meglio ricapitolare per evitare di dare qualcosa per scontato e acquisito, in modo che chiunque incamera il Passaparola sappia com’è cominciata la vicenda e a che punto è arrivata.
Dopodiché ci ritorneremo se, come spero, avrà degli sviluppi.
Massimo Ciancimino comincia a parlare
La vicenda comincia semplicemente con le interviste di questo personaggio molto interessante, singolare, sicuramente molto chiacchierone, cioè Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo Vito, il quale per anni è stato indagato dalla procura di Palermo, ha avuto il torto di dover gestire il patrimonio di suo padre, è stato accusato di riciclaggio – lui dice che non è riciclaggio, si vedrà, questo a noi interessa poco. E’ stato condannato in primo grado per riciclaggio, adesso si sta battendo in appello. Di certe cose non aveva parlato ai magistrati fino a un anno fa, anche perché aveva come l’impressione che la vecchia procura di Palermo non fosse molto interessata ad alzare il tiro sugli alti livelli istituzionali e politici frequentati da suo padre; invece poi fa sapere ai magistrati della nuova Procura di Palermo, quella retta dal Procuratore Messineo – per intenderci – da un paio d’anni che ha come l’impressione che abbia più interesse a toccare certi altarini e quindi comincia ad affrontare temi che prima aveva lasciato perdere.
Anche perché si era reso conto che quando gli avevano perquisito la casa, stranamente, i Carabinieri non erano nemmeno andati ad aprire la cassaforte che pure era visibile anche da un bambino, ma stiamo parlando di vicende ricorrenti, ricorderete che i Carabinieri del Ros non entrarono nemmeno nella casa di Riina: il motto di certi servitori dello Stato, soprattutto a Palermo, è “non aprite quella porta e non aprite quella cassaforte”, forse perché sanno già quello che ci troverebbero dentro.
In ogni caso, questa era la ragione della sua impressione sulla vecchia gestione della Procura, tanto più che poi in casa gli avevano trovato la lettera di Provenzano a Berlusconi e invece di utilizzarla nei processi i magistrati della vecchia Procura l’avevano lasciata marcire in uno scatolone per cui quelli della nuova Procura l’hanno tirata fuori e recuperata in extremis per versarla nel processo Dell’Utri che, fra l’altro, riprenderà fra meno di tre settimane.
Ciancimino comincia dunque ad alzare il tiro e a raccontare ai magistrati di Palermo cosa faceva suo padre, perché tutto ciò che Ciancimino racconta lo ha visto fare da suo padre insieme a esponenti delle istituzioni oppure l’ha sentito raccontare sempre da suo padre, che è morto. Padre che gli avrebbe addirittura dettato un memoriale che sarebbe nascosto da qualche parte: sapete che Ciancimino ha carte interessanti nascoste in giro per il mondo e si spera che prima o poi si decida a consegnarle alla magistratura. Ci sono altre due lettere attribuite a Provenzano e rivolte a Berlusconi, in originale o in copia, ci sarebbe il famoso “papello” della trattativa tra Riina e i Carabinieri del Ros e i loro mandanti rimasti anch’essi ancora occulti, e poi ci sarebbe questo memoriale dettato da Vito Ciancimino e dattiloscritto da Massimo.
Inizia a raccontare dei rapporti tra suo padre e il capitano De Donno e il Colonnello Mori e li data – la trattativa poi sfociata nel papello – tra la strage di Capaci e quella di Via D’Amelio. Parliamo del mese di giugno del 1992: dopo che uccidono Falcone si fanno avanti i Carabinieri con Ciancimino.
Questa è già una prima novità perché inizialmente si pensava che la trattativa fosse iniziata dopo la strage di Via D’Amelio, invece no, pare che inizi prima e questo è molto importante perché molti magistrati e investigatori sono convinti che la strage di Via D’Amelio sia stata provocata proprio dalla trattativa tra i Carabinieri e Totò Riina in quanto questo, dopo aver eliminato Falcone, riceve da qualcuno l’input che bisogna eliminare anche Borsellino perché la strage di Capaci ha sortito l’effetto di attivare lo Stato a trattare con la mafia ma Borsellino lo è venuto a sapere, si oppone e quindi va eliminato: ostacolo da rimuovere sulla strada della trattativa. Quindi, la datazione dell’inizio della trattativa tra gli uomini del Ros e Ciancimino è fondamentale e Massimo Ciancimino a cavallo tra la strage di Capaci e quella di Via D’Amelio, giugno 1992.
Poi racconta che suo padre aveva rapporti intimi e costanti con Bernardo Provenzano, fino al 2000 quando il padre rimase agli arresti domiciliari.
Racconta che la trattativa dei Carabinieri fu soprattutto con Provenzano piuttosto che con Riina e questo spiegherebbe per quale motivo a un certo punto Riina si ritrova i Carabinieri davanti a casa: cresce l’ipotesi che sia stato venduto da Provenzano e Ciancimino ai Carabinieri in cambio del cambio di rotta della mafia più trattativista e meno stragista – Provenzano è più trattativista, Riina è lo stragista – e quindi dell’alleggerimento della pressione dello Stato sulla mafia e del fatto che Provenzano diventa il capo indiscusso di Cosa Nostra dopo l’arresto di Riina e che però le carte di Riina non si prendono, si lasciano a Provenzano, e che lo stesso Provenzano non si prende e questo ci ricollega al processo in corso a Palermo a carico, tanto per cambiare, del Generale Mori per non avere catturato Provenzano già nel 1995 quando il Colonnello Riccio, un altro ufficiale del Ros, lo aveva segnalato presente in un casolare di Mezzojuso.
Ciancimino racconta poi di avere visto lui il “papello”, cioè il foglio di carta con l’elenco delle cose che Riina o Provenzano, o Riina e Provenzano, chiedevano ai Carabinieri in cambio della cessazione delle stragi, “papello” che nel prosieguo della trattativa nell’autunno del 1992 dopo che era stato ucciso anche Borsellino fu consegnato a vari referenti tra i quali, dice Massimo Ciancimino mentre il generale Mori nega, al generale Mori.
Il “papello”, i Servizi Segreti e la copertura politica della trattativa
Dice però che il “papello” fece un tragitto un po’ più complicato: i capi di Cosa Nostra lo fecero pervenire a Vito Ciancimino, lui lo passò a un certo Carlo che era un uomo dei Servizi Segreti che gli stava accanto da una trentina d’anni – pensate, c’era un uomo dei Servizi Segreti, un certo Carlo, che accompagnava la vita e la carriera di un sindaco mafioso come Ciancimino per conto dello Stato. Quindi Ciancimino da’ prima il “papello” a Carlo e questo lo da’ a Mori, questo è molto importante perché Ciancimino per quanto riguarda le istituzioni si fida di questo Carlo che da trent’anni sta al suo fianco mentre Mori si è fatto avanti più di recente.
Ciancimino, il figlio, ricorda che suo padre per trattare – dato che a trattare tra Stato e mafia c’è da lasciarci le penne se si fa qualche passo falso – aveva preteso delle coperture politiche, che dovevano essere da parte del governo. Nel senso: chi è questo Mori che fa la trattativa? Sarà mica una sua iniziativa personale? No, ci deve essere dietro lo Stato altrimenti mica ci mettiamo a trattare. Chi lo manda Mori? Chi è d’accordo con la trattativa avviata da Mori? Dice Massimo Ciancimino, anche questo tutto da verificare naturalmente ma sono gli squarci che si stanno aprendo e quindi li dobbiamo raccontare così come li sappiamo, per quanto riguarda il governo la copertura chiesta da Ciancimino doveva darla il nuovo ministro dell’Interno Nicola Mancino, per quanto riguardava l’opposizione la copertura la doveva dare il rappresentante per i problemi della giustizia Luciano Violante, di lì a poco diventato presidente della Commissione Antimafia.
Insomma, sono d’accordo il governo e l’opposizione che lo Stato tratti con la mafia dopo la strage di Capaci e dopo la strage di Via D’Amelio? Questo vuole sapere Ciancimino per andare avanti con la trattativa. Infatti, si informa presso il signor Carlo – che secondo alcuni si chiamerebbe Franco, ma insomma… – che è appunto l’uomo dei Servizi affinché si informi di chi sta alle spalle di Mori. Dopodiché la trattativa prosegue, segno che le informazioni vanno a buon fine cioè che arrivano le garanzie che la destra e la sinistra, almeno il pentapartito perché in quel momento non c’era il centrodestra ma il pentapartito ovvero DC, Psi, partiti laici minori da una parte e PDS all’opposizione, non erano contrari. Anzi, secondo Massimo Ciancimino non era contrario il governo mentre la copertura di Violante va in fumo in quanto Violante rifiuta di incontrare Vito Ciancimino.
Quando poi viene catturato Vito Ciancimino nel dicembre del 1992 la trattativa si interrompe anche perché un mese dopo viene arrestato Riina ma non viene perquisito il covo, e sapete quello che succede dopo: secondo i giudici di Palermo dopo la trattativa dei Carabinieri interrotta dall’arresto di Ciancimino e un mese dopo di Riina parte un’altra trattativa, ammesso che fosse un’altra e non il prosieguo della stessa, che coinvolge Dell’Utri il quale fornisce poi le garanzie sulla nascita di Forza Italia, garanzie che verranno ritenute sufficienti da Provenzano tant’è che questo smetterà dopo la stagione delle stragi del 1993 di sparare e inaugurerà la lunga pax mafiosa che dura anche oggi.
Ecco, in quel periodo si inseriscono le tre lettere che Provenzano manda a Berlusconi: una all’inizio del 1992, prima delle stragi, segno che c’erano già dei rapporti con Dell’Utri perché era lui a fare il postino: la lettera Provenzano la dava a Ciancimino, che la dava a Dell’Utri che la dava a Berlusconi, tre volte questo sarebbe successo, la seconda volta alla fine del 1992 dopo le stragi e la terza all’inizio del 1994 quando Berlusconi si getta in politica, e questa è la lettera di cui i magistrati hanno una metà tagliata nella quale Provenzano o chi per lui si rivolge a Berlusconi chiamandolo “onorevole”. Stiamo parlando di un Berlusconi già diventato politico quindi non prima del 1994.
Richieste di aiuti, promesse di sostegno politico, scambi di favori con Dell’Utri che fa il pony express fra Provenzano e Berlusconi, questo è quello che racconta Massimo Ciancimino. E a questo punto i magistrati riaprono le indagini sulla trattativa del “papello” perché è ovvio che se la mafia ha costretto lo Stato a fare delle cose che non avrebbe fatto senza le stragi qui stiamo parlando evidentemente di reati gravissimi, è un’estorsione fatta dalla mafia allo Stato, stiamo parlando di un reato che credo si chiami “minaccia contro corpo politico dello Stato”. Un qualcosa di molto simile a un golpe.
Parla Ciancimino, parlano tutti.
Quando emergono da interviste o indiscrezioni di stampa le prime notizie su quello che ha detto Ciancimino i protagonisti della politica dell’epoca entrano in fibrillazione.
Nicola Mancino, lo sapete, già da anni è oggetto di chiacchiericci continui, poi per fortuna c’è Salvatore Borsellino che ogni tanto strilla forte ciò che gli altri mormorano piano. E’ noto che il ministro dell’Interno che avrebbe incontrato Borsellino poco prima della strage di Via D’Amelio è proprio Mancino e Paolo Borsellino lo scrive nel suo diario. Mancino ha sempre negato, come ha sempre negato di aver saputo di trattative o cose del genere.
Guarda caso, quest’estate in un’intervista continua a dire di non aver incontrato Borsellino, al massimo gli avrà dato la mano ma come poteva lui riconoscere Borsellino fra i tanti… come se Borsellino fosse uno fra i tanti: era uno che di lì a quindici giorni morirà ammazzato ed è quello che tutti gli italiani individuano come l’erede naturale di Falcone che è appena stato ammazzato, figuratevi se si può scambiare per un usciere che ti stringe la mano il giorno che diventi ministro. Comunque questo dice Mancino: “non ho incontrato Borsellino, forse gli ho stretto la mano fra le tante”, ma aggiunge: “in quell’estate io respinsi ogni tipo di proposta di trattativa fra Stato e mafia”. Questo è interessante perché vuol dire che qualcuno gli sottopose queste proposte di trattative, e sappiamo che forse anche Borsellino respinse quelle trattative; allora sarebbe interessante sapere chi propose al ministro Mancino quelle trattative, perché dev’essere la stessa persona o lo stesso ambiente che le propose a Borsellino, soltanto che Borsellino disse di no ed è stato ammazzato, Mancino continuò a fare il ministro dell’Interno e devo dire che lo fece anche molto bene.
Violante, quando esce sui giornali che Ciancimino ha dichiarato che suo padre chiedeva la copertura anche della sinistra e cioè si Violante, tarantolato anche lui ha un’illuminazione e corre a Palermo a testimoniare, con dichiarazioni spontanee, che effettivamente gli è venuto in mente 17 anni dopo che il generale Mori gli aveva chiesto, mentre era presidente della commissione Antimafia, di incontrare Ciancimino ma dato che l’incontro proposto doveva essere a quattrocchi lui Ciancimino non lo voleva incontrare. Mori andò altre due volte per sollecitare quell’incontro ma Violante disse sempre di no.
E qui si pone un altro problema: per quale motivo Violante si è tenuto per 17 anni una notizia di questo calibro: nel 1992 non lo sapeva mica nessuno che i Carabinieri del Ros stavano trattando con Ciancimino cioè con la mafia. E Violante era presidente della commissione Antimafia, possibile che non apre immediatamente un’indagine con i suoi poteri, che sono gli stessi della magistratura, può persino convocare testimoni e arrestare la gente se vuole. Perché se non lo voleva fare lui non ha avvertito il suo amico Caselli che di lì a poco è andato a fare il procuratore capo di Palermo? Subito, all’inizio del 1993 così la trattativa si sarebbe saputa e sarebbe stata interrotta e non se ne sarebbero fatte altre perché sarebbero intervenuti i magistrati. Invece, Violante questa cosa se la tiene per 17 anni, dal 1992 al 2009, e poi tomo tomo cacchio cacchio se ne viene fuori con una dichiarazione ai magistrati di Palermo dicendo: “toh… guarda mi è venuto in mente! E’ vero!”. Intanto i magistrati di Palermo avevano processato il generale Mori per la mancata perquisizione del covo di Riina, l’avevano di nuovo fatto rinviare a giudizio per la mancata cattura di Provenza e Violante sempre zitto! Eppure sarebbe stato importante, in quei processi, avere la sua testimonianza! Violante che dice che il generale Mori faceva da tramite, da ambasciatore di Ciancimino per convincerlo a incontrare Ciancimino!
Voi capite che per uno che viene processato per favoreggiamento della mafia il fatto che andasse a chiedere a Violante: “scusi, lei vuole incontrare Ciancimino?”, un generale dei Carabinieri, sarebbe stato interessante. Violante zitto, se ne salta fuori adesso perché non lo può più negare, l’ha raccontato Ciancimino, quindi, trafelato, arriva a dire la sua verità, tardiva, molto tardiva.
Ayala: “Mancino ha incontrato Borsellino… o forse no”
Ma non è finita perché questa è anche l’estate nella quale salta fuori, con un’intervista ad Affariitaliani, l’ex giudice Ayala, già pubblico ministero nei processi istruiti da Falcone e Borsellino poi datosi alla politica e ultimamente, trombato dalla politica, ritornato in magistratura – credo che sia giudice in Abruzzo.
Ayala dice: “poche balle, Mancino aveva incontrato Borsellino, me l’ha detto lui”. A questo punto il giornalista dice: “ma Mancino lo nega” e lui risponde: “no, mi fece vedere l’agenda nella quale c’era scritto che il 1° luglio del 1992 Mancino aveva incontrato Borsellino”.
Strano, una bomba! I magistrati convocano immediatamente Ayala per saperne di più, lo convocano ovviamente quelli di Caltanissetta che stanno indagando sui mandanti esterni delle stragi. E lì Ayala dice: “no, ma io sono stato frainteso”. Piccolo problema: Affariitaliani ha l’audio registrato con le parole di Ayala. Possibile che Mancino gli abbia fatto vedere un’agenda con scritto l’incontro con Borsellino e Ayala sia stato frainteso? In che senso frainteso? Spiegherà Ayala, dopo aver capito che non può smentire le dichiarazioni perché sono state registrate, che si era sbagliato lui nell’intervista: Mancino gli aveva fatto vedere un’agenda dove non c’era il nome di Borsellino e lui, invece, ricordava che nell’agenda ci fosse. Ma se uno nell’agenda non ha il nome di Borsellino, per quale motivo dovrebbe farla vedere ad Ayala? E’ evidente che fai vedere l’agenda se hai scritto un nome, se non c’è scritto niente che prova è che non hai visto una persona?
Tu puoi vedere tutte le persone di questo mondo e non scriverle nell’agenda, è se lo scrivi che lo fai vedere a una persona per testimoniare quello che le stai dicendo! Cose da matti, comunque questo è un altro rappresentante delle istituzioni folgorato e poi avviato rapidamente alla retromarcia.
Ma non è finita: a questo punto interviene il generale Mori che, non si sa se in un’intervista o in una notizia fatta trapelare all’agenzia “il Velino” dice: “Violante non si ricorda mica bene: non gli avevo proposto di incontrare Ciancimino a tu per tu, ma di farlo parlare in commissione Antimafia!”. Allora resta da capire come mai Violante non abbia accettato di convocare Ciancimino in commissione Antimafia visto che l’Antimafia convocava pure i pentiti di mafia, non è che potesse sottilizzare: se Ciancimino aveva qualcosa da raccontare perché non fargliela dire?
Ciampi e il suo telefono a Palazzo Chigi “manomesso”
A questo punto salta fuori l’ex presidente della Repubblica Ciampi, che ricorda che cosa successe a Palazzo Chigi: Ciampi è presidente del Consiglio nella primavera-estate del 1993 quando esplodono le bombe nel continente, a Roma, Milano e Firenze. E soprattutto, nella notte degli attentati alle Basiliche a Roma, mentre a Milano esplode via Palestro il 27 luglio del 1993, Ciampi ricorda il famoso black out nei palazzi del potere ma anche che “ero a Santa Severa in vacanza, rientrai con urgenza a Roma di notte, accadevano strane cose: io parlavo al telefono con un mio collaboratore a Roma e cadeva la linea. Poi trovarono a Palazzo Chigi il mio apparecchio manomesso, mancava una piastra”. C’erano ancora le cornette, non c’era ancora ai livelli di oggi i cellulari. “Al largo della mia casa di Santa Severa, a pochi km da Roma, incrociavano strane imbarcazione: mi fu detto che erano mafiosi allarmati dalla legge che istituiva per loro il carcere duro. Chissà, forse il carcere lo volevano morbido”.
Ciampi, dopo quell’episodio, va a Bologna all’improvviso e il 2 agosto commemora a sorpresa la strage di Bologna ricordando il ruolo della P2, cosa che ricorda di nuovo in questa intervista a Repubblica nella quale dice anche che purtroppo su quei rapporti tra la P2, telefoni manomessi, black out eccetera non è stata fatta chiarezza.
Il giorno dopo, il procuratore di Firenze competente sulle stragi del 1993 interviene piccato: è Pier Luigi Vigna, già capo della procura di Firenze, già capo della procura nazionale Antimafia il quale dice: “noi abbiamo indagato tutto, non c’è più niente da indagare”. Il giorno dopo ancora dice: “la politica tace il nome dei mandanti occulti delle stragi”: insomma, dice due cose all’apparenza sembrerebbero contraddirsi ma soprattutto non si spiega per quale motivo scopriamo solo oggi che il telefono di Ciampi a Palazzo Chigi, il telefono personale del Presidente del Consiglio del 1993, la notte delle stragi era stato manomesso, gli hanno tolto una piastra, era intercettato probabilmente il capo del Governo! Da chi può essere intercettato il capo del governo che è anche il capo dei Servizi Segreti e che al largo della sua casa al mare “incrociavano strane imbarcazioni: mi fu detto che erano mafiosi allarmati dalla legge sul carcere duro”.
Mettete insieme tutte queste cose, mettete insieme che Martelli, allora ministro della Giustizia dice: “lo Stato forse non trattava con la mafia ma rappresentanti dello Stato si”. E lo dice così, en passant, in un’intervista. E mettete insieme che Dell’Utri, beffardo, l’altro giorno rilascia un’intervista dicendo: “apprendo dai giornali che qualcuno avrebbe trattato con la mafia: sarebbe gravissimo se ciò fosse successo, bisogna assolutamente istituire una commissione parlamentare d’inchiesta per fare luce perché è orribile l’idea che qualcuno tratti con la mafia i tempi delle stragi. Cosa mi dice, signora mia?”. Dell’Utri dichiara in un’intervista.
Il cerino in mano
Voi capite che qui siamo di fronte a una classe politica e a un ceto dirigente dove anche l’ultimo degli uscieri sa cento volte di più di quello che sappiamo noi e di quello che sanno i magistrati. In Italia i cittadini e i magistrati sono come i cornuti, sono sempre gli ultimi a sapere, e voi vedete che questo giro, questa ristretta cerchia di persone si manda messaggi perché si è aperto qualche spiraglio, perché qualcuno sta cominciando a parlare. E se qualcuno sta cominciando a parlare, saranno squalificati come dice il Capo dello Stato ma del resto, se stiamo parlando di stragi, è ovvio che chi deve saperne qualcosa non può che essere persona squalificata, sarebbe meglio se i testimoni delle stragi fossero delle suore Orsoline, ma purtroppo queste delle stragi non ne sanno niente, è molto meglio che parlino i mafiosi o i figli dei mafiosi. Anche quella dichiarazione del Capo dello Stato sembrava tanto un invito a chiudere certe bocche.
Evidentemente, in questa ristretta cerchia c’è un sacco di gente che sa, che tace, che si manda messaggi trasversali perché comunque “io so che tu sai che io so”, e che sarebbe bene venisse fuori allo scoperto. Perché fanno così? Perché si mandano queste strizzatine d’occhio e queste rasoiate al curaro? Perché sanno che se la verità comincia a uscire, lo scarica barile andrà avanti fino a quando uno, l’anello più debole, verrà scaricato. Purtroppo in questa stagione i protagonisti sono tutti vivi, purtroppo per loro: ci fosse qualche bel morto a cui scaricare addosso le responsabilità l’avrebbero già fatto, ma tutti coloro che avevano queste responsabilità istituzionali sono vivi e si stanno buttando addosso l’uno sull’altro i cadaveri delle stragi del 1992 e 1993.
Teniamo gli occhi aperti e stiamo a vedere nei prossimi mesi chi rischia di restare col cerino in mano, perché chi rischia di restare col cerino in mano prima di bruciarsi magari parla.
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Cento passi alla verità sulla stagione politico-criminale delle stragi di mafia degli anni 1992-1993. La trattativa tra pezzi di Stato e la mafia, la strage di Capaci e di via D’Amelio, la strategia della tensione degli attentati di Roma, Firenze e Milano. Si intravede lo spiraglio di luce,grazie ai magistrati di Palermo e Caltanissetta. Questo spiraglio è rincorso dalla società civile impegnata in prima linea nell’antimafia. Per la verità e la giustizia lottiamo in tanti, uno dei protagonisti di questa resistenza che ha come pilastro la sconfitta delle mafie è Salvatore Borsellino, fratello di Paolo.
La forza di quest’uomo protesa in direzione di questo spiraglio è il termometro della sete di giustizia che la parte migliore del Paese pretende dallo Stato. Non consentiremo che non si persegua l’obiettivo fino in fondo, che ancora una volta rimanga la rabbia di chi procede in direzione ostinata e contraria verso la ricerca della verità che farà bene all’Italia. Potrà consentire un nuovo patto sociale tra le forze sane.
Si tratta di ricostruire un periodo criminale, mafioso, intriso di politica, con il coinvolgimento di pezzi delle Istituzioni. Cosa Nostra negli anni che hanno preceduto la stagione stragista ha fondato la sua politica criminale in una duplice direzione: avvicinare persone all’interno delle istituzioni ed attuare la strategia militare contro i servitori dello Stato incorruttibili.
In questo periodo – che è quello a cavallo della sentenza del maxiprocesso che ha confermato l’impianto accusatorio di Falcone e Borsellino – si innestano anche gli omicidi dei cugini Salvo e di Lima, da un lato, e, dall’altro lato, quello del magistrato Scopelliti che doveva rappresentare l’accusa in Cassazione. La mafia che aveva garanzie dalla politica, con gli omicidi politici colpisce la corrente andreottiana della DC in Sicilia. Manda un segnale chiaro a Giulio Andreotti (ritenuto mafioso sino al 1980 da una sentenza definitiva).
Pensare che gli omicidi Falcone e Borsellino siano vendetta di Cosa Nostra per l’esito del maxiprocesso è offrire una lettura che ridimensiona il ruolo politico della mafia. La strage di Capaci – di tipo libanese – interrompe la probabile ascesa al Quirinale di Giulio Andreotti. Il segnale è chiaro: la stagione dei pacta sunt servanda che ha caratterizzato per decenni il rapporto mafia-politica è saltato. Capaci è stata una strage politica, soprattutto per gli effetti politici che doveva determinare.
Credo che la strage di mafia di via D’Amelio abbia,in parte,una matrice diversa. Vi sia un maggiore coinvolgimento di pezzi deviati delle Istituzioni. Borsellino forse aveva scoperto che accadeva e doveva essere ucciso subito in quanto avrebbe ostacolato la nuova strategia criminale, penso avesse individuato i percorsi iniziali della nuova politica di Cosa Nostra: trattare con lo Stato per poi penetrarlo nelle sue articolazioni tanto da divenire un cancro istituzionale; mafiosi direttamente nello Stato.
E’ questa la politica di Cosa Nostra che passa anche attraverso il progetto di golpe con la nascita di liste autonomiste-separatiste per giungere, poi, al sorgere del partito di Forza Italia di cui una delle colonne, il sen. Dell’Utri, condannato in primo grado a 9 anni di reclusione per mafia. Servizi segreti deviati (Bruno Contrada docet) colludevano con Cosa Nostra; pezzi del ROS dei Carabinieri avrebbero iniziato una trattativa con la mafia; la politica pare sia stata coinvolta ad altissimi livelli istituzionali. La mafia con la stagione stragista ha dimostrato che poteva mettere in ginocchio il Paese manu militari. Dal 1993 ha dismesso la strategia militare ed ha iniziato a governare il Paese dall’interno delle Istituzioni.
Che cosa è avvenuto tra il “92 ed il “93? Come è possibile che il Generale Mori (ai vertici del ROS e del SISDE) – già imputato in vicende processuali per fatti di mafia attinenti l’omessa perquisizione del covo di Riina e la mancata cattura di Provenzano – possa oggi essere nominato consulente dal Presidente Formigoni quale esperto per le infiltrazioni della criminalità per l’Expo? Che cosa aveva scoperto Borsellino? Perché è stata sottratta l’agenda rossa? Perché Mancino (all’epoca Ministro dell’interno, poi Presidente del Senato e poi vicepresidente del CSM) non ricorda di aver incontrato Borsellino? Perché Violante (già Presidente della Commissione Antimafia e Presidente della Camera) solo oggi dice di aver saputo della trattativa, di Mori e di Ciancimino?
Con la trattativa con lo Stato, Cosa Nostra è penetrata nelle Istituzioni, ha consolidato il suo ruolo nell’economia, ha corroso le fondamenta della democrazia. Con gli anni si è istituzionalizzata. Non è più necessario ricorrere all’uso delle armi per eliminare i servitori dello Stato. La parte sana del Paese pretende che lo spiraglio diventi sole. La magistratura sia libera di lavorare in assoluta indipendenza. Il Paese è pronto per la verità e per un futuro migliore che si deve alle vittime delle mafie.
Dieci anni fa, terrorizzati dalle prime dichiarazioni dei pentiti sui mandanti esterni delle stragi e sulle trattative Stato-mafia, centrodestra e centrosinistra smantellarono la legge sui pentiti: drastica riduzione degli incentivi e tempo massimo di sei mesi per raccontare tutto. “Basta dichiarazioni a rate, i mafiosi dicano tutto subito”, cantavano in coro berluscones e progressisti sdegnati per la “memoria a orologeria” dei collaboranti. La legge passò a maggioranza bulgara in entrambe le Camere, presiedute da Nicola Mancino e Luciano Violante. Risultato: non si pentì quasi più nessuno, anzi molti si pentirono di essersi pentiti. Ora si scopre che, per quanto lenti a ricordare, questi erano fulmini di guerra a confronto di certi politici. Tipo Mancino e Violante.
Mancino, vicepresidente del Csm, seguita a contraddirsi sul presunto incontro con Paolo Borsellino il 1° luglio ‘92 (annotato nel diario del giudice, assassinato due settimane dopo): ora lo esclude, ora non lo ricorda, ora lo riduce a fugace stretta di mano, ora – almeno a sentire Giuseppe Ayala, altra memoria a orologeria – lo conferma. Intanto, 17 anni dopo, rammenta di avere respinto possibili trattative con la mafia (senza spiegare chi gliele prospettò e perché non le denunciò). Poi fa marcia indietro. Ma Violante lo supera. L’ex campione dell’antimafia progressista – tomo tomo cacchio cacchio, direbbe Totò – si presenta alla Procura di Palermo per rivelare con 17 anni di ritardo che, dopo Capaci e via d’Amelio, il colonnello Mario Mori, allora vicecapo del Ros, gli propose di incontrare l’ex sindaco mafioso Vito Ciancimino, intermediario di una trattativa fra i carabinieri e il duo Riina-Provenzano. Rivelazione più spintanea che spontanea: il Corriere ha appena informato che Massimo Ciancimino, figlio di don Vito, ha raccontato ai pm che suo padre chiese una “copertura politica totale” alla trattativa: da Mancino per il governo e da Violante per la sinistra. Violante dice di aver rifiutato il faccia a faccia e di aver chiesto a Mori se avesse informato la Procura. Ma, alla risposta negativa (“è cosa politica”), si guardò bene dal farlo lui.
E dire che a Palermo stava arrivando il suo amico Caselli, lasciato all’oscuro di tutto. E dire che Violante presiedeva l’Antimafia, competente sulle “cose politiche” di mafia, con i poteri della magistratura. E dire che nel ’93 Caselli interrogò Ciancimino sui suoi rapporti con l’Arma. E dire che nel ’96 Giovanni Brusca, al processo sulle stragi, svelò la trattativa Riina-Ciancimino-Ros con tanto di “papello”. E dire che Mori fu imputato di favoreggiamento mafioso per non aver perquisito il covo di Riina (assoluzione) e non aver catturato Provenzano nel ‘96 (processo in corso). Le rivelazioni di Violante sarebbero state molto utili, in quei processi. Ma Violante taceva e faceva carriera, anche a colpi di antimafia. Se i pentiti devono “dire tutto subito”, Violante ha impiegato 17 anni per ritrovare la memoria. Non è mica pentito, lui.
Claudio Fava parla del ricatto a Berlusconi e al governo messo in piedi daLombardo e dei rapporti consolidati fra pezzi dello Stato, Cosa nostra e comitati di affari
«Siamo davanti a uno scambio da bassa politica da 4 miliardi di euro», esordisce Claudio Fava, ex europarlamentare dell’Arcobaleno ed esponente di Sinistra e libertà commentando la “microcrisi” aperta Lombardo in Sicilia e risolta a colpi di miliardi di euro da Berlusconi nonostante i malumori di pezzi della maggioranza. Una crisi che si è chiusa ieri con l’ennesimo voto di fiducia sul Ddl anti crisi. «Soldi sottratti ad altre voci di spesa e rifinanziando cose già ampiamente finanziate – prosegue – quindi nulla di nuovo se non questa idea molto plebea del partito della spesa pubblica come partito meridionale. Questa forma di assistenzialismo indotto è servita solo a disinnescare Lombardo e a evitare che si perdano altri voti, contatti e collegamenti. Non solo si finanzia ciò che è stato ampiamente finanziato prima ma si continuano ad alimentare le vecchie clientele, a illudere tutto quell’esercito di precari che sono stati assunti, come ad esempio gli operai forestali siciliani, la metà di quelli a livello nazionale».
Secondo Fava quello che è accaduto in Sicilia in queste ultime settimane è «un ricatto di Lombardo verso il governo centrale», per alimentare il sistema di clientele messo in piedi, sempre secondo Fava, «dal governatore, un sistema di dimensioni mai viste». Quindi questo progetto di partito del Sud è tramontato? «Non è mai esistito».
Ma non è solo sulla politica che la Sicilia, in questo periodo, sembra essere entrata in fase di ebollizione. C’è la questione, devastante, delle dichiarazioni di Massimo Ciancimino che riapre, insieme ad altre voci come il pentito Spatuzza, il capitolo delle stragi del ’92 e l’intreccio fra mafia, pezzi dello Stato e comitati d’affari. «Era ora che si riaprisse questo capitolo, un’iniziativa dovuta e tardiva al tempo stesso, e che la politica si facesse carico di questa vicenda dopo più di diciassette anni con la richiesta di una commissione di inchiesta specifica sulle stragi del ’92». L’ex eurodeputato spiega come da tempo esistessero sospetti che «ci fosse un patto indicibile e innominabile fra pezzi dello Stato e Cosa nostra – prosegue Fava -. Questo patto, questa la mia valutazione, è andato in parte a buon fine. Non è storia di oggi, è storia di un sospetto più che di una sensazione che si trascina da sedici anni, da quando è stato arrestato Riina e hanno lasciato per settimane la sua casa incustodita e accessibile ai suoi complici. E ancora le fughe improvvise di Provenzano poco prima della sua cattura quando era stato individuato in alcuni dei suoi rifuggi. È la storia di alcune cose che anche sul piano legislativo e normativo sono accadute: la legge sui pentiti che obiettivamente è stata ammorbidita, il 41bis si è ridotto nella sua funzione ed è stato possibile che dall’isolamento c’è chi è riuscito ad inviare lettere ai giornali che le hanno puntualmente sui giornali. Insomma mi pare che di questo patto, della trattativa, non se ne parlasse a caso». Fava critica anche le ultime dichiarazioni di uno dei presidenti storici della Commissione antimafia, Luciano Violante, sui suoi contatti con Mori e la richiesta da parte di quest’ultimo di organizzare un incontro riservato con Vito Ciancimino proprio all’epoca della “trattativa”. «Sarebbe stato interessante che invece di tenersi fino ad oggi la sua piccola verità sul suo incontro mancato con Ciancimino avesse raccontato queste cose ai magistrati 17 anni fa e non alla stampa oggi – attacca Fava -. Tre incontri che gli furono sollecitati di Mori che ricordiamo è un alto ufficiale dei carabinieri sotto processo per la fuga sospetta di Provenzano».
Poi, inevitabilmente, il discorso si sposta sulla vicenda del pignoramento della casa del padre di Fava, Giuseppe, direttore dello storico giornale I Siciliani ucciso dalla mafia a Catania nel 1984. «Quel debito così ridotto è quasi una gratificazione per noi, perché avere chiuso con solo 30 milioni di debiti dopo cinque anni di gestione senza aver mai avuto neanche mezza pagina di pubblicità o aiuto istituzionale è un risultato incredibile, vuol dire che siamo stati davvero bravi – spiega Fava -. Ora, dopo che il nostro direttore venne ucciso, pignorare la sua casa per ottenere 100mila euro in contanti da consegnare entro settembre a più di vent’anni dalla chiusura di quell’esperienza è un segnale chiaro e tremendo». Ma anche la possibilità di far emergere quella che rimane una società civile attiva e impegnata che si è attivata con una sottoscrizione nazionale che sta raccogliendo centinaia di adesioni.
Quando il generale Mario Mori gli chiede, non una ma per ben tre volte e sempre con maggiore insistenza, di incontrare colui che i magistrati definirono «la più esplicita infiltrazione della mafia nell’amministrazione pubblica», ossia Don Vito Ciancimino, uomo all’Avana dei corleonesi già arrestato nel 1984, lui, Luciano Violante, non sente il bisogno di dirlo a nessuno, nè ai magistrati nè alla Commissione Antimafia che presiede dall’anno prima. Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo e Vito Schifani erano già saltati in aria a Capaci, e, a quanto dice lui, anche Borsellino e la sua scorta erano stati già ammazzati in Via D’Amelio. Questo solo a quanto dice Violante, confermando la teoria, già sconfessata dal figlio di Ciancimino, secondo cui la trattativa sarebbe iniziata dopo le due stragi e non in mezzo. Il docente di Diritto Pubblico, tra i padri della nascente associazione antimafia Libera, ritenne corretto fare solo una piccola domanda a colui che gli chiedeva di incontrare l’anello tra mafia e politica: “L’autorità giudiziaria è stata informata di questa disponibilità del Ciancimino a parlare?”, chiese l’etereo Violante.”Si tratta di una cosa politica… di una questione politica”, gli risponde Mori. Poi, quando l’oscuro generale gli spiega che Ciancimino vorrebbe incontrarlo privatamente, dettaglio ancora più inquietante, Violante ritenne ancora una volta di tenerlo per sè e di liquidare Mori con un “non faccio colloqui privati”. Non pensò decoroso correre dai suoi ex colleghi che indagavano sulla strage di Capaci ed eventualmente su quella di Via D’Amelio, e non lo raccontò mai fino a quando Massimo Ciancimino lo chiama in causa direttamente nel corso di un interrogatorio ad Ingroia e Di Matteo nei giorni scorsi: Ciancimino Jr ha raccontato come suo padre volesse solo ed esclusivamente Violante come interlocutore garante. Proprio lo stesso incontrollabile legalitario che nel 2003, alla Camera, protestò per il comportamento irriconoscente di Berlusconi (già indagato come mandante occulto di quelle stragi), cui, parole sue, il centrosinistra aveva dato nel 1994 garanzia a Berlusconi e a Letta che le “televisioni non sarebbero state toccate” qualora la sinistra avesse vinto le elezioni, recriminando come “loro” non avessero mai fatto nulla riguardo al conflitto di interesse e avessero dichiarato eleggibile Berlusconi la legge sui concessionari dello Stato. Grazie a loro, proseguì Big Luciano, Mediaset aveva potuto aumentare di 25 volte il fatturato. Antimafioso peculiare il nostro Violante: la mafia lo chiama in causa per un equo scambio e lui non informa i magistrati, nè subito nè dopo 17 anni. La domanda inquietante che ci si pone è: esiste altro? Violante è contenitore di altri fattacci mai raccontati in sede giudiziaria? Si rese in seguito disponibile a quella trattativa? Non lo sapremo mai. Dovremo aspettare che qualcuno lo chiami di nuovo in causa. Nel frattempo lui continuerà a fare l’antimafioso, a presentare libri e a tenere per sè piccolissimi ed insignificanti dettagli che potrebbero fare luce su quel fondamentale passaggio che riguarda la trattativa Stato-mafia. Noi continueremo a rimanere orfani di Falcone, di Borsellino e della verità sul 1992. Un piccolo grazie va anche a te, Big Luciano.
La deposizione di giovedì scorso dell’ex presidente della Camera ai Procuratori di Palermo che indagano sulla “trattativa” fra Stato e Mafia. Violante: rifiutai di incontrare Ciancimino.
“Il generale Mori mi disse che la trattativa era politica”
“Gli chiesi se la magistratura era informata e rispose di no”
PALERMO – Per tre volte il generale Mario Mori cercò di far incontrare “privatamente” don Vito con Luciano Violante. E per tre volte il presidente della Commissione parlamentare antimafia, in quel lontano 1992, respinse l’invito. “L’autorità giudiziaria è stata informata di questa disponibilità del Ciancimino a parlare?”, chiese Violante nell’ultimo faccia a faccia con l’ufficiale dei carabinieri. “Si tratta di una cosa politica… di una questione politica”, fu la risposta di Mori.
Parola di Luciano Violante. È stata questa la sua deposizione ai magistrati di Palermo che indagano sulla “trattativa” fra Stato e Mafia. È questo un punto cruciale di quell’impasto di diciassette anni fa fra i Corleonesi e i servizi segreti. Chi aveva “autorizzato” ufficiali dell’Arma dei carabinieri a venire a patti con Cosa Nostra? Chi aveva dato il nulla osta per avviare un negoziato con Totò Riina ancora latitante? Era già stato ucciso Giovanni Falcone, il 23 di maggio. Avevano già fatto saltare in aria Paolo Borsellino, il 19 di luglio.
Quest’altro “pezzo” di verità l’ha rivelata Luciano Violante nella sua testimonianza – giovedì scorso – ai procuratori Antonio Ingroia, Nino Di Matteo e Roberto Scarpinato. Il suo verbale di interrogatorio è stato depositato da un paio di giorni nel processo contro il generale Mori “per la mancata cattura di Bernardo Provenzano”, un altro mistero di mafia, un altro giallo siciliano con protagonisti uomini dei reparti speciali dell’Arma dei carabinieri. Quella di Violante è una testimonianza che oramai è diventata pubblica e che ricostruisce uno dei tanti momenti oscuri – secondo la versione fornita dall’ex presidente parlamentare, naturalmente – di quell’estate siciliana del 1992.
L’inizio della vicenda è nota. Massimo Ciancimino, il figlio prediletto di don Vito, ha raccontato ai magistrati che suo padre – già in contatto con l’allora colonnello dei Ros Mario Mori e il suo fidato capitano Giuseppe De Donno – “voleva che del “patto” fosse informato anche Luciano Violante”. Il resto l’ha messo nero su bianco l’ex presidente dell’Antimafia nel suo interrogatorio.
Il primo incontro. Mario Mori va a trovare Luciano Violante nel suo ufficio di presidente dell’Antimafia. “Vito Ciancimino intende incontrarla”, gli dice. Aggiunge l’ufficiale: “Ha cose importanti da dire, naturalmente chiede qualcosa”. Violante risponde: “Potremmo sentirlo formalmente”. Cioè con una chiamata in commissione parlamentare: un’audizione. Ribatte Mori: “No, lui chiede un colloquio personale”. Il presidente Violante congeda l’ufficiale con un rifiuto: “Io non faccio colloqui privati”.
Dopo un paio di settimane Mario Mori, al tempo vicecomandante dei Ros, torna alla carica. È il secondo incontro. “Il generale quella volta mi portò anche il libro di Vito Ciancimino. Il titolo era “Le Mafie”…”, dichiara a verbale Violante. “Le Mafie” era una sorta di memoriale scritto dall’ex sindaco, un dossier dove parlava dei cugini esattori Nino e Ignazio Salvo, di Giulio Andreotti, di alcuni delitti eccellenti di Palermo. Il terzo incontro nei ricordi dell’ex presidente dell’Antimafia: “Mori mi ha chiesto subito che cosa ne pensavo del libro di Ciancimino, gli risposi che non mi sembrava che lì dentro ci fosse qualcosa di particolarmente importante. Lui, poi insistette ancora e con garbo che io incontrassi Ciancimino”.
Fu a quel punto che Violante chiese se la magistratura fosse informata di questa voglia di “parlare” dell’ex sindaco di Palermo. Fu a quel punto che l’ufficiale dei carabinieri pronunciò quelle parole: “Si tratta di cosa politica… di una questione politica”.
Se le cose sono andate veramente così si rimettono in gioco gran parte delle “certezze” investigative acquisite fino al 2004 fra Palermo e Firenze, la città dove si è celebrato il processo per le stragi mafiose in Continente del 1993. Fino a quella data, il 2004, indagati per la cosiddetta “trattativa” e per aver veicolato il “papello” (le richieste dei Corleonesi per fermare le stragi) c’erano soltanto Totò Riina, il suo medico Antonino Cinà e il vecchio Ciancimino. Tutti e tre mafiosi.
Lo scenario che affiora dalle nuove testimonianze – fra Palermo e Caltanissetta non c’è soltanto quella di Luciano Violante – e dalle nuove indagini scopre l’esistenza di un patto cercato da diversi protagonisti e a più livelli. Non c’è stato solo e soltanto Mario Mori dei Ros. C’è stato anche quel “Carlo” che frequentava don Vito da almeno quindici anni, un agente segreto che il “papello” di Totò Riina l’ha avuto materialmente nelle mani. E, a quanto pare, adesso, ci sono “mandanti” politici che quella trattativa volevano a tutti i costi. La vera svolta sui massacri siciliani del ’92 ci sarà pienamente solo quando i magistrati identificheranno quegli altri nomi, i nomi di chi aveva approvato o addirittura suggerito di mercanteggiare con i boss.
“Spiragli di luce” li ha chiamati il procuratore aggiunto Antonio Ingroia, quei nuovi importantissimi elementi investigativi su cui stanno lavorando i magistrati della procura di Palermo e Caltanissetta. Spiragli che potrebbero portare alla verità, o quanto meno ad avvicinarsi al reale scenario che ha determinato la stagione stragista del ’92 e ’93 che vede coinvolti non solo gli uomini di Cosa Nostra ma anche altre entità di cui forse si possono cominciare ad intravvedere i lineamenti.
Alla prorompente richiesta di giustizia e verità gridata da Salvatore Borsellino che si è premurato di spiegare a mezza Italia cosa fossero l’agenda rossa scomparsa di suo fratello e il castello Utveggio sono corrisposte le importantissime dichiarazioni di Massimo Ciancimino, figlio di don Vito, e la collaborazione di Gaspare Spatuzza.
Pare dunque che sia il momento buono: c’è attenzione da parte della società civile, emergono carte e riscontri e un gran fermento di ricordi affiora alla memoria dei protagonisti istituzionali di quei tragici giorni. Persino Salvatore Riina ha rotto il suo silenzio tombale e ha accettato un colloquio con il procuratore di Caltanissetta Sergio Lari e i sostituti Gozzo e Marino durato ben tre ore.
Benché sia grande la speranza degli italiani onesti di capire esattamente cosa accadde in quel biennio e come le stragi abbiano influenzato il dispiegarsi del progetto di deriva democratica cui siamo giunti inesorabilmente fino ad oggi, occorre muoversi con molta prudenza e cercare di analizzare il più possibile i fatti. Anche perché la nostra storia è densa di depistaggi, inganni, doppi giochi, patti, caffè avvelenati e sempre per dirla con Ingroia “cortine fumogene”.
Procediamo con ordine, per quanto si possa. Spatuzza. Gaspare Spatuzza era un killer di Brancaccio, per 13 anni rinchiuso al 41 bis, che ora, in preda ad una crisi mistica, chiede di parlare con il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso perché vuole raccontare la sua verità. “Sono stato io – ha confessato – a rubare la 126” che imbottita di tritolo ha ucciso Paolo Borsellino e i suoi agenti di scorta. Ad auto accusarsi dello stesso reato però era stato Vincenzo Scarantino e sebbene presa con le pinze e mille riserve la sua ricostruzione era stata sancita dalla Cassazione. Oggi sembra che i riscontri però diano ragione a Spatuzza e quindi si profila la possibilità per alcuni condannati in via definitiva di far rivedere le proprie posizioni.
“Ci sono innocenti in carcere e colpevoli in libertà”, così si era espresso a suo tempo Giovanni Brusca proprio in relazione alle dichiarazioni di Scarantino e così ha parlato anche Salvatore Riina che, in occasione della commemorazione della strage di Via D’Amelio, ha dichiarato che Paolo Borsellino “l’ammazzarono loro”. Loro sarebbero i “servizi segreti”, l’entità grigia che spunta sempre quando nel nostro Paese non riescono ad individuare responsabilità precise di eccidi terribili che nascondono dietro alla violenza progetti ben precisi di orientamenti politici e di alleanze economiche.
Chiaramente non è trapelato nulla del dialogo del capo dei capi con i magistrati di Caltanissetta, eccezion fatta per l’annuncio, da parte dell’avvocato difensore del boss Luca Cianferoni, della prossima consegna di un memoriale che Riina stesso firmerà. La sua verità insomma.
Le sue dichiarazioni e ancora di più le notizie attorno ai documenti cartacei e audio che sarebbero in possesso di Massimo Ciancimino hanno sollecitato come mai in questi anni i ricordi finora taciuti di illustri uomini dello stato. L’affaire Mancino. L’allora neoeletto Ministro dell’Interno è stato chiamato in causa più e più volte da Salvatore Borsellino poiché nell’agenda del giudice ucciso, quella grigia dedicata agli appuntamenti e ai conti, in data 1 luglio 1992 è segnato il suo nome. Gaspare Mutolo, il collaboratore che stava verbalizzando in quel giorno proprio con Borsellino, aveva infatti raccontato che il magistrato aveva interrotto il loro interrogatorio per andare dal Ministro. In principio Mancino aveva sostenuto di essere certo di non aver incontrato il giudice per poi precisare di non ricordare se tra le tante mani strette quel giorno di insediamento ci fosse stata anche quella di Borsellino. Cioè ha sostenuto di non rammentare se aveva ricevuto il giudice più in vista d’Italia in quel momento, da tutti ritenuto l’erede diretto di Giovanni Falcone, ammazzato a Capaci poco più di un mese prima. E quale prova aveva esibito la sua agenda intonsa. Versione incredibile ma poco contestabile, agenda contro agenda. Oggi invece è spuntata dal nulla la versione di Giuseppe Ayala, ex magistrato, che afferma invece di aver visto nell’agenda di Mancino segnato proprio l’appuntamento con l’amico Paolo. Non esclude però che l’incontro tra Borsellino e il ministro possa essere stato fugace e che si sia limitato ad una stretta di mano.
Tra le ipotesi investigative sull’eccidio di via D’Amelio ha preso sempre più corpo nel tempo la probabilità che l’accelerazione con cui venne eseguita la strage sia stata innescata dalla consapevolezza del giudice rispetto alla cosiddetta Trattativa. Vale a dire che Paolo Borsellino era venuto a conoscenza del dialogo che era in corso in quel momento tra il Ros dei carabinieri, l’allora colonnello Mori e il capitano De Donno, e la mafia di Riina per il tramite di Vito Ciancimino e di Antonio Cinà e si sia fortemente opposto, divenendo così un fastidioso ostacolo da rimuovere.
Ammesso che tale impostazione sia corretta e che questo movente sia tra i tanti possibili, viste le molte intuizioni e conoscenze di Borsellino, quello scatenante, resta da capire chi lo informò e quando.
Qualche giorno fa Mancino, che ha sempre negato con forza un suo qualsivoglia coinvolgimento in questi fatti, in un’intervista rilasciata ad Attilio Bolzoni e Francesco Viviano di La Repubblica, ha ammesso per la prima volta che in effetti vi fu una richiesta di trattativa da parte della mafia, ma che fu rispedita al mittente senza colpo ferire. Peccato che questa sua tardiva narrazione contraddica quanto già accertato da sentenze cioè che fu il Ros a chiedere un appuntamento con Vito Ciancimino tramite il più piccolo dei suoi figli, Massimo appunto, incontrato per caso su un volo Palermo-Roma dal capitano De Donno.
E’ quindi lo Stato a cercare la mafia e non viceversa.
Pugno di ferro acclamato anche da Luciano Violante che finora si era dimenticato di far sapere che anche lui era a conoscenza della trattativa ma che la respinse con sdegno. A ruota l’ex ministro della giustizia Martelli che ravvisa elementi validi nelle esternazioni di pretesa innocenza di Riina mentre l’ex ministro Scotti, che fu esautorato delle funzioni di Ministro dell’Interno in una notte e sostituito da Mancino proprio quel 1° luglio, rammenta lo stato di allarme in cui si trovava il Paese a cavallo delle stragi e di come la minaccia di una strategia destabilizzatrice fosse più che concreta.
Dopo anni di silenzio e persino una controversa dichiarazione di vittoria sulla mafia molto poco apprezzata al vertice Onu del 2000 anche il criminologo Pino Arlacchi è intervenuto nel dibattito inquadrando la trattativa intavolata dal Ros con la mafia in una sorta di eterno conflitto tra carabinieri e polizia. “Perché è bene che si sappia: il cancro della lotta alla mafia è sempre stata la concorrenza, le gelosia tra apparati dello Stato”. Il Ros. Il raggruppamento operativo speciale dei carabinieri era stato creato proprio per supportare le indagini più delicate. Grandi successi e grandi misteri.
15 gennaio 1993, cattura di Totò Riina e il covo di via Bernini lasciato a disposizione della mafia che lo ripulisce in fretta e furia. 31 ottobre 1995, Luigi Ilardo guida il colonnello Riccio nella masseria di Mezzojuso dove si intrattiene con Provenzano tutto il giorno, ma non arrivano i rinforzi e il boss sfugge. Ilardo viene assassinato una settimana dopo aver manifestato la sua volontà di collaborare formalmente con lo stato, dopo che aveva registrato decine di cassette con il colonnello Riccio dai contenuti esplosivi che forse oggi cominciano ad avere un loro filo logico.
La cattura di Riina e la superlatitanza di Provenzano sono collegate? Fanno parte di un unico disegno che ruota attorno alla trattativa, a più trattative?
A questo stanno lavorando senza sosta i procuratori di Caltanissetta e Palermo che hanno già sentito alcuni degli autori delle varie dichiarazioni di cui sopra. Intanto al processo per la fallita cattura di Provenzano il colonnello Riccio ha fatto pervenire copia fotografica di tre floppy disks che ha rinvenuto nella sua abitazione in seguito a lavori di ristrutturazione che contengono le relazioni di servizio da lui compilate dall’agosto del ’95 al maggio ’96. Per l’esattezza fino all’11 maggio 1996 il giorno successivo all’omicidio di Ilardo. Raccontano per filo e segno le attività svolte dal colonnello dal giorno in cui cominciò a gestire la collaborazione del reggente della famiglia di Caltanissetta per conto del Ros, relazioni che Riccio compilava sui computer del Ros e che gli furono consegnate dal maggiore Damiano a conclusione del suo operato.
Il presidente della IV sezione del Tribunale, Mario Fontana, ha disposto che sia il colonnello Riccio stesso a consegnare alla corte i tre floppy e che quindi venga sentito il 25 settembre prossimo in modo da fornire le spiegazioni necessarie.
Al medesimo processo saranno sentiti anche Nino Giuffré in trasferta a Roma il 7 e l’8 ottobre prossimi e il teste tanto atteso: Massimo Ciancimino. Forse è sarà lui a fornire la giusta chiave di interpretazione di tutti questi eventi che sembrano essere strettamente correlati tra di loro.
La Seconda Repubblica è agli sgoccioli. Si vedono le crepe, si sentono gli scricchiolii. Per coloro che vogliono vedere e sentire, si intende. Le indagini riaperte dalle procure di Milano, Roma, Caltanissetta e Palermo sulle stragi del ’92-’93 avranno la stessa portata devastante dell’inchiesta di Mani Pulite, che mise fine alla Prima Repubblica.
In televisione non trapela ancora nulla. Gli Italiani se ne stanno per andare al mare, se non ci sono già, e la Cesara Buonamici dagli studi di Canale5 tenta di sedarli raccontando loro del caldo torrido, dell’ultimo caso di cronaca nera e delle vacanze dei vip. Sotto sotto, la gente che conta trema. Sono per ora ancora movimenti sotterranei, poco visibili. Segugi che fiutano il pericolo imminente e si preparano al peggio. C’è chi già si sta riorganizzando, crollano vecchie alleanze, si instaurano nuovi legami.Per conferma, chiedere a Lombardo, Dell’Utri e Miccichè, alle prese col neonato partito del Sud. Sono segnali, piccole scosse telluriche, premonitrici del terremoto imminente.
Osserviamoli. Riina ha parlato. Ha parlato dopo sedici anni di sostanziale silenzio. E l’ha fatto il giorno del diciassettesimo anniversario della strage di via D’Amelio. Ha lanciato un messaggio chiaro, anzi chiarissimo. Chi voleva intendere, ha capito perfettamente. Quella frase (“L’hanno ammazzato loro“) ha insinuato il panico. Lungi dal voler essere un modo maldestro per scaricare le proprie colpe su altri (come è stato ingenuamente interpretato da molti, in primis il nostro presidente Napolitano), quel messaggio è un avvertimento ben preciso: se inizio a parlare vi distruggo, quindi cercate di venire incontro agli interessi di Cosa Nostra.
Se Riina inizia a parlare, salta tutto. Come minimo, mezzo stato democratico crolla. Se Riina inizia a parlare, saltano politici, magistrati, forze dell’ordine. Saltano Berlusconi e Dell’Utri (ma per davvero questa volta), esplode il Pdl, salta Andreotti dagli scranni del senato, salta Mancino dagli scranni del Csm, salta Carnevale con mezza Corte di Cassazione, saltano Gelli e i suoi seguaci sparsi nelle istituzioni, a destra come a sinistra. Ed è notizia di oggi che i magistrati di Caltanissetta sono saliti al nord ad interrogare Riina. Tre ore di domande incalzanti. Non trapela ancora nulla. Secondo prime indiscrezione il capo dei capi avrebbe dichiarato che per la strage di Via D’Amelio ci sono innocenti in galera e colpevoli in libertà. Ma questo dice poco e niente. Bisogna attendere.
Intanto, ieri, Luciano Violante si è consegnato spontaneamente ai magistrati di Palermo. Ha detto che aveva qualcosa da riferire. Una cosina così, da poco. Che gli è venuta in mente giusto l’altra notte, mentre faceva fatica ad addormentarsi. Gli è venuto in mente che un bel giorno di diciassette anni fa, settembre 1992, l’allora colonnello (poi divenuto generale) Mario Mori lo contattò in qualità di Presidente della Commissione Antimafia (era appena stato eletto) per una richiesta inedita. Vito Ciancimino, sindaco mafioso di Palermo legato al clan dei corleonesi di Totò Riina, aveva richiesto espressamente di poter incontrare Violante a tu per tu. Per fare cosa? Evidentemente per metterlo al corrente della trattativa in corso e delle richieste di Cosa Nostra. Violante afferma di aver risposto picche: o un incontro ufficiale in Commissione o niente. Niente incontri privati.
Ma perchè Violante se ne è uscito solo ora con questa rivelazione? C’è già stato nel 2005, ed è terminato con una discutibile assoluzione, un processo a carico del generale Mori e del capitano Sergio De Caprio (il leggendario Capitano Ultimo) per favoreggiamento a Cosa Nostra per non aver perquisito il covo di Riina dopo la cattura avvenuta il 15 gennaio del 1993. Una sbadata “dimenticanza” che ha permesso ai picciotti di ripulire il covo di tutti i documenti compromettenti e che avrebbero testimoniato in modo inequivocabile la trattativa in corso tra mafia e istituzioni. Ma soprattutto è da mesi che è in corso un altro processo, in cui sono imputati ancora una volta il generale Mori e il colonnello Obinu, questa volta per aver favorito la latitanza di Bernardo Provenzano. Evitarono di arrestarlo nel lontano 1995 boicottando il blitz nel casolare di Mezzojuso, col risultato che Provenzano rimarrà latitante per altri 11 lunghissimi anni. Dov’è stato Violante in tutto questo tempo? Non gli è passato per la testa che forse quell’episodio che oggi racconta sarebbe potuto servire ai magistrati inquirenti per farsi un’idea migliore delle varie vicende?
Non risulta per lo meno sospetto il fatto che Violante inizi a ricordare qualcosa solo dopo che Massimo Ciancimino ha fatto espressamente il suo nome come persona informata della trattativa in corso tra stato e mafia?
Ma non c’è da stupirsi. Violante appare sempre più come un uomo in grave stato confusionale. Nato comunista, giudice, ha passato la sua gioventù politica a difendere i magistrati e ad attaccare pesantemente Berlusconi e il suo partito. Sentitelo quattordici anni fa, sembra il Di Pietro di oggi: “Il partito dei giudici non esiste, esiste invece quello degli imputati eccellenti, capeggiato da Craxi e composto da un pezzo di classe politica abituata all’impunità“. Oppure: “Un manipolo di piduisti e del peggio vecchio regime… ripete le parole d’ordine del fascismo e del nazismo quando morivano nei lager i comunisti, i socialisti e gli ebrei. E con questa parola d’ordine la mafia uccideva i sindacalisti. E’ una chiamata alla mafia, quella che Berlusconi ha fatto“. Oppure: “Le proposte di Berlusconi rispondono alle richieste dei grandi mafiosi“. O ancora: “C’era un giro di mafia intorno al premier, e non so se c’è ancora“.
Poi qualcosa è cambiato. Berlusconi ha vinto e Violante è diventato adulto. Si è messo ad inciuciare con Silvio. Sono diventati grandi amici. Con un famoso discorso alla camera del 2003 ha svelato che ci fu un patto scellerato tra la sinistra e Berlusconi affinchè al Cavaliere non venissero portate via le concessioni televisive, in cambio ovviamente di favori politici. E’ oggi apprezzato da Ignazio La Russa per la sua moderazione e da Angelino Alfano per le sue idee sulla giustizia (che ricalcano il Piano di Rinascita di Gelli). Ha riabilitato Almirante, Fini e Craxi (da “latitante” a “capro espiatorio dal formidabile spirito innovativo“). Non perde occasione di bacchettare i magistrati (“Ci sono magistrati pericolosi che hanno costruito le loro carriere sul consenso popolare“). Appare regolarmente come ospite, unico del partito Democratico, alle feste del Pdl. I complimenti per la coerenza sono d’obbligo.
Intanto, un’altra notiziucola è passata inosservata. Giuseppe Ayala, famoso magistrato del pool antimafia, che non perde occasione per ribadire la propria amicizia con Falcone e Borsellino, autore del libro “Chi ha paura muore ogni giorno. I miei anni con Falcone e Borsellino” edito da Mondandori, già parlamentare e di nuovo magistrato, ha rilasciato, con nonchalance, un’intervista ad Affaritaliani.it in cui spazia dai misteri delle stragi al proprio rapporto personale con i due giudici morti ammazzati. E ad un certo punto, alla domanda del giornalista sulle dichiarazioni di Nicola Mancino che nega categoricamente di aver mai incontrato Paolo Borsellino, lascia cadere la bomba: “Io ho parlato con Nicola Mancino, per diversi anni mio collega al Senato. Lui ha avuto un incontro con Borsellino, del tutto casuale, il giorno in cui andò in Viminale a prendere possesso della sua carica al Ministero“. Il giornalista, esterrefatto, obietta: “Ma lui ha sempre negato l’incontro“. Ayala non fa una piega: “Ma lui mi ha detto che lo ha avuto. Mi ha fatto vedere anche l’agenda con l’annotazione. Anche se francamente non ho elementi per leggere la dietrologia di questo incontro. C’era Borsellino al Viminale che parlava con il capo della polizia di allora che era Parisi. Parisi gli disse che c’era Borsellino e se voleva salutarlo. Mancino rispose “Si figuri”. Così lo accompagnò nella sua stanza, in mezzo ad altre persone. Lì ci fu una stretta di mano. Ma non ho alcun elemento per pensare che il ruolo di Mancino fu un altro.”
Dunque, per il principio del terzo escluso, una cosa sembra certa. O Ayala mente. O Mancino mente.
Ma soprattutto, cosa ha spinto Ayala a fornire questo “assist” (come l’ha prontamente definito Salvatore Borsellino) a Mancino? E che sia un tentativo di aiuto all’amico, verso cui dichiara di nutrire profonda stima, non c’è dubbio. Lo si capisce dal modo tendenzioso in cui ripropone la ricostruzione della vicenda. Che bisogno c’era di sottolineare che l’incontro è stato “del tutto casuale“? E poi: come fa a riportare le esatte parole che Mancino e Borsellino si sarebbero detti (o non detti)? Come fa ad essere sicuro che c’è stata solo una stretta di mano? Lui non era certamente presente e quindi la versione che lui spaccia per vera non può essere nient’altro che quella raccontatagli da Mancino. Certamente non una fonte imparziale. E perchè tutta questa foga nel cercare di sminuire la portata di quell’incontro, il che, secondo la formula dell’excusatio non petita, non fa altro che inguaiare ancora di più la posizione di Mancino?
Sì, perchè il nostro vicepresidente del Csm, intervistato non più di qualche mese fa per La7 dalla giornalista Silvia Resta, aveva tirato fuori da un cassetto del suo studio un calendarietto che avrebbe dovuto dimostrare che il 1 luglio non ci fu alcun incontro con Paolo Borsellino. In effetti, l’agendina mostrata da Mancino alle telecamere per qualche secondo, risultava praticamente vuota alla data 1 luglio 1992. Il problema è che tutta la settimana precedente al 1 luglio appariva vuota. Difficile pensare dunque che quella fosse l’agenda ufficiale di Mancino. Era evidentemente un tentativo maldestro per proclamarsi estraneo alla vicenda. Ora, grazie alle parole altrettanto maldestre di Ayala, sappiamo che di agendine Mancino ne ha almeno due. Una da mostrare alla stampa e una da mostrare negli incontri privati. In cui a quanto pare c’è la prova che quell’incontro effettivamente c’è stato.
Nicola Mancino è un’altra persona in grave stato confusionale. Tutte le bugie da lui raccontate in questi mesi stanno crollando miseramente e lo stanno mettendo all’angolo. E dimostrano come quell’incontro fu tutt’altro che casuale, tutt’altro che di poco conto. Che bisogno ci sarebbe stato di mentire spudoratamente per tutto questo tempo, se non ci fosse qualcosa di grosso e di inconfessabile da coprire?
Resta da capire l’uscita alquanto inaspettata di Ayala. E’ chiaro che non stiamo parlando di uno sprovveduto. E’ stato forse imboccato da Mancino, che prima o poi dovrà confessare ai magistrati l’avvenuto incontro del 1 luglio e quindi si sta preparando a spianare il terreno? Molto probabile. Oppure l’ha fatto sinceramente per cercare di tirar fuori dai guai l’amico, che Vito Ciancimino ha indicato espressamente come il terminale istituzionale della trattativa tra stato e mafia? Senza accorgersi, per altro, di mettere Mancino in una situazione ancora più imbarazzante? Ne dubito.
Pochi minuti fa è arrivata puntuale la risposta all’assist di Ayala. Dichiara Mancino: “Ayala afferma ciò che io non ho mai escluso e, cioè, che è stato possibile avere stretto, fra le tantissime mani, anche quella del giudice Borsellino, il giorno del mio insediamento al Viminale. Ma tra avergli stretto la mano in mezzo ad altre persone senza avergli parlato e avere incontrato e parlato con il giudice Borsellino, c’è una bella differenza. Ayala, però, fa confusione sulle agende. Sulla mia, che molti testimoni hanno visto e che è stata mostrata anche in TV, il primo luglio 1992 c’è una pagina bianca senza alcuna annotazione di incontri“.
Per la serie: mi son confuso confondendomi.
Nutro forti perplessità sulla figura di Giuseppe Ayala. E quest’ultima esternazione non fa altro che aumentare i miei dubbi. Ayala è colui che arrivò per primo sul luogo della strage di Via D’Amelio. Alloggiava infatti al Residence Marbella a 150 metri di distanza. Ancora in mezzo alle fiamme e circondato dai pezzi carbonizzati di Paolo e della sua scorta, riuscì a scorgere all’interno della Croma blindata una valigetta. Da qui in poi la ricostruzione diviene confusa. Ayala ha dato successivamente varie versioni differenti dell’accaduto. Prima ha dichiarato che un carabiniere in divisa aprì la macchina, estrasse la valigetta e gliela consegnò, ma lui, non essendo più a quel tempo un magistrato, si rifiutò di prenderla in consegna. Poi, dopo le dichiarazioni (per altro confuse e contraddittorie) di Arcangioli che ribaltavano questa versione, Ayala ritratta e dice che in realtà non esisteva nessun carabiniere e che vide lo sportello della macchina già aperto e che fu lui materialmente a estrarre la valigetta, senza però mai aprirla. Poi ritratta ancora. Fu una persona in borghese, e non lui, ad estrarre la valigetta dall’auto. Lui la prese in consegna e poi la consegnò ad un carabiniere in divisa. Dice anche di non aver riconosciuto Arcangioli nei personaggi in divisa che si sono occupati della borsa.
Fatto sta che quella valigetta dopo pochi secondi compare proprio nelle mani di Arcangioli, immortalato mentre si dirige con passo sicuro e sguardo tutt’altro che disorientato verso la fine di Via D’Amelio, all’incrocio con Via Autonomia Siciliana (e non sul lato opposto della strada, come dichiarato dallo stesso Arcangioli). La borsa ricomparirà dopo un’ora e mezza sul sedile posteriore della macchina del giudice, priva dell’agenda rossa.
Ayala ha sempre giustificato le varie versioni con la scusa (comprensibile) di essere stato talmente sconvolto dall’accaduto da non avere un ricordo lucido di quegli istanti. Sarà. Ma lo stato di confusione mentale, se ci mettiamo pure le dichiarazioni di Arcangioli, è grande e sicuramente non ha contribuito all’accertamento della verità. Ma come fa un uomo, evidentemente in stato di shock emotivo, ad avere la prontezza e la freddezza di notare una valigetta all’interno della Croma ancora in fiamme? E perchè l’attenzione di Ayala si concentra subito su quel particolare e non sul putiferio di fumo, sangue e fuoco che lo circonda? Perchè tanto interesse?
Domande che per ora non hanno una risposta. Per ora. Quattro procure hanno riaperto ufficialmente le indagini sulle stragi. Qualcuno trema. Qualcuno si arrende. Qualcuno se la fa sotto. Si sente già l’odore.
L’ultima Ora d’aria sulle trattative Stato-mafia del 1992-‘93 si chiudeva con un invito ai signori delle istituzioni: «Per favore, ci raccontate qualcosa?». In sette giorni Mancino, Violante, Ayala e Martelli han raccontato qualcosa, lasciando intendere che in certi palazzi si sa molto più di quanto non sappiano i magistrati e i cittadini. Ogni tanto se ne distilla una goccia. Quando non se ne può fare a meno. Ciancimino jr. racconta che nell’autunno ’92 il padre Vito, per trattare col colonnello Mori, pretendeva una «copertura politica» dal ministro dell’Interno Mancino e dal presidente dell’Antimafia Violante. A 17 anni di distanza, Violante ricorda improvvisamente che Mori voleva fargli incontrare Ciancimino, ma lui rifiutò. Peccato che non l’abbia rammentato 10 anni fa, quando Mori fu indagato a Palermo (favoreggiamento mafioso) per la mancata perquisizione del covo di Riina (assoluzione) e la mancata cattura di Provenzano (processo in corso).
Mancino nega da anni di aver incontrato Borsellino il 1° luglio ’92, esibendo come prova la propria agenda e smentendo così quella del giudice assassinato. Ma ora viene sbugiardato da Ayala: «Mancino mi ha detto che ebbe un incontro con Borsellino il giorno in cui si insediò al Viminale (1° luglio ’92, come segnò il giudice, ndr): glielo portò in ufficio il capo della polizia Parisi. Mi ha fatto vedere l’agenda con l’annotazione». Intanto Mancino svela a Repubblica che nel ’92 disse no a trattative con la mafia, ma senza rivelare chi gliele propose. Poi, sul Corriere, fa retromarcia: «Nessuna richiesta di copertura governativa». E l’incontro con Borsellino? Prima lo nega recisamente: «Non c’è stato. Ricordo la chiamata di Parisi dal telefono interno: “Qualcosa in contrario se Borsellino viene a salutarla?”. Risposi che poteva farmi solo piacere, ma poi non è venuto». Poi si fa possibilista: «Non posso escludere di avergli stretto la mano nei corridoi e nell’ufficio… non ho un preciso ricordo». Cioè: ricorda un dettaglio marginale (la chiamata di Parisi), ma non quello decisivo (l’erede di Falcone appena assassinato si perse nei meandri del Viminale o trovò la strada del suo ufficio?). Poi torna a negare: «È così,ho buona memoria. Del resto c’è la testimonianza del pentito Mutolo: Borsellino interruppe l’interrogatorio con lui per andare al Viminale e tornò stizzito perché anziché Mancino aveva visto Parisi e Contrada». Scarsa memoria: Mutolo afferma che Borsellino tornò sconvolto perché gli avevano fatto incontrare Contrada, non perché non avesse visto Mancino (anzi, scrisse nel diario di averlo visto). Resta poi da capire perché, fra Capaci e via d’Amelio, mentre partiva la trattativa Ros-Ciancimino, ci fu il cambio della guardia al governo. «Io e Scotti – ricorda l’allora Guardasigilli Claudio Martelli – eravamo impegnati in uno scontro frontale con la mafia. Ma altre parti di Stato pensavano che le cose si potevano aggiustare se la mafia rinunciava al terrorismo e lo Stato evitava di darle il colpo decisivo. In quel clima qualcuno sposta Scotti dall’Interno alla Farnesina e pensa pure di levare dalla Giustizia Martelli, che però dice no». Signori delle istituzioni, siamo sulla buona strada, ma si può fare di più. A quando la prossima puntata?