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Ferraro: «Dissi a Borsellino dei contatti tra i carabinieri e Ciancimino»

Fonte: Ferraro: «Dissi a Borsellino dei contatti tra i carabinieri e Ciancimino».

Scritto da Giovanni Bianconi

ROMA – Paolo Borsellino seppe che i carabinieri avevano agganciato Vito Ciancimino per una sua possibile collabora­zione il 28 giugno 1992, ultima domenica del mese, all’aeropor­to di Fiumicino, mentre torna­va da Bari e aspettava il volo per Palermo. Glielo disse Lilia­na Ferraro, la collaboratrice di Giovanni Falcone che ne prese il posto al fianco del ministro della Giustizia Martelli dopo la strage di Capaci. A lei l’aveva ri­ferito proprio l’ufficiale dell’Ar­ma che aveva preso contatto con l’ex sindaco mafioso: il ca­pitano Giuseppe De Donno, il quale — attraverso la Ferraro — voleva informare lo stesso Guardasigilli. Forse perché per «trattare» con Ciancimino, vici­nissimo ai corleonesi Riina e Provenzano, c’era bisogno di «garanzie politiche», come rac­conta Martelli.

Una ricostruzione negata dai carabinieri, tanto che l’ormai ex capitano De Donno s’è già ri­volto a un avvocato per intra­prendere ogni possibile iniziati­va a sua tutela. Sostiene di non aver mai parlato con Liliana Ferraro dei suoi colloqui con Ciancimino, che per lui vestiva i panni del semplice «confiden­te ». Ma ieri la testimone ha con­fermato tutto ai magistrati di Caltanissetta e Palermo che in­dagano sulle stragi del ’92 e sul­l’ipotetica trattativa tra Stato e mafia. Precisando che della cir­costanza parlò già nel 2002 col pubblico ministero fiorentino Gabriele Chelazzi che indagava sulle stragi del ’93. Quando De Donno andò a trovarla — ha ricordato ieri la Ferraro — era sconvolto per la morte di Falcone avvenuta cir­ca un mese prima, era in cerca di nuovi riferimenti giudiziari per le indagini, e lei lo invitò ad affidarsi a Borsellino, al­l’epoca procuratore aggiunto di Palermo.

Pochi giorni dopo, a Fiumicino, la stessa Ferraro ri­ferì a Borsellino il colloquio con l’ufficiale dell’Arma, avve­nuto su richiesta del magistra­to che aveva annotato il nome «Ferraro» sulla sua agenda gri­gia. Con lui c’era la moglie Agnese, la quale già nel 1995 aveva parlato dell’incontro da­vanti alla Corte d’assise. Non disse di che parlarono, perché non aveva assistito alla conversazione, ma nei giorni scorsi — in una testimonianza resa ai pubblici ministeri di Cal­tanissetta — ha aggiunto un particolare che potrebbe legar­si alle ultime novità emerse. Agnese Borsellino ha rivelato che pochi giorni prima di mori­re nella strage di via D’Amelio (19 luglio ’92), suo marito le confidò di aver maturato dei dubbi sul generale dei carabi­nieri Antonio Subranni, all’epo­ca comandante del Ros, il rag­gruppamento speciale di cui fa­cevano parte De Donno e l’allo­ra colonnello Mori, cioè i due carabinieri che avevano aggan­ciato Ciancimino. Subranni era dunque il supe­riore informato da De Donno e Mori dei colloqui avviati con l’ex sindaco. I due hanno sem­pre sostenuto che fuori dell’Ar­ma non dissero nulla a nessu­no fino all’arresto dello stesso Ciancimino, avvenuto all’inizio del ’93. Ora s’inseriscono altre ricostruzioni che potrebbero ar­rivare a riscrivere la storia di quella drammatica estate di di­ciassette anni fa.

Giovanni Bianconi (dal Corriere della Sera, 15 ottobre 2009)

Consegnato ai magistrati il papello di Riina

Fonte: Consegnato ai magistrati il papello di Riina.

Palermo – 14 ottobre 2009. Sarebbe stato consegnato da Massimo Ciancimino il famoso papello di Riina ai magistrati di Palermo. Sembrava una leggenda invece il foglio contenente le richieste che il capo di Cosa Nostra nel 1992 avanzò allo Stato in cambio della fine della strategia stragista, è ora una realtà oggettiva. Già questa mattina il procuratore aggiunto Antonio Ingroia, durante un dibattito contro la mafia organizzato dagli studenti di sinistra, al polo di scienze politiche dell’Università di Firenze, aveva accennato all’ ipotesi che presto la Procura ne sarebbe venuta in possesso. Ora finalmente il “papello” sarebbe negli uffici giudiziari di Palermo disponibile al vaglio degli inquirenti.
Se autenticato il documento tanto atteso potrebbe mettere in discussione molte delle versioni fornite dai vari soggetti che al tempo erano venuti a conoscenza della trattativa e rappresentare davvero una svolta nella ricerca della verità sulle stragi.
A parlare per primo del “papello” era stato il pentito Giovanni Brusca il 13 gennaio 1998. Interrogato nel corso del processo di Firenze sulle stragi del ’93, il pentito aveva riferito dell’esistenza di una trattativa tra il capo di Cosa Nostra e lo Stato, intavolata dopo la strage di Capaci. Fu lo stesso capo di cosa nostra ad informarlo di quel dialogo .”Si sono fatti sotto – gli disse –  gli ho presentato un ‘papello’ di richieste lungo cosi’”. Dodici istanze che avrebbero compreso una serie di agevolazioni per cosa nostra tra cui la revisione del Maxiprocesso, l’abolizione del carcere duro per i mafiosi, la revisione della legge sulla confisca dei beni, l’annullamento della legge sui pentiti ed altri ancora. Richieste  che il capo di Cosa Nostra avrebbe inoltrato alle istituzioni dopo che il capitano del Ros dei carabinieri Giuseppe De Donno e il generale Mori avevano cercato con lui un dialogo con Riina attraverso la mediazione di Vito Ciancimino. Ora resta da stabilire chi oltre ai vertici del Ros aveva garantito questa negoziazione. Le ultime dichiarazioni dell’ex Ministro Martelli e la lunga audizione della dottoressa Liliana Ferraro, nel 1992 alla direzione del Ministero degli Affari Penali, durata quattro ore proprio nella giornata di oggi forse hanno già contribuito a fare chiarezza.

«Borsellino sapeva? Forse non si è fidato dei suoi superiori…. » – l’Unità.it

«Borsellino sapeva? Forse non si è fidato dei suoi superiori…. » – l’Unità.it.

di Nicola Biondo

Luca Tescaroli, oggi sostituto procuratore a Roma, è stato pubblico ministero nel processo per la strage di Capaci. Ha condotto le indagini sui mandanti occulti per gli eccidi di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Segue con attenzione le recenti rivelazioni sui contatti tra esponenti dello stato e emissari della Cupola avvenuti nella primavera estate del 1992.

Dottor Tescaroli la procura di Palermo ha un’indagine aperta sulla trattativa tra Stato e mafia. Qual è il suo convincimento? «Sull’inchiesta in corso ovviamente mi astengo da qualsiasi commento. Noto che ci sono uomini delle istituzioni che hanno una memoria “al contrario”: ricordano meglio i fatti lontani nel tempo che quelli vicini».

Come giudica le rivelazioni di Martelli secondo cui Borsellino avrebbe saputo da Liliana Ferraro degli incontri tra Vito Ciancimino e i carabinieri?
«Sia la Ferraro che Martelli hanno reso testimonianza in istruttoria e in aula per la strage di Capaci. Ma non hanno mai fatto riferimento a trattative o a cose simili. Queste ultime rivelazioni a distanza di così tanto tempo mi confermano un’idea: c’è stata una cortina di ferro intorno all’accertamento della verità, di tutta la verità, sulle stragi. Potevamo fare passi in avanti importanti che non ci è stato concesso di fare. C’è un nodo irrisolto».

Quale fra i tanti?
«Quello con cui ha inizio questa storia. Andare a parlare con Ciancimino significava parlare con la Cupola. È un’ammissione di debolezza o ancora peggio una tecnica di approccio che ammette il compromesso. Il mostro mafioso andava schiacciato non blandito, non esistono vie di mezzo».

Lei crede che la trattativa abbia influito sulla strage di via D’Amelio?
«È un dato acquisito che vi fu un’accelerazione per la strage. Dopo Capaci Cosa nostra aveva messo in preventivo l’eliminazione di Calogero Mannino ma tutto si bloccò e Borsellino diventò un obiettivo da colpire nel più breve tempo possibile. La domanda è perché?».

Perché si trovò davvero sovraesposto: chi lo candidava alla procura nazionale antimafia, chi addirittura alla Presidenza della Repubblica.
«Sì, vi fu una sovraesposizione del giudice. Ma che non spiega la fretta nel volerlo eliminare ad ogni costo e dopo solo 57 giorni dalla strage di Capaci. Nessuno è sprovveduto dentro Cosa nostra. Non potevano non immaginare che stavolta lo Stato avrebbe reagito. Di sicuro Borsellino si sarebbe opposto a qualsiasi trattativa».

Ci si chiede perché se il giudice, venuto a conoscenza di un contatto tra Stato e mafia, poi non l’abbia denunciato.
«Intanto bisognerebbe sapere con certezza se qualcosa gli venne detto e in che termini. Poi mi chiedo se lui avesse fiducia in coloro che lo avrebbero dovuto sentire. Vi fu una chiara omissione».

Da parte di chi? «Borsellino era un uomo delle istituzioni. Ebbe il tempo di dire pubblicamente che sapeva fatti che avrebbe detto solo all’autorità giudiziaria. È normale che nessuno per 57 giorni lo chiami a Caltanissetta per testimoniare sulla strage del suo più caro amico e collega?».

Lei ha indagato a lungo sui possibili mandanti esterni delle stragi del 1992. Un’inchiesta poi archiviata. «È stata una pista investigativa che ci ha fatto capire molto. È curioso che il primo a parlare chiaramente di questi contatti tra Stato e mafia è stato Giovanni Brusca, un mafioso seppure pentito. Qualcuno avrebbe dovuto sentire il dovere morale di affrontare questa vicenda che oggi è davanti agli occhi di tutti».

Conveniva a tutti dire che era solo mafia? «Certo. Con le stragi l’obiettivo era l’intero Stato e una parte dello Stato ha risposto con la politica del compromesso, se non forse con una convergenza di interessi. Non credo alla follia di Cosa nostra. Qualcuno diede ai boss precise garanzie».

La vedova Borsellino ai pm: “Ecco tutti i sospetti di Paolo”

La vedova Borsellino ai pm: “Ecco tutti i sospetti di Paolo”.

La moglie del giudice ai pm. I dubbi del magistrato a 48 ore dalla morte
Un testimone rivela: “Aveva sospetti su un generale dei carabinieri”

Ha parlato come non aveva fatto mai, dopo diciassette anni. Per dire tutto. Il suo interrogatorio è cominciato così: “Avevo paura, non tanto per me ma avevo paura per i miei figli e poi per i miei nipoti. Adesso però so che è arrivato il momento di riferire anche i particolari più piccoli o apparentemente insignificanti”. È la vedova che ricorda gli ultimi due giorni di vita di Paolo Borsellino. È la signora Agnese che spiega ai magistrati di Caltanissetta cosa accadde nelle 48 ore precedenti alla strage di via Mariano D’Amelio.
Il verbale di interrogatorio è di poco più di un mese fa, lei da una parte e i procuratori di Caltanissetta Sergio Lari e Domenico Gozzo dall’altra. Lei si è presentata spontaneamente per raccontare “quando Paolo tornò da Roma il 17 di luglio”. Il 17 luglio 1992, due giorni prima dell’autobomba. Paolo Borsellino è a Roma per interrogare il boss Gaspare Mutolo, un mafioso della Piana dei Colli che aveva deciso di pentirsi dopo l’uccisione di Giovanni Falcone. È venerdì pomeriggio, Borsellino lascia il boss e gli dà appuntamento per il lunedì successivo.

Quando atterra a Palermo non passa dal Tribunale ma va subito da sua moglie. “Mi chiese di stare soli, mi pregò di andare a fare una passeggiata sulla spiaggia di Villagrazia di Carini”, ricorda la signora Agnese. Per la prima volta in tanti anni il procuratore Borsellino non si fa scortare e si concede una lunga camminata abbracciando la moglie. Non parlava mai con lei del suo lavoro, ma quella volta Paolo Borsellino “aveva voglia di sfogarsi”. Racconta ancora la signora Agnese: “Dopo qualche minuto di silenzio, Paolo mi ha detto: ‘Sai Agnese, ho appena visto la mafia in faccia…'”. Un paio d’ore prima aveva raccolto le confessioni di Gaspare Mutolo. Su magistrati collusi, su superpoliziotti che erano spie, su avvocati e ingegneri e medici e commercialisti che erano al servizio dei padrini di Corleone. Non dice altro Paolo Borsellino. Informa soltanto la moglie che lunedì tornerà a Roma, “per interrogare ancora Mutolo”.

Il sabato passa tranquillamente, la domenica mattina – il 19 luglio, il giorno della strage – il telefono di casa Borsellino squilla. È sempre Agnese che ricorda: “Quel giorno, molto presto, mio marito ricevette una telefonata dell’allora procuratore capo di Palermo Pietro Giammanco. Mi disse che lo “autorizzava” a proseguire gli interrogatori con il pentito Mutolo che, per organizzazione interna all’ufficio, dovevano essere gestiti invece dal procuratore aggiunto Vittorio Aliquò”.
Lo sa bene Paolo Borsellino che sta per morire. E ai procuratori di Caltanissetta Agnese l’ha ribadito un’altra volta: “Paolo aveva appreso qualche giorno prima che Cosa Nostra voleva ucciderlo”.

Un’informazione che arrivava da alcune intercettazioni ambientali “in un carcere dov’erano rinchiusi dei mafiosi”. Una minaccia per lui e per altri due magistrati, Gioacchino Natoli e Francesco Lo Voi. Ricorda sempre la vedova: “Così un giorno Paolo chiamò i suoi due colleghi e disse loro di andare via da Palermo, di concedersi una vacanza. Li consigliò anche di andare in giro armati, con una pistola”. Gioacchino Natoli e Lo Voi gli danno ascolto, ma lui – Borsellino – rimane a Palermo. Sa che è condannato a morte. E ormai sa anche della “trattativa” che alcuni apparati dello Stato portano avanti con Riina e i suoi Corleonesi. Ufficiali dei carabinieri, quelli dei Ros, il colonnello Mario Mori – “l’anima” dei reparti speciali – e il fidato capitano Giuseppe De Donno. Probabilmente, questa è l’ipotesi dei procuratori di Caltanissetta e di Palermo, Paolo Borsellino muore proprio perché contrario a quella “trattativa”.

Nella nuova inchiesta sulle stragi siciliane e sui patti e i ricatti con i Corleonesi, ogni giorno scivolano nuovi nomi. L’ultimo è quello del generale Antonino Subranni, al tempo comandante dei Ros e superiore diretto di Mori. Un testimone ha rivelato ai procuratori di Caltanissetta una battuta di Borsellino: “L’ha fatta a me personalmente qualche giorno prima di essere ammazzato. Mi ha detto: ‘Il generale Subranni è punciutu” (cioè uomo di Cosa nostra ndr)…'”.

Un’affermazione forte ma detta nello stile di Paolo Borsellino, come battuta appunto. Cosa avesse voluto veramente dire il procuratore, lo scopriranno i magistrati di Caltanissetta. La frase è stata comunque messa a verbale. E il verbale è stato secretato.
Il nome del generale Subranni è affiorato anche nelle ultime rivelazioni di Massimo Ciancimino, il figlio di don Vito. Nella sua intervista a Sandro Ruotolo per Annozero (però questa parte non è andata in onda ma è stata acquisita dalla procura di Caltanissetta), Massimo Ciancimino sosteneva: “Mio padre per la sua natura corleonese non si è mai fidato dei carabinieri. E quando il colonello Mori e il capitano De Donno cercano di instaurare questo tipo di trattativa, è chiaro che a mio padre viene il dubbio: ma come fanno questi due soggetti che di fatto non sono riusciti nemmeno a fare il mio di processo (quello sugli appalti ndr) a offrire garanzie concrete?…”. E conclude Ciancimino: “In un primo momento gli viene detto che c’è il loro referente capo, il generale Subranni…”. È un’altra indagine nell’indagine sui misteri delle stragi siciliane.

Fonte: La Repubblica.it (ATTILIO BOLZONI e FRANCESCO VIVIANO, 14 ottobre 2009)

Maurizio Torrealta: le stragi erano state annunciate – liberainformazione

Maurizio Torrealta: le stragi erano state annunciate – liberainformazione.

di Norma Ferrara

Quel dialogo fra Cosa nostra e lo Stato

Maurizio Torrealta: le stragi erano state annunciate

Solo pochi giorni fa ai microfoni di *Annozero *Claudio Martelli, Ministro della Giustizia negli anni delle stragi, racconta: Borsellino sapeva della trattativa. Dice di essere stato illuminato dalle parole di Massimo Ciancimino sul dialogo fra mafia e Stato e di aver cosi ricordato che l’allora direttore degli affari penali del Ministero, Liliana Ferraro, in occasione del trigesimo della strage di Capaci avrebbe avvertito Borsellino del contenuto di  una visita ricevuta dal capitano De Donno. De Donno avrebbe riferito della disponibilità dell’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino ad aprire un canale di comunicazione con Cosa Nostra se avesse ricevuto una copertura politica. Nel gennaio del 1993 Salvatore Riina viene arrestato e il  giornalista Maurizio Torrealta di Rainews 24 descrive attraverso il racconto del capitano Ultimo l’arresto del latitante numero uno di Cosa nostra. In quelle pagine non c’è traccia di questa trattativa fra mafia e Stato che portò anche all’arresto del boss corleonese. Nel 2002 Torrealta pubblica in un altro libro intitolato  “La Trattativa” il resto di quel racconto. Lo abbiamo sentito per parlare con lui di questa inchiesta e della riapertura delle indagini sulle stragi di  Capaci e via d’Amelio.

Dopo aver scritto dell’arresto di Riina lei pubblica nel 2002 “La
Trattativa”. Da quale spunto investigativo riparte la sua analisi di quel tragico biennio di stragi?

Solo alcuni anni dopo l’intervista al capitano che arrestò Riina mi resi
conto che le cose che mi aveva raccontato erano solo quelle che lui mi aveva voluto raccontare, quelle che aveva voluto vedere. E soprattutto mi resi conto di quello che mi aveva taciuto: la trattativa. Fu invece intorno alla seconda metà degli anni novanta che iniziai a leggere la sentenza del processo per la strage  di via dei Gergofili, nella quale, senza alcuna ambiguità, si parlava di una trattativa portata avanti dal capitano De Donno e dal colonnello Mario Mori. I due violando i compiti cui erano preposti: quelli di contrastare cosa nostra, in quegli anni, incontrarono Ciancimino e provarono a trattare con Provenzano, non si sa per conto di chi. La trattativa avrebbe avuto successo solo se fosse stata tenuta segreta all’opinione pubblica e agli altri organi investigativi. Intorno a questa trattativa di cui noi conosciamo soltanto alcune fasi ci sono anche una serie di episodi molto strani. Non ultimi, ma questa è solo una mia opinione, la morte di Gabriele Chelazzi, Pm che stava seguendo le indagini sulla trattativa e l’apparente  suicidio della direttrice del carcere di Sulmona, Armida Miserere. Il mio lavoro d’inchiesta cominciò quindi dalla lettura degli atti di Firenze ma anche dalla richiesta di archiviazione del magistrato Antonio Ingroia “Sistemi Criminali”. L’inchiesta, nonostante fosse riportata in una richiesta di archiviazione, conteneva al suo interno elementi oggettivi di estremo interesse di cui non potevamo essere a conoscenza mentre
accadevano.

Quali elementi?

Primo. Le stragi erano state annunciate, almeno un paio di volte. La prima volta da Elio Ciolini, un neofascista, già condannato per diffamazione che aveva inviato una lettera al giudice Leonardo Grassi, annunciando l’inizio di una stagione di stragi in Italia. Ciolini in questa e in una seconda arrivata dopo l’omicidio di Salvo Lima, precisa che queste decisioni erano state prese in alcune riunione tenutesi in Croazia. La strage di Capaci inoltre venne annunciata 48 ore prima da una piccola agenzia di stampa, Repubblica,  vicina ai Servizi segreti. A scriverlo con ogni probabilità fu in un articolo Vittorio Sbardella, secondo uomo di fiducia di Andreotti, per annunciare che ci sarebbe stato un “botto” che avrebbe modificato l’andamento delle elezioni. Sbardella è interessante anche per le cose che scrisse  dopo l’omicidio Lima intorno al cosiddetto “pericolo Golpe”. Dopo l’ arresto di Rina all’inizio del 93 seguirono una serie mai vista prima di episodi strani: attentati contro chiese e palazzi fiorentini e romani, fatti in
luoghi di potere molto specifici, non quelle dei partiti ma luoghi simbolo
del potere, delle istituzioni e della massoneria.

Massoneria, poteri forti e equilibri politici internazionali fanno da sfondo al biennio stragista. Ma non solo. Nella sua inchiesta lei si occupa anche della nascita e del ruolo dei movimenti secessionisti nel Paese. Perché?

Grazie ad un lavoro straordinario della Digos nel nostro Paese sono stati ricostruiti alcuni scenari all’epoca sconosciuti. All’inizio degli anni ’90 nacquero diverse organizzazioni, una sorta di Leghe del sud. In una di
queste comparivano persino Licio Gelli e Stefano Delle Chiaie, neofascista pluriindagato. Viene da pensare che ci fossero nuovi equilibri politici in bilico e ci fosse l’interesse di qualcuno oltre atlantico a creare più un’ Europa delle regioni che delle nazioni. Questo progetto non si è poi sviluppato ma questa ricerca di nuovi equilibri è rimasta e la trattativa è poi avvenuta su un altro versante: quello della ricerca di una situazione politica che garantisse Cosa nostra, messa in difficoltà dal maxi processo. Siamo negli anni novanta infatti, le condizioni internazionali cambiano, è crollata l’Urss e il nemico comunista è stato sconfitto. In quel periodo Cosa nostra percepisce che le forze che avevano utilizzato gli enormi capitali di cui disponeva, per fini politici contro il comunismo, stavano per essere cancellate dal panorama politico, come dire: il loro ruolo terminava li. Così diventò importante attirare l’attenzione con azioni capaci di arrivare anche al di là dell’Atlantico per garantire la sopravvivenza di Cosa nostra.

Quali gli elementi nuovi emersi dopo il 2002 data della pubblicazione de “La Trattativa”,  ad oggi?

La strage di via d’Amelio è stata completamente riletta. Si è scoperto che le confessioni di un pentito sono state  inquinate, fatte ad arte per sviare tutte le indagini mentre adesso ci sono nuovi collaboratori di giustizia cheraccontano come si è sviluppata questa strage, il coinvolgimento dei servizi segreti.  Ma anche la trattativa. Per anni si era concentrata l’attezione sull’uomo di fiducia di Riina, il medico Antonino Cinà. Sembra che abbiano avuto un ruolo altri uomini politici già condannati per associazione mafiosa e senatori della Repubblica. Ci sono nuove indagini anche se devono emergere ancora elementi chiari e precisi tali da poter dire con certezza…

Beh, un nome circola da mesi, da dichiarazioni di pentiti e in ultimo anche dalla voce di Massimo Ciancimino nell’ultima puntata di Annozero. Si tratterebbe di Marcello dell’Utri…

Ciancimino può fare questo nome, noi dobbiamo attendere riscontri precisi.

Prima ricordava della rilettura di Via d’Amelio… qual è stato il ruolo, se c’è stato, dei servizi segreti nelle stragi?

Ci sono prove della loro presenza nella strage di Capaci ma soprattutto in quella di via d’Amelio, ovvero quella che sembra davvero inverosimile possa essere stata organizzata da Cosa Nostra. Per varie ragioni ma soprattutto perché avviene in un momento in cui sono in via d’approvazione pesanti leggi antimafia e non poteva esservi mossa più dannosa per Cosa nostra che alzare il tiro contro lo Stato. Su via d’Amelio ricordo personalmente le parole del pentito Salvatore Cancemi, quando gli chiesi di questa strage mi disse: “non parlo” e disse delle altre mezze frasi che lasciavano intendere era opera di “menti raffinatissime”.

I pentiti, siciliani, calabresi, pugliesi, parlano di quegli anni anche quando decidono di non spingersi oltre alcuni episodi. Quella che sembra rimanere in silenzio è la politica. Perché?

A questo proposito cito un episodio significativo che riguardava l’allora Ministro Scotti, accaduto durante il processo per la strage di via dei Gergofili. Gli inquirenti chiesero al Ministro come mai “si fosse addormentato da Ministro degli interni e risvegliato Ministro degli esteri ” senza episodi specifici che giustificassero questo
cambiamento di ruolo. Lui sorrise ma non rispose, tant’è che alla fine gli avvocati chiesero che fosse messo agli atti il sorriso di Scotti, perché quel sorriso significava “non posso parlare”. Quello che sappiamo ad oggi è che al suo posto andò Nicola Mancino e viene da pensare che questo cambiamento avesse a che fare con la trattativa. Mancino ha sempre smentito e non esistono al momento prove che possano dimostrare il contrario. Quello che sembra evidente è che la trattiva trovò un consenso trasversale nella politica.

In questi ultimi anni l’attenzione verso il reperimento di prove che dimostrerebbero la trattativa Mafia – Stato è stata diretta verso il famoso “papello”, elenco scritto di contro richieste della mafia allo Stato. Ma è plausibile che funzionari dello Stato si fossero recati a parlare con un personaggio come Vito Ciancimino più volte, senza alcuna tutela? Penso all’uso di registratori… ad esempio. Potrebbero esserci altre prove di questa trattativa oltre al “papello”?

Se fossi in chi conduce le indagini e fossi venuto a conoscenza di queste prove sarebbe di certo l’ultima cosa di cui parlerei sino a quando non fossero giunte in un’ aula di tribunale. Credo comunque che il filone del  “papello” avrà degli sviluppi importanti e non potrà essere licenziato rapidamente….

Dopo 17 anni Sandro Ruotolo prepara una puntata per AnnoZero e riceve delle minacce. Salvatore Borsellino, fratello del magistrato, partecipa ad una trasmissione di Rainews24 sulle stragi e subisce il furto della sua auto. A chi fa ancora paura  questa verità?

Stiamo parlando di forze trasversali ai partiti che hanno governato il Paese prima e continuano ad influenzarne l’andamento anche adesso. Negli anni le condizioni sono cambiate molto, potranno esserci degli sviluppi importanti ma i tempi della giustizia sono lunghi e complessi. Sarà difficile portare avanti questi processi ma oggi sembrano esserci le condizioni e se si riuscirà ad arrivare alla verità sarà il primo caso in Italia in cui saranno identificati i mandanti  esterni di una strage.

Mancino: “Nel ’92 nessuno mi parlò di trattative tra Stato e mafia” – cronaca – Repubblica.it

Fonte: Mancino: “Nel ’92 nessuno mi parlò di trattative tra Stato e mafia” – cronaca – Repubblica.it.

La replica dell’ex ministro dell’Interno alle dichiarazioni fatte da Claudio Martelli ad “Annozero”
Dopo la puntata, Sandro Ruotolo e Francesco Viviano interrogati in procura a Palermo

Santoro: “La ricerca di un accordo c’è stata ed è continuata anche dopo via D’Amelio”

ROMA – “Per quanto riguarda la mia responsabilità di ministro dell’Interno, confermo che nel ’92 nessuno mi parlò di possibili trattative”. Nicola Mancino, oggi vicepresidente del Csm, replica così alle affermazioni fatte anche dal suo predecessore Claudio Martelli nella puntata di Annozero andata in onda ieri sera. Nel programma si è parlato della trattativa segreta tra pezzi dello Stato ed esponenti mafiosi, anche in relazione alle stragi del 1992 e, secondo Martelli, Paolo Borsellino sarebbe stato informato di questa trattativa una ventina di giorni prima di essere ucciso. Quella trattativa c’è stata, ribadisce oggi Michele Santoro, ed è “continuata anche dopo la strage di via D’Amelio” aggiunge il conduttore commentando le parole di Mancino.

La puntata di ieri sera ha ottenuto ancora una volta un ottimo risultato di ascolti: è stata vista da 5.844.000 spettatori con uno share del 23,32 per cento. E ha avuto un seguito in Procura a Palermo dove sono stati chiamati Sandro Ruotolo e Franco Viviano per alcuni chiarimenti in merito a quanto è emerso ieri.

Trattativa Stato-mafia, le rivelazioni in tv. Nel corso della puntata di ieri sera Sandro Ruotolo ha riferito quanto raccontato dall’ex ministro della Giustizia, Claudio Martelli, secondo cui anche il giudice Paolo Borsellino sarebbe stato a conoscenza del “dialogo” aperto dall’ex sindaco di Palermo, Vito Ciancimino, che agiva come canale di collegamento tra Cosa nostra e pezzi dello Stato. Una circostanza che aggiunge ulteriori misteri alla vicenda del magistrato ucciso nell’estate del 1992 in via D’Amelio.

Ruotolo e Viviano interrogati a Palermo. Dopo le dichiarazioni fatte ieri sera, il cronista di Annozero Sandro Ruotolo e l’inviato di Repubblica Francesco Viviano sono stati interrogati questa mattina come testimoni in procura, a Palermo, proprio a proposito delle rivelazioni sulla trattativa fra Stato e Cosa Nostra. Ruotolo, ascoltato dal procuratore aggiunto Antonio Ingroia e dal sostituto Nino Di Matteo, ha raccontato come sono andate le cose nel corso della preparazione della puntata, confermando quanto gli è stato riferito personalmente dall’ex ministro della Giustizia, Claudio Martelli e cioè che Paolo Borsellino fu informato da Liliana Ferraro del fatto che i carabinieri cercavano una copertura ‘istituzionale’ per un’eventuale trattativa con Cosa nostra attraverso Ciancimino. Ora saranno convocati anche Claudio Martelli e Liliana Ferraro: i due dovranno spiegare perché in questi 17 anni non sono andati in procura a riferire le notizie rivelate ieri sera, e dovranno spiegarlo ai magistrati di Caltanissetta che indagano sulle stragi del ’92, e a quelli di Palermo che cercano di far luce sulla trattativa.

La smentita di Mancino “Desidero far presente – dice l’allora ministro dell’Interno, Nicola Mancino – che intanto si può parlare di una trattativa intavolata con lo Stato in quanto ad autorizzarla abbia dato il suo consenso chi del governo all’epoca aveva la legittima rappresentanza: il Capo del governo, il ministro dell’Interno o il ministro della Difesa. Per quanto mi riguarda, confermo che nel’92 nessuno mi parlò di simili trattative”. “Il riferito incontro, come ricostruito ad Annozero dall’onorevole Claudio Martelli – prosegue Mancino – fra il capitano Giuseppe De Donno e la dottoressa Liliana Ferraro, all’epoca responsabile dell’ufficio del ministero della Giustizia già ricoperto dal giudice Falcone, incontro durante il quale il capitano De Donno rappresentava la disponibilità di Vito Ciancimino a collaborare a fronte di garanzie politiche, si concluse con l’invito rivolto dalla dottoressa Ferraro al capitano De Donno di parlarne al giudice Borsellino, incaricato delle indagini”. Quindi, si chiede Mancino, “è questa una trattativa?”. Da ministro dell’Interno, ricorda Mancino, diedi “immediato e decisivo impulso” a provvedimenti legislativi “adeguati a rafforzare l’azione di contrasto alla mafia” e a potenziare le forze di polizia impegnate contro la mafia. Mancino infine nega, come già fatto in passato, di aver incontrato Paolo Borsellino il 1° luglio 1992, giorno del suo insediamento al Viminale, o in altre, successive occasioni.

La replica di Santoro Le parole di Mancino provocano la replica di Michele Santoro: “La verità è tutta da accertare. Ma sicuramente bastano le deposizioni degli ufficiali che contattarono Vito Ciancimino, l’allora colonnello Mori e il capitano De Donno, per essere certi che la trattativa continuò anche dopo via D’Amelio. Questo, per amore della verità”, ha detto il giornalista all’Ansa. “Data l’importanza dell’argomento – aggiunge Santoro – vorrei semplicemente sottolineare che l’intervento della dottoressa Ferraro precedette la strage di via D’Amelio. Come siano andate effettivamente le cose è tutto da verificare, anche se Massimo Ciancimino ritiene che proprio in quei giorni la trattativa sia entrata nel vivo”.

Stragi, il ricatto bipartisan dei boss – Peter Gomez – Voglio Scendere

Stragi, il ricatto bipartisan dei boss – Peter Gomez – Voglio Scendere.

da Il Fatto Quotidiano, 10 ottobre 2009

Ci sono dentro tutti. Gli uomini di Governo e di opposizione: quelli che tra il 1992 e il 1993, mentre per strada scoppiavano le bombe di mafia, erano al corrente della trattativa intavolata tra Cosa Nostra, i servizi servizi segreti e i carabinieri. E ci sono dentro anche i leader di oggi: il premier Silvio Berlusconi e il suo braccio destro Marcello Dell’Utri che, tra il ’93 e il ’94, proprio nei giorni in cui stava nascendo Forza Italia, furono informati, secondo il pentito Giovanni Brusca, di tutti i retroscena delle stragi.

A Berlusconi – ha più volte spiegato Brusca in aula e in una serie d’interrogatori davanti ai pm – la mafia fece arrivare, dopo i primi articoli di giornale che parlavano dei suoi legami con il boss Vittorio Mangano, un messaggio preciso: non ti preoccupare se adesso scrivono di te, intanto i tuoi avversari politici non possono far finta di cadere dalle nuvole, non ti possono tenere sotto schiaffo, perché ci sono di mezzo anche loro; dacci invece una mano per risolvere i nostri problemi altrimenti noi continuiamo con le bombe e finiremo per renderti la vita impossibile.

All’indomani della puntata di “Annozero” in cui l’ex Guardasigilli, Claudio Martelli, ha svelato di essersi opposto al dialogo tra Stato e Antistato e di aver fatto arrivare la notizia della trattativa in corso a Paolo Borsellino (che si mise di traverso e forse anche per questo fu ucciso), la storia oscura di quei giorni insanguinati assomiglia sempre più a quella di un grande ricatto. Un ricatto in cui affonda le sue radici la Seconda Repubblica. In troppi, infatti, sapevano, e in troppi hanno taciuto. La prima parte della vicenda è ormai nota. Borsellino, intorno al 23 giugno del 1992, viene avvertito da una collega del ministero dei colloqui che il colonnello Mario Mori e i capitano Giuseppe De Donno hanno avviato con l’ex sindaco mafioso di Palermo, Vito Ciancimino. Capisce che è in corso un gioco pericoloso. In quel momento parlare con i vertici dell’organizzazione vuol dire convincere Totò Riina che le stragi pagano perché lo Stato è disposto a scendere a patti. Dice di no da subito e per questo il 25 giugno, durante un dibattito pubblico, spiega di aver ormai i giorni contati. Poi incontra Mori e De Donno. E, il primo luglio, vede il nuovo ministro degli Interni, Nicola Mancino (che continua a negare di avergli parlato) e il numero due del Sisde, Bruno Contrada.

Che cosa si dica con loro non è chiaro. Fatto sta che Riina cambia strategia. Evita di uccidere, come programmato, il leader della sinistra Dc siciliana, Lillo Mannino, (considerato un traditore) e fa invece saltare in aria il 19 luglio Borsellino e la scorta. Un attentato reso più semplice dall’assenza di controlli in via D’Amelio, la strada dove viveva sua madre. E da un’incredibile dimenticanza: Borsellino non viene informato dell’esistenza di una relazione dell’Arma che dà per imminente un’azione di Cosa Nostra contro di lui e contro l’allora pm, Antonio Di Pietro.

Se questo è il quadro (Brusca e Massimo Ciancimino, il figlio di Vito, assicurano che Cosa Nostra era al corrente di come il presunto referente governativo della trattativa fosse Mancino), diventa chiaro quanto la notizia fosse politicamente esplosiva. Anche perché pure l’ex comunista Luciano Violante, all’epoca presidente della commissione antimafia, sapeva che i carabineri parlavano con l’ex sindaco mafioso.

È a questo punto che, secondo Brusca, entrano in scena Berlusconi e Dell’Utri. Un anno dopo, intorno al 20 settembre del ‘93, Brusca legge un’articolo su L’Espresso in cui si parla del Cavaliere e di Vittorio Mangano. Riina, che non gli aveva mai parlato di questo legame con la Fininvest, è ormai in carcere. Durante la primavera e l’estate le bombe di mafia sono esplose a Roma, Firenze e Milano. Ma le stragi non sono servite per far ottenere a Cosa Nostra norme meno dure. Così Brusca pensa di utilizzare Mangano per fare arrivare al Cavaliere il suo messaggio. Ne parla con Luchino Bagarella, il cognato di Riina, che dà l’assenso. Verso metà ottobre Mangano parte in missione. A novembre, come risulta da un’agenda sequestrata a Dell’Utri, l’ideatore di Forza Italia lo incontra. Poi i colloqui, mediati secondo il pentito da degli imprenditori delle pulizie di Milano, proseguono almeno fino alle elezioni del marzo ‘94. Il futuro premier è soddisfatto Brusca ricorda: “Mangano mi disse che Berlusconi era rimasto contento”.

Ciancimino Jr: “Anche Rognoni sapeva dei contatti tra Stato e Cosa nostra”

Fonte: Ciancimino Jr: “Anche Rognoni sapeva dei contatti tra Stato e Cosa nostra”.

Paolo Borsellino sapeva della trattativa tra mafia e Stato. Anche illustri uomini della politica e del governo di Giuliano Amato erano informati: oltre all’allora ministro degli Interni, Nicola Mancino, nell’intervista di Sandro Ruotolo a Massimo Ciancimino (non trasmessa giovedì da Annozero per questioni di tempo) compare per la prima volta il nome di Virginio Rognoni, ex ministro dell’Interno, della Giustizia e della Difesa. Rognoni è stato vicepresidente del Consiglio Superiore della magistratura sino al 2006. Il suo successore è Mancino. Ciancimino fa riferimento alle fasi iniziali della trattativa, quando il padre Vito prepara le richieste. Siamo nell’ estate-autunno del ’92. Il 23 maggio Giovanni Falcone viene ucciso. Il 19 luglio è la volta di   Borsellino. Oggi 85enne, Rognoni sarà ascoltato dal procuratore aggiunto di Palermo, Antonio Ingroia.
c.t.

Il testo dell’intervista di Sandro Ruotolo a Massimo Ciancimino non trasmessa giovedì 8 ottobre 2009 da Annozero per questioni di tempo.


Ma suo padre si fida dei due Carabinieri?
“Mio padre per la sua natura corleonese non si fida dei Carabinieri. Ce l’ha proprio dentro il sangue. E quando il colonnello e il capitano per poter instaurare questo tipo di trattativa si propongono come persone che possono dare sia i benefici suoi che altri benefici ben piu’ importanti, e’ chiaro che in lui nasce il dubbio. Mi dice: ‘ma come fanno questi due soggetti che di fatto non sono riusciti nemmeno a fare il mio di processo!. (quello sugli   appalti, ndr) Ma come fanno questi due soggetti a offrire garanzie concrete a due superlatitanti… non sono in grado!’. In un primo momento gli viene detto che c’è il loro referente capo, il generale Subranni. E mio padre non e’ che e’ molto confortato…”

Subranni è il comandante dei ROS
“Esatto. Poi questo suo quesito lo fa al signor Franco. Il signor Franco lo conosco allo stesso modo di Bernardo Provenzano (…)”.

Il signor Franco è dei servizi segreti?
“Sì. E il signor Franco risponde a mio padre che il carabinieri non sono cosi’ ingenui e sprovveduti, ma che c’erano due soggetti informati e… costantemente tenuti al corrente   di quelle che erano le fasi della trattativa, e nel caso in grado di poter attuare le richieste. Il ministro dell’interno Mancino e un altro soggetto politico”

Rognoni?
“Sì”’.

Quindi suo padre sa questo dal signor Franco?

“…che sono informati, cosa che non entusiasma mio padre per niente”

E si fida del signor Franco?
“Ne parla anche con i Carabinieri e loro stessi gli confermano la stessa cosa”.

Il colonnello Mori?

“Sì, il colonnello Mori. Ma la cosa importante è che mio padre di questo diciamo rapporto a monte non è per niente soddisfatto”.

Quindi non gli bastano Mancino-Rognoni?
“Esatto, non gli bastano… secondo lui, l’unica persona che ha lo spessore morale per garantire la trattativa, e che era quasi un incubo di mio padre, perché era convinto che Violante comandasse…”

Comandasse che cosa?
“Era convinto che Luciano Violante comandasse la magistratura (…)”

E Mori ne parla con Violante?

“Questo io… l’ho appreso leggendo i giornali”.

E lei che apprende invece da suo padre?

“Che Mori gli dice che non si poteva coinvolgere l’onorevole Violante (…)”. Però suo padre chiede di essere ricevuto dal Presidente della Commissione Antimafia (..) “Quando Violante divenne   Presidente della Commissione”.

Quindi Violante ha detto no alla trattativa perché non ha voluto essere il garante dell’operazione. E dice no anche semplicemente ad ascoltare Ciancimino…

“Strano come l’unico politico condannato per mafia non sia stato mai ascoltato nonostante le sue continue richieste…”

Intervista a cura di Sandro Ruotolo (Fonte:

il Fatto Quotidiano, 10 ottobre 2009)

Intervista a Massimo Ciancimino. «Nel papello le contro richieste della mafia» : Pietro Orsatti

Massimo Ciancimino parla, ecco due interviste, una in video ad annozero e l’altra a Pietro Orsatti e Pino maniaci

Nell’intervista ad annozero tra le altre cose Ciancimino dice due cose importanti:

  1. Conferma che Riina è stato fatto arrestare da Provenzano che ha fatto sapere ai ROS dove si nascondeva Riina. Il tutto nel quadro della trattativa tra mafia e stato. Parte dell’accordo era di arrestare Riina lontano da casa e lasciare il tempo alla sua famiglia traslocare e di ripulire l’appartamento da tutte le carte di Riina.
  2. Con ‘arresto di Riina, Vito ciancimino cessa di essere utile come collegamento tra mafia e politica e viene fatto arrestare. Il suo posto viene preso da Marcello Dell’Utri

Intervista a Massimo Ciancimino. «Nel papello le contro richieste della mafia» : Pietro Orsatti.

Stagioni delle stragi e trattativa tra lo Stato e i boss. Il figlio dell’ex sindaco di Palermo: «Parlo con Ruotolo e dopo pochi giorni gli arrivano le minacce»

di Pino Maniaci e Pietro Orsatti

Una delle figure centrali della riapertura dei processi a Caltanissetta e Palermo sulle stragi e sulla trattativa fra Stato e Cosa nostra nei primi anni 90 è sicuramente Massimo Ciancimino, figlio di Vito, il sindaco del “sacco di Palermo”. Dopo aver deposto presso le procure di mezza Italia e dopo essere stato ritenuto credibile, almeno in parte, da molti pm, che sulle sue dichiarazioni hanno aperto nuovi fascicoli, oggi è uno dei personaggi meno facilmente interpretabili di questo rinnovato interesse per il biennio 1992-93 e la stagione delle stragi. Lo raggiungiamo telefonicamente mentre è in auto per partecipare alla puntata di “Annozero”, una partecipazione, la sua, non prevista fino all’ultimo minuto. Infatti era già stato raggiunto da Sandro Ruotolo, che aveva registrato una lunga intervista. Poi negli ultimi giorni le intimidazioni verso il giornalista.
Ciancimino, lei rilascia un’intervista a Ruotolo e pochi giorni dopo il giornalista riceve minacce di morte. Solo una coincidenza?
Non sono al corrente dei dettagli della questione, ma so che la Digos sta indagando a fondo sulla vicenda. Certo è che la coincidenza c’è e fa pensare. Ma non ho dettagli e alcuna certezza. Non mi fa star sereno, però.
Dell’Utri prese il posto di suo padre come mediatore nella trattativa?
Ovviamente non posso entrare nel merito di questo perché l’argomento è al vaglio dell’autorità giudiziaria. Questa dichiarazione che lei mi sta riportando, però, è stata frutto di un’estrapolazione di qualche vostro collega. Comunque, io sto rispondendo ai magistrati anche su Marcello
Dell’Utri.
Il famoso “papello”. Lo ha ancora lei? Lo ha consegnato ai magistrati?
Anche su questo argomento non posso rispondere perché si tratta di uno degli argomenti segretati. Quello che posso dire è che il papello -come  a voi giornalisti piace tanto chiamare questo foglio di carta – riguardava delle contro richieste di Cosa nostra, ed era… sta nelle mie disponibilità.
Ma le trattative erano due? Una con l’area stragista, l’altra con Provenzano e la fazione della “sommersione”?

Questa è una delle più accreditate ricostruzioni giornalistiche. Io sono convinto che la trattativa fosse solo una con vari personaggi che si alternano nelle varie fasi. Si trattava di una questione di “equilibrio”.
Un giudizio su quella che fu la strategia portata avanti da Totò Riina?

Quello che penso di Totò Riina è stato anche manifestato nella mia piena disponibilità e volontà di contribuire al suo arresto. La valutazione si può sintetizzare in questo tipo di comportamento.

Riina che oggi, dopo anni, ha ripreso a parlare.

L’ultimo messaggio di Riina sicuramente è qualcosa di strano, quello che mi fa pensare è che quando parla lo fa sempre su di me. Sicuramente non è indifferente il fatto che lui riconosca pienamente il suo ruolo. “Non siamo stati noi”. Parla da capo dei capi. Riina parla poco e quando sa che deve parlare. Si esclude dall’eccidio di via D’Amelio ma non da altri fatti. Facendo quella dichiarazione riconosce un suo ruolo preciso fino a quel momento, e poi, non so se per strategia, un disconoscimento di quell’ultima fase.
La rassicura sapere che ora anche suo fratello sta parlando in sede di magistratura confermando le dichiarazioni che lei ha fatto finora?
Mi conforta che mio fratello abbia fatto questa scelta, iniziando a collaborare e dichiarando in relazione ad aspetti di questa vicenda. Anche perché, al contrario di me, lui non ha in sospeso alcun carico con la . Mio fratello, come la mia famiglia, è intervenuto con grande difficoltà e solo dopo che lo Stato si è preso carico della mia situazione. Sì, questo suo intervento mi conforta molto.

Sta dicendo che dopo mesi lei, quindi, ha una scorta? È sotto tutela?
Sì, oggi sono con una scorta. Per quello che possono fare secondo lo schema e gli ordini del ministero e degli organi di tutela.

L’ha sorpresa l’esclusione della sua deposizione al processo Dell’Utri?
Ormai non mi stupisco più di nulla.

YouTube – Travaglio ad Annozero – Rapporti tra Stato e Mafia – 08/10/09

YouTube – Travaglio ad Annozero – Rapporti tra Stato e Mafia – 08/10/09.

Giuffre’: il nuovo referente era Dell’Utri

Fonte: Giuffre’: il nuovo referente era Dell’Utri.

di Anna Petrozzi e Lorenzo Baldo – 7 ottobre 2009
Roma. E’ ripreso oggi nell’aula bunker di Rebibbia il processo a carico del generale Mori e del colonnello Obinu per la mancata cattura del boss Bernardo Provenzano nel 1995.


La trasferta è dovuta all’audizione del collaboratore di giustizia Antonino Giuffré, l’ultimo dei pentiti più importanti ad aver avuto accesso a Provenzano dopo la cattura di Riina.
Sentito dai pubblici ministeri, Giuffré ha ripercorso gli esordi della sua carriera fino al cambio di strategia di Cosa Nostra, dall’ “attacco frontale” allo Stato fino alla “sommersione”. Vale a dire dal cambio di direzione dell’organizzazione da Riina a Provenzano.
In risposta alle domande dei pm  ha dichiarato che fu abbastanza chiaro, all’interno di Cosa Nostra, che la cattura di Riina e la mancata perquisizione del covo non erano stati accadimenti casuali, ma da inserire in una precisa volontà. Un progetto della cui portata Giuffré si sarebbe però reso conto solo con il passare degli anni, in seguito ai molti arresti di tutti gli uomini più importanti della cupola e alle conversazioni con Provenzano.
Secondo il collaboratore di giustizia, il capo della nuova Cosa Nostra della sommersione avrebbe portato avanti una trattativa per risolvere i gravi problemi dell’associazione criminale (confisca dei beni, ergastoli, collaboratori di giustizia, benefici carcerari) prima tramite Vito Ciancimino, che Provenzano gli disse: “E’ andato in missione”, e poi tramite il contatto che avrebbe consentito l’aggancio con un nuovo interlocutore politico: Marcello Dell’Utri.
I rapporti con il senatore Dell’Utri sarebbero stati intrattenuti tramite diversi intermediari: il costruttore Ienna e i fratelli Graviano.
Al termine dell’udienza il pubblico ministero ha chiesto di sentire, già dalla prossima volta, l’on. Luciano Violante e Giovanni Ciancimino, l’altro figlio di Vito Ciancimino che ha iniziato a rilasciare dichiarazioni solo di recente.
La riserva sarà sciolta nel corso dell’udienza di domani.

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Le “trattative” tra Cosa Nostra e pezzi dello stato – parte seconda

Fonte: Le “trattative” tra Cosa Nostra e pezzi dello stato – parte seconda.

Scritto da Martina Di Gianfelice e Federico Elmetti

Gli elementi contraddittori concernenti una presunta trattativa tra Cosa Nostra e pezzi dello Stato a cavallo delle stragi del ’92-’93, sembrano oggi assumere una valenza diversa con l’emergere di nuovi scenari che rivelano l’esistenza di almeno tre distinte trattative datate in periodi differenti.

La presunta “seconda trattativa”

Mentre alcuni dei nomi degli interlocutori e degli obiettivi della “prima trattativa” sono stati individuati dalla magistratura con sentenze definitive, i volti dei protagonisti e i contenuti della presunta “seconda trattativa” sono ancora oggetto di valutazione da parte dell’autorità giudiziaria. Tuttavia dalla sentenza di primo grado con la quale il sen. Marcello Dell’Utri è stato condannato a nove anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa (11 dicembre 2004), dalle dichiarazioni di diversi collaboratori di giustizia e da altre acquisizioni investigative sono emersi numerosi elementi che rimandano ad una possibile convergenza degli interessi di Cosa Nostra con il programma politico del partito “Forza Italia”, presentato ufficialmente da Silvio Berlusconi il 18 gennaio 1994.

E’ un fatto processualmente accertato che Totò Riina, dopo aver rinnegato l’appoggio politico alla DC, rea di non essere stata in grado di fornire le necessarie coperture a livello istituzionale e non aver impedito la buona riuscita del maxiprocesso, abbia spinto Cosa Nostra nel 1987 a votare alle elezioni politiche in massa il PSI nel tentativo non troppo nascosto di agganciare Bettino Craxi, che in quegli anni si era proposto come uno degli esponenti più potenti e carismatici del panorama politico italiano. Allo stesso modo, è noto che questa decisione, per altro non da tutti i mafiosi condivisa, si rivelerà sbagliata. In particolare, il ministro della giustizia di allora, il braccio destro di Craxi, Claudio Martelli, aveva tradito le aspettative di Cosa Nostra portando a Roma Giovanni Falcone. A quel punto, la mafia, in cerca di nuovi referenti politici, vira verso la stagione delle stragi secondo la logica del “fare la guerra per fare la pace”. Dopo le stragi di Capaci e Via D’Amelio, l’obiettivo è stato raggiunto in pieno. Lo stato si è detto disposto a dialogare con Totò Riina. “Si sono fatti sotto”, rivela il capo di Cosa Nostra.


La mafia vota Forza Italia


E’ a quel punto che Cosa Nostra sente la necessità di far valere di nuovo il proprio peso all’interno delle istituzioni. L’idea iniziale è quella di creare un movimento separatista, Sicilia Libera, una nuova forza politica autonoma ad uso e consumo della mafia, gestita da Leoluca Bagarella. Il progetto naufraga quasi subito. Cosa Nostra ha già cambiato idea. Rivela Bagarella: “Ci stiamo orientando verso un’altra direzione che è di più facile realizzazione, mentre un progetto indipendentista passa per anni ed anni di lavoro, noi abbiamo degli agganci”. Siamo nel periodo immediatamente successivo alle stragi di Capaci e Via D’Amelio. Riina è appena stato catturato, il 15 gennaio 1993. Nel continente esplodono bombe in successione, a Roma, Firenze e Milano. Di che agganci politici parla Bagarella? E’ il pentito Tullio Cannella a rivelarlo senza mezzi termini: “Si stavano appoggiando, lo dico con onestà, con Forza Italia, quindi loro avevano dei vari candidati, amici di alcuni esponenti di Cosa Nostra e ciascun candidato con questi loro referenti aveva realizzato una sorta di patto elettorale, una sorta di impegno e quindi votavano per questi, tant’è vero che anche Calvaruso mi disse: ma sai, Giovanni Brusca mi porta in questi posti, riunioni, escono tutto il giorno volantini a tappeto di Forza Italia”.

E’ in questo contesto che riappare, misteriosa, la figura di Vittorio Mangano. Già “stalliere” nella villa di Silvio Berlusconi ad Arcore tra il ’74 e il ’75, Mangano in quel periodo è appena uscito dal carcere ed è tornato a lavorare a pieno regime per Cosa Nostra. Intrattiene contatti stretti sia con Bagarella che con Giovanni Brusca e diviene referente di Cosa Nostra per la zona di Palermo-Centro. Bagarella in realtà non si fida di Mangano, ma allo stesso tempo lo tiene in pugno perché “serve territorialmente e politicamente”. Già nell’estate del ’93, quando ancora non si è sopito l’eco delle bombe, nel quartier generale di Berlusconi si lavora alacremente all’idea di fondare un nuovo partito. Il principale sostenitore della discesa in campo di Berlusconi è proprio Dell’Utri, che la ritiene “assolutamente necessaria”. Fedele Confalonieri e Gianni Letta sono invece contrari.Dopo un periodo di incertezza, Berlusconi decide di dare ancora una volta fiducia a Dell’Utri e gli affida l’incarico di fondare Forza Italia. A quel punto, Provenzano ha deciso: quello è il cavallo di Troia su cui salire per entrare nei gangli vitali delle istituzioni. Spiega il pentito Nino Giuffrè, braccio destro di Bernardo Provenzano: “Noi abbiamo avuto da sempre l’astuzia di metterci sempre con il vincitore, questa è stata la nostra furbizia. Quando ce ne andiamo a metterci con i socialisti già si vede che il discorso non regge. Stesso discorso con Forza Italia. Forza Italia non l’abbiamo fatta salire noi. Il popolo era stufo della Democrazia Cristiana, il popolo era stufo degli uomini politici, unni putieva cchiù, e non ne può più. Allora ha visto in Forza Italia un’ancora a cui afferrarsi e lei con chi parlava parlava e io lo vedevo, le persone tutte, come nuovo, come qualche cosa, come ancora di salvezza. E noi, furbi, abbiamo cercato di prendere al balzo la palla, è giusto? Tutti Forza Italia. E siamo qua”.

La decisione ufficiale di scendere in campo arriva nell’autunno del 1993. Provenzano gioca tutta la sua credibilità all’interno di Cosa Nostra sulla carta Forza Italia. Ancora Giuffrè: “Provenzano stesso ci ha detto che eravamo in buone mani, che ci potevamo fidare. Diciamo che per la prima volta il Provenzano esce allo scoperto, assumendosi in prima persona delle responsabilità ben precise e nel momento in cui lui ci dà queste informazioni e queste sicurezze ci mettiamo in cammino, per portare avanti, all’interno di Cosa Nostra e poi, successivamente, estrinsecarlo all’esterno, il discorso di Forza Italia”.

C’è un altro pentito, Salvatore Cucuzza, che spiega come l’intermediazione tra Cosa Nostra e il partito del duo Dell’Utri-Berlusconi sia stata gestita ancora una volta proprio da Vittorio Mangano. Cucuzza riferisce di aver saputo dallo stesso Mangano che questi si era incontrato “un paio di volte con Dell’Utri” alla fine del ’93. Le date combaciano perfettamente. I due incontri avvengono infatti il 2 e il 30 novembre 1993, come si ricava da due annotazioni rinvenute nelle agende personali di Dell’Utri. Di cosa parlano i due? Lo rivela ancora Cucuzza: “Dell’Utri aveva promesso che si sarebbe attivato per presentare proposte molto favorevoli a Cosa Nostra sul fronte della giustizia, ovvero modifica del 41bis e sbarramento per gli arresti relativi al 416bis”. C’è un ulteriore collaborante, Francesco La Marca, che racconta di un episodio avvenuto nei primi mesi del 1994, quando Berlusconi è già sceso in campo ufficialmente. Mangano, poco prima delle elezioni, su preciso ordine di Bagarella e Brusca, si reca un paio di giorni a Milano per parlare con Dell’Utri. Tornato in Sicilia, Mangano è raggiante: “Tutto a posto! Dobbiamo votare Forza Italia! Così danno qualche possibilità di fatto del 41bis, i sequestri dei beni e per dedicare a noi collaboratori, per ammorbidire la legge”.

Sono proprio le richieste che Totò Riina aveva vergato di suo pugno sul “papello”, destinato poi a Vito Ciancimino perché lo facesse pervenire alle più alte cariche istituzionali, e che aveva come  oggetto dell’accordo una serie di benefici per i mafiosi: revisione del maxiprocesso, l’abolizione del 41 bis, l’annessione dei condannati ex. art. 416 bis c.p. ai benefici per i detenuti previsti dalla “Legge Gozzini”, normative di legge favorevoli agli appartenenti all’organizzazione criminale e garanzie per gli interessi economici, quali appalti e finanziamenti statali, degli stessi.

I contatti tra Provenzano e la Fininvest


A corroborare la tesi secondo cui Provenzano avrebbe instaurato una sorta di trattativa parallela con Dell’Utri, ci sono tre lettere indirizzate tra il ’91 e il ’94 a Berlusconi dal boss corleonese e recuperate nella documentazione sequestrata ai familiari di Vito Ciancimino. A parlarne è stato qualche mese fa Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino. Stando alla testimonianza di Ciancimino jr., la prima lettera fu a questi consegnata prima della trattativa del cd. “papello” da Pino Lipari, amministratore dei beni di Bernardo Provenzano e punto di riferimento per i contatti politici, alla presenza dello stesso boss corleonese nel villino di San Vito Lo Capo di proprietà del Lipari. Le altre due lettere risalirebbero al dicembre ’92 e ad inizio ’94. Il contenuto dell’ultima lettera indirizzata a Berlusconi (ritrovata durante una perquisizione nel 2005) concerne la richiesta, avanzata da Provenzano, di “mettere a disposizione (di Provenzano nda) le sue reti televisive (di Berlusconi nda)”, al fine di scongiurare il “triste evento” dell’uccisione di suo figlio. Il foglio su cui Provenzano ha avanzato questa offerta al futuro Onorevole Berlusconi è stato ritrovato strappato. Quando i magistrati di Palermo lo hanno mostrato a Massimo Ciancimino, questi si è detto preoccupato perché – ha riferito – “si tratta di cose troppo più grandi di me”.

Un altro documento importante al fine dell’accertamento della verità è un assegno, di cui parla sempre Ciancimino jr. dell’importo di 35 milioni firmato da Silvio Berlusconi; Ciancimino fu sorpreso a parlare dell’assegno con la sorella in un’intercettazione telefonica disposta dalla Procura di Palermo che indagava sul riciclaggio del patrimonio di Vito Ciancimino da parte del figlio. Ci sono poi tutta una serie di pagamenti, accertati in sede di giudizio, che pervenivano regolarmente nelle casse di Cosa Nostra dai conti correnti della Fininvest, in parte come riconoscimento per la protezione offerta Cosa Nostra alle antenne di Canale5 installate sul monte Pellegrino a Palermo. Le testimonianze in proposito sono molteplici e concordi. Giovan Battista Ferrante, ritenuto dal Tribunale un collaboratore di giustizia serio ed affidabile, profondo conoscitore delle dinamiche più interne di Cosa Nostra, riferisce che Salvatore Biondino, l’autista personale di Totò Riina, riceveva periodicamente, con cadenza semestrale o annuale, somme di denaro provenienti da Canale5 per tramite di Raffaele Ganci. Lo sa perché in alcune occasioni era presente lui stesso a queste consegne. Ferrante è certo che tutte queste somme di denaro (richieste e non) arrivavano almeno dal 1988 ed erano proseguite almeno fino al 1992. Queste dichiarazioni collimano perfettamente con quelle di un altro pentito, Galliano, che aveva spiegato come Raffaele Ganci, una volta scarcerato nel 1988, aveva ripreso in mano, su ordine di Riina, la situazione relativa ai soldi provenienti da Canale5 per mezzo di Dell’Utri e Cinà.

Esistono addirittura delle agende che testimoniano inconfutabilmente come per esempio nel 1990 Canale5 aveva versato nelle tasche di Cosa Nostra 5.000.000 di lire a titolo di “regalo”. A corroborare la versione dei vari pentiti c’è anche la dichiarazione del boss Galatolo, il quale si lamenta del fatto che fosse l’unico a non percepire somme di denaro da parte di Canale5: questa emittente pagava regolarmente “U cuirtu”, cioè Riina e i Madonia, ma non lui, che pur aveva sotto il suo controllo la zona palermitana di Acquasanta, in cui rientrava anche il monte Pellegrino. Ma c’è un altro pentito eccellente che su questa vicenda ha qualcosa da dire. Si tratta di Salvatore Cancemi. Egli conferma che fino a pochi mesi prima della strage di Capaci (23 maggio 1992) Berlusconi ancora era solito versare somme di denaro a Cosa Nostra per le “faccenda delle antenne”, una sorta di contributo all’organizzazione mafiosa di Totò Riina. Cancemi afferma di essere stato presente varie volte alla consegna di queste somme di denaro presso la macelleria di Raffaele Ganci: le mazzette erano da 50 milioni di lire, legate con un elastico. La somma annuale, secondo Cancemi, era di 200 milioni di lire.


Le rivelazioni di Luigi Ilardo


Dopo la vittoria alle elezioni del neonato partito di Berlusconi, secondo il boss e collaboratore di giustizia Luigi Ilardo “Provenzano ha ottenuto delle promesse dal nuovo apparato politico che ha vinto le elezioni in cambio dei voti ricevuti”. Infatti uno dei primi a parlare nello specifico di questa trattativa fu proprio Luigi Ilardo che rivelò alcune importanti informazioni al colonnello dei carabinieri Michele Riccio, principale accusatore del generale Mario Mori nel procedimento in cui quest’ultimo è imputato assieme al colonnello Mauro Obinu per favoreggiamento aggravato a Bernardo Provenzano. Il generale Mori ed il colonnello Obinu sono accusati di aver agevolato la latitanza di Provenzano non avendo fatto quanto possibile per catturarlo in occasione di un summit mafioso che si tenne il 31 ottobre del 1995 nelle campagne di Mezzojuso (PA) e che fu preannunciato dall’Ilardo al colonnello Riccio. Riguardo alle direttive di voto impartite da Cosa Nostra, il colonnello Riccio racconta di un episodio significativo raccontatogli da Ilardo poco prima di essere assassinato: “Ilardo viene a sapere che c’era stata anche una riunione a Caltanissetta presieduta dai palermitani e, se non ricordo male, i palermitani avevano mandato, così lui mi racconta, un personaggio insospettabile dell’organizzazione, non noto alle forze dell’ordine, dove già erano stata date delle prime nuove linee della strategia evolutiva di governo di Cosa Nostra. (…) Avevano tentato di fare prima un partito per conto loro, ma era fallita questa strategia di fare un loro soggetto politico gestito direttamente da Cosa Nostra. Era fallita e Provenzano aveva stabilito un contatto con un esponente dell’entourage di Berlusconi, di Forza Italia. Per cui c’era l’indirizzo di votare di lì a poco tutti per Forza Italia. Quindi avevano stabilito un contatto con un personaggio dell’entourage di Berlusconi il quale aveva già dato assicurazioni che ci sarebbero state normative giudiziarie a loro più favorevoli e anche aiuti nell’aggiudicazione degli appalti e dei finanziamenti statali. Ovviamente Cosa Nostra doveva raggiungere una sua compattezza unitaria. Infatti la direttiva che allora era stata data è che ogni provincia doveva nominare un unico responsabile provinciale, risolvere i contrasti interni ad ogni famiglia, ritornare a una serie di attività criminali meno esposte, meno violente in modo da ridurre progressivamente la repressione dello stato”.

Chi era quell’uomo insospettabile delle istituzioni? Riccio lo scoprirà più tardi, sempre dalla voce di Ilardo: “Fu un momento fortuito. Questo avvenne già quando non ero più alla Dia. Ilardo venne un giorno in macchina…avevo sempre…come tante mattine prima di incontrare Ilardo prendevo il giornale e se non ricordo male c’era sul giornale un articolo che riguardava problematiche tra Dell’Utri e Rapisarda… per cui dissi: – E’ questo qui…? – E lui: – Ci ha messo tanto a capirlo? Lei lo sapeva già. Perchè me lo chiede? – (…) Quindi io inserii nella mia agenda il nome di Dell’Utri

Martina Di Gianfelice e Federico Elmetti

LINK

a) Le “trattative” tra Cosa Nostra e pezzi dello stato – parte prima (Martina Di Gianfelice, 19luglio1992.com, 3 ottobre 2009)

b) Sentenza di primo grado Dell’Utri-Cinà emessa dalla seconda sezione penale del Tribunale di Palermo presieduta dal dott. Leonardo Guarnotta (11 dicembre 2004)

c) “Marcello, Silvio e la mafia”, il libro curato da Federico Elmetti per la guida alla lettura della sentenza di primo grado Dell’Utri-Cinà  (19luglio1992.com)

Dell’Utri, un nome da non nominare invano : Pietro Orsatti

Fonte: Dell’Utri, un nome da non nominare invano : Pietro Orsatti.

Anna Petrozzi su Terra della domenica

«Io quello che ti voglio dire pure a te il nome di là non lo dobbiamo nominare». «Quale… è?». «Dell’Utri… capisti? Completamente non deve esistere, non deve esistere Ni’» (Intercettazione del 4 novembre 2007 tra i mafiosi Antonino Caruso e Letterio Ruvolo). Un nome che non si deve pronunciare nemmeno per sbaglio. Troppo alto il rischio di essere intercettati e di “mascariare” colui che considerano il loro referente più importante, colui che potrebbe aiutarli a risolvere i problemi.
Quello di Dell’Utri però è un nome che fa anche paura allora come oggi. Un giorno del 1994, tra l’aprile e maggio all’incirca, il colonnello dei carabinieri, Michele Riccio, allora in forza al Ros, si era incontrato con il suo confidente: Luigi Ilardo. Era il reggente della famiglia di Caltanissetta e da infiltrato avrebbe dovuto portare gli inquirenti alla cattura di Bernardo Provenzano già in quegli anni. Ilardo dal suo ruolo di vertice poteva comunicare direttamente, via pizzini, con il capo di Cosa nostra ed era al corrente dei molti segreti e delle strategie messe in atto per riportare in equilibrio l’organizzazione dopo l’arresto di Riina.
Parlando con il colonnello che raccoglieva e registrava le sue confidenze, e grazie alle quali aveva fatto arrestare numerosi latitanti di primo piano dell’epoca, Ilardo gli raccontò di una riunione di capi in cui si era deciso di abbandonare il progetto di un partito proprio delle cosche “Sicilia Libera” (ideato da Bagarella e gestito da Tullio Cannella per suo ordine, ndr) perché Provenzano si era incontrato con un esponente dell’entourage di Berlusconi e che quindi da quel momento in poi si sarebbe dovuto votare e sostenere Forza Italia.
Quel nome Ilardo non lo fece subito. Diceva sempre che ne avrebbe parlato al momento giusto. Tuttavia qualche tempo dopo era uscito su un giornale un articolo riguardante i contrasti tra Dell’Utri e Rapisarda, e Riccio ricordandosi di quel discorso gli chiese spiegazioni. «È questo?», gli domandò indicando il giornale. «Ci ha messo tanto… se lo sai, colonnello, che me lo chiedi a fare?».
Riccio non incluse questo dato nella sua abituale relazione di servizio e si limitò a segnarlo sulla sua agenda. Solo nel 1998, due anni dopo che Ilardo venne freddato per strada a Catania. a una settimana esatta dall’incontro con i magistrati di Palermo (Caselli e Principato, ndr) e Caltanissetta (Tinebra) cui aveva dichiarato di volere formalmente collaborare con la giustizia, quel nome riemerge. Le agende di Riccio vengono infatti acquisite dai magistrati di Firenze, Chelazzi e Nicolosi, che stanno indagando sui mandanti esterni delle stragi e gliene chiedono conto.
La settimana scorsa durante un’udienza del processo in corso a Palermo a carico del generale Mori e del colonnello Obinu per la mancata cattura di Provenzano proprio a seguito delle precise indicazioni di Ilardo, il presidente del Tribunale ha chiesto a Riccio perché non aveva subito fatto il nome di Dell’Utri. Il colonnello, pluridecorato per le sue pericolose azioni antiterrorismo, ha risposto: «Per timore. Dell’Utri era il nuovo che avanzava». E ancora meno ne aveva fatto menzione al suo superiore Mori, perché a suo dire gli aveva già «dato disposizioni di non riferire i contatti politici; se gli dico di Dell’Utri, qui succede il finimondo». Circostanza che Mori nega seccamente.
Vero e proprio terrore ha colto invece Massimo Ciancimino, l’ultimo figlio di don Vito, testimone diretto della trattativa. Durante uno dei tanti interrogatori cui lo sta sottoponendo la procura di Palermo è andato nel panico quando i magistrati gli hanno mostrato metà di una lettera indirizzata a Berlusconi nella quale si “chiedeva” all’onorevole la disponibilità di una delle sue reti televisive, pena uno spiacevole evento. Scioccato per quel ritrovamento che non si aspettava, Ciancimino ha cercato di fornire una falsa ricostruzione per poi rettificarla il giorno seguente: «Io ho paura. Quando si tratta di Berlusconi e Dell’Utri, io ho paura. Questo è un gioco molto più grande di me».
E nonostante a verbale sia evidente il tentativo di Ciancimino di ricostruire lo scenario, al processo d’appello per mafia contro il senatore Dell’Utri il presidente del tribunale non ha concesso di ascoltarlo. Aggiungendo un altro tassello alle occasioni mancate che hanno caratterizzato questo secondo grado. Il timore per l’accusa è che il clima poco rassicurante influenzi la Corte mentre la Procura generale sta confermando la prima tesi di condanna: Dell’Utri aveva chiamato Mangano a casa Berlusconi con l’imprimatur del più alto vertice di Cosa nostra. La sentenza è attesa entro dicembre.

Antimafia Duemila – I conti che non tornano e tanti ”non ricordo”

Antimafia Duemila – I conti che non tornano e tanti ”non ricordo”.

Al processo Mori-Obinu riemergono le relazioni di servizio e i racconti non coincidono

di Anna Petrozzi e Lorenzo Baldo – 25 settembre 2009
Palermo.
Venti relazioni di servizio redatte per conto del Ros dall’agosto del 1995 al maggio del 1996 e tre versioni che ricostruiscono il blitz di Mezzojuso.

Questo il contenuto dei tre floppy disk che il colonnello dei carabinieri Michele Riccio ha consegnato questa mattina alla Corte che presiede il processo in corso a Palermo a carico del generale Mario Mori e del colonnello Mauro Obinu.
Alle domande poste dal pubblico ministero Antonino Di Matteo, Riccio ha spiegato di essersi letteralmente ritrovato tra i piedi i tre floppy mentre stava cambiando le cornici ad alcune stampe nella stanza che stava ristrutturando per ospitare la propria madre.
I tre dischetti, su cui la Corte ha già disposto la perizia che dovrebbe essere completata in una ventina di giorni, sono contrassegnati dalle apposite etichette su cui è leggibile non solo la dicitura “relazioni Ros” e il nome di copertura di Riccio “uncino”, ma anche scritte a matita che fanno riferimento alla Dia. Secondo la ricostruzione di Riccio, i floppy che gli furono consegnati dal maggiore Damiano al termine del rapporto “Grande Oriente” sarebbero gli stessi su cui l’ufficiale aveva registrato le relazioni redatte dal Riccio sulle confidenze di Ilardo quando era in servizio alla Dia.
Attorno all’aprile 1997 temendo che il materiale relativo all’attività investigativa condotta in Sicilia potesse venirgli sottratta o addirittura essere manomessa Riccio, che si trovava a Roma, telefonò alla moglie per farglieli riporre in un luogo sicuro, appunto dietro alla cornice di un quadro. Luogo che entrambi però avevano dimenticato.
Questi nuovi documenti rivestono particolare importanza poiché nella relazione conclusiva denominata “Grande Oriente” del luglio 1996 il colonnello fa più volte riferimento alle sue relazioni, che tuttavia fino a questo momento non era stato possibile ritrovare. Addirittura Riccio era stato accusato di non averle mai redatte.
Ora saranno i periti nominati dal tribunale e dall’accusa a dover accertare la validità di questi nuovi elementi il cui contenuto sarà poi discusso dalle parti.
L’udienza è poi proseguita con l’audizione del procuratore di Torino Gian Carlo Caselli, al tempo dei fatti procuratore capo di Palermo e del procuratore di Reggio Calabria, Giuseppe Pignatone.
Prima ancora di rispondere ai quesiti del pm Ingroia, Caselli ha voluto precisare che i suoi ricordi non potevano essere più di tanto precisi a causa del tempo trascorso, delle tante vicissitudini della sua carriera e a causa di un infarto.
In effetti la deposizione del magistrato è stata sorprendentemente scandita da continui “non ricordo” e “non potrei escluderlo” anche su informazioni basilari come la finalità ultima del rapporto confidenziale di Ilardo con il colonnello Riccio.
Caselli ha infatti sostenuto di non aver saputo il nome della fonte fino quasi alla vigilia del primo e unico incontro, che si verificò il 2 maggio 1996, una settimana esatta prima che il confidente venisse assassinato a Catania; di aver delegato prima l’allora sostituto procuratore Pignatone e poi l’allora sostituto Teresa Principato ad occuparsi della questione; di averla perciò seguita solo per sommi capi e di non ricordare che l’obiettivo principale del lavoro con Ilardo era la cattura di Provenzano.
Alle domande insistenti del pm Di Matteo il procuratore ha affermato di non ricordare nemmeno che gli allora colonnello Mori e maggiore Obinu, con i quali si sentiva molto frequentemente per motivi operativi, gli avessero parlato dell’opportunità di catturare il super latitante a Mezzojuso.
Come noto i due imputati più volte hanno confermato che il 31 ottobre 1995 Riccio aveva pedinato con alcuni uomini Ilardo che incontrava per la prima volta, dopo mesi di corrispondenza di pizzini, il capo di Cosa Nostra. Tuttavia non essendoci né le condizioni né i mezzi a disposizione gli avevano ordinato di limitarsi all’osservazione.
Ed è qui il nodo del contendere. Riccio infatti sostiene che quella perduta occasione non fu casuale ma voluta specificatamente dai suoi superiori per impedire la cattura del boss.
Sul punto è stato sentito anche il procuratore Pignatone che ha commentato in aula un suo appunto relativo ad un incontro avuto con il colonnello il 1° novembre 1995, quindi il giorno dopo Mezzojuso.
Il magistrato sostiene che fosse abbastanza normale vedersi con Riccio in un giorno festivo data la loro disponibilità lavorativa “24 h” e quindi non fu sorpreso della sua richiesta di appuntamento. Tuttavia non gli disse nulla di quanto avvenuto il giorno prima.
Al contrario Riccio ha dichiarato che andò dal sostituto cui faceva riferimento proprio per rappresentargli l’accaduto.
In effetti è difficile pensare che proprio nell’ immediato ridosso di quel mancato successo di cui erano a conoscenza anche i vertici del Ros, il colonnello non ne avesse proferito parola. Ed è ancora più inspiegabile capire perché né Pignatone né nessun altro chiesero mai più conto di quei fatti a Riccio, visto che già dal 1996 la relazione di servizio raccontava nei dettagli di Mezzojuso.
Tirando le somme dai tre magistrati a conoscenza di quei fatti finora sentiti in questo dibattimento, Principato, Caselli e Pignatone, sono molti gli elementi emersi che coincidono solo in parte e in modo alterno, cioè se corrisponde all’uno non corrisponde all’altro.
Al colonnello Riccio il Presidente Fontana ha chiesto invece perché nel 1998 aveva fatto il nome di Dell’Utri solo successivamente a quello di altri politici collusi con la mafia come Andò, Andreotti e Mannino. Il colonnello ha spiegato di aver ritenuto opportuno parlarne solo ai magistrati di Firenze Chelazzi e Nicolosi che avevano rinvenuto il nome di Dell’Utri nelle sue agende, poiché non aveva avuto fiducia di due magistrati catanesi che, sentitolo a Roma, avevano iniziato l’interrogatorio dicendogli che aveva bisogno di protezione. L’unica cosa per ora certa è che non tutti i conti tornano. Ilardo voleva collaborare con la giustizia e non fece in tempo, fece consegnare grandi latitanti suoi superiori per arrivare ad essere un interlocutore diretto di Provenzano, portò il Ros sulla porta del boss, ma quel mancato blitz e le mai proseguite indagini su quella pista regalarono al capo di Cosa Nostra la possibilità di quei “cinque, sette anni” per rimettere tutte le cose a posto.

Ora Marcello ha paura : Pietro Orsatti

Ora Marcello ha paura : Pietro Orsatti.

Palermo, Dell’Utri di nuovo alla sbarra. Intanto Ciancimino parla e sostiene che la trattativa con lo sarebbe cominciata prima delle stragi. E che l’ex leader di Publitalia avrebbe saputo: una sorta di exit strategy dalla fase armata di Cosa nostra
di Pietro Orsatti su Left/Avvenimenti

Non è ancora un da resa dei conti ma poco ci manca. Dopo una settimana di polemiche durissime, e l’attacco dei giornali legati al premier nei confronti della Procura di Palermo e in particolare dei due pm Ingroia e Scarpinato rei di aver partecipato, senza intervenire, alla presentazione del quotidiano Il Fatto, l’attività è ricominciata come da calendario. Ma l’atmosfera non è certo quella che ci si aspetterebbe dopo le ferie estive. L’attacco di Berlusconi alle procure e in particolare a Palermo, un attacco preventivo visto che nel palazzo di giustizia del capoluogo siciliano non c’è alcun fascicolo che riguardi il presidente del Consiglio associandolo direttamente alla vicenda delle stragi del ’92 e del ’93, ha scosso ovviamente l’ambiente ma a dire il vero non ha stupito più di tanto. Perché qualcosa doveva accadere vista la complessità e l’importanza di due processi attualmente in corso. Quello di secondo grado a Marcello Dell’Utri e quello al generale Mario Mori.
Le dichiarazioni di Massimo Ciancimino e del pentito Gaspare Spatuzza in relazione alle stragi sono di competenza della procura di Caltanissetta. Nel primo giorno dopo le ferie, il procuratore aggiunto di Palermo Ingroia ricorda che il pentito di mafia Gaspare Spatuzza negli ultimi tempi sta facendo nuove rivelazioni «sull’uccisione di padre Pino Puglisi e altri fatti di sangue, ma tutto quello che dice dei fatti stragisti non è di nostra competenza, come ha detto il procuratore di Palermo nei giorni scorsi». E poi, intervenendo sull’attualità della macchina della giustizia, smonta l’accusa di “archeologia giudiziaria” che gli è stata rivolta. «Benché ci siano state, da parte del governo, assunzioni di impegni, basti pensare all’inasprimento del carcere duro, non penso che si possa negare che i tagli di bilancio del comparto giustizia e sicurezza non abbiano aiutato la lotta alla mafia – ha spiegato, infatti, il procuratore aggiunto -. Polizia e carabinieri, così come i magistrati non hanno i mezzi e gli strumenti all’altezza della sfida. È vero che ci sono stati molti successi e sono stati inferti colpi durissimi a Cosa nostra, ma la mafia non è ancora in ginocchio». Tutt’altro tema, tutt’altra , quindi. E allora perché l’attacco? È nei corridoi della procura dove si ipotizza che si stia assistendo a una sorta di ricatto di Dell’Utri nei confronti di Berlusconi. Il senatore del già condannato in primo grado a nove anni per associazione esterna è in difficoltà, ha paura che l’ vada male, e questo sarebbe il suo modo di ricompattare gli amici più potenti.

Tutto qui? Non tanto. Perché la situazione è molto più complessa. Perché sia Ciancimino che Spatuzza parlano anche di altro, raccontano della “trattativa” fra pezzi dello e Cosa nostra a cavallo delle stragi e poi anche del potente ex capo di Publitalia (ne avrebbe parlato Ciancimino a più riprese) Marcello Dell’Utri. E poi ci sarebbe anche la “ricomparsa” di una relazione della del 1999 che parla di legami tra imprenditori mafiosi e un’azienda (la Co.Ge costruzioni) in cui compaiono due soci, Paolo Berlusconi, fratello di Silvio, e Giorgio Mori, fratello di quel generale Mori ex capo del Ros e poi del Sisde e oggi a capo dell’ufficio sicurezza del Comune di Roma. Questo documento della ritorna oggi di attualità come il procedimento contenitore “Sistemi criminali” archiviato in passato dai pm Ingroia e sugli intrecci fra affari, criminalità e massoneria. E poi si parla, e tanto, di Bernardo Provenzano, e quello che starebbe emergendo dalle dichiarazioni è tutt’altro che una mera operazione “di archeologia”, perché, secondo una delle ipotesi di indagini (questa sì anche a Palermo) e delle dichiarazioni del figlio dell’ex sindaco del “sacco” di Palermo, la “trattativa” avrebbe avuto inizio ben prima del ’92, almeno dall’anno precedente, e protagonista della vicenda non sarebbe Totò Riina, estensore del famoso “papello”, ma Binnu Provenzano. E ci sarebbe di più. Lo stesso Ciancimino avrebbe fatto capire che anche Marcello Dell’Utri sarebbe quanto meno a conoscenza di questa trattativa, una sorta di pax di affari, una exit strategy dalla fase stragista condotta dall’ala armata di Cosa nostra guidata da Riina e Bagarella.

Si rischia di fare scenari fantascientifici o di cadere in qualche trappola cercando di mettere insieme tutti questi frammenti. Di certo c’è che Ciancimino parla e che Spatuzza svela uno scenario, quello militare di Cosa nostra agli inizi degli anni 90, che rimette in discussione tutto l’insieme delle verità processuali acquisite finora. E si apre anche un quadro inquietante non solo sugli intrecci che erano dietro le stragi e la trattativa, sulle presunte deviazioni di alcuni apparati dello , ma anche sulla fretta di ottenere subito risultati dopo che il tritolo aveva ucciso Falcone e Borsellino. Anche di questo Spatuzza parlerebbe. E anche nella polizia giudiziaria il nervosismo si fa evidente. «Qui di cose ne sono successe dopo le stragi – si lascia andare un funzionario -. Le faccio una domanda: lei quante azioni da parte del nucleo investigativo dei Carabinieri e dei Ros ha visto nei confronti di Provenzano dopo la mancata cattura ai tempi del colonnello Riccio? Io francamente non me ne ricordo una». Si parla della testimonianza, e della morte, di un collaboratore, Luigi Ilardo, vice del capo mafia di Caltanissetta “Piddu” Madonia che nel 1995 era in grado di far catturare a Mezzojuso Bernardo Provenzano nel corso di un summit di capi mafia, ma che (questa l’accusa del processo a parte dei Ros siciliani dell’epoca) per un inspiegabile non intervento degli uomini del generale Mario Mori non andò in porto. Dopo più di un decennio il malumore e le tante perplessità su come vennero condotte le indagini negli anni successivi alle stragi oggi riemergono prepotentemente. E il disagio poi si amplifica, soprattutto all’interno della polizia di , a causa dei tagli economici, delle sempre minori risorse anche sul piano formativo.

«Se parliamo dei processi finiamo in politica, se parliamo di politica finiamo nei processi», si lascia sfuggire uno degli investigatori. Sono tutti “abbottonati” in questi giorni a Palermo. La chiusura dell’ a Dell’Utri da un lato, il processo Mori dall’altro. E poi le nuove dichiarazioni di Ciancimino sui “piccioli” e sulle “collaborazioni” fra boss e pezzi dello . E ancora l’ombra dei servizi e della massoneria e i tanti affari che, dopo un breve periodo di rallentamento successivo alle stragi, sarebbero ripresi come se nulla fosse successo. E poi l’attacco, che in molti si aspettavano, alle procure. Ma che ha stupito perché così specifico su Palermo. Come se qualcuno temesse che con l’arrivo di una condanna a Dell’Utri poi si andasse a una nuova e ancora più devastante stagione di rivelazioni.

Il ricatto del fedelissimo – Il palazzo che preoccupa Berlusconi ha riaperto i battenti : Pietro Orsatti

Il ricatto del fedelissimo – Il palazzo che preoccupa Berlusconi ha riaperto i battenti : Pietro Orsatti.

A Palermo c’è attesa per le possibili dichiarazioni di Massimo Ciancimino sui rapporti tra criminalità e politica. L’attacco del premier alla procura? Nei corridoi del palazzo di Giustizia si mormora delle crescenti difficoltà di Dell’Utri
di Pietro Orsatti su Terra

Il palazzo che preoccupa Berlusconi ha riaperto i battenti da poche ore ma il clima è già rovente. Oggi o domani, ma la notizia è come al solito preceduta da un “forse”, il collaborante Massimo Ciancimino sarà di nuovo a Palermo in procura a elargire un suo pezzo di verità non tanto sugli anni terribili delle stragi e delle trattative, ma sui misteri dei tesori scomparsi e poi ritrovati (solo in minima parte) in carico al padre del testimone, l’ex sindaco Vito, e sugli intrecci fra politica e criminalità di ieri e di oggi.
«Per quello che riguarda le stragi, ovviamente, non è competenza di Palermo ma di Caltanissetta», spiega il procuratore aggiunto Antonio Ingroia di rientro dopo un periodo di ferie nel suo ufficio. È evidente, però, che ci siano delle parti delle dichiarazioni di Massimo Ciancimino che riguardano la trattativa fra pezzi dello Stato e e dei molteplici intrecci emersi anche nel corso di vari processi ruotanti attorno Marcello Dell’Utri che potrebbero riguardare in qualche modo la procura di Palermo, ma le dichiarazioni del premier sembravano essere rivolte a tutt’altro capitolo. Un errore? O un messaggio? Non c’è un fascicolo a carico del premier in procura, questo è l’unico dato che emerge. Forse qualcosa di nuovo, in termini di ipotesi di indagine, c’è a Firenze, qualcos’altro a Milano, o ancora a Caltanissetta, ma a Palermo l’unica cosa aperta che possa riguardare lontanamente il presidente del Consiglio è rintracciabile nel processo di secondo grado a Marcello Dell’Utri, già condannato in primo a nove anni per associazione esterna, e alcune implicazioni relative a una compartecipazione in una società (la Co.Ge) insieme al generale dei Ros e ex capo del Sismi Mori. E allora non si capisce perché l’attacco diretto, specifico, a Palermo da parte del premier. Un attacco preventivo, pesantissimo, che ha creato più di un malumore anche nel Pdl. Qui non si fa «archeologia», come goffamente ha dichiarato più di un esponente del Pdl. «Qui si parla di “piccioli”, società, intrecci attuali». E di Dell’Utri e del processo Mori Obinu. Due processi in corso, mica roba da archeologia fantapolitica. Sarebbero questi processi, in corso da anni, a suscitare le ire del premier?
Oppure, come si mormora nei corridoi di un palazzo che da decenni è epicentro di periodiche crisi politico istituzionali giudiziarie, «stiamo assistendo al ricatto di Dell’Utri nei confronti di Berlusconi. È in difficoltà, ha paura che l’ vada male, e questo è il suo modo di ricompattare gli amici più potenti». E quindi si mette il lavoro di una, e più, procura sotto attacco. «C’era da aspettarselo», si lascia sfuggire un funzionario della giudiziaria. «Qui di cose ne sono successe dopo le stragi – prosegue il rappresentante delle forze dell’ordine -. Le faccio una domanda: lei quante azioni da parti del nucleo investigativo dei Carabinieri e dei Ros ha visto nei confronti di Provenzano dopo la mancata cattura ai tempi del colonello Riccio? Io francamente non me ne ricordo una. Faccia lei le dovute conclusioni». Si parla della testimonianza, e della morte, di un collaboratore, Luigi Ilardo, vice del capo di Caltanissetta “Piddu” Madonia che nel 1995 era in grado di far catturare a Mezzojuso Bernardo Provenzano nel corso di un summit di capi , ma che (questa l’accusa del processo a parte dei Ros siciliani dell’epoca) per un inspiegabile non intervento degli uomini del generale Mario Mori non andò in porto. «C’erano dei processi letteralmente scomparsi dall’attenzione pubblica come quello a Dell’Utri e l’altro a Mori – cerca di interpretare Ingroia -. Menomale oggi qualcosa di questi processi inizia e riemergere verso l’opinione pubblica. E forse questa rinnovata attenzione sta provocando, e provocherà, reazioni». E attacchi attraverso alcuni organi di stampa, come Il Giornale e Libero, che hanno letteralmente messo alla graticola proprio Antonio Ingroia e un altro pm di Plaermo, Roberto Scarpinato, per la loro presenza come ascoltatori alla presentazione del nuovo quotidiano Il Fatto. Roba d’altri tempi, si direbbe. O forse no.

Il giallo della società siciliana dei fratelli Mori-Berlusconi – l’Unità.it

Il giallo della società siciliana dei fratelli Mori-Berlusconi – l’Unità.it.

di Nicola Biondo

È vero – lo dice il procuratore Messsineo in risposta a Berlusconi – che Palermo non sta indagando sulle stragi di mafia del ‘92-‘93. Indaga piuttosto su chi prese parte alla trattativa fra Stato e Cosa nostra, il ruolo dell’ex sindaco Vito Ciancimino e del generale Mori. Sullo sfondo di questa indagine compaiono ora i nomi di Paolo Berlusconi e del fratello del generale Mori. Tutto nasce dall’inchiesta sui mandanti esterni delle stragi mafiose chiusa nel 2002 con l’archiviazione dell’attuale premier Silvio Berlusconi e di Marcello Dell’Utri.

Sul tavolo dei magistrati di Palermo è arrivato un file dimenticato: una relazione della Dia del 1999 che parla di legami tra impreditori mafiosi e una ditta con due soci di rilievo: Paolo Berlusconi e un certo Giorgio Mori. Per il primo non c’è bisogno di presentazione. Il secondo invece è il fratello del generale Mori: insieme a Paolo Berlusconi è stato socio di una ditta di costruzioni, la Co.Ge. Il generale Mario Mori (ex capo del Ros e poi del Sisde, oggi capo dell’ufficio sicurezza del Comune di Roma e membro del comitato per la legalità e la trasparenza degli appalti dell’Expo di Milano. Assolto per la mancata perquisizione del covo di Riina è tutt’ora sotto processo per la mancata cattura di Provenzano) ha smentito in un aula del tribunale di Palermo che quel Giorgio sia suo parente. L’ha fatto sulla base di un argomento in apparenza inoppugnabile: suo fratello si chiama Alberto e non Giorgio come invece compare nel rapporto DIA. Circostanza, questa, che oggi la Dia chiarisce: un errore materiale di chi compila il rapporto cambia il nome vero Alberto in Giorgio.

Il socio della Co.Ge di Paolo Berlusconi è proprio il fratello del generale. Non più un problema di nomi, dunque, ma un fatto sostanziale. Ma perché il generale sostiene che il socio di Paolo Berlusconi non è suo fratello? La risposta è in quel rapporto DIA. All’inizio degli anni ‘90, nello stesso periodo in cui Mario Mori presenta alla Procura di Palermo un lungo rapporto su mafia e appalti, la ditta del duo Paolo Berlusconi-Alberto Mori sbarca in Sicilia. Tutto a posto? Per niente. Perché la Co.Ge compare nel rapporto del luglio 1999 in termini molto poco lusinghieri. Gli investigatori individuano la mano di Cosa nostra in alcune società: sono la Tecnofin (che costituirà la Co.Ge) sotto il controllo di Filippo Salamone; la stessa Co.ge, la Tunnedil e la Cipedil del gruppo Rappa di Borgetto.

Per la DIA queste ditte, insieme ad altre, sono sospettate di far parte del «tavolino degli appalti» un patto – sottolinea la DIA – «che garantisce i legami con la grande imprenditoria per la realizzazione dei lavori, il controllo su di essi di Cosa nostra, il recupero delle somme da corrispondere all’organizzazione e ai politici che assicuravano gli appalti». Gli imprenditori con i quali la Co.Ge. di Paolo Berlusconi e Alberto Mori tratta sono Filippo Salamone e Giovanni Bini condannati in via definitiva nel maggio del 2008 per concorso in associazione mafiosa. Il rapporto evidenzia «la sussistenza di specifici elementi di correlazione tra alcune delle società di interesse di Berlusconi e Dell’Utri ed altre società facenti capo a soggetti con ruoli di primo piano nei settori più fortemente condizionati dagli interessi e dalle direttive di cosa nostra». È in questo contesto che il fratello di Mori si muove quando in Sicilia vengono uccisi Falcone e Borsellino e il suo congiunto, colonnello al ROS, apre il contatto con Vito Ciancimino sul quale le la magistratura oggi indaga nell’ambito della cosiddetta «trattativa» tra stato e mafia. Una storia vecchia e complicata con una venatura di giallo per la questione del nome.

Dunque il socio della Co.Ge di Paolo Berlusconi è proprio il fratello del generale. Lo scorso gennaio al processo che lo vede imputato generale Mori ha ammesso che in effetti suo fratello Alberto, dunque quello vero, ha lavorato per la Fininvest, anche se solo fino al 1991. Ma non ha aggiunto il resto, negando la parentela. Perché? Eppure nel decreto di archiviazione dei mandanti esterni del 2002 si sottolinea che «il collegamento non è sufficiente a prefigurare che l’alto ufficiale dell’Arma potesse aver avuto contatti con Berlusconi e dell’Utri e quindi potesse essere stato “ambasciatore” di costoro nel rapportarsi con gli uomini di cosa nostra». Oggi però alla luce delle nuove indagini sul ruolo di negoziatore che il generale ha avuto con Vito Ciancimino, sul ruolo che don Vito ha avuto nell’arresto di Riina e sulla mancata cattura di Provenzano, per cui Mori è sotto processo, quella parentela negata assume ben altro significato.

Antimafia Duemila – Sabella: ”Patto mafia-Stato? Potevamo scoprire tutto 10 anni fa”

Antimafia Duemila – Sabella: ”Patto mafia-Stato? Potevamo scoprire tutto 10 anni fa”.

di Nicola Biondo – 25 luglio 2009
Il patto tra stato e mafia? Chi ha lavorato come me da magistrato in Sicilia lo ha visto nel corso degli anni. Si è estrinsecato in mille modi… Io ne sono stato una delle vittime».

Alfonso Sabella, 46 anni, ex pm della Procura di Palermo negli anni ’90, ha arrestato decine di boss latitanti di Cosa nostra: da Giovanni Brusca a Leoluca Bagarella da Pietro Aglieri a Vito Vitale.
Il cacciatore di mafiosi, il giudice-sbirro, come si autodefinisce, dal suo ufficio al tribunale di Roma segue con enorme interesse le indagini dei suoi colleghi siciliani. Con un rimpianto: «Tutto quello che sta avvenendo oggi potevamo scoprirlo 10 anni fa. Abbiamo perso un occasione ma sono fiducioso».

Dottor Sabella perché questo rimpianto?
«Perché che ci fu una trattativa a cavallo delle stragi di Capaci e via D’Amelio lo avevano capito anche i sassi. Ma precise volontà che hanno creato un tappo alle indagini».

Si riferisce al papello a quella lista che Riina secondo alcuni testimoni avrebbe inviato allo Stato?
«Anche. Questa vicenda che adesso sembra una spy-story è fatta di sangue e trattative, di cui qualcuno dovrebbe sentire il peso morale».

Si riferisce al generale Mori o all’ex ministro Mancino che solo oggi ammette che la mafia provò a trattare?
«Posso solo dire che avviare una trattativa embrionale dopo la strage di Capaci con i corleonesi significava mandare automaticamente un messaggio: che il metodo stragista è pagante. Anche se mi rimane un dubbio. Mi sono sempre chiesto se uomini dello stato non abbiano avvicinato emissari della mafia subito dopo il delitto Lima, due mesi prima della strage di Capaci. Quella morte è davvero uno spartiacque. Quel delitto presuppone la fine di un patto e l’avvio di una trattativa».

E arriviamo a Capaci.
«A via D’Amelio. Perché vede Capaci ha di eclatante solo la modalità. Tutti i mafiosi dicono che nelle riunioni preparatorie si parlava di Falcone e di uccidere i politici che avevano tradito. Ma non parlano di Borsellino come di un obiettivo preciso. È la strage del 19 luglio ad essere completamente anomala. Apparentemente il peggior affare di Cosa nostra. Riina dai colloqui che Ciancimino intratteneva aveva capito che il sangue era il mezzo con il quale arrivare ad un patto. E per favore non si dica più che fu una vendetta perché il governo aveva emanato il 41bis. Quel decreto non aveva i numeri per poter essere convertito in legge. E invece con la strage cambia tutto e si apre il carcere duro per i mafiosi».

Qual è la sua idea allora?
«Brusca e altri ci dicono che la fissazione di Riina era ottenere la revisione del maxiprocesso che aveva condannato all’ergastolo proprio Riina. Dal carcere davanti ai giornalisti nel 1994 il boss dice: “Perchè quando esco che ho la moglie ancora giovane”. Borsellino non avrebbe mai accettato nulla del genere. Ma vorrei aggiungere una cosa».

Prego.
«Con le norme attuali oggi quel processo voluto fortissimamente da Falcone e Borsellino e pochi altri si risolverebbe in una pioggia di assoluzioni. Se si fosse arrivati alla revisione con le norme attuali Riina sarebbe stato assolto».

Cosa pensa dell’uscita di Riina su fatto che la strage di via D’Amelio non è cosa sua?
«Forse ha capito, o qualcuno gli ha suggerito, che questo è il momento di intorbidare le acque. Non ho mai avuto dubbi che la strage sia stata messa in piedi dagli uomini più fidati di Riina. Tutto si basa sul racconto di Scarantino ma chi lo ha indotto a mettersi in mezzo? L’ho interrogato a lungo. Non gli ho dato credito nemmeno quando si accusava di omicidi. Quella strage è ideata e attuata da uomini di Riina: i Graviano e i Madonia. E serviva ad alzare il prezzo della trattativa».

Poi però Riina finisce nella rete.

«Certo è il sacrificio umano che Provenzano compie. È lui che dopo via D’Amelio si intesta la trattativa ma su altre basi. Basta con il sangue – dice al popolo di cosa nostra – e non impedisce al Ros, che ha ricevuto la soffiata giusta da persone legate a lui, l’arresto del suo compare Riina».
È anche strano che Di Maggio, quello che ha fisicamente indicato Riina al Ros dica che Provenzano è morto e quindi è inutile cercarlo.
«Mi limito a rivelare che il RoS di Mori e Subranni dall’arresto di Riina in poi non fa più un’operazione degna di questo nome».

Il nuovo patto si consolida con l’arresto di Riina?
«È un passaggio fondamentale ma non è l’unico. Il primo aprile 1993 c’è una riunione di tutti i capi per decidere le stragi. Provenzano ha già fatto sapere che non le vuole in Sicilia e non partecipa. La risposta di Bagarella è chiara: perché il mio paesano non se ne va in giro con un cartello al collo e ci scrive pure che lui con le stragi non c’entra”….»

Si dissocia insomma.
«Ecco, la parola dissociazione va di pari passo con la trattativa. E intanto Provenzano conquista la leadership e macina ricchezza. Poi nel 1997 c’è un altro indizio di questo accordo».

Quale?
«Il fatto che il pentito Di Maggio, gestito dal Ros, scatena una guerra contro i suoi nemici utilizzando come manovalanza mafiosi che risultano essere confidenti dello stesso Ros. E parte la polemica contro la nostra procura e i pentiti perché Di Maggio è proprio quello che ha raccontato il famoso bacio di Riina ad Andreotti. E mentre noi indaghiamo su queste vicende la Procura di Caltanissetta affida in esclusiva allo stesso Ros di Mori le indagini sui mandanti esterni delle stragi».

E anche qui c’è un filo che lega molte cose. E si arriva all’altro obiettivo della trattativa. Quale?
«La dissociazione di cui il capo della procura di Caltanissetta Giovanni Tinebra, tra i tanti, è convinto assertore».

Di cosa si tratta?

«È una vecchia idea che viene suggerita a Provenzano. I mafiosi devono fare una dichiarazione in cui si arrendono ma non sono costretti a fare i nomi dei loro complici. In compenso escono dal 41 bis ed evitano qualche ergastolo».

Chi e quando la propone?

«Ne aveva parlato Ilardo per primo nel 1994. Poi nel 2000 otto boss fanno sapere che vogliono dissociarsi e chiedono un legge ad hoc. Io sono al Dap. Mi oppongo a questa soluzione e con me ci sono Caselli e il ministro di allora Fassino».

E finisce li?
«No, perché la cosa si ripropone di nuovo nel 2001 quando scopro che questa volta sono coinvolte tutte le mafie italiane a chiedere la dissociazione e che l’ambasciatore è salvatore Biondino legatissimo a Riina. Solo che stavolta pago la mia opposizione e il mio ufficio viene soppresso proprio da Tinebra che intanto aveva sostituito al Dap Caselli. Molto tempo dopo si scopre ed è tutt’ora oggetto di un’inchiesta della procura di Roma che il magistrato che Tinebra ha messo al mio posto al Dap collaborava proprio con il Sisde di Mori nella gestione definita anomala di alcuni detenuti e aspiranti collaboratori di giustizia».

In che modo ha pagato?
«Sono passato alla storia non come quello che ha arrestato Brusca e gli altri ma come il torturatore di Bolzaneto…. Questa macchia mi è rimasta e il Csm, guarda caso diretto da Mancino, occulta i documenti che provavano la mia estraneità ai fatti di Genova ed emette nei miei confronti un provvedimento infamante. E fa di più: quando mi lamento di tutto questo dal Csm viene comunicata all’Ansa la notizia che mi sarei candidato nelle liste di AN. Una falsità.

Quando inizia a capire di stare pagando quel no alla trattativa?

«Quando vengo a sapere che i servizi, con Pio Pompa legato alla Telecom, aprono un fascicolo su di me. Era parte di un operazione che coinvolgeva anche politici e altri colleghi. Ho chiesto di essere tutelato dal Csm. Ma sono stato lasciato solo».

Lei dice di essere una vittima di questo patto che Provenzano avrebbe sottoscritto con uomini dello stato in cambio di una nuova pace e molto silenzio. Secondo lei si riusciranno a trovare delle prove?

«Non credo che Provenzano abbia lasciato prove. Credo che ci siano responsabilità morali in questa storia e una serie di vicende ancora da chiarire. Ma una cosa la so: con la mafia non si tratta perché nel migliore dei casi, come il messaggio di Riina dimostra, ci si pone sotto ricatto».

Antimafia Duemila – Le verita’ nascoste

Antimafia Duemila – Le verita’ nascoste.

Intervista a Luigi Li Gotti – 27 agosto 2009
Intervista rilasciata a Il Crotonese sulle verità nascoste che ora stanno riafforando riguardo le stragi di mafia dei primi anni Novanta, da quelle di via Capaci e via D’Amelio a quelle di Roma e Firenze, che passarono per la presunta ‘trattativa’ tra gli uomini di Cosa nostra e lo Stato.

Giornalista: Quali sono questi nuovi scenari?
Li Gotti: “La Commissione parlamentare antimafia ha deciso di avviare un’indagine sul periodo stragista della mafia, sulle possibili deviazioni, sull’ipotizzabile coinvolgimento di uomini delle istituzioni. Ovviamente si avrà l’accortezza di non pregiudicare e interferire con l’attività della magistratura”.

Giornalista: L’indagine avviata dall’Antimafia e quelle che già da tempo sta svolgendo la magistratura possono portare a dei risultati di conoscenze ulteriori rispetto a ciò che è scritto nelle sentenze?
Li Gotti: “Le indagini potrebbero dare alcune risposte agli interrogativi più inquietanti, ma c’è il rischio che si faccia confusione e che un polverone scentificamente provocato, possa portare al risultato di lasciare tutto a livello delle conoscenze attuali”.

Giornalista: Quali sono le pagine ancora oscure?
Li Gotti: “A mio parere le pagine, ed è ciò che ho detto in Commissione, ancora oscure sono: il ruolo di Paolo Bellini nella trattativa avviata da Nino Gioè (l’uomo morto suicida a Rebibbia nel 1993 e che era al fianco di Giovanni Brusca quando venne azionato il telecomando che provocò l’esplosione a Capaci). Bellini conobbe Gioè alcuni anni prima delle stragi, durante una comune detenzione nel carcere di Trapani. All’epoca Bellini agiva sotto copertura dei servizi segreti, essendo in possesso di documentazione di identità riferibile a tale Da Silva Josè. Proprio con questo nome venne tratto in arresto e conobbe Nino Gioè”.

Giornalista: Che successe dopo?
Li Gotti: “Alcuni anni dopo Bellini ritorna in Sicilia (fine 1991 inizi 1992) e prende contatto con Gioè, sollecitandolo ad aiutare il Nucleo del patrimonio artistico a recuperare alcune opere d’arte trafugate alla pinacoteca di Modena. Bellini agiva per conto del maresciallo dei carabinieri Roberto Tempesta e fornì al Gioè le fotografie delle opere da ritrovare. In cambio Gioè chiese un trattamento di favore per cinque capimafia detenuti. Bellini consegnò l’elenco con i cinque nomi al maresciallo Tempesta che, a sua volta, le consegnò al colonnello Mario Mori del Ros dei carabinieri. Sino a questo punto i fatti sono riscontrati con buona tranquillità”.

Giornalista: E quali sono allora i misteri ulteriori?
Li Gotti: “Bellini e Tempesta riferirono di progetti di Cosa Nostra di attentati al patrimonio artistico italiano (si parlò, da parte di Gioè, della Torre di Pisa). Tempesta ha dichiarato di averne riferito a Mori ma questi lo escluse. È comunque oggettivo il fatto che nel 1993 Cosa Nostra colpì il patrimonio artistico oltre a provocare morte (attentato a Firenze in via dei Georgofili e alla chiesa del Velabro a Roma). È un mistero chi fosse Bellini ed il ruolo che effettivamente svolse”.

Giornalista: Quali sono le altre pagine oscure?
Li Gotti: “L’incontro in carcere, in Inghilterra, del mafioso (poi diventato collaboratore di giustizia) Franco Di Carlo con misteriosi uomini dei servizi segreti, che chiedevano di sapere quale mafioso sarebbe stato in grado di compiere attentati di alto livello. Di Carlo fece il nome di suo cugino, ossia Nino Gioè. Le stragi non si erano ancora verificate. La vicenda rimane misteriosa”.

Giornalista: Dopo la strage di Capaci, a distanza di meno di due mesi, Cosa Nostra uccise Paolo Borsellino.
Li Gotti: “Ci si interroga sul perché di quella che è sembrata un’accelerazione. La risposta a questa domanda è estremamente difficile. È certo che fosse in preparazione l’attentato per la uccisione di Calogero Mannino, Totò Riina bloccò l’azione, essendo diventata urgente l’azione per eliminare Paolo Borsellino”.

Giornalista: Quale fu e se ci fu una “trattativa” tra lo Stato e Cosa Nostra?
Li Gotti: “Ci furono dei contatti tra Vito Ciancimino e il colonnello Mario Mori. Un punto oscuro è quello dell’inizio della trattativa. Prima della strage di via D’Amelio e dopo Capaci (così secondo alcune fonti probatorie) o dopo le due stragi (secondo il colonnello Mario Mori)? Non è da escludere che la morte di Borsellino possa essere collegata proprio alla ‘trattativa’”.

Giornalista: Ci sono altri interrogativi che attendono risposte?
Li Gotti: “La misteriosa scomparsa dell’agenda rossa che Borsellino teneva sempre con sé e che utilizzava per annotare sue valutazioni o accertamenti o sospetti; l’origine del misterioso foglietto, rinvenuto dopo la strage, in via D’Amelio con annotato un numero telefonico riconducibile ai servizi segreti; l’approfondimento dello studio del traffico telefonico già esaminato dal consulente Genchi e i contatti con Castello Utveggio e uomini di Cosa Nostra.
Quale era la struttura che era collocata in Castello Utveggio in Palermo? Il cambio improvviso del ministro dell’Interno (sino al 30 giugno 1992 era Vincenzo Scotti; dal 1° luglio 1992, diviene Nicola Mancino). Scotti, a una mia domanda durante il processo per la strage, disse di ignorare l’esistenza di trattative e di non sapersi spiegare la ragione del suo allontanamento dal ministero dell’Interno. Senonché, in questi ultimi giorni, Claudio Martelli, all’epoca delle stragi ministro della Giustizia, ha dichiarato, in un’intervista, che addirittura ci sarebbe stata una spaccatura nel governo tra i duri (tra essi egli stesso e Scotti) e i propensi alla trattativa. Scotti sarebbe stato sostituito, perché contrario alla trattativa. Per altro, se così fosse, la trattativa sarebbe precedente il cambio di governo (30 giugno 1992) e, quindi, precedente la strage di via D’Amelio (19 luglio 1992). Ma il colonnello Mario Mori, colloca invece l’inizio della trattativa (e il suo incontro con Vito Ciancimino) il 5 agosto 1992”.

Giornalista: Si trattò di un’unica trattativa o di più trattative?
Li Gotti: “In verità Martelli ha dichiarato di più contatti cercati da Cosa Nostra con lo Stato. Rimane l’ombra sull’incontro di Borsellino con il nuovo ministro dell’Interno, Mancino, il 1° luglio 1992. Mancino non lo ricorda e non ricorda di trattative. Il suo non ricordo risale a quegli anni (dichiarazioni rese nel 1997). Non è un cattivo non ricordo di oggi. Ma l’incontro è un fatto certo, perché riferito da chi accompagnò Borsellino sino all’anticamera del Ministro”.

Giornalista: Le indagini della Magistratura aprono nuovi scenari?
Li Gotti: “Sicuramente il nuovo scenario è rappresentato dal ruolo centrale svolto dalla famiglia mafiosa di Brancaccio (dichiarazioni del nuovo collaboratore Gaspare Spatuzza, ritenuto attendibile dalla magistratura e reo confesso del furto dell’autovettura imbottita d’esplosivo). Di tale furto si era accusato Vincenzo Scarantino, condannato definitivamente”.

Giornalista: Cosa significa ciò?
Li Gotti: “La responsabilità di Spatuzza significa diretto coinvolgimento della famiglia di Brancaccio, ossia dei capi mafiosi, i fratelli Graviano. Cioè i più attivi nel tessere alleanze politiche, in specie con le nuove realtà politiche che si affacciavano nel Paese. Nel quartiere Brancaccio (presso l’Hotel S. Paolo) fu costituito il primo e più importante circolo di Forza Italia, poi sciolto perché manifestamente infiltrato da mafiosi. Rimane per me un interrogativo da sciogliere la possibile incidenza sulla strage dell’intervista di Borsellino, resa il 22 maggio 1992 e in cui parlò dello ‘stalliere’ Mangano, di Dell’Utri e di Berlusconi. Così come rimane un interrogativo che merita risposte quali fossero le indagini che, dopo Capaci, Borsellino voleva segretamente avviare traendo spunto dal dossier mafia-appalti. Ne ha riferito Mori. Bisogna saperne di più”.

Giornalista: Ma il quadro che viene fuori potrebbe evidenziare, più che una trattativa, una collusione?
Li Gotti: “Non bisogna banalizzare e fare confusione. Bisogna tenere sempre a mente che il generale Mario Mori e gli uomini del Ros hanno catturato Salvatore Riina, il capo dei capi, e che, nel volgere di tre anni, le forze dell’ordine (Carabinieri e Polizia) sono riuscite a catturare i maggiori capi di Cosa Nostra. L’unica domanda che potrebbe farsi è: vi è stata una rigenerazione di Cosa Nostra, con la chiusura della stagione stragista, l’arresto dei capi corleonesi e l’avvento di una nuova mafia alleata del nuovo ceto politico? Ossia c’è stata anche una ‘seconda repubblica’ per Cosa Nostra, speculare a quella della politica?”

Blog di Beppe Grillo – Verità di Stato e verità di mafia

Blog di Beppe Grillo – Verità di Stato e verità di mafia

Sommario della puntata:
Massimo Ciancimino comincia a parlare
Il “papello”, i Servizi Segreti e la copertura politica della trattativa
Parla Ciancimino, parlano tutti.
Ayala: “Mancino ha incontrato Borsellino… o forse no”
Ciampi e il suo telefono a Palazzo Chigi “manomesso”
Il cerino in mano

Testo:
“Buongiorno a tutti, ben ritrovati dopo le vacanze anche se magari qualcuno c’è ancora. Io no, purtroppo.
Vorrei parlare subito di una questione che secondo me segnerà questa stagione della politica, dell’informazione, della cronaca, della giustizia ed è probabilmente la vicenda più importante che si sta svolgendo, anche se i giornali ne parlano poco, tra alti e bassi, tra fiammate e docce gelate. Anzi, forse proprio per il fatto che i giornali ne parlano poco, tanto per cambiare.
E’ la faccenda di questi improvvisi squarci che si sono aperti quest’estate sulla vicenda della trattativa tra lo Stato e la mafia nel 1992, che poi null’altro è se non il paravento che cela i mandanti esterni, i suggeritori occulti delle stragi del 1992, almeno per quanto riguarda quella di Borsellino, e del 1993 di Roma, Firenze e Milano.
Ci sono molte novità che è difficile notare: eppure basta incrociare e confrontare ciò che esce sui giornali, senza bisogno di andare a vedere verbali giudiziari che sono ancora segreti e quindi né io né voi possiamo conoscere. Già quello che si è letto sui giornali è piuttosto significativo su quello che sta venendo fuori e io penso che se ci sarà una spinta dal basso della società civile, se qualcuno sul fronte politico prenderà finalmente sul serio questa faccenda e se i magistrati verranno lasciati lavorare, soprattutto quelli di Palermo, Caltanissetta e Firenze che sono quelli competenti per materia e per territorio sulle trattative del “papello”, Palermo sui mandanti delle stragi. Si potrebbe riuscire a capire chi sono i veri padri fondatori della Seconda Repubblica che, come forse avete sentito dire, non è nata a differenza della Prima dalla Resistenza ma proprio dalle stragi, dalle trattative, dalle bombe e dal sangue dei morti.
E’ sempre meglio ricapitolare per evitare di dare qualcosa per scontato e acquisito, in modo che chiunque incamera il Passaparola sappia com’è cominciata la vicenda e a che punto è arrivata.
Dopodiché ci ritorneremo se, come spero, avrà degli sviluppi.

Massimo Ciancimino comincia a parlare

La vicenda comincia semplicemente con le interviste di questo personaggio molto interessante, singolare, sicuramente molto chiacchierone, cioè Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo Vito, il quale per anni è stato indagato dalla procura di Palermo, ha avuto il torto di dover gestire il patrimonio di suo padre, è stato accusato di riciclaggio – lui dice che non è riciclaggio, si vedrà, questo a noi interessa poco. E’ stato condannato in primo grado per riciclaggio, adesso si sta battendo in appello. Di certe cose non aveva parlato ai magistrati fino a un anno fa, anche perché aveva come l’impressione che la vecchia procura di Palermo non fosse molto interessata ad alzare il tiro sugli alti livelli istituzionali e politici frequentati da suo padre; invece poi fa sapere ai magistrati della nuova Procura di Palermo, quella retta dal Procuratore Messineo – per intenderci – da un paio d’anni che ha come l’impressione che abbia più interesse a toccare certi altarini e quindi comincia ad affrontare temi che prima aveva lasciato perdere.
Anche perché si era reso conto che quando gli avevano perquisito la casa, stranamente, i Carabinieri non erano nemmeno andati ad aprire la cassaforte che pure era visibile anche da un bambino, ma stiamo parlando di vicende ricorrenti, ricorderete che i Carabinieri del Ros non entrarono nemmeno nella casa di Riina: il motto di certi servitori dello Stato, soprattutto a Palermo, è “non aprite quella porta e non aprite quella cassaforte”, forse perché sanno già quello che ci troverebbero dentro.
In ogni caso, questa era la ragione della sua impressione sulla vecchia gestione della Procura, tanto più che poi in casa gli avevano trovato la lettera di Provenzano a Berlusconi e invece di utilizzarla nei processi i magistrati della vecchia Procura l’avevano lasciata marcire in uno scatolone per cui quelli della nuova Procura l’hanno tirata fuori e recuperata in extremis per versarla nel processo Dell’Utri che, fra l’altro, riprenderà fra meno di tre settimane.
Ciancimino comincia dunque ad alzare il tiro e a raccontare ai magistrati di Palermo cosa faceva suo padre, perché tutto ciò che Ciancimino racconta lo ha visto fare da suo padre insieme a esponenti delle istituzioni oppure l’ha sentito raccontare sempre da suo padre, che è morto. Padre che gli avrebbe addirittura dettato un memoriale che sarebbe nascosto da qualche parte: sapete che Ciancimino ha carte interessanti nascoste in giro per il mondo e si spera che prima o poi si decida a consegnarle alla magistratura. Ci sono altre due lettere attribuite a Provenzano e rivolte a Berlusconi, in originale o in copia, ci sarebbe il famoso “papello” della trattativa tra Riina e i Carabinieri del Ros e i loro mandanti rimasti anch’essi ancora occulti, e poi ci sarebbe questo memoriale dettato da Vito Ciancimino e dattiloscritto da Massimo.
Inizia a raccontare dei rapporti tra suo padre e il capitano De Donno e il Colonnello Mori e li data – la trattativa poi sfociata nel papello – tra la strage di Capaci e quella di Via D’Amelio. Parliamo del mese di giugno del 1992: dopo che uccidono Falcone si fanno avanti i Carabinieri con Ciancimino.
Questa è già una prima novità perché inizialmente si pensava che la trattativa fosse iniziata dopo la strage di Via D’Amelio, invece no, pare che inizi prima e questo è molto importante perché molti magistrati e investigatori sono convinti che la strage di Via D’Amelio sia stata provocata proprio dalla trattativa tra i Carabinieri e Totò Riina in quanto questo, dopo aver eliminato Falcone, riceve da qualcuno l’input che bisogna eliminare anche Borsellino perché la strage di Capaci ha sortito l’effetto di attivare lo Stato a trattare con la mafia ma Borsellino lo è venuto a sapere, si oppone e quindi va eliminato: ostacolo da rimuovere sulla strada della trattativa. Quindi, la datazione dell’inizio della trattativa tra gli uomini del Ros e Ciancimino è fondamentale e Massimo Ciancimino a cavallo tra la strage di Capaci e quella di Via D’Amelio, giugno 1992.
Poi racconta che suo padre aveva rapporti intimi e costanti con Bernardo Provenzano, fino al 2000 quando il padre rimase agli arresti domiciliari.
Racconta che la trattativa dei Carabinieri fu soprattutto con Provenzano piuttosto che con Riina e questo spiegherebbe per quale motivo a un certo punto Riina si ritrova i Carabinieri davanti a casa: cresce l’ipotesi che sia stato venduto da Provenzano e Ciancimino ai Carabinieri in cambio del cambio di rotta della mafia più trattativista e meno stragista – Provenzano è più trattativista, Riina è lo stragista – e quindi dell’alleggerimento della pressione dello Stato sulla mafia e del fatto che Provenzano diventa il capo indiscusso di Cosa Nostra dopo l’arresto di Riina e che però le carte di Riina non si prendono, si lasciano a Provenzano, e che lo stesso Provenzano non si prende e questo ci ricollega al processo in corso a Palermo a carico, tanto per cambiare, del Generale Mori per non avere catturato Provenzano già nel 1995 quando il Colonnello Riccio, un altro ufficiale del Ros, lo aveva segnalato presente in un casolare di Mezzojuso.
Ciancimino racconta poi di avere visto lui il “papello”, cioè il foglio di carta con l’elenco delle cose che Riina o Provenzano, o Riina e Provenzano, chiedevano ai Carabinieri in cambio della cessazione delle stragi, “papello” che nel prosieguo della trattativa nell’autunno del 1992 dopo che era stato ucciso anche Borsellino fu consegnato a vari referenti tra i quali, dice Massimo Ciancimino mentre il generale Mori nega, al generale Mori.

Il “papello”, i Servizi Segreti e la copertura politica della trattativa

Dice però che il “papello” fece un tragitto un po’ più complicato: i capi di Cosa Nostra lo fecero pervenire a Vito Ciancimino, lui lo passò a un certo Carlo che era un uomo dei Servizi Segreti che gli stava accanto da una trentina d’anni – pensate, c’era un uomo dei Servizi Segreti, un certo Carlo, che accompagnava la vita e la carriera di un sindaco mafioso come Ciancimino per conto dello Stato. Quindi Ciancimino da’ prima il “papello” a Carlo e questo lo da’ a Mori, questo è molto importante perché Ciancimino per quanto riguarda le istituzioni si fida di questo Carlo che da trent’anni sta al suo fianco mentre Mori si è fatto avanti più di recente.
Ciancimino, il figlio, ricorda che suo padre per trattare – dato che a trattare tra Stato e mafia c’è da lasciarci le penne se si fa qualche passo falso – aveva preteso delle coperture politiche, che dovevano essere da parte del governo. Nel senso: chi è questo Mori che fa la trattativa? Sarà mica una sua iniziativa personale? No, ci deve essere dietro lo Stato altrimenti mica ci mettiamo a trattare. Chi lo manda Mori? Chi è d’accordo con la trattativa avviata da Mori? Dice Massimo Ciancimino, anche questo tutto da verificare naturalmente ma sono gli squarci che si stanno aprendo e quindi li dobbiamo raccontare così come li sappiamo, per quanto riguarda il governo la copertura chiesta da Ciancimino doveva darla il nuovo ministro dell’Interno Nicola Mancino, per quanto riguardava l’opposizione la copertura la doveva dare il rappresentante per i problemi della giustizia Luciano Violante, di lì a poco diventato presidente della Commissione Antimafia.
Insomma, sono d’accordo il governo e l’opposizione che lo Stato tratti con la mafia dopo la strage di Capaci e dopo la strage di Via D’Amelio? Questo vuole sapere Ciancimino per andare avanti con la trattativa. Infatti, si informa presso il signor Carlo – che secondo alcuni si chiamerebbe Franco, ma insomma… – che è appunto l’uomo dei Servizi affinché si informi di chi sta alle spalle di Mori. Dopodiché la trattativa prosegue, segno che le informazioni vanno a buon fine cioè che arrivano le garanzie che la destra e la sinistra, almeno il pentapartito perché in quel momento non c’era il centrodestra ma il pentapartito ovvero DC, Psi, partiti laici minori da una parte e PDS all’opposizione, non erano contrari. Anzi, secondo Massimo Ciancimino non era contrario il governo mentre la copertura di Violante va in fumo in quanto Violante rifiuta di incontrare Vito Ciancimino.
Quando poi viene catturato Vito Ciancimino nel dicembre del 1992 la trattativa si interrompe anche perché un mese dopo viene arrestato Riina ma non viene perquisito il covo, e sapete quello che succede dopo: secondo i giudici di Palermo dopo la trattativa dei Carabinieri interrotta dall’arresto di Ciancimino e un mese dopo di Riina parte un’altra trattativa, ammesso che fosse un’altra e non il prosieguo della stessa, che coinvolge Dell’Utri il quale fornisce poi le garanzie sulla nascita di Forza Italia, garanzie che verranno ritenute sufficienti da Provenzano tant’è che questo smetterà dopo la stagione delle stragi del 1993 di sparare e inaugurerà la lunga pax mafiosa che dura anche oggi.
Ecco, in quel periodo si inseriscono le tre lettere che Provenzano manda a Berlusconi: una all’inizio del 1992, prima delle stragi, segno che c’erano già dei rapporti con Dell’Utri perché era lui a fare il postino: la lettera Provenzano la dava a Ciancimino, che la dava a Dell’Utri che la dava a Berlusconi, tre volte questo sarebbe successo, la seconda volta alla fine del 1992 dopo le stragi e la terza all’inizio del 1994 quando Berlusconi si getta in politica, e questa è la lettera di cui i magistrati hanno una metà tagliata nella quale Provenzano o chi per lui si rivolge a Berlusconi chiamandolo “onorevole”. Stiamo parlando di un Berlusconi già diventato politico quindi non prima del 1994.
Richieste di aiuti, promesse di sostegno politico, scambi di favori con Dell’Utri che fa il pony express fra Provenzano e Berlusconi, questo è quello che racconta Massimo Ciancimino. E a questo punto i magistrati riaprono le indagini sulla trattativa del “papello” perché è ovvio che se la mafia ha costretto lo Stato a fare delle cose che non avrebbe fatto senza le stragi qui stiamo parlando evidentemente di reati gravissimi, è un’estorsione fatta dalla mafia allo Stato, stiamo parlando di un reato che credo si chiami “minaccia contro corpo politico dello Stato”. Un qualcosa di molto simile a un golpe.

Parla Ciancimino, parlano tutti.

Quando emergono da interviste o indiscrezioni di stampa le prime notizie su quello che ha detto Ciancimino i protagonisti della politica dell’epoca entrano in fibrillazione.
Nicola Mancino, lo sapete, già da anni è oggetto di chiacchiericci continui, poi per fortuna c’è Salvatore Borsellino che ogni tanto strilla forte ciò che gli altri mormorano piano. E’ noto che il ministro dell’Interno che avrebbe incontrato Borsellino poco prima della strage di Via D’Amelio è proprio Mancino e Paolo Borsellino lo scrive nel suo diario. Mancino ha sempre negato, come ha sempre negato di aver saputo di trattative o cose del genere.
Guarda caso, quest’estate in un’intervista continua a dire di non aver incontrato Borsellino, al massimo gli avrà dato la mano ma come poteva lui riconoscere Borsellino fra i tanti… come se Borsellino fosse uno fra i tanti: era uno che di lì a quindici giorni morirà ammazzato ed è quello che tutti gli italiani individuano come l’erede naturale di Falcone che è appena stato ammazzato, figuratevi se si può scambiare per un usciere che ti stringe la mano il giorno che diventi ministro. Comunque questo dice Mancino: “non ho incontrato Borsellino, forse gli ho stretto la mano fra le tante”, ma aggiunge: “in quell’estate io respinsi ogni tipo di proposta di trattativa fra Stato e mafia”. Questo è interessante perché vuol dire che qualcuno gli sottopose queste proposte di trattative, e sappiamo che forse anche Borsellino respinse quelle trattative; allora sarebbe interessante sapere chi propose al ministro Mancino quelle trattative, perché dev’essere la stessa persona o lo stesso ambiente che le propose a Borsellino, soltanto che Borsellino disse di no ed è stato ammazzato, Mancino continuò a fare il ministro dell’Interno e devo dire che lo fece anche molto bene.
Violante, quando esce sui giornali che Ciancimino ha dichiarato che suo padre chiedeva la copertura anche della sinistra e cioè si Violante, tarantolato anche lui ha un’illuminazione e corre a Palermo a testimoniare, con dichiarazioni spontanee, che effettivamente gli è venuto in mente 17 anni dopo che il generale Mori gli aveva chiesto, mentre era presidente della commissione Antimafia, di incontrare Ciancimino ma dato che l’incontro proposto doveva essere a quattrocchi lui Ciancimino non lo voleva incontrare. Mori andò altre due volte per sollecitare quell’incontro ma Violante disse sempre di no.
E qui si pone un altro problema: per quale motivo Violante si è tenuto per 17 anni una notizia di questo calibro: nel 1992 non lo sapeva mica nessuno che i Carabinieri del Ros stavano trattando con Ciancimino cioè con la mafia. E Violante era presidente della commissione Antimafia, possibile che non apre immediatamente un’indagine con i suoi poteri, che sono gli stessi della magistratura, può persino convocare testimoni e arrestare la gente se vuole. Perché se non lo voleva fare lui non ha avvertito il suo amico Caselli che di lì a poco è andato a fare il procuratore capo di Palermo? Subito, all’inizio del 1993 così la trattativa si sarebbe saputa e sarebbe stata interrotta e non se ne sarebbero fatte altre perché sarebbero intervenuti i magistrati. Invece, Violante questa cosa se la tiene per 17 anni, dal 1992 al 2009, e poi tomo tomo cacchio cacchio se ne viene fuori con una dichiarazione ai magistrati di Palermo dicendo: “toh… guarda mi è venuto in mente! E’ vero!”. Intanto i magistrati di Palermo avevano processato il generale Mori per la mancata perquisizione del covo di Riina, l’avevano di nuovo fatto rinviare a giudizio per la mancata cattura di Provenza e Violante sempre zitto! Eppure sarebbe stato importante, in quei processi, avere la sua testimonianza! Violante che dice che il generale Mori faceva da tramite, da ambasciatore di Ciancimino per convincerlo a incontrare Ciancimino!
Voi capite che per uno che viene processato per favoreggiamento della mafia il fatto che andasse a chiedere a Violante: “scusi, lei vuole incontrare Ciancimino?”, un generale dei Carabinieri, sarebbe stato interessante. Violante zitto, se ne salta fuori adesso perché non lo può più negare, l’ha raccontato Ciancimino, quindi, trafelato, arriva a dire la sua verità, tardiva, molto tardiva.

Ayala: “Mancino ha incontrato Borsellino… o forse no”

Ma non è finita perché questa è anche l’estate nella quale salta fuori, con un’intervista ad Affariitaliani, l’ex giudice Ayala, già pubblico ministero nei processi istruiti da Falcone e Borsellino poi datosi alla politica e ultimamente, trombato dalla politica, ritornato in magistratura – credo che sia giudice in Abruzzo.
Ayala dice: “poche balle, Mancino aveva incontrato Borsellino, me l’ha detto lui”. A questo punto il giornalista dice: “ma Mancino lo nega” e lui risponde: “no, mi fece vedere l’agenda nella quale c’era scritto che il 1° luglio del 1992 Mancino aveva incontrato Borsellino”.
Strano, una bomba! I magistrati convocano immediatamente Ayala per saperne di più, lo convocano ovviamente quelli di Caltanissetta che stanno indagando sui mandanti esterni delle stragi. E lì Ayala dice: “no, ma io sono stato frainteso”. Piccolo problema: Affariitaliani ha l’audio registrato con le parole di Ayala. Possibile che Mancino gli abbia fatto vedere un’agenda con scritto l’incontro con Borsellino e Ayala sia stato frainteso? In che senso frainteso? Spiegherà Ayala, dopo aver capito che non può smentire le dichiarazioni perché sono state registrate, che si era sbagliato lui nell’intervista: Mancino gli aveva fatto vedere un’agenda dove non c’era il nome di Borsellino e lui, invece, ricordava che nell’agenda ci fosse. Ma se uno nell’agenda non ha il nome di Borsellino, per quale motivo dovrebbe farla vedere ad Ayala? E’ evidente che fai vedere l’agenda se hai scritto un nome, se non c’è scritto niente che prova è che non hai visto una persona?
Tu puoi vedere tutte le persone di questo mondo e non scriverle nell’agenda, è se lo scrivi che lo fai vedere a una persona per testimoniare quello che le stai dicendo! Cose da matti, comunque questo è un altro rappresentante delle istituzioni folgorato e poi avviato rapidamente alla retromarcia.
Ma non è finita: a questo punto interviene il generale Mori che, non si sa se in un’intervista o in una notizia fatta trapelare all’agenzia “il Velino” dice: “Violante non si ricorda mica bene: non gli avevo proposto di incontrare Ciancimino a tu per tu, ma di farlo parlare in commissione Antimafia!”. Allora resta da capire come mai Violante non abbia accettato di convocare Ciancimino in commissione Antimafia visto che l’Antimafia convocava pure i pentiti di mafia, non è che potesse sottilizzare: se Ciancimino aveva qualcosa da raccontare perché non fargliela dire?

Ciampi e il suo telefono a Palazzo Chigi “manomesso”

A questo punto salta fuori l’ex presidente della Repubblica Ciampi, che ricorda che cosa successe a Palazzo Chigi: Ciampi è presidente del Consiglio nella primavera-estate del 1993 quando esplodono le bombe nel continente, a Roma, Milano e Firenze. E soprattutto, nella notte degli attentati alle Basiliche a Roma, mentre a Milano esplode via Palestro il 27 luglio del 1993, Ciampi ricorda il famoso black out nei palazzi del potere ma anche che “ero a Santa Severa in vacanza, rientrai con urgenza a Roma di notte, accadevano strane cose: io parlavo al telefono con un mio collaboratore a Roma e cadeva la linea. Poi trovarono a Palazzo Chigi il mio apparecchio manomesso, mancava una piastra”. C’erano ancora le cornette, non c’era ancora ai livelli di oggi i cellulari. “Al largo della mia casa di Santa Severa, a pochi km da Roma, incrociavano strane imbarcazione: mi fu detto che erano mafiosi allarmati dalla legge che istituiva per loro il carcere duro. Chissà, forse il carcere lo volevano morbido”.
Ciampi, dopo quell’episodio, va a Bologna all’improvviso e il 2 agosto commemora a sorpresa la strage di Bologna ricordando il ruolo della P2, cosa che ricorda di nuovo in questa intervista a Repubblica nella quale dice anche che purtroppo su quei rapporti tra la P2, telefoni manomessi, black out eccetera non è stata fatta chiarezza.
Il giorno dopo, il procuratore di Firenze competente sulle stragi del 1993 interviene piccato: è Pier Luigi Vigna, già capo della procura di Firenze, già capo della procura nazionale Antimafia il quale dice: “noi abbiamo indagato tutto, non c’è più niente da indagare”. Il giorno dopo ancora dice: “la politica tace il nome dei mandanti occulti delle stragi”: insomma, dice due cose all’apparenza sembrerebbero contraddirsi ma soprattutto non si spiega per quale motivo scopriamo solo oggi che il telefono di Ciampi a Palazzo Chigi, il telefono personale del Presidente del Consiglio del 1993, la notte delle stragi era stato manomesso, gli hanno tolto una piastra, era intercettato probabilmente il capo del Governo! Da chi può essere intercettato il capo del governo che è anche il capo dei Servizi Segreti e che al largo della sua casa al mare “incrociavano strane imbarcazioni: mi fu detto che erano mafiosi allarmati dalla legge sul carcere duro”.
Mettete insieme tutte queste cose, mettete insieme che Martelli, allora ministro della Giustizia dice: “lo Stato forse non trattava con la mafia ma rappresentanti dello Stato si”. E lo dice così, en passant, in un’intervista. E mettete insieme che Dell’Utri, beffardo, l’altro giorno rilascia un’intervista dicendo: “apprendo dai giornali che qualcuno avrebbe trattato con la mafia: sarebbe gravissimo se ciò fosse successo, bisogna assolutamente istituire una commissione parlamentare d’inchiesta per fare luce perché è orribile l’idea che qualcuno tratti con la mafia i tempi delle stragi. Cosa mi dice, signora mia?”. Dell’Utri dichiara in un’intervista.

Il cerino in mano

Voi capite che qui siamo di fronte a una classe politica e a un ceto dirigente dove anche l’ultimo degli uscieri sa cento volte di più di quello che sappiamo noi e di quello che sanno i magistrati. In Italia i cittadini e i magistrati sono come i cornuti, sono sempre gli ultimi a sapere, e voi vedete che questo giro, questa ristretta cerchia di persone si manda messaggi perché si è aperto qualche spiraglio, perché qualcuno sta cominciando a parlare. E se qualcuno sta cominciando a parlare, saranno squalificati come dice il Capo dello Stato ma del resto, se stiamo parlando di stragi, è ovvio che chi deve saperne qualcosa non può che essere persona squalificata, sarebbe meglio se i testimoni delle stragi fossero delle suore Orsoline, ma purtroppo queste delle stragi non ne sanno niente, è molto meglio che parlino i mafiosi o i figli dei mafiosi. Anche quella dichiarazione del Capo dello Stato sembrava tanto un invito a chiudere certe bocche.
Evidentemente, in questa ristretta cerchia c’è un sacco di gente che sa, che tace, che si manda messaggi trasversali perché comunque “io so che tu sai che io so”, e che sarebbe bene venisse fuori allo scoperto. Perché fanno così? Perché si mandano queste strizzatine d’occhio e queste rasoiate al curaro? Perché sanno che se la verità comincia a uscire, lo scarica barile andrà avanti fino a quando uno, l’anello più debole, verrà scaricato. Purtroppo in questa stagione i protagonisti sono tutti vivi, purtroppo per loro: ci fosse qualche bel morto a cui scaricare addosso le responsabilità l’avrebbero già fatto, ma tutti coloro che avevano queste responsabilità istituzionali sono vivi e si stanno buttando addosso l’uno sull’altro i cadaveri delle stragi del 1992 e 1993.
Teniamo gli occhi aperti e stiamo a vedere nei prossimi mesi chi rischia di restare col cerino in mano, perché chi rischia di restare col cerino in mano prima di bruciarsi magari parla.
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