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Antimafia Duemila – L’Addaura. ”Tra” le ombre… luci.

Fonte: Antimafia Duemila – L’Addaura. ”Tra” le ombre… luci..

di Carlo Palermo – 11 maggio 2010
I recentii articoli di Attilio Bolzoni su Repubblica e di Alfio Caruso sul Corriere della Sera relativi all’attentato all’Addaura contro Giovanni Falcone del giugno del 1989 offrono spunti di riflessione sullo stato delle indagini attualmente svolte in particolare da taluni magistrati in Sicilia, che tentano oggi di decifrare e comprendere alcuni episodi che solo apparentemente riguardano “affari” di Sicilia, ma che forse costituiscono chiavi di lettura di attività più complesse, trovanti origine e motivazione in centri di potere più complessi.
Esponendosi gli esiti delle nuove attività investigative, si evidenzia oggi che l’episodio dell’Addaura può essere considerato come punto di inizio e chiave di lettura delle stragi del ’92, rilevandosi così che siamo in ritardo di 20 anni con le indagini in conseguenza degli occultamenti e dei depistaggi intenzionali che avrebbero oscurato così a lungo la ricostruzione della verità.
In merito non posso che concordare con tale attuale impostazione dei magistrati, anche se ritengo che il connubio tra poteri occulti, mafia e terrorismo risalga a molto tempo prima, e come tale vada esaminato nella sua globalità storica per essere poi individuato e decifrato in ogni singolo episodio che ne ha costituito espressione.
Per comprendere a fondo la genesi e le più complesse responsabilità delle stragi del ’92 è forse opportuno ricordare che poco dopo i due attentati di Capaci e di via d’Amelio, a Milano, vennero sequestrati armi e plastico per attentati: dietro l’organizzazione sembra esservi stato il clan mafioso della famiglia Fidanzati, operante da un ventennio sull’asse Palermo – Milano, in connessione con le organizzazioni della mafia turca e con i terroristi libanesi.
In questo ricorrente asse – forse poco approfondito nel comune convincimento che la mafia operi solo in Sicilia – possono rinvenirsi indizi che riconducono a fatti vecchi e nuovi (al caso Calvi, alla P2, al sistema delle corruzioni politiche, ecc.), tutti ruotanti attorno a rilevanti operazioni bancarie e finanziarie, che – come noto – costituisce il necessario sistematico legante di tutte le attività illecite.
La riflessione ci riporta (come ho da tanti anni ricordato in miei scritti) a vicende in qualche modo collegate a due conti bancari “famosi” per Giovanni Falcone, come anche per i magistrati di Milano: il “Conto Protezione, rif. Martelli per conto Craxi”, sulla banca Ubs di Lugano (che risaliva ai lontani anni 1979-80), e il meno noto Conto “rif. Roberto”, sul Banco di Roma, sede di Lugano.
Su questi nomi e su questi conti si incentrarono e poi si bloccarono le ricerche di Giovanni Falcone quando era giudice istruttore a Palermo.
Sul Conto Protezione per tanto tempo (e sino al ’93) si bloccarono a Milano le indagini della magistratura sul Banco Ambrosiano.
Sul Conto rif. Roberto si fermarono Falcone e Borsellino nelle loro inchieste di mafia.
Su entrambi i conti, in Svizzera iniziò a indagare, su richiesta di Falcone, il magistrato elvetico Carla Del Ponte, che si trovava a Palermo all’Addaura insieme a Falcone nel giorno dell’attentato del 1989 all’Addaura.
Io incontrai Carla Del Ponte il giorno prima che costei partisse per la Sicilia, per vedersi con Falcone a Palermo.
Sui conti elvetici poi, dopo l’eliminazione di Falcone e Borsellino, si sono nuovamente imbattuti, dal ’92 i magistrati di Milano e inquirenti siciliani (di Palermo, Caltanisetta e Catania) in varie inchieste sulla corruzione e sui fondi occulti all’estero.
Per Falcone e Borsellino, quei conti rimasero però un mistero.
Per dipanare la matassa, andiamo ancora più indietro e spostiamo l’attenzione su personaggi a lungo trascurati, Florio Fiorini e Giancarlo Parretti, recentemente al centro di scandali finanziari internazionali; in passato, legati alle vecchie storie del Banco Ambrosiano, della P2, delle forniture di petrolio Eni-Petromin: si potranno notare le strette connessioni di questi fatti (tipicamente “economici” e bancari) con altri piú propriamente “mafiosi”.
Agli inizi degli anni Settanta, Parretti arrivò a Siracusa e il suo cammino si incrociò con quello di un uomo politico che contava nella Sicilia dell’epoca, il senatore democristiano Graziano Verzotto.
Nativo del nord, Verzotto, ancora nel 1953, aveva svolto in Sicilia il doppio ruolo di funzionario dell’Agip (antenata dell’Eni) e di commissario provinciale della Dc. Divenne rapidamente padrone incontestato di Siracusa, poi di tutta l’isola, anche se i suoi rapporti con il leggendario presidente dell’Agip-Eni, Enrico Mattei, presto si raffreddarono.
Verzotto fu l’ultimo a salutare Mattei quando, la sera del 27 ottobre 1962, questi prese a Catania l’aereo privato che si sarebbe schiantato poco dopo a Bescape, a qualche decina di chilometri dall’aeroporto di Milano-Linate: fu forse il primo episodio terroristico in cui si mescolarono insieme gli emergenti interessi di Stato, legati ai commerci internazionali di petrolio, e la mafia.
Lo stesso Verzotto nel 1967 divenne segretario generale della Dc siciliana e poi presidente dell’Ente minerario siciliano (Ems), organismo che raggruppava diciotto società, con disponibilità sugli enormi fondi del Mezzogiorno.
I suoi intrecci con la mafia furono molteplici: fu amico di Frank Coppola e di Giuseppe de Cristina, uno dei principali protagonisti della seconda guerra di mafia. La posta principale, in quel momento, era il controllo del mercato immobiliare dell’isola attraverso il triunvirato Stefano Bontade, Gaetano Badalamenti, Salvatore Riina, uomo di fiducia di Luciano Liggio, allora capo dei corleonesi.
De Cristina venne assassinato a Palermo il 30 maggio 1978.
L’omicidio scatenò quella che poi venne chiamata la «mattanza»: una strage totale che raggiunse il culmine negli anni 1981-82.
Frattanto, Fiorini – alleato di Parretti – come direttore finanziario dell’Eni (diresse l’ente dal 1975 al 1982, data della sua forzata separazione dall’Eni, conseguente agli scandali dell’epoca), guidava allora le finanze della compagnia petrolifera in collegamento con i socialisti di Craxi, piduisti e il leader libico Gheddafi.
In quel periodo si infittirono gli investimenti e le partecipazioni internazionali: Parretti (socio di Verzotto) e Fiorini, attraverso il gruppo finanziario spagnolo Melia International, acquisirono il controllo sulla società belga Bebel, che possedeva a sua volta oltre il 7% della Banque Bruxelles Lambert. Questa banca – negli ultimi anni Settanta – comparve nelle trattative tra Fiorini e Antony Gabriel Tannoury, graccio destro di Gheddafy, nella cessione delle azioni delle Assicurazioni Generali in relazione ai tentativi del leader libico di acquisire tecnologie nucleari. E, sempre alla stessa banca, si ricollegarono altri commerci di armi (come ad esempio quelli relativi alle forniture al Belgio degli elicotteri Agusta) in connessione con altri personaggi operanti nel settore finanziario internazionale al massimo livello.
Nel 1978 venne anche aperto, a Lugano, presso l’Union Banques Suisses, il Conto Protezione intestato a Silvano Larini: “I dirigenti dell’Ubs erano degli amici”, disse Fiorini, con riferimento ai rapporti tra la banca svizzera e l’Ambrosiano. Sui conti dell’istituto elvetico – che custodí i segreti di Craxi una quindicina di anni – a piú riprese si svolsero operazioni finanziarie del piú vario genere: versamenti di tangenti connesse a transazioni petrolifere (Eni-Petromin), pagamenti di partite di droga (in particolare per il clan mafioso dei Cuntrera-Caruana), finanziamenti illeciti dei partiti, creazioni di fondi occulti, operazioni di riciclaggio.
L’Ubs, inoltre, tramite banche controllate – in particolare la Banque de Commerce et de Placements (la Bcp) – fu in stretti rapporti con il pachistano Abedi e la Bcci.
Sempre nel 1978, il 17 aprile, iniziò un’importante ispezione della Banca d’Italia sul Banco Ambrosiano in conseguenza della gravissima situazione debitoria in cui questa versava per le spericolate operazioni del suo presidente Roberto Calvi.
Nel novembre, il dossier passò al giudice di Milano, Emilio Alessandrini, che conduceva le indagini su Calvi. Dopo circa tre anni, il 29 gennaio 1979, egli fu ucciso da un commando di Prima linea.
Dopo il sequestro Moro e lo scandalo Lockheed, gli anni 1979-80 trascorsero tra i tentativi trasversali di occupazione di potere incentrati nelle operazioni Rizzoli-Corriere della Sera, commesse petrolifere Eni-Petromin, finanziamenti al Psi di Craxi, nonché tra i misteri legati alla strage di Bologna e a quella di Ustica: tutti questi episodi evidenziarono depistaggi, connessioni occulte con il terrorismo, collegamenti tra i servizi segreti italiani e quelli americani, in una situazione politica condizionata dalla guerra fredda tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, e tra gli Stati Uniti e l’Iran rivoluzionario di Khomeyni con un equivoco ruolo svolto dal leader libico Gheddafi.
Alla fine di quell’anno (1980), mentre a Trento iniziava l’inchiesta sulle connessioni tra mafia siciliana e mafia turca, e sui rapporti tra Trento e Trapani, il turco Ali Agka ebbe, verso il 20 dicembre, misteriosi contatti attorno a Palermo, forse proprio a Trapani.
All’inizio del 1981 (il 17 marzo) venne scoperto dagli inquirenti l’elenco degli appartenenti alla loggia P2. Il successivo 8 maggio, a Trapani, venne creata la loggia coperta C.
Qualche giorno dopo (il 13 maggio), Ali Agka tentò, in piazza San Pietro, di uccidere il Papa: sulla base di connessioni bancarie, il killer turco apparve in qualche modo collegato con il massone di rito scozzese Thurn und Taxis e con sette integraliste ispirate al culto di Fatima.
Esattamente un anno dopo (il 13 maggio 1982) e sempre con connessioni massoniche, un secondo attentato al Papa veniva consumato a Fatima, in Portogallo, mentre infuriava la guerra tra l’Argentina e l’Inghilterra per le isole Falkland.
Un mese dopo, a Londra, Calvi si “suicidava”.
Nella lista degli iscritti alla P2 stranamente non comparvero i nomi dei partner di Gelli presenti nel governo di Washington.
Numerosissimi, invece – quasi seguendo un piano prestabilito –, furono quelli di generali e militari argentini compresi nell’elenco.
In Argentina, a Buenos Aires, in via Cerrito 1136, il capo della P2 – si ricorderà – disponeva di un appartamento, al nono piano: vi si trovavano gli uffici di una ditta, Las Acacias. In quello stesso edificio aveva avuto sede il Banco Ambrosiano.
La società Acacias (panamense e con sede a Lugano) risultò al centro di operazioni di riciclaggio di denaro proveniente da traffici di stupefacenti, tra il Brasile, gli Usa, l’Italia e la Svizzera. Fondata da Vito Palazzolo, venne utilizzata per il trasferimento di milioni di dollari manovrati dal clan Bonanno tra gli Usa e la Svizzera.
Questi fatti riguardavano le connessioni “argentine” del clan Fidanzati, sulle quali indagò, negli anni Ottanta, Giovanni Falcone.
Per una strana ricorrenza, solo un anno prima di essere ucciso a Capaci, lo stesso Falcone si recò a Buenos Aires per una rogatoria: in un burrascoso incontro con il boss Gaetano Fidanzati – arrestato in quel paese –, questo ultimo minacciò di farlo saltare in aria.
Ritornando al 1982, nella settimana di Pasqua – e cioè poco prima della uccisione di Calvi, avvenuta il 17 giugno – davanti agli uffici di una società collegata alla Acacias (la Traex), avvennero incontri tra importanti operatori finanziari internazionali, il fornitore turco di droga Yasar Musullulu e, con ogni probabilità, Pippo Calò.
Yasar Musullulu, capo della mafia turca, era probabilmente il fornitore della morfina base della raffineria di Alcamo, scoperta nell’aprile del 1985, trenta giorni dopo l’attentato di Pizzolungo, non molto lontano dai luoghi ove era stato ucciso, due anni prima, il sostituto procuratore Giacomo Ciaccio Montalto.
Negli stessi giorni erano state eseguite indagini sui rapporti di mafia esistenti tra Trapani e Trento.
In America, il principale destinatario delle forniture di droga dalla Sicilia era allora il clan mafioso agrigentino dei Cuntrera e Caruana.
Uno dei loro soci piú importanti, Francesco di Carlo, venne in seguito indicato come uno dei killer di Roberto Calvi. Probabilmente la somma per pagare i killer venne ricavata dal tesoro segreto della P2, occultato in una banca sconosciuta e forse transitato sull’istituto Rothschild.
Mentre magistrati e investigatori siciliani indagavano sui Cuntrera, sul Musullulu e sulle operazioni bancarie che li collegavano in Svizzera, alla fine del mese di luglio del 1985, venne ucciso il commissario Giuseppe Montana, della squadra della Questura di Palermo, preposta alla cattura dei latitanti.
Frattanto Francesco di Carlo veniva arrestato in Inghilterra, dove lo raggiungeva immediatamente il vice questore Cassarà. Pochi giorni dopo, il 6 di agosto, al suo ritorno a Palermo, Cassarà venne ucciso.
Minacce di morte costringevano Falcone e Borsellino a nascondersi in un’isoletta per scrivere l’ordinanza di rinvio a giudizio del primo maxiprocesso di mafia.
Nell’aprile del 1986, veniva intanto scoperto a Trapani il Centro studi Scontrino, le sue logge massoniche, i legami filoarabi con Gheddafi.
Nel 1987, nel corso di indagini svolte a Palermo da Giovanni Falcone, a seguito di accertamenti in Svizzera sui rapporti presso istituti elvetici, emersero tracce di versamenti di centinaia di migliaia di dollari su un conto chiamato “Rif. Roberto” del Banco di Roma, sede di Lugano, i cui beneficiari non vennero mai individuati con certezza.
Quel denaro – come risultò in seguito – costituiva un diretto provento di forniture di stupefacenti effettuate al clan Cuntrera-Caruana. Il Banco di Roma di Lugano, ovvero la Svirobank, era di proprietà al 51% dello Ior, la banca del Vaticano, di cui era presidente Marcinkus, che era stato in stretto rapporto con Roberto Calvi .
A Trapani, nel settembre dello stesso anno 1987, in apparente controtendenza rispetto alla chiusura delle strutture Gladio, veniva creato il Centro Scorpione, dalla VII divisione del Sismi: avrebbe dovuto essere una propaggine di Stay Behind. Doveva probabilmente servire per ingrandire e potenziare alcune unità clandestine operanti sul territorio: le Rac e le Udg (Rete agenti coperti e Unità di guerriglia). Questo centro era dotato di un aereo di piccole dimensioni.
La mafia, in quella zona (Castellammare del Golfo), si serví proprio di un velivolo di quelle caratteristiche, per un enorme trasferimento di droga (565 kg di eroina) eseguito con una nave, la Big John.
Sempre in quell’anno, a fronte di aiuti a paesi sottosviluppati, il Perú ricevette dall’Italia mezzi sofisticatissimi: ponti radio, sensori a raggi infrarossi, giubbotti antiproiettile e una quantità imprecisata di pistole Beretta imbarcati su un aereo partito da Roma, coperto dal segreto militare. Si trattò dell’operazione “Lima”, un piano di aiuti, deciso nel 1987, a sostegno del governo peruviano del presidente García, allora impegnatissimo nella caccia al professor Guzmán, il leader di Sendero luminoso, già condannato all’ergastolo.
L’ammiraglio Fulvio Martini, direttore dei nostri servizi segreti, raccontò ai magistrati che l’operazione era stata organizzata dall’allora presidente del Consiglio Craxi. Era previsto l’addestramento della guardia peruviana con personale della VII divisione del Sismi, la stessa che aveva creato a Trapani, sempre nel 1987, il Centro Scorpione.
L’anno seguente, il 1988, dopo aver forse assistito nelle campagne di Trapani a un trasbordo di armi dirette alla Somalia su un aereo militare operante per conto dei nostri servizi segreti, veniva ucciso, in prossimità della comunità di Saman, Mauro Rostagno, sulle tracce delle piste massoniche della Loggia “C”, delle sacerdotesse sufi “Arcobaleno” e forse di alcuni traffici… anche più vicini a lui.
Era sui fatti finanziari sopraindicati che indagava il giudice Falcone nel giugno del 1989, mentre inutilmente cercava di capire cosa fosse il Centro Scorpione di Trapani. In quei giorni, sugli scogli vicini alla sua abitazione vennero rinvenuti due sacchi di esplosivo: un segno minaccioso cui subito non parvero estranee presenze di cellule deviate dei servizi segreti. Lo stesso Giovanni Falcone, parlando di questi fatti, non esternò sospetti sulla mafia, ma su “menti raffinatissime”.
Vennero trovati i candelotti sugli scogli della sua villa all’Addaura, mentre si occupava delle connessioni bancarie svizzere dei narcotrafficanti siculo-americani.
Lo stesso magistrato, nel 1991, prima di lasciare Palermo per i suoi incarichi ministeriali a Roma, svolse indagini su un ultimo processo riguardante rapporti tra mafiosi, società svizzere (in particolare di Chiasso) e istituti bancari elvetici, nodi di smistamento di narcodollari. Il processo, noto come Big John, prendeva il nome della nave sulla quale era stato sequestrato l’enorme carico di eroina vicino Trapani nel 1987.
Nel giugno 1992, anche l’ultimo fascicolo passato per le mani di Giovanni Falcone al ministero, per una rogatoria all’estero, era siglato “Big John”.
Dopo la morte di Falcone, un imputato di quel processo, legato al ruolo centrale del riciclaggio del denaro sporco, fu in contatto dalla Svizzera con il giudice Borsellino, poco prima che questi saltasse in aria a Palermo: forse intendeva “parlare”… Poi non parlò piú!
Dopo il 1992 apparirono cessate le stragi mafiose, forse per le reazioni investigative della magistratura che, per la prima volta, riuscì a identificare esecutori e mandanti mafiosi, forse per le concomitanti indagini di Mani pulite che, scavando nelle corruzioni degli appalti e dei finanziamenti illeciti ai partiti, travolgevano personaggi politici di primo piano, ma non “toccavano” gli aspetti occulti.
Poi vi furono gli attentati del ’93-‘94 (accomunati ai precedenti dalla identica tipica tipologia – di provenienza militare – degli esplosivi utilizzati), i quali, tramite “utili” indicazioni di collaboratori di giustizia mafiosi, vennero definite e qualificate anch’esse, pur se avvenute fuori dalla Sicilia, “di matrice mafiosa”.
Ecco, è in questo contesto storico, che ritengo vadano ricomposte … le giuste luci.
Dal passato al presente.
Passando per l’Addaura: “tra” le ombre… LUCI.

Tratto da: facebook.com

Blog di Beppe Grillo – L’Italia liberata dalla CIA e dalla mafia

Blog di Beppe Grillo – L’Italia liberata dalla CIA e dalla mafia.

I preparativi per l’Unità d’Italia fervono. 150 anni e non li dimostra. Sembra ieri che i francesi ci liberavano a Solferino e che l’esercito sabaudo massacrava decine di migliaia di meridionali. La vera Storia d’Italia non è mai stata scritta. Appartiene a qualche libro, qualche rara testimonianza. L’Italia è un problema metafisico irrisolto. Cos’è? Perché esiste? Da dove viene?Dove sta andando? Il blog inizia da oggi a cercare di dare una risposta. Nicola Biondo ci ricorda che siamo stati liberati dalla CIA e dalla mafia.

1943: Cosa Nostra si fa Stato
Sono Nicola Biondo, sono un giornalista freelance, con Sigfrido Ranucci per Chiare Lettere abbiamo scritto un libro che si intitola “Il patto” abbiamo indagato la trattativa tra Stato e mafia e analizzato i documenti che ci raccontano, come, questa trattativa partita nel 1992/1993 abbia le radici ben piantate nel passato, in quel passato che ha visto gli americani rivolgersi a Cosa Nostra per lo sbarco in Sicilia nel 1943 e che ha consentito a Cosa Nostra di farsi Stato..

Tutto ciò è avvenuto sotto la diretta responsabilità dei servizi segretari americani, dell’Oss, della Cia e ha consentito a Cosa Nostra di diventare quell’esercito della violenza che fino ai giorni nostri può imporre trattative o può scatenare una guerra.
Uno degli argomenti principali per capire com’è stato mai possibile che la banda criminale Cosa Nostra sia diventata così potente nel nostro Paese, abbia conquistato uomini e cose in una porzione molto grande del territorio a sud e abbia iniziato a investire già dalla fine anni 50, primi anni 60 al nord, è capire come mai e com’è stato possibile che Cosa Nostra si sia fatta Stato. E’ una storia che dobbiamo riprendere dal 1941, quando nella cella di uno dei più grandi boss di mafia, Lucky Luciano, a poche decine di chilometri da New York, il boss riceve alcuni ufficiali della marina statunitense. Cosa volevano quegli ufficiali? Volevano che il boss li aiutasse a fare piazza pulita delle spie naziste nel porto di New York. Lucky Luciano riesce non soltanto a prometterlo, ma lo mette in pratica, fa scoprire attraverso i suoi uomini le spie di Hitler nel porto, da lì parte questa storia innominabile anche se ormai conosciuta, la storia incredibile dei rapporti tra i servizi segreti americani e Cosa Nostra. A partire da lì si stringe questo rapporto e attraverso Lucky Luciano e i suoi agganci in Sicilia gli Stati Uniti ottengono le informazioni per operare nel 1943 lo sbarco in Sicilia.
E’ subito dopo lo sbarco in Sicilia che Cosa Nostra si fa Stato, con lo sbarco americano i boss mafiosi diventano amministratori dell’ordine pubblico, alcuni addirittura sindaci, è il vecchio sogno di Cosa Nostra di avere non solo un proprio esercito, ma di dettare legge, lo sbarco americano, l’amministrazione americana lo garantisce. A capo della sezione Italia dell’Oss che poi diventerà la Cia c’è un ragazzo di 27 anni, si chiama James Angleton, quest’ultimo mette in piedi all’interno della sezione Italia, un ristretto nucleo di persone, una dozzina al massimo. Nei documenti ufficiali questo nucleo di persone, che si occuperà solo e esclusivamente della Sicilia, verrà chiamato il cerchio della mafia.
A questo gruppo di 007 che si occupano della Sicilia, si aggiungono anche dei giovani in gamba siciliani, tra questi c’è un nome che ricorrerà poi per altri 40 anni, quello di Michele Sindoma.
In cosa consiste davvero la presenza degli americani in Sicilia? C’è un’informativa, un report dal titolo emblematico: “La mafia combatte il crimine”. Cosa Nostra diventa l’esercito di occupazione, insieme con gli americani, che gestisce l’ordine pubblico, che deve evitare che le masse contadine potessero invadere e fare a pezzi il latifondo, ma la Sicilia non è soltanto una colonna portante nella politica estera, agli sgoccioli della seconda guerra mondiale, è un avamposto dal quale si controlla l’intero Mediterraneo L’Intelligence americana capisce che c’è già un’altra guerra da combattere e è quella contro il comunismo sovietico.


Mafia e neofascismo. Portella delle Ginestre
La saldatura tra uomini di Cosa Nostra a cui viene demandato il compito di controllo sociale, di controllo territoriale, vede l’entrata di un ulteriore segmento di potere, è quello incarnato da alcuni elementi dal neofascismo che seppur sconfitto, come la mafia, viene assoldato in chiave anticomunista, simbolo di questo terzo lato, di questa santa alleanza mafia – servizi americani, è la figura di Juan Valerio Borghese che infatti viene salvato dalla fucilazione da parte dei partigiani da alcuni ufficiali americani.


Insieme con i capi mafia, con le spie americane, con elementi del neofascismo italiano, un altro uomo simbolo di questa santa alleanza è bandito Salvatore Giuliano, la santa alleanza si manifesta in tutto il suo orrore il primo maggio 1947, a Portella delle Ginestre, un commando composto da mafiosi, spie, neofascisti, spara sulla folla che festeggia il primo maggio, la festa del lavoro, tutto ciò accade a poca distanza dalle elezioni regionali che avevano visto il trionfo del blocco popolare di sinistra, il bilancio è di 14 morti e di decine di feriti.
La mafia finisce così assoldata in una sorta di guerra civile contro il latifondo, il voto popolare, la miseria, e Salvatore Giuliano lo si potrebbe definire come un nome collettivo dietro il quale si nascondono strategie, sigle e personaggi lontani anni luce dai volti truci dei mafiosi.
Dietro Giuliano c’è una cerchia di personaggi che vagheggiano una Sicilia nazione autonoma o uno Stato federato agli Stati Uniti, ma soprattutto c’è un progetto preciso, studiato a tavolino dei documenti dell’Oss e poi della Cia, verrà chiamato: “Piano X” che prevede l’assistenza, il finanziamento e l’armamento di movimento anticomunisti, di chiara matrice fascista, affinché promuovano tutte quelle azioni di sabotaggio, di guerriglia e di disturbo, da attribuire al fronte popolare composto da comunisti e socialisti.
Il quadro di questa Santa alleanza viene completato dall’alta borghesia siciliana, da quella nobiltà nera che con l’avvento della Repubblica e delle riforme sociali, non ha alcuna intenzione di perdere il proprio potere.
Ci sono in particolare due esponenti dell’alba borghesia siciliana che raccontano perfettamente questa storia, uno è il principe Giovanni Alliata di Monte Reale, un massone, un fascista e che in seguito verrà coinvolto nello scandalo della loggia P2, secondo alcune testimonianze questo principe sarebbe uno degli ideatori della strage di Portella delle Ginestre, finirà poi in seguito coinvolto anche nei tentativi di golpe avvenuti negli anni 70, ci ritroviamo davanti, come dice il Giudice Roberto Scarpinato, a una lupara proletaria e un cervello borghese.
Un altro importante nome è quello di Vito Guarrasi, il vero dominus della vita politica e economica siciliana per quasi 50 anni, una foto lo immortala nel 1943, appena ventinovenne alla firma dell’armistizio tra Italia e Stati Uniti, a volerlo lì è un importante generale, il generale Castellano, uno degli architetti di quella santa alleanza tra spie, mafia e neofascisti. Molti anni più tardi l’avvocato Guarrasi ammetterà di essere stato in stretti rapporti di stima per ragioni di servizio proprio con l’Oss e poi con la Cia, era una spia.
In quegli anni sono tantissimi i rapporti che indicano come uno degli strumenti usati dalle classi dirigenti italiane e siciliane era la carta del Movimento separatista, una sorta di lega del sud che oggi stiamo rivedendo nel panorama politico, la manovalanza usata a Portella delle Ginestre, viene però presto sacrificata. Giuliano muore in seguito a una trattativa tra la mafia e i Carabinieri che mettono in scena una fiction degna di una serie televisiva, un conflitto a fuoco, assolutamente inesistente in cui il bndito, Salvatore Giuliano assurto come il nemico pubblico N. 1 in Italia, sarebbe stato ucciso, ma non è così!
La storia inventata di un conflitto a fuoco in cui Salvatore Giuliano avrebbe trovato la morte, viene scoperta da un eccezionale giornalista, Tommaso Besozzi, che manda in frantumi la versione ufficiale e scrive un articolo dal titolo chiarissimo, definitivo: “Di sicuro c’è solo che è morto”, di sicuro oggi sappiamo che Salvatore Giuliano è stato tradito, ucciso nel suo letto e portato su un set, dove è stata allestita la sua morte, un conflitto a fuoco inesistente. Aa tradire Giuliano è un suo cugino, Gaspare Pisciotta, che di lì a poco, terrorizzato per i segreti di questo accordo tra lo Stato e Cosa Nostra, deciderà di raccontare tutto al processo per la strage di Portella. Dice Pisciotta una frase che forse è ancora molto, molto attuale: “Banditi, Polizia e mafia sono un corpo solo come il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo”.
Il 9 febbraio 1954 a Gaspare Pisciotta verrà servito un caffè avvelenato e morirà in carcere. E’ da allora, scriverà qualche anno dopo Leonardo Sciascia, che l’Italia diventa un Paese senza verità, anzi viene fuori una regola, che nessuna verità si saprà mai riguardo a fatti criminali, delittuosi in cui ci sia minimamente attinenza con la gestione del potere.
Questa lunga storia che odora di morte, miseria e violenza, questa santa alleanza, non è altro che il frutto avvelenato della guerra al nazifascismo, Portella delle Ginestre è il primo atto terroristico che secondo gli storici fonda la Prima Repubblica, e come la Prima Repubblica è stata fondata sul sangue versato a Portella, la seconda Repubblica nasce sul sangue versato a Capaci e a Via d’Amelio

Gli Stati Uniti e l’Italia
Questa lunga storia di mafia, di colletti bianchi, di spioni e di servizi segreti, la ritroveremo come una costante in tutti i delitti di mafia e in molti atti di terrorismo politico avvenuti in Italia a partire dal 12 dicembre 1969, dalla strage di Piazza Fontana. E’ assolutamente innegabile l’influenza che gli Stati Uniti hanno avuto nelle scelte politiche, sociali e economiche di questo Paese.

è noto che noi abbiamo in Italia moltissime basi americane, al cui interno sono celati ordigni nucleari, noi siamo una sorta di portaerei americana nel cuore del Mediterraneo. E’ passato abbastanza tempo per poter affermare che vi furono pesanti interventi degli Stati Uniti nella vita politica italiana, il primo è quello per le elezioni del 1948, nel 1949 l’Italia fu il primo Paese che usciva sconfitto dalla Seconda Guerra Mondiale a ricostruire i suoi servizi segreti e fu reso possibile su impulso americano, gli americani per tutti gli anni 50 chiesero costantemente ai governi italiani di mettere fuori legge i partiti della sinistra, il PCI e il PSI. Addirittura furono approvate alcune leggi che però non furono mai fino in fondo messe in pratica, una su tutte, anche molto divertente, del 1953 vietata lo strillonaggio dei giornali, quindi i ragazzini che vendevano giornali per esempio di sinistra non potevano annunciare il titolo del giornale nelle vie e nelle piazze. Vii fu un fortissimo controllo da parte degli americani, soprattutto delle zone di confine, in maniera particolare il confine orientale su Trieste e in Friuli. Vi è stato, e probabilmente vi è tutt’ora, un fortissimo controllo sul sistema delle telecomunicazioni.
Il caso più eclatante di coinvolgimento degli americani nelle vicende italiane è sicuramente stato il caso Mattei, la morte di Ernico Mattei che era il capo dell’ENI, l’Ente Nazionale Idrocarburi, che consentiva all’Italia l’approvvigionamento di materie prime, di petrolio, anche quella è ormai una storia che possiamo raccontare.
Enrico Mattei e la sua politica espansionista nella ricerca di materie prime a favore dell’Italia, non era assolutamente vista di buon occhio dagli americani, non potevano consentire che Mattei non solo stringesse accordi con i Paesi del Medio Oriente o che potesse stringere accordi addirittura con l’Unione Sovietica, ma che si espandesse anche in zone come l’Indonesia che era il giardino di casa del dominio americano.
Enrico Mattei muore in un attentato. La giustizia dei tribunali ha provato a portare in aula il caso Mattei, con certezza possiamo dire che in quell’attentato, l’aereo di Mattei fu sabotato, ebbero un ruolo di manovalanza proprio alcuni uomini di Cosa Nostra, l’aereo di Mattei infatti partiva da Catania e doveva atterrare a Milano.
Non sarebbe corretto dire che tutto quello che è successo in Italia, nel bene o nel male, sia stato causato dall’influenza americana. Possiamo dire invece, con buona certezza, che gli americani hanno a un certo punto accettato l’anomalia di un Paese che aveva una forte opposizione comunista e socialista e, allo stesso tempo, un governo come quello della Democrazia Cristiana, che era sì alleato agli Stati Uniti, ma culturalmente molto lontano dal mondo anglosassone e quindi protestante, mentre la Democrazia Cristiana aveva un legame fortissime con l’oltre Tevere, con Città del Vaticano, con la chiesa cattolica. L’anomalia italiana fu accettata solo nella misura in cui l’Italia non avesse voluto diventare una potenza nello scacchiere mondiale, finché si fosse accontentata di essere una potenza a medio raggio si potevano accettare una serie di anomalie. Questo è visibile proprio nella politica energetica di Mattei e poi negli scontri, anche molto duri, che l’Amministrazione americana ha avuto con i governi italiani quando negli anni 70 e 80 i governi italiani hanno direttamente trattato con i Paesi mediorientali per il petrolio. L’orgoglio nazionale di questo Paese viene fuori soltanto quando si tratta della nazionale di calcio e del petrolio.
Senza alcun dubbio vi sono state e vi sono tutt’ora cessioni di quote di sovranità nazionale a favore dell’alleato americano e questo è visibile nel soltanto nel campo militare o nel campo politico, ma è stato anche nel campo scientifico, nella chimica, nella ricerca atomica. Ciò di cui tanto si parla, la fuga dei cervelli dalle università, dalle aziende italiane, è un problema che data agli anni 50. Questo paese è stato terra di conquista, non solo terra di confine, ma soprattutto terra di conquiste per i migliori brevetti italiani come quello della plastica che è stato brevettato in Italia, la plastica fine, quella che usiamo tutti i giorni in casa.
Gli Stati Uniti in un certo senso hanno fatto campagna acquisti in questi campi, nel campo della ricerca scientifica, per esempio nel campo dell’industria, spesso e volentieri rendendo più povero questo Paese.

Le stragi e i tentativi di golpe
Però va anche detto questo, si è spesso parlato del fatto che strutture spionistiche, militari americane abbiano avuto un ruolo nella storia delle stragi italiane, nella storia della strategia della tensione, anche su questo vanno dette delle parole definitive di chiarezza, Ordine nuovo, gruppo terroristico di matrice fascista, resosi responsabile di una serie di atti terroristici in Italia, a partire da Piazza Fontana, ma anche prima e anche dopo, non aveva rapporti diretti con strutture di intelligence americane, gli americani non li pagavano per mettere le bombe, gli americani avevano dei propri uomini all’interno di Ordine nuovo,

esponenti di Ordine nuovo erano fonti degli americani, uno in particolare era un’antenna informativa degli americani e nello stesso tempo l’artificiere di Ordine nuovo, è probabilmente l’uomo che ha confezionato la bomba di Piazza Fontana, del 12 dicembre 1969. Va anche detto che dare responsabilità che non sono emerse giudiziariamente agli americani nel periodo delle stragi, significa anche minimizzare il ruolo di una certa classe dirigente in Italia.
Non possiamo dimenticare che sia la storia di Cosa Nostra, sia la storia di alcuni gruppi terroristici di estrema destra in Italia, quelli che hanno messo tecnicamente e fisicamente le bombe nelle banche, nelle stazioni, è una storia che riguarda le classi dirigenti, il potere di questo Paese. Abbiamo avuto esponenti, troppi, tanti esponenti della classe dirigente italiana che erano pronti a un bagno di sangue e l’hanno messo in pratica, con Piazza Fontana, con Piazza della Loggia, con Bologna, con i tentativi di golpe, anche sui tentativi di golpe va detta una parola di chiarezza. Gli Stati Uniti erano sicuramente a conoscenza, per esempio, del golpe Borghese che avrebbe visto la partecipazione di alcuni importanti uomini di Cosa Nostra. In quel caso la Santa Alleanza che si manifesta a Portella delle Ginestre, la stessa uguale Santa Alleanza si è manifestata con il tentativo del Golpe Borghese.

Le spie americane
Ci sono due casi famosi di spie americane che hanno lavorato in Italia: uno è un caso che ha contorni divertenti, è quello di Ronald Stark che ha una biografia da storia del rock, in effetti Ronald Stark nasce nel mondo del rock psichedelico californiano, si dice che era un caro amico di Jim Morrison. Ronald Stark è anche un grande commerciante di pasticche di Lsd negli anni 60 in tutta la California e poi in Europa.

Stark con questo curriculum di tutto rispetto viene assoldato dalla Cia per una serie di operazioni, una in particolare si chiama operazione Blue Moon che si è realizzata proprio nei confini statunitensi per distruggere la protesta che montava dai campus universitari americani, la protesta contro la guerra nel Vietnam, la Cia decide di finanziare la produzione di milioni e milioni di pasticche di Lsd da immettere nel mercato, sembra fantascienza, ma la storia la raccontano gli stessi documenti della Cia.
Ronald Stark nella prima metà degli anni 70, si trasferisce in Italia, ha dei contatti incredibili, per esempio con il capo del Servizio Segreto Militare Vito Miceli, con Salvo Lima, il pro console andreottiano, è l’uomo di cerniera tra mafia e politica in Sicilia. Viene arrestato per trasferimento di stupefacenti, in carcere entra in contatto con i fondatori delle Brigate Rosse, Curcio e Franceschini, a cui dà una serie di dritte per procurarsi delle armi in alcuni campi di addestramento in Medio Oriente, una storia assolutamente da romanzo. Ronald Stark viene interrogato dai magistrati italiani, questi ultimi gli chiedono chiaramente se lui è della Cia, se lui è una spia americana e lui in maniera assolutamente serafica, ve lo potete immaginare come un classico hippy, capelli lunghi, orecchino e sguardo un po’ allucinato, dice: c’è una legge in America che punisce le spie che ammettono di essere delle spie e si chiude nel suo assoluto silenzio.
Scontati alcuni mesi di pena in carcere viene fatto uscire con uno stratagemma giuridico, portato alla base americana di Camp Derby in Toscana e da lì scompare. e’ stato fatto qualche anno fa un funerale a Ronald Stark, ma secondo alcuni rapporti dei servizi quella bara era vuota, il mistero della vita e della morte di Ronald Stark continua.
Un’altra spia che ha lavorato in Italia per conto degli americani è il milanese Carlo Rocchi, quest’ultimo si è occupato del trasferimento di alcuni importanti gerarchi nazisti in sud America, ha lavorato in centro America, ha lavorato in prima linea in tutte quelle guerre che hanno visto gli Stati Uniti impegnati sia nel centro e nel sud America, sia nel sud est asiatico, Carlo Rocchi lo ritroviamo in un caso di depistaggio delle indagini sulla strage di Piazza Fontana.
In sostanza Rocchi, venuto a sapere che parte delle indagini riguardava uomini di Ordine nuovo in contatto con ufficiali Nato americani di Verona, prova a depistare le indagini e si mette in contatto con un testimone dell’inchiesta, proponendogli di dire cose assolutamente false o indimostrabili. Questo tentativo di depistaggio viene scoperto dal Giudice Salvini, dall’ufficiale dei Carabinieri Massimo Giraudo e Carlo Rocchi viene interrogato e in maniera assolutamente serafica dice: “Perché vi stupite, lavoro per un governo alleato all’Italia, quindi se gli interessi americani vengono “colpiti” da un’inchiesta, sono in diritto di fornire le notizie su questa inchiesta agli americani“.
E’ una buffonata ovviamente ed è un reato quello che ha compiuto Carlo Rocchi. Il suo nome verrà anche fuori per quanto riguarda l’inchiesta Mani Pulite, questa è un’altra grande domanda che ci si è sempre fatti, ci sono stati centri di potere occulto, i Servizi Segreti che hanno agito sull’inchiesta contro la corruzione che sono state fatte in Italia, Carlo Rocchi per esempio prova a carpire informazioni a alcuni magistrati della Procura di Milano, il suo nome finisce in uno strano e mai fino in fondo indagato progetto di attentato al giudice D’Ambrosio che era il vice di Borrelli alla Procura di Milano. Carlo Rocchi sicuramente era uno di quegli agenti americani che in Italia ha lavorato sempre in prima linea, sotto copertura e con strettissimi legami con i servizi segreti italiani, anche andando in alcuni casi ben oltre la legge.

Sovranità nazionale e FMI

L’influenza americana nelle vicende italiane è innegabile, oggi però nel momento in cui si parla di cessione di quote di sovranità nazionale, il problema non è più il rapporto, non è più solo il rapporto tra l’Italia e gli Stati Uniti, o tra l’Italia e la Russia, o l’Italia e la Cina, il problema è un altro.

L’influenza americana nelle vicende italiane è innegabile, oggi però nel momento in cui si parla di cessione di quote di sovranità nazionale, il problema non è più il rapporto, non è più solo il rapporto tra l’Italia e gli Stati Uniti, o tra l’Italia e la Russia, o l’Italia e la Cina, il problema è un altro. Ci sono istituzioni finanziarie internazionali che come la Nato nel passato, nel campo militare e politico, oggi hanno un’enorme forza nel sottrarre potere alle istituzioni democratiche, in particolare mi riferisco al Fondo Monetario Internazionale (FMI). E’ di questi giorni la notizia che la Grecia non vuole rivolgersi per un prestito, per la sua fragilissima economia ormai al default, all’FMI. Questo è un punto che andrebbe affrontato perché farsi prestare dei soldi dall’FMI, significherebbe dare in gestione parte della vita economica dei cittadini di quello Stato, significherebbe appaltare le scelte di politica fiscale a un’istituzione che non è stata eletta da nessuno e all’interno della quale gli americani hanno un ruolo evidentemente predominante, quindi la cessione di quote di sovranità internazionale, ormai, è qualcosa che avviene con modalità molto diverse che nel passato e direi quasi senza spargimento di sangue, fino a quando non si arriva al default economico totale. com’è avvenuto in Argentina.

Il Presidente e il latitante – Peter Gomez – Voglio Scendere

Fonte: Il Presidente e il latitante – Peter Gomez – Voglio Scendere.

di Peter Gomez

Pubblico qui di seguito un pezzo scritto da me e da Gianni Barbacetto sui rapporti tra Bettino Craxi, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e la corrente migliorista del partito comunista. È un tema storico-politco importante che nessun giornale, a parte Il Fatto Quotidiano, ha voluto affrontare. Mi piacerebbe conoscere che cosa sapevate di tutto questo e cosa ne pensate, soprattutto alla luce della lettera del Presidente alla vedova di Craxi. PG

Napolitano e i suoi miglioristi, così lontani e così vicini a Craxi

“Non dimentico il rapporto che fin dagli anni Settanta ebbi con lui… Si trattò di un rapporto franco e leale, nel dissenso e nel consenso che segnavano le nostre discussioni e le nostre relazioni”. “Lui” è Bettino Craxi. E chi “non dimentica” è Giorgio Napolitano, oggi Presidente della Repubblica. Nella sua lettera inviata alla vedova di Craxi a dieci anni dalla morte del segretario del Psi, il capo dello Stato sostiene che, nel “vuoto politico” dei primi anni Novanta, avvenne “un conseguente brusco spostamento degli equilibri nel rapporto tra politica e giustizia”. A farne le spese fu soprattutto il leader socialista, per il peso delle contestazioni giudiziarie, “caduto con durezza senza eguali sulla sua persona”.

Il rapporto tra Craxi e Napolitano fu lungo, intenso e alterno. Naufragò nel 1994, quando Bettino inserì Napolitano nella serie “Bugiardi ed extraterrestri”, un’opera a metà tra la satira politica e l’arte concettuale. Ma era iniziato, appunto, negli anni Settanta, quando il futuro capo dello Stato si era proposto di fare da ponte tra l’ala “riformista” del Pci e il Psi. Negli Ottanta, Napolitano rappresentò con più forza l’opposizione interna, filo- socialista, al Pci di Enrico Berlinguer: proprio nel momento in cui questi propose la centralità della “questione morale”. Intervenne contro il segretario nella Direzione del 5 febbraio 1981, dedicata ai rapporti con il Psi, e poi ribadì il suo pensiero in un articolo sull’Unità, in cui criticò Berlinguer per il modo in cui aveva posto la “questione morale e l’orgogliosa riaffermazione della nostra diversità”.

È in quel periodo che la vicinanza tra Craxi e Napolitano sembra cominciare a farsi più forte. Tanto che nel 1984, il futuro presidente appoggia, contro il Pci e la sinistra sindacale, la politica del leader socialista sul costo del lavoro. Il mondo, del resto, sta cambiando. E in Italia, a partire dal 1986, cambiano anche le modalità di finanziamento utilizzate dai comunisti. I soldi che arrivano dall’Unione Sovietica sono sempre di meno. E così una parte del partito – come raccontano le sentenze di Mani pulite e numerosi testimoni – accetta di entrare nel sistema di spartizione degli appalti e delle tangenti. La prova generale avviene alla Metropolitana di Milano (MM), dove la divisione scientifica delle mazzette era stata ideata da Antonio Natali, il padre politico e spirituale di Craxi. Da quel momento alla MM un funzionario comunista, Luigi Miyno Carnevale, ritira come tutti gli altri le bustarelle e poi le gira ai superiori. In particolare alla cosiddetta “corrente migliorista”, quella più vicina a Craxi, che “a livello nazionale”, si legge nella sentenza MM, “fa capo a Giorgio Napolitano”. E ha altri due esponenti di spicco in Gianni Cervetti ed Emanuele Macaluso.
Per i “miglioristi” Mani Pulite è quasi un incubo: a Milano molti dei loro dirigenti vengono arrestati e processati per tangenti. Tutto crolla. Anche il loro settimanale, Il Moderno, diretto da Lodovico Festa e finanziato da alcuni sponsor molto generosi: Silvio Berlusconi, Salvatore Ligresti, Marcellino Gavio, Angelo Simontacchi della Torno costruzioni. Imprenditori che sostenevano il giornale – secondo i giudici – non “per una valutazione imprenditoriale”, ma “per ingraziarsi la componente migliorista del Pci, che in sede locale aveva influenza politica e poteva tornare utile per la loro attività economica”. Il processo termina nel 1996 con un’assoluzione. Ma poi la Cassazione annulla la sentenza e stabilisce: “Il finanziamento da parte della grande imprenditoria si traduceva in finanziamento illecito al Pci-Pds milanese, corrente migliorista”. La prescrizione porrà comunque fine alla vicenda.

Più complessa la storia dei “miglioristi” di Napoli, che anche qui hanno problemi con il metrò. L’imprenditore Vincenzo Maria Greco, legato al regista dell’operazione, Paolo Cirino Pomicino, nel dicembre 1993 racconta ai pm che nell’affare è coinvolto anche il Pci napoletano: il primo stanziamento da 500 miliardi di lire, nella legge finanziaria, “vide singolarmente l’appoggio anche del Pci”. E lancia una velenosa stoccata contro il leader dei miglioristi: “Pomicino ebbe a dirmi che aveva preso l’impegno con il capo-gruppo alla Camera del Pci dell’epoca, onorevole Giorgio Napolitano, di permettere un ritorno economico al Pci… Mi spiego: il segretario provinciale del Pci dell’epoca era il dottor Umberto Ranieri, attuale deputato e membro della segreteria nazionale del Pds. Costui era il riferimento a Napoli dell’onorevole Napolitano. Pomicino mi disse che già riceveva somme di denaro dalla società Metronapoli… e che si era impegnato con l’onorevole Napolitano a far pervenire una parte di queste somme da lui ricevute in favore del dottor Ranieri”.
Napolitano, diventato nel frattempo presidente della Camera, viene iscritto nel registro degli indagati: è un atto dovuto, che i pm di Napoli compiono con grande cautela, secretando il nome e chiudendo tutto in cassaforte. Pomicino, però, smentisce ameno in parte Greco, negando di aver versato soldi di persona a Ranieri e sostenendo di aver saputo delle mazzette ai comunisti dall’ingegner Italo Della Morte, della società Metronapoli, ormai deceduto: “Mi disse che versava contributi anche al Pci. Tutto ciò venne da me messo in rapporto con quanto accaduto durante l’approvazione della legge finanziaria… Il gruppo comunista capitanato da Napolitano ebbe a votare l’approvazione di tale articolo di legge, pur votando contro l’intera legge finanziaria”.
Napolitano reagisce con durezza: “Come ormai è chiaro, da qualche tempo sono bersaglio di ignobili invenzioni e tortuose insinuazioni prive di qualsiasi fondamento. Esse vengono evidentemente da persone interessate a colpirmi per il ruolo istituzionale che ho svolto e che in questo momento sto svolgendo. Valuterò con i miei legali ogni iniziativa a tutela della mia posizione”.

Alla fine, l’inchiesta finirà con un’archiviazione per tutti. Anche Craxi, quasi al termine della sua avventura politica in Italia, aggiungerà una sua personale stoccata a Napolitano. Nel suo interrogatorio al processo Cusani, il 17 dicembre 1993, dirà, sotto forma di domanda retorica: “Come credere che il presidente della Camera, onorevole Giorgio Napolitano, che è stato per molti anni ministro degli Esteri del Pci e aveva rapporti con tutta la nomenklatura comunista dell’Est a partire da quella sovietica, non si fosse mai accorto del grande traffico che avveniva sotto di lui, tra i vari rappresentanti e amministratori del Pci e i paesi dell’Est? Non se n’è mai accorto?”. Fu la brusca fine di un dialogo durato due decenni. E riannodato oggi con la lettera inviata da Napolitano alla moglie dell’antico compagno socialista.

ComeDonChisciotte – PERCHE’ LO STATO NON PUO’ RIABILITARE CRAXI

Fonte: ComeDonChisciotte – PERCHE’ LO STATO NON PUO’ RIABILITARE CRAXI.

DI MASSIMO FINI
gazzettino.it

Puntualmente all’avvicinarsi dell’anniversario della morte di Bettino Craxi si parla di riabilitazione Per la verità Craxi è già stato riabilitato dallo Stato. Anni fa il presidente della Camera, Marcello Pera, si recò sulla sua tomba, ad Hammamet, per onorarne la memoria. Quest’anno vi si recherà mezzo governo e il sindaco Letizia Moratti vuole dedicargli una piazza anche se l’80% dei milanesi si è detto contrario. Ora, chiunque può riabilitare Craxi tranne lo Stato italiano. Perché in tal modo delegittima se stesso dato che la Magistratura ha sanzionato che Craxi è un delinquente condannandolo a più di dieci anni di reclusione e la Magistratura, checché ne pensi Berlusconi è una parte dello Stato. Anche l’andazzo di definirlo, invece che “latitante”, “esule”, come Gobetti, Pertini, è una delegittimazione dello Stato italiano perché lo equipara a uno Stato fascista (ma se era fascista quando Craxi era “esule” allora lo era anche quando lo governava). Inoltre riabilitare istituzionalmente Craxi sancisce ufficialmente che è stato giusto rubare i quattrini agli italiani dato che questo fecero Craxi e tangentisti (il solo “emerso” di Tangentopoli è costato al nostro Paese 30 mila miliardi, un quarto del debito pubblico, cose di cui paghiamo ancora oggi le conseguenze, sulle pensioni, sulle tasse).

Diversa cosa è il giudizio politico. Anche un lestofante può avere meriti politici. Quelli di Craxi riguardano soprattutto il Psi. Fu lui a togliere al partito socialista il notorio “inferiority complex” nei confronti del Pci, a disancorarlo verso un pragmatismo da partito socialdemocratico europeo. Ma questo buon lavoro non è servito a niente se oggi il Partito socialista non esiste più. E comunque siano andate le cose la responsabilità non può che ricadere sul gruppo dirigente (Craxi, Martelli, De Michelis), che peraltro non se l’è mai riconosciuta. Inoltre sotto Craxi si verificano alcune mutazioni antropologiche del Psi. Si afferma il “culto del Capo”, estraneo alla tradizione socialista, si azzera il dibattito interno, ma soprattutto cambia il bacino sociale del partito. Il Psi nasce come partito degli “umiliati e offesi, dei deboli, dei perdenti. Ora, è chiaro che gli “umiliati e offesi” possono cambiare, non sono più necessariamente gli operai ma magari i ceti medi ma certamente un partito socialista non può essere il partito dei “vincenti”, degli emergenti, degli stilisti, delle damazze, delle favorite di regime, insomma il partito dei “nani e delle ballerine” come lo bollò il compagno Formica. Per l’Italia Craxi fece la battaglia, sacrosanta, contro “il punto unico di contingenza”, contro il “salario come variabile indipendente”. Ma con quello che hanno grassato lui, i suoi amici e il sistema dei partiti, avremmo potuto permetterci il “punto unico” fino al Tremila.

Sotto l’aspetto umano la burbanza di Craxi derivava, inizialmente, da una chiusa e diffidente timidezza. Ma poi, col potere, divenne insieme al suo “decisionismo”, arroganza, prepotenza, spudorataggine, violenza. E in questo Craxi è il precursore di Berlusconi. In ogni caso Craxi diventa indifendibile, anche umanamente, quando, dopo tanti atteggiamenti da gradasso, fugge vilmente dall’Italia, “per paura della prigione” come mi disse Ugo Intini, e non riconosce le istituzioni e le leggi del paese di cui pur era stato presidente del Consiglio, gettandovi sopra calate di fango, e delegittimando così anche se stesso come presidente del Consiglio.

Massimo Fini (www.massimofini.it)
Fonte: http://www.gazzettino.it/
15.01.2010

Antimafia Duemila – Quegli incontri [di Craxi] con la P2

Antimafia Duemila – Quegli incontri con la P2.

di Gianni Barbacetto – 2 gennaio 2010
La trattativa che il segretario del Psi iniziò con Gelli e i suoi uomini per mantenere la leadership.

Avrà anche commesso qualche errore, per finanziare il partito, ma fu uno statista. Anzi, “il più grande statista della fine del ventesimo secolo” (Gianni De Michelis). Un grande riformatore, stroncato proprio per questo da “una rivolta di palazzo” (Rino Formica). Per riabilitare Bettino Craxi, dedicandogli tanto per cominciare una via a Milano, si sta tentando una doppia rimozione: non solo dei reati commessi e delle condanne subite, ma anche della verità sulla sua storia politica. Ma davvero Craxi fu un grande statista e un coraggioso riformista? Per rispondere, bisogna guardare con disincanto soprattutto al biennio 1979-80, quello in cui Bettino abbandona definitivamente i suoi progetti mitterrandiani – questi sì innovativi per l’Italia – di conquistare la leadership della sinistra, far crescere una grande forza riformista, democratica, libertaria, non comunista, e poi battere la   Dc. Dimenticato il “Progetto socialista” del congresso di Torino, accetta invece la spartizione di potere con il peggio della Dc, sancita poi dalla nascita del Caf, il patto Craxi-Andreotti-Forlani. All’ombra di una regia sotterranea ma potente: quella della loggia P2.

Nel 1979, dopo tre anni alla guida del partito, Craxi non è riuscito a riequilibrare i rapporti di forza a sinistra. Ed è insidiato anche dentro il Psi: da una sinistra interna composita, che va dai rinnovatori di Antonio Giolitti ai più pragmatici sostenitori di Claudio Signorile, pronti a sfilargli la segreteria (Bettino in un comitato centrale del 1980 la manterrà solo per un voto, perché convincerà De Michelis a tradire il suo fronte e a passare con lui). Craxi si sente insomma attaccato in casa e fuori. Quando poi intuisce che Signorile sta per essere segretamente finanziato, insieme alla Dc andreottiana   , da una supertangente Eni, capisce che deve correre rapidamente ai ripari. Abbandona i bei propositi dell’“Alternativa socialista” e gli intellettuali di Mondoperaio e comincia un intenso lavorio tutto dentro i più segreti ambulacri del potere italiano.

Nel 1979 incontra per la prima volta Licio Gelli, mentre i suoi colonnelli, Claudio Martelli e Rino Formica, iniziano con gli uomini della P2 una lunga trattativa su potere, soldi e informazione. Craxi nel 1994 ammette l’incontro: “Quando il tentativo di estromettermi dalla guida del partito tra la fine del ’79 e l’inizio dell’80 non riuscì per un solo voto, Gelli cercò di prendere contatto con me. Vanni Nisticò (piduista, allora capo ufficio stampa del Psi, ndr) mi presentò Gelli e l’incontro si svolse nella mia suite all’Hotel Raphael”. Argomenti trattati: il riavvicinamento tra Craxi e Andreotti. Solo politica? No, c’è una questione più concreta che   preoccupa Bettino: il timore che stiano per arrivare finanziamenti al suo avversario interno, Signorile. È la vicenda passata alla storia come scandalo Eni-Petromin. L’azienda petrolifera italiana, presieduta da Giorgio Mazzanti, aveva stipulato con l’azienda di Stato saudita, la Petromin, un vantaggioso contratto per la fornitura di petrolio. Ma Craxi e Formica si mettono di traverso, perché con il loro formidabile olfatto sentono   odore di tangenti, tangenti da cui sono esclusi: una “intermediazione” di almeno 200 milioni di dollari, da cui avrebbero poi attinto la Dc andreottiana ma anche Signorile, a cui Mazzanti faceva riferimento.

Formica, allora segretario amministrativo del Psi, si scatena. Incontra più volte il dirigente piduista Umberto Ortolani. Il 21 maggio 1979 gli dice: “Dì ai tuoi amici che noi socialisti non abbiamo alcuna intenzione di rimanere fuori da questo affare”. Dopo mesi frenetici e trattative oscure, la storia arriva all’epilogo il 15 marzo 1980: Mazzanti si dimette dalla presidenza dell’Eni e il contratto Eni-Petromin, dopo una prima fornitura, viene sospeso. Meno di un mese dopo, il 5 aprile, Francesco Cossiga vara il suo nuovo governo, con il Psi che rientra nella maggioranza dopo sei anni d’assenza. Un governo prova generale del Caf, con tre ministri e cinque sottosegretari iscritti alla P2.

Eliminato Mazzanti, l’uomo di riferimento di Craxi dentro l’Eni diventa il vicepresidente Leonardo Di Donna. Già a partire dalla seconda metà del 1980, l’Eni foraggia generosamente Bettino: è la storia del conto Protezione. L’Eni concede un deposito di 50 milioni di dollari al Banco Andino di Roberto Calvi (inutile dire che sia Di Donna, sia Calvi sono iscritti alla P2). E il “banchiere di Dio” gira al segretario socialista una percentuale, 7 milioni di dollari in due tranche, sul conto Ubs di Lugano 633369 “Protezione”, fornito a Bettino dall’amico Silvano Larini e annotato su un biglietto da Claudio Martelli.

Gelli sostiene di aver avuto lui l’idea della triangolazione Eni-Ambrosiano-Psi, e di averla esposta a Bettino durante il secondo incontro, che avviene nella primavera del 1980 nell’abitazione romana di Martelli. Il vice di Craxi, che era allora responsabile della cultura e informazione del Psi, aveva   già più volte incontrato il Venerabile all’Hotel Excelsior: per chiedere che il Corriere, nelle mani della P2, trattasse meglio il Psi; ma anche per risolvere il problema dell’enorme debito (21 milioni di dollari) che il partito aveva nei confronti dell’Ambrosiano di Calvi. Ottiene subito i risultati sperati. Il Corriere diventa più favorevole a Craxi, fino a pubblicare, il 30 ottobre 1979, un’agiografica intervista, non firmata, che scatena le proteste del comitato di redazione contro il direttore (“Ha premesso all’intervistato di farsi da solo domande e risposte”). E arrivano anche i soldi: quelli del conto Protezione, ma pure 300 milioni dalla Rizzoli e l’aereo privato dell’azienda a disposizione di Martelli.

Craxi è citato anche nel “Piano di rinascita democratica”, che prevede di “selezionare gli uomini ai quali può essere affidato il compito di promuovere la rivitalizzazione di ciascuna rispettiva parte politica”: per la Dc, il “Piano” segnala, tra gli altri, Andreotti e Forlani; per il Psi indica Craxi. Prevede poi di “affidare ai prescelti gli strumenti finanziari sufficienti a permettere loro di acquisire il predominio nei rispettivi partiti”. L’interesse della P2 per Craxi aumenta dopo il settembre 1979, quando Bettino lancia la sua “grande riforma”, che prevede il presidenzialismo: Craxi viene allora indicato da Gelli come l’uomo che può realizzare il “Piano di rinascita” e a cui va garantito sostegno politico, mediatico e finanziario.

Craxi lo “statista” continua la strada intrapresa nel 1980 anche dopo la scoperta delle liste   P2. Ha ormai imparato il metodo. Accanto al conto Protezione, ha via via aperto una ragnatela di conti da Vaduz fino a Hong Kong. Il sistema delle tangenti diventa scientifico, totale. E Craxi, riformista senza riforme e statista senza senso dello Stato, è ormai uno dei pilastri di Tangentopoli. Fino al fatidico 1992 di Mani pulite.

Tratto da: Il Fatto Quotidiano

Antonio Di Pietro: Il bottino di Bettino: come e quanto rubava

Fonte: Antonio Di Pietro: Il bottino di Bettino: come e quanto rubava.

Articolo di Marco Travaglio pubblicato su “il Fatto Quotidiano” di oggi a pagina 6. Ogni commento è superfluo, buona lettura.

Al momento della morte, nel gennaio del 2000, Bettino Craxi era stato condannato in via definitiva a 10 anni per corruzione e finanziamento illecito (5 anni e 6 mesi per le tangenti Eni-Sai; 4 anni e 6 mesi per quelle della Metropolitana milanese). Altri processi furono estinti “per morte del reo”: quelli in cui aveva collezionato tre condanne in appello a 3 anni per la maxitangente Enimont (finanziamento illecito), a 5 anni e 5 mesi per le tangenti Enel (corruzione), a 5 anni e 9 mesi per il conto Protezione (bancarotta fraudolenta Banco Ambrosiano); una condanna in primo grado prescritta in appello per All Iberian; tre rinvii a giudizio per la mega-evasione fiscale sulle tangenti, per le mazzette della Milano-Serravalle e della cooperazione col Terzo Mondo.
Nella caccia al tesoro, anzi ai tesori di Craxi sparsi per il mondo tra Svizzera, Liechtenstein, Caraibi ed Estremo Oriente, il pool Mani Pulite ha accertato introiti per almeno 150 miliardi di lire, movimentati e gestiti da vari prestanome: Giallombardo, Tradati, Raggio, Vallado, Larini e il duo Gianfranco Troielli & Agostino Ruju (protagonisti di un tourbillon di conti e operazioni fra HongKong e Bahamas, tuttora avvolti nel mistero per le mancate risposte alle rogatorie).

Finanziamenti per il Psi?
No, Craxi rubava soprattutto per sé e i suoi cari. Principalmente su quattro conti personali: quello intestato alla società panamense Constellation Financière presso la banca Sbs di Lugano; il Northern Holding 7105 presso la Claridien Bank di Ginevra; quello intestato a un’altra panamense, la International Gold Coast, presso l’American Express di Ginevra; e quello aperto a Lugano a nome della fondazione Arano di Vaduz. “Craxisi legge nella sentenza All Iberian confermata in Cassazione – è incontrovertibilmente responsabile come ideatore e promotore dell’apertura dei conti destinati alla raccolta delle somme versategli a titolo di illecito finanziamento quale deputato e segretario esponente del Psi. La gestione di tali conti… non confluiva in quella amministrativa ordinaria del Psi, ma veniva trattata separatamente dall’imputato tramite suoi fiduciari… Significativamente Craxi non mise a disposizione del partito questi conti”.
Su Constellation Financiere e Northern Holding – conti gestiti dal suo compagno di scuola Giorgio Tradati – riceve nel 1991-‘92 la maxitangente da 21 miliardi versata da Berlusconi dopo la legge Mammì. Sul Northern Holding incassa almeno 35 miliardi da aziende pubbliche, come Ansaldo e Italimpianti, e private, come Calcestruzzi e Techint.

Nel 1998 la Cassazione dispone il sequestro conservativo dei beni di Craxi per 54 miliardi. Ma nel frattempo sono spariti. Secondo i laudatores, Craxi fu condannato in base al teorema “non poteva non sapere”. Ma nessuna condanna definitiva cita mai quell’espressione. Anzi la Corte d’appello di Milano scrive nella sentenza All Iberian poi divenuta definitiva: “Non ha alcun fondamento la linea difensiva incentrata sul presunto addebito a Craxi di responsabilità di ‘posizione’ per fatti da altri commessi, risultando dalle dichiarazioni di Tradati che egli si informava sempre dettagliatamente dello stato dei conti esteri e dei movimenti sugli stessi compiuti”.

Tutto era cominciato “nei primi anni 80” quando – racconta Tradati a Di Pietro – “Bettino mi pregò di aprirgli un conto in Svizzera. Io lo feci, alla Sbs di Chiasso, intestandolo a una società panamense (Constellation Financière, ndr). Funzionava cosí: la prova della proprietà consisteva in una azione al portatore, che consegnai a Bettino. Io restavo il procuratore del conto”. Su cui cominciano ad arrivare “somme consistenti”: nel 1986 ammontano già a 15 miliardi.
Poi il deposito si sdoppia e nasce il conto International Gold Coast, affiancato dal conto di transito Northern Holding, messo a disposizione dal funzionario dell’American Express, Hugo Cimenti, per rendere meno identificabili i versamenti. Anche lí confluiscono ben presto 15 miliardi.
Come distinguere i versamenti per Cimenti da quelli per Tradati, cioè per Craxi?

“Per i nostri – risponde Tradati – si usava il riferimento ‘Grain’. Che vuol dire grano”. Poi esplode Tangentopoli. “Il 10 febbraio ‘93 Bettino mi chiese di far sparire il denaro da quei conti, per evitare che fossero scoperti dai giudici di Mani pulite. Ma io rifiutai e fu incaricato qualcun altro (Raggio, ndr): so che hanno comperato anche 15 chili di lingotti d’oro… I soldi non finirono al partito, a parte 2 miliardi per pagare gli stipendi”.
Raggio va in Svizzera, spazzola il bottino di Bettino e fugge in Messico con 40 miliardi e la contessa Vacca Agusta. I soldi finiscono su depositi cifrati alle Bahamas, alle Cayman e a Panama.
Che uso faceva Craxi dei fondi esteri? “Craxi – riepilogano i giudici – dispose prelievi sia a fini di investimento immobiliare (l’acquisto di un appartamento a New York), sia per versare alla stazione televisiva Roma Cine Tv (di cui era direttrice generale Anja Pieroni, legata a Craxi da rapporti sentimentali) un contributo mensile di 100 milioni di lire. Lo stesso Craxi, poi, dispose l’acquisto di una casa e di un albergo [l’Ivanohe] a Roma, intestati alla Pieroni”. Alla quale faceva pure pagare “la servitú, l’autista e la segretaria”.
Alla tv della Pieroni arrivarono poi 1 miliardo da Giallombardo e 3 da Raggio. Craxi lo diceva sempre, a Tradati: “Diversificare gli investimenti”.
Tradati eseguiva: “Due operazioni immobiliari a Milano, una a Madonna di Campiglio, una a La Thuile”. Bettino regalò una villa e un prestito di 500 milioni per il fratello Antonio (seguace del guru Sai Baba).

E il Psi, finito in bolletta per esaurimento dei canali di finanziamento occulto? “Raggio ha manifestato stupore per il fatto che, dopo la sua cessazione dalla carica di segretario del Psi, Craxi si sia astenuto dal consegnare al suo successore i fondi contenuti nei conti esteri”.
Anche Raggio vuota il sacco e confessa di avere speso 15 miliardi del tesoro craxiano per le spese della sua sontuosa latitanza in Messico.

E il resto?
Lo restituì a Bettino, oltre ad acquistargli un aereo privato Sitation da 1,5 milioni di dollari e a disporre –scrivono i giudici– “bonifici specificatamente ordinati da Craxi, tutti in favore di banche elvetiche, tranne che per i seguenti accrediti: 100.000 dollari al finanziere arabo Zuhair AlKatheeb” e 80 milioni di lire(«$ 40.000/s. Fr. 50.000 Bank of Kuwait Lnd») per “un’abitazione affittata dal figlio di Craxi (Bobo, ndr) in Costa Azzurra”, a Saint-Tropez, “per sottrarlo – spiega Raggio – al clima poco favorevole creatosi a Milano”.
Anche Bobo, a suo modo, esule.

Quando i difensori di Craxi ricorrono davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo, nella speranza di ribaltare la condanna Mm, vengono respinti con perdite. “Non è possibile – scrivono i giudici di Strasburgo il 31 ottobre 2001 – pensare che i rappresentanti della Procura abbiano abusato dei loro poteri”. Anzi, l’iter dibattimentale “seguí i canoni del giusto processo” e le proteste dell’imputato sulla parzialità dei giudici “non si fondano su nessun elemento concreto… Va ricordato che il ricorrente è stato condannato per corruzione e non per le sue idee politiche”.

‘Io boss, cercai di salvare Moro’ | L’espresso

‘Io boss, cercai di salvare Moro’ | L’espresso.

di Riccardo Bocca – 22 settembre 2009
Il pentito della ‘ndrangheta Francesco Fonti rivela come, dietro richiesta di parte della Dc, cercò la prigione di Aldo Moro durante il suo rapimento: dai contatti con il Sismi a quelli con la banda della Magliana e Cosa Nostra. Fino all’incontro con il segretario Dc Benigno Zaccagnini. Tutto lavoro inutile…

Si chiama Francesco Fonti, e il suo nome in queste settimane rimbalza tra giornali e televisioni. Grazie al dossier che ha consegnato alla Direzione nazionale antimafia, pubblicato da “L’espresso” nel 2005, i magistrati della Procura di Paola e la regione Calabria hanno individuato il 12 settembre scorso, al largo della costa cosentina, il relitto di un mercantile carico di bidoni: il primo passo verso una verità che riguarda il traffico internazionale di scorie tossiche e radioattive. Un intreccio tra politica, servizi segreti e malavita organizzata.”Soltanto un aspetto, per quanto grave, della mia attività”, lo definisce Fonti (condannato a 50 anni di carcere, prima di iniziare la collaborazione con i giudici). E sempre Fonti, in queste ore delicate, decide di rivelare al nostro giornale un altro capitolo della sua vita criminale: il ruolo che avrebbe avuto nel tentativo di salvare la vita al presidente della Democrazia cristiana, Aldo Moro, rapito il 16 marzo 1978 dalle Brigate Rosse e trovato morto nel centro di Roma il 9 maggio seguente. Un compito, dice, affidatogli dal boss Sebastiano Romeo, dietro richiesta di una parte della Dc. Ecco il drammatico racconto, in prima persona, di quelle tre settimane.

“Il mattino del 20 marzo 1978 si presenta nel mio appartamento a Bovalino, sulla costa jonica in provincia di Reggio Calabria, Giuseppe Romeo, fratello del boss Sebastiano che in quel momento è al vertice della famiglia di San Luca: “Sebastiano ti vuole incontrare immediatamente”, dice Giuseppe. E sono parole che non prevedono repliche. Sebastiano non è soltanto il mio capo, ma anche uno degli uomini più potenti della ‘ndrangheta. Dunque non discuto e obbedisco, ritrovandomi poco dopo seduto al tavolo ovale del suo salone. Sono preoccupato, non so cosa aspettarmi, ma lui non perde tempo: “Ciccio, hai visto questa brutta storia di Aldo Moro?”, dice. “Ecco, dobbiamo intervenire. Devi salire di corsa a Roma. Devi individuare, tramite i nostri paesani e i contatti che hai con questi cazzi di servizi segreti, dove si nascondono i brigatisti che hanno rapito il presidente”.

Non mi lascia aprire bocca, Sebastiano. È innervosito dall’allarme nazionale procurato dal caso Moro, un clamore che sta disturbando gli affari della nostra organizzazione. “Ho ricevuto pressioni a due livelli”, spiega: “Mi hanno chiamato Riccardo Misasi e Vito Napoli (figure di spicco della Democrazia cristiana calabrese, ndr), ma anche certi personaggi da Roma…”. Non precisa chi sono, queste persone. Ribadisce, invece, che la missione è di importanza straordinaria, e non avrebbe accettato un mio fallimento.

Con questa premessa parto per la Capitale il giorno dopo. Salgo sulla mia Renault 5 Alpine grigia metallizzata e scarico i bagagli all’hotel Palace di via Nazionale, dove ho già soggiornato e dove consegno documenti falsi intestati a un inesistente Michele Sità. Poi mi metto in contatto con un agente del Sismi che si fa chiamare Pino: un trentenne atletico, alto circa un metro e ottanta, con capelli corti pettinati all’indietro. L’ho conosciuto anni prima tramite Guido Giannettini, il quale ha cercato di blandirmi per ottenere informazioni sulla gerarchia interna della ‘ndrangheta. Visto il solido rapporto tra me e Pino, gli chiedo cosa sappiano i servizi del caso Moro, e se abbiano scoperto dove si trovano i carcerieri delle Br. Lui risponde vago, dicendo che è una storiaccia, e che neppure lui è riuscito a capire come stiano le cose. In compenso, mi invita a parlare con il segretario della Democrazia cristiana Benigno Zaccagnini, il quale sta lavorando sotto traccia per aiutare Moro. Un’ipotesi diventata, poche ore dopo, un vero appuntamento.

Al termine di una giornata convulsa (durante un ultimo controllo alla Fiat 130 su cui viaggiava Moro, è stata trovata una terza borsa non elencata nel verbale della prima perquisizione) rivedo infatti l’agente Pino, che nel frattempo ha parlato con Zaccagnini. E mi dice di presentarmi il giorno dopo, alle 10 della mattina, al Café De Paris di via Veneto. Specificando: “In mano devi tenere la “Gazzetta del sud””, di cui mi consegna una copia. “In questo modo, il segretario ti riconoscerà facilmente”.

Il mattino del 22 marzo, mentre al Viminale si riunisce il Comitato tecnico operativo gestito dal ministro dell’Interno Francesco Cossiga, arrivo puntuale all’appuntamento. Mi siedo a un tavolino nel dehors del Cafè de Paris, e aspetto circa dieci minuti. Dopodiché arriva il segretario Zaccagnini: dà un’occhiata attorno, mi individua e si accomoda di fronte a me. Forse, penso, ha qualche indicazione chiave da riferirmi. Ma non è così: “È un brutto momento per la coscienza di tutto il mondo politico”, inizia senza neppure avermi detto buongiorno. Si vede che è imbarazzato, e irritato, per essere costretto a incontrare uno come me. “Mi creda”, prosegue, “non avrei mai immaginato un giorno di sedermi davanti a lei in qualità di petulante. Non sono mai sceso a compromessi, ma se sono venuto a incontrarla, significa che il sistema sta cambiando. Faccia in modo che quella di oggi non sia stata una perdita di tempo, ma piuttosto una svolta decisiva. Ci dia una mano e la Dc, di cui mi faccio garante, saprà sdebitarsi”. Poi sorseggia un sorso d’acqua, si alza per andarsene e aggiunge: “Noi non ci siamo mai incontrati… Se ci saranno notizie che vorrà darmi di persona, le dirà all’agente Pino”.

La mia risposta, visto l’atteggiamento scostante del segretario, è gelida. Mi limito a comunicargli che mi sono attivato per recuperare le informazioni utili. E aggiungo: “Sicuramente le nostre ricerche saranno fruttuose, e le saranno comunicate da me in prima persona”. Parole che pronuncio con convinzione. Non posso sapere che questa sarà la prima e unica volta che incontrerò Benigno Zaccagnini, e tantomeno che nelle settimane seguenti succederanno fatti anche per me sorprendenti.

A partire dall’incontro con un malavitoso capitolino, noto con il soprannome di “Cinese” per i baffetti alla mongola. Non so quale sia il suo vero nome, ma è certamente inserito nella celebre banda della Magliana. Me lo spiega il referente romano di Cosa nostra, Pippo Calò, il quale garantisce che può essermi utile: “Quelli sanno tutto?”, dice. E aggiunge che, in quelle stesse ore, anche Cosa Nostra sta lavorando per i politici romani all’individuazione dei carcerieri di Aldo Moro. “So bene che le promesse dei politici non vengono mantenute”, mi dice, “ma dobbiamo aiutarli per cercare di ottenere l’annullamento degli ergastoli inflitti ai nostri uomini”. Da parte mia, ho forti perplessità a trattare con la malavita romana, perché in Calabria si dice che con i romani si può mangiare e bere, ma non fare affari. Parlano troppo. Si vantano e cacciano tutti nei guai. Così, quando incontro il Cinese tramite Bruna P., una donna con la quale ho una relazione, e che ha un negozio di biancheria intima dove ricicla soldi della Magliana, sono molto prudente. Ci vediamo il25 marzo, giorno in cui le Br diffondono il loro secondo comunicato, in una birreria di via Merulana, a poche decine di metri da piazza San Giovanni. E il mio interlocutore non tarda a fare lo sbruffone: “Lo sanno tutti dove sono nascosti Mario Moretti e tutti gli altri!”, ride. Impugna un boccale di birra da un litro, e nonostante la delicatezza del tema parla a voce alta nel locale affollatissimo: “I rapitori di Moro si trovano in un appartamento in via Gradoli, dalle parti della Cassia”, dice. Non mi indica il numero esatto, ma in ogni caso non ha dubbi: “Se lo volessero trovare, Moro, non ci vorrebbe niente. Però chi lo vo’ trovà, a quello?”, conclude con un’altra risata.

Inutile dire che rimango perplesso: da una parte mi fa divertire, come si comporta il Cinese, dall’altra temo di buttare il mio tempo. Com’è possibile, mi domando, che tutta la malavita di Roma sia al corrente di dove si trova il covo delle Brigate rosse? Ci vogliono ben altre conferme, penso, prima di contattare Zaccagnini; e anche per questo decido di parlare con Angelo Laurendi, un ‘ndranghetista di Sant’Eufemia D’Aspromonte che conosco da tempo e che spero possa darmi notizie interessanti. Una speranza, purtroppo, infondata, ma questo non significa che la nostra chiacchierata sia inutile. Angelo, infatti, mi accompagna sulla sua Lancia Appia nel comune di Ciampino, e per la precisione in un negozio di mobili il cui proprietario è Morabito di Reggio Calabria, un ‘ndranghetista di cui non conosco il nome di battesimo. È comunque in quel momento un uomo tarchiato, sulla quarantina abbondante, con la barba scura e una piccola cicatrice sullo zigomo. Mi accoglie cordiale e rispettoso in ufficio, e quando domando se gli risulta di un appartamento delle Brigate rosse in via Gradoli, annuisce: “Voi potete stare sicuro che qualcosa c’è, in via Gradoli”, dice. “Mi hanno detto che i brigatisti gestiscono un appartamento, lì, e probabilmente c’entra con Moro”.

A questo punto, capisco che l’indicazione datami in prima battuta dalla banda della Magliana non è così improbabile. Perciò ricontatto l’agente Pino, gli faccio credere di non sapere ancora nulla, e insisto per ottenere nuovamente aiuto. Una richiesta che non può rifiutare, visto il nostro legame, tant’è che dopo avere premesso che sono in atto vari depistaggi, mi suggerisce di parlare con l’appuntato dei carabinieri Damiano Balestra, addetto all’ambasciata di Beirut sotto il comando del colonnello del Sismi Stefano Giovannone, il quale gli ha raccomandato di salvare a tutti i costi il presidente Moro (non a caso, in una sua lettera durante la prigionia, Moro invoca proprio l’intervento di Giovannone, ndr). “Balestra ha ottime fonti”, dice l’agente Pino. E non sta esagerando. Ne ho la riprova quando ci vediamo tutti e tre (io, Pino e Balestra) negli ultimissimi giorni di marzo, davanti a un bar nel quartiere romano dell’Alberone, dalle parti di via Tuscolana. È pomeriggio, e parliamo a bordo della Lancia di Pino. Il discorso dell’appuntato Balestra è chiarissimo: “Io sto dando l’anima”, dice, “per arrivare alla liberazione del presidente, ma continuo a sbattere contro un muro. Ogni informazione che ricevo è vera e falsa allo stesso tempo. Non distinguo più tra chi mi vuole aiutare e chi cerca di farmi girare a vuoto. In più c’è la guerra politica, con i socialisti che vogliono vivo Moro, e gran parte della Dc che finge di volerlo liberare”. Poi sussurra: “In questo covo di cui si vocifera, in via Gradoli 96, non abita nessuno. O almeno, così dice chi ha verificato (un primo sopralluogo in via Gradoli 96 è avvenuto il 18 marzo: sono stati perquisiti tutti gli appartamenti tranne quello affittato dalle Br,dove l’inquilino non ha risposto al campanello e gli agenti se ne sono andati,ndr)”. In ogni caso, insiste Balestra, ha la certezza che in quella casa bazzichino i brigatisti, anche se non sono stati fermati.

È qui che capisco quanto la mia trasferta romana rischi di essere inutile. Il dramma di Moro campeggia sulle prime pagine dei giornali, i partiti si mostrano formalmente costernati, ma dietro le quinte si consuma qualcosa di inconfessabile. Chi si batte veramente, con tutte le forze, per individuare i covi delle Br, non viene appoggiato. Anche se è una persona seria come il democristiano siciliano di corrente fanfaniana Benito Cazora (scomparso nel 1999, ndr); un parlamentare che cerca di incontrare chiunque possa svelargli dove si nascondano i brigatisti e dove sia segregato Moro. Tra gli altri, il deputato parla con un certo Salvatore Varone, ‘ndranghetista che noi chiamavamo Turi, ma che si presenta a Cazora come Rocco, incontrandolo in varie occasioni delle quali non conosco i particolari.

Posso invece riferire, per quel che mi riguarda, che contatto l’onorevole Cazora tramite Morabito di Ciampino, il quale dice che questo parlamentare “sta impazzendo per avere informazioni sul presidente Moro”. Fisso quindi un incontro con lui a Roma, nel ristorante Rupe Calpurnia, dove noi ‘ndranghetisti abbiamo festeggiato il compleanno dell’affiliato Rocco Sergi. Il nostro dialogo è breve e teso, e si svolge in presenza degli ‘ndranghetisti Morabito e Laurendi. Cazora è angosciato, in effetti. Mi spiega che ha già parlato con un altro calabrese, Rocco, e che è perplesso perché ha fatto lo spaccone: “Sostiene”, mi dice Cazora, “che può recuperare informazioni visto che i calabresi a Roma sono 400 mila, e perciò possono controllare il territorio’. Io, dentro di me, penso che sono strane frasi, per uno come Varone che nella ‘ndrangheta conta come il due di picche. In ogni caso, non faccio commenti perché non so chi frequenti Varone. Mi limito a informare il deputato che mi sto muovendo, dietro un mandato politico, per trovare il covo dei brigatisti, anche se non ho notizie certe. Al che lui risponde: “Mi auguro sinceramente che abbiate più fortuna di me, grazie alle vostre amicizie”. Intanto i giorni passano, e la situazione si fa sempre più drammatica. Il 29 marzo le Brigate rosse recapitano il terzo comunicato, con allegata una lettera di Aldo Moro per il ministro dell’Interno Cossiga. Il 4 aprile tocca a un quarto comunicato, trovato con l’angosciante missiva in cui Moro si rivolge a Zaccagnini (sulla trattativa per la liberazione, il presidente scrive: “Tener duro può apparire più appropriato, ma una qualche concessione è non solo equa, ma anche politicamente utile. Come ho ricordato in questo modo civile si comportano moltissimi Stati. Se altri non ha il coraggio di farlo, lo faccia la Dc che, nella sua sensibilità ha il pregio di indovinare come muoversi nelle situazioni più difficili. Se così non sarà, l’avrete voluto e, lo dico senza animosità, le inevitabili conseguenze ricadranno sul partito e sulle persone”,
ndr). È evidente, dopo simili parole, che il dramma del sequestro rischia di incanalarsi verso la peggiore conclusione, e io stesso temo di fallire la missione. Ma mentre il clima si invelenisce, e le speranze di salvare Moro diminuiscono, mi ricontatta l’agente Pino per farmi sapere che Giuseppe Santovito, numero uno (piduista, ndr) del Sismi, ha espresso il desiderio di parlarmi. E così accade. Di lì a poco, Pino mi porta dal capo a Forte Braschi, e dopo un dialogo interlocutorio Santovito mi chiede se ho notizie precise riguardo a un appartamento in via Gradoli 96. Gli rispondo che, in effetti, ho sentito questo indirizzo da amici, e lui commenta: “Tutto vero, Fonti: è giunto il momento di liberare il presidente Moro”. In ogni caso, aggiunge congedandomi, “teniamoci in contatto tramite Pino”.

La mattina dopo, quella di domenica 9 aprile (o di lunedì 10, non vorrei sbagliarmi), lascio la Capitale e mi precipito a San Luca da Sebastiano Romeo. Sono soddisfatto perché non soltanto so dove probabilmente sono nascosti i brigatisti, ma c’è anche il preannuncio datomi dal colonnello Santovito della futura liberazione del presidente Moro. Quando però incontro Sebastiano, lui ascolta con attenzione il mio resoconto per una mezz’ora, dopodiché mi stronca: “Sei stato bravo”, riconosce. “Peccato che da Roma i politici abbiano cambiato idea: dicono che, a questo punto, dobbiamo soltanto farci i cazzi nostri”. Una frase assurda, imprevedibile, che lì per lì incasso in silenzio, ma che di fatto vanifica il mio lavoro nella Capitale. Sono stanchissimo, amareggiato. Ho indagato come si deve, a Roma, e adesso dovrei fottermene come se ne fotte l’intera classe politica. Ci provo con tutto il cuore, ma non ci riesco: sono un ‘ndranghestista di primo livello con tanto di sgarro (indispensabile per accedere al massimo livello dell’organizzazione, ndr), ma sono anche una persona che sa dire di no, a volte: e questa è una di quelle volte. Dopo l’incontro con Romeo, dunque, torno a Bovalino e telefono alla Questura di Roma, presentandomi al centralinista come Rocco. “Andate a Roma, in via Gradoli al numero 96”, scandisco, “e troverete i carcerieri di Aldo Moro”. “Da dove sta chiamando?”, domanda il centralinista allarmato. “Chi parla? Chi è lei?”, insiste. Ovviamente non rispondo; abbasso la cornetta e provo a non pensarci più.

Una promessa impossibile da mantenere. Poco dopo, il 18 aprile 1978, il covo di via Gradoli 96 viene scoperto per una strana perdita d’acqua. Dei brigatisti, come logico viste le premesse, non c’è traccia. E a questo punto so bene il perché: non c’è stata la volontà di agire. C’è invece, molti anni dopo, nel 1990, il mio incontro nel carcere di Opera (provincia di Milano, ndr) con il capo delle Br Mario Moretti, colui che ha ammesso di avere ucciso il presidente Moro, assieme al quale frequento casualmente un corso di informatica. I nostri rapporti si fanno presto cordiali, piacevoli; lui sa esattamente chi sono e mi rispetta. Io pure. Finché un giorno, mentre armeggiamo al computer, una guardia gli consegna una busta e annuncia: “Moretti, c’è la solita lettera”. Lui la apre senza nascondersi, estrae un assegno circolare, lo firma sul retro per girarlo all’ufficio conti correnti che permette l’incasso, e mi dice: “Questa, Ciccio, è la busta paga che arriva puntualmente dal ministero dell’Interno”. Frase che all’istante scambio per una battuta, per uno scherzo tra carcerati: sbagliando. Qualche tempo dopo, un brigadiere che credo si chiami Lombardo mi confida che, per recapitare soldi a Moretti, lo hanno fatto risultare come un insegnante di informatica, e in quanto tale è stato retribuito. L’ennesimo mistero tra i misteri del caso Moro, dico a me stesso; l’ennesima zona grigia in questa storia tragica.

RnS – Dell’Utri, la mafia e il silenzio dei media – indigeni, berlusconi e la mafia

RnS – Dell’Utri, la mafia e il silenzio dei media – indigeni, berlusconi e la mafia.

Dell’Utri era presente a una riunione del ’92 nella quale c’erano anche D’Agata e altri personaggi di Catania come Aldo Ercolano [esponente di vertice dei clan catanesi]. Si discuteva della strategia di portare avanti un partito nuovo per fare delle cose in Italia e aggiustarne altre come il 41 bis. Bisognava anche screditare i pentiti e proprio a questo doveva servire il partito nuovo. Maurizio Avola, collaboratore di giustizia.

di Giuseppe Giustolisi / Micromega, La primavera n.2 del 9 marzo 2006

È una fredda mattinata di febbraio quando da un «sito riservato», come si dice in gergo giudiziario, depone in videoconferenza un collaboratore di giustizia nel processo che si celebra davanti al tribunale di Catania contro la mafia messinese e due magistrati, l’ex sostituto della Direzione nazionale antimafia Giovanni Lembo e l’ex capo dei gip di Messina Marcello Mondello (da qualche anno in pensione), imputati di concorso esterno in associazione mafiosa.

Il pentito si chiama Maurizio Avola, classe 1961, catanese, il killer preferito del boss Nitto Santapaola. Nel suo palmarès criminale Avola vanta numerosi omicidi e altrettante rapine ed estorsioni, fatti per i quali ha già incassato una condanna definitiva a trent’anni. Arrestato nel 1993, dopo un anno inizia la sua collaborazione con la procura di Catania (beneficia subito del programma di protezione, ma poi lo perderà per delle rapine commesse nel 1997) e confessa di essere l’autore dei fatti di sangue più efferati avvenuti nella zona etnea, tra cui l’omicidio eccellente del giornalista catanese Giuseppe Fava. Il contributo delle sue rivelazioni è stato determinante per la condanna di boss e gregari della mafia etnea nel processo Orsa maggiore. Ma le rivelazioni di Avola entrano anche in altri processi, come quello celebrato a Palermo a carico di Marcello Dell’Utri, poi condannato a nove anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa. E proprio di Dell’Utri il pentito è tornato a parlare nel processo di Catania, a proposito del disegno stragista di Cosa Nostra. L’ex killer catanese, quella mattina, ha raccontato anche qualche particolare inedito su quella zona grigia, mai completamente esplorata dalle inchieste della magistratura, che fa da cerniera fra la mafia che spara e i piani alti della politica e dell’economia.

Avola non è un mafioso di primo piano, ma è a conoscenza dei segreti più pesanti di Cosa Nostra perché fino al momento del suo arresto era l’ombra di Marcello D’Agata, il vice del boss Santapaola. Lo accompagnava ovunque, anche nei summit mafiosi di un certo rilievo e poi D’Agata, puntualmente, gli riferiva di fatti e persone. Figura centrale degli intrecci inconfessabili fra Cosa Nostra e il mondo dei colletti bianchi, secondo Avola, era Michelangelo Alfano, un imprenditore morto suicida di recente in circostanze ancora poco chiare e imputato di mafia in questo processo. Avola sa molte cose su questo personaggio, ma all’inizio della sua collaborazione omette di raccontarle. «Non parlai di lui», dice al pm Antonino Fanara, «perché D’Agata mi diceva che era un personaggio molto potente e che faceva anche parte della massoneria. Era quindi una persona che mi faceva un po’ paura. E così non parlai né di lui, né di altri ma solo dei semplici mafiosi come eravamo noi». Tanto per capire meglio lo spessore di Alfano, di lui si parla al processo per l’omicidio del banchiere Roberto Calvi.

Agli atti c’è anche la foto della Ferrari di cui Alfano era proprietario, dove sono in posa, appoggiati alla macchina, Flavio Carboni e Silvano Vittor. Ma ancor più indicative della caratura del personaggio sono le parole di un colonnello dei carabinieri, Michele Riccio, che nel processo palermitano Grande Oriente ha definito Alfano Fanello di collegamento fra Cosa Nostra stragista e pezzi deviati dello Stato. «Sapevo da D’Agata», continua Avola, «che Alfano era interessato agli appalti e che era un uomo di Cosa Nostra. Partecipava anche a delle riunioni importanti in provincia di Messina, agli inizi degli anni Novanta c’era infatti una strategia contro lo Stato che prevedeva di mettere delle bombe in giro».

E a questo punto che salta fuori il nome di Dell’Utri. Il pm chiede ad Avola informazioni sui rapporti fra il manager berlusconiano e Cosa Nostra e il pentito risponde: «Dell’Utri era presente a una riunione del ’92 nella quale c’erano anche D’Agata e altri personaggi di Catania come Aldo Ercolano [esponente di vertice dei clan catanesi]. Si discuteva della strategia di portare avanti un partito nuovo per fare delle cose in Italia e aggiustarne altre come il 41 bis. Bisognava anche screditare i pentiti e proprio a questo doveva servire il partito nuovo». I contatti fra Dell’Utri e la mafia siciliana erano già iniziati prima, per risolvere la faccenda delle estorsioni compiute dai clan catanesi ai danni dei magazzini Standa, allora di proprietà del premier Silvio Berlusconi. «Dell’Utri aveva stabilito contatti a Catania in occasione dell’estorsione alla Standa», prosegue Avola. «Erano state incendiate diverse Standa a Catania e provincia e noi avevamo contattato Dell’Utri tramite Salvatore Tuccio [anche lui braccio destro del boss Santapaola]».

Passano pochi mesi e il rapporto fra Dell’Utri e Cosa Nostra di Messina si consolida. Secondo il racconto del pentito, infatti, gli attentati a Falcone e Borsellino e le stragi del ’93 vengono pianificate a un tavolo messinese, al quale siedono tra gli altri Marcello Dell’Utri e Michelangelo Alfano: «La strategia è nata a Messina e tutto deriva dai contatti fra Alfano e Dell’Utri». Dunque un periodo di attività febbrile per la mafia messinese, con incontri ad altissimo livello che si susseguono a ritmo vertiginoso. A un certo punto però lo scenario cambia. Il tavolo delle riunioni si sposta nella capitale, dove viene programmato un altro attentato eccellente: «In quel periodo ci fu una riunione all’Hotel Excelsior di Roma», continua Avola. «Vi parteciparono D’Agata, Alfano e personaggi di altissimo livello. Fra questi ricordo Cesare Previti e il finanziere Francesco Pacini Battaglia. Lo scopo era quello di fare un attentato al giudice Di Pietro e io dovevo essere l’esecutore. Bisognava fare un favore ai socialisti, ma poi la cosa non andò avanti perché i socialisti non stavano mantenendo quanto promesso e nel frattempo si profilava l’alleanza con la nuova forza politica che stava nascendo».

A Catania, negli anni Ottanta, il rapporto fra Cosa Nostra e il Psi era di strettissima cointeressenza, dice Avola, che su questa liaison è prodigo di particolari, sollecitato da una domanda dell’avvocato Fabio Repici, difensore di un collaboratore di giustizia imputato nel processo. «Il clan Santapaola aveva canali di riciclaggio dei proventi illeciti?», chiede l’avvocato. Risposta di Avola: «Aldo Ercolario, tramite lo zio, aveva fatto investimenti con un politico che veniva sempre a Catania. Si tratta di Gianni De Michelis, all’epoca aveva i capelli lunghi. Era lui che teneva i contatti a Catania e noi lo portavamo in giro per i night». Come dire che si univa l’utile al dilettevole. Fin qui Maurizio Avola. Si tratta di fatti da lui già raccontati alle procure di Catania e Caltanissetta e ribaditi al dibattimento di Catania. Una testimonianza durata tre ore che è stata oscurata dai media locali e nazionali. Il perché prova a spiegarlo l’avvocato Ugo Colonna, parte civile al processo contro i magistrati messinesi e difensore dello stesso Avola: «Gli editori nazionali fin dal 1999 non intendono più occuparsi dei fatti di mafia che riguardano gli strati alti dell’imprenditoria e della politica. Sembra proprio che ci sia una sorta di patto trasversale sulla scorta del quale non solo la stampa ma anche certe procure hanno inteso da armi porre un velo di coperture».

E l’oblio non risparmia certo questo processo chiave per gli equilibri mafiosi che ormai va avanti da oltre quattro anni. Per la verità qualche tentativo da parte dei mezzi di informazione di farvi ingresso c’è stato, senza però ottenere l’ok del tribunale. All’inizio del dibattimento infatti Radio radicale chiese di registrare le udienze, ma il presidente Francesco D’Alessandro, su richiesta dell’imputato Giovanni Lembo, negò l’autorizzazione. Stessa decisione in questi ultimi giorni per le telecamere di Chi l’ha visto che voleva riprendere la deposizione di un importante testimone di mafia, tale Antonino Giuliano, un imprenditore che, oltre a svelare gli appoggi a tutti i livelli di cui ha goduto Cosa Nostra messinese, ha raccontato di aver visto il superlatitante Bernardo Provenzano proprio a casa del boss Michelangelo Alfano.