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La gestione dei pentiti, una vecchia storia dei soliti magistrati

Fonte: La gestione dei pentiti, una vecchia storia dei soliti magistrati.

Sono amareggiato, rattristato, e come se non bastasse NAUSEATO nel vedere un Nicola Cosentino sorridente in sala Stampa per la negazione all’arresto da parte della giunta per le autorizzazioni a procedere di Montecitorio.

In questi giorni tutti contro i cosiddetti pentiti, tutti contro i collaboratori di giustizia, dimenticando ciò che si è riuscito a fare ai tempi della lotta al terrorismo (Giancarlo Caselli e Ferdinando Imposimato) passando alla lotta contro la mafia per via del famoso maxiprocesso diretto da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino grazie alla loro collaborazione (dei pentiti).

Tutti dimenticano come lo stesso Falcone già allora era attaccato per la gestione dei pentiti, qualcuno ebbe il coraggio di affermare che utilizzava i pentiti di una parte mafiosa per sconfiggerne l’altra parte nemica. Altri tempi ma stessi metodi con la differenza che oggi siamo assuefatti da tutto e per tutto con la conseguenza di non renderci più conto dello schifo a cui oggi stiamo assistendo.

Oggi ad esempio, non riuscirei mai ad immaginare una folla di persone tirare monetine in faccia a Craxi come capitò negli anni di tangentopoli, certo, io lo spero ma ahimè il sistema ha tirato su un ottimo stile di vita (o quasi) per tutti che solo al pensiero di privarsene fa sì che ognuno pensi solo a se stesso e non più alla collettività, rinunciando a quel minimo spazio di libertà, legalità e moralità al quale ognuno di noi dovrebbe avere di diritto.

Dobbiamo capire che la verità fa male, ma se riscontrata e giudicata attendibile va allo stesso tempo accettata, chi vuole capire capisca, non si può pensare sempre e solo che tutti i magistrati sono comunisti o politicizzati, posso capire 1, 10, 30, ma non tutti perchè nasce spontaneo pensare come l’anomalia non sia più la magistratura.

Ieri sera sono andato a scovare nella mia libreria e ho ritrovato uno spaccato molto interessante presente sul libro “Cose di cosa nostra” di Giovanni Falcone e Marcelle Padovani, ne giudico fondamentale la lettura per capire al meglio l’argomento in questione.

Nel dramma dei pentiti

di Giovanni Falcone

I motivi che spingono i pentiti a parlare talora sono simili tra loro, ma più spesso diversi. Buscetta durante il nostro primo incontro ufficiale dichiara: “Non sono un infame. Non sono un pentito. Sono stato mafioso e mi sono macchiato di delitti per i quali sono pronto a pagare il mio debito con la giustizia “. Mannoia: “Sono un pentito nel senso più semplice della parola, dato che mi sono reso conto del grave errore che ho commesso scegliendo la strada del crimine”. Contorno: “Mi sono deciso a collaborare perché Cosa Nostra è una banda di vigliacchi e assassini”.
Mannoia è quello che più ha risvegliato la mia curiosità. Avevo avuto a che fare con lui nel 1980, in seguito a una indagine bancaria che indicava come sia lui sia la sua famiglia tenessero grosse somme di denaro su diversi libretti di risparmio. Mannoia al termine del processo fu condannato a cinque anni di carcere, il massimo della pena previsto allora per associazione a delinquere. Non ero riuscito a farlo condannare per traffico di droga. Durante gli interrogatori mi era sembrato un personaggio complesso e inquietante. Non antipatico, dignitoso e anche coerente. Nel 1983 evase di prigione e fu arrestato di nuovo nel 1985.
Nel frattempo Buscetta mi aveva parlato di un certo Mozzarella – era il soprannome di Mannoia -, “killer di fiducia di Stefano Bontate”. Nel 1989 al Mannoia uccidono il fratello, Agostino, che adorava. Capisce che il suo spazio vitale nell’ambito di Cosa Nostra si sta restringendo. Perché o hanno ucciso suo fratello a torto – e deve chiederne conto e ragione -, oppure lo hanno ucciso a ragion veduta; in entrambi i casi significa che anch’egli sarà presto eliminato. Fa una lucida analisi della situazione e decide di collaborare.
Le cose sono andate così. Nel settembre 1989 il vicequestore Gianni De Gennaro mi chiama per avere informazioni sull’attuale situazione giudiziaria di Francesco Marino Mannoia. Una donna, che si era qualificata come la sua compagna, era andata a trovarlo per dirgli che Mannoia era pronto a collaborare, ma che voleva avere a che fare solo con due persone: con lui e con Falcone dato che, diceva la donna, “non si fida di nessun altro”.
Con l’aiuto del Dipartimento penitenziario del ministero di Grazia e Giustizia, Mannoia viene trasferito in una speciale struttura carceraria, allestita a Roma appositamente per lui. Ufficialmente è detenuto a Regina Coeli, dove peraltro viene condotto per i suoi incontri. Per tre mesi abbiamo parlato in tutta tranquillità. Poi, diffusasi la notizia della sua collaborazione, Cosa Nostra gli uccide in un colpo solo la madre, la sorella e la zia. Il pentito reagisce da uomo e porta a termine le sue confessioni.
Mannoia è un superstite; “soldato” di Stefano Bontate, quindi membro di una famiglia ritenuta perdente a seguito della guerra di mafia, era riuscito a rimanere neutrale e aveva continuato, fra il 1977 e il 1985, a raffinare eroina – era il miglior chimico dell’organizzazione – per tutte le famiglie che gli facevano ordinazioni. Anche in carcere aveva continuato a mantenere buoni rapporti con tutti i detenuti. Applicava al meglio un antico proverbio siciliano: “Calati, juncu, ca passa la china – Abbassati, giunco, che passa la piena”. Aspettava in silenzio di prendersi la rivincita sui “Corleonesi”. Da qui la sua straordinaria confessione, una delle più dense mai rilasciate, e una massa di informazioni che siamo ben lontani dall’avere completamente sfruttato.
Sono stato pesantemente attaccato sul tema dei pentiti. Mi hanno accusato di avere con loro rapporti “intimistici”, del tipo “conversazione accanto al caminetto”. Si sono chiesti come avevo fatto a convincere tanta gente a collaborare e hanno insinuato che avevo fatto loro delle promesse mentre ne estorcevo le confessioni. Hanno insinuato che nascondevo “nei cassetti” la “parte politica” delle dichiarazioni di Buscetta. Si è giunti a insinuare perfino che collaboravo con una parte della mafia per eliminare l’altra. L’apice si è toccato con le lettere del “corvo”, in cui si sosteneva che con l’aiuto e la complicità di De Gennaro, del capo della polizia e di alcuni colleghi, avevo fatto tornare in Sicilia il pentito Contorno affidandogli la missione di sterminare i “Corleonesi”!
Insomma, se qualche risultato avevo raggiunto nella lotta contro la mafia era perché, secondo quelle lettere, avevo calpestato il codice e commesso gravi delitti. Però gli atti dei miei processi sono sotto gli occhi di tutti e sfido chiunque a scovare anomalie di sorta. Centinaia di esperti avvocati ci hanno provato, ma invano.
La domanda da porsi dovrebbe essere un’altra: perché questi uomini d’onore hanno mostrato di fidarsi di me? Credo perché sanno quale rispetto io abbia per i loro tormenti, perché sono sicuri che non li inganno, che non interpreto la mia parte di magistrato in modo burocratico, e che non provo timore reverenziale nei confronti di nessuno. E soprattutto perché sanno che, quando parlano con me, hanno di fronte un interlocutore che ha respirato la stessa aria di cui loro si nutrono.
Sono nato nello stesso quartiere di molti di loro. Conosco a fondo l’anima siciliana. Da una inflessione di voce, da una strizzatina d’occhi capisco molto di più che da lunghi discorsi.

tratto da “Cose di cosa nostra” di Giovanni Falcone e Marcelle Padovani

Paolo Franceschetti: CHI E’ VERAMENTE IL CAPO DEI CAPI?

Paolo Franceschetti: CHI E’ VERAMENTE IL CAPO DEI CAPI?.

Di Solange Manfredi

In questa calda estate, dopo 16 anni di detenzione, Riina ha deciso di parlare, di raccontare la sua verità.

Ovviamente sarà compito della magistratura verificare la veridicità delle affermazioni di Riina ma, ipotizzando che il boss di Corleone dica la verità, alcune domande possiamo, e dobbiamo, porcele.

Vediamo quali.

1. Nelle ricostruzioni operate dalle sentenze che si sono occupate delle stragi del 1992-1993 si afferma che tra l’agosto e il dicembre 1992 sarebbe intercorsa una sorta di “trattativa” tra Stato e mafia che avrebbe visto da un lato il generale Mori del Ros e dall’altro Riina. Mediatore tra le parti, Vito Ciancimino.

Oggi Riina afferma : “Io non so niente di queste cose. Da me non è venuto nessuno”.

Ipotizzando che Riina dica la verità, la prima domanda che sorge spontanea è:

Con chi Ciancimino ha portato avanti la trattativa? Una trattativa del genere si porta avanti con il vertice di Cosa Nostra, non con un subalterno. Ma se nessuno è andato da Riina, allora da chi? In altri termini: Riina era veramente il capo dei capi o, invece, era solo il “prestanome” di qualcuno molto più potente, protagonista occulto della mai finita strategia delle tensione?

Riina afferma anche che il giudice Borsellino non sarebbe stato ucciso dalla mafia ma, probabilmente, da uomini dello Stato.

Ipotizzando, anche in questo caso, che Riina dica la verità, la domanda da porsi è: Perchè? E’ possibile che Borsellino sia stato ucciso perchè, come anni prima il giudice Occorsio, aveva capito che la c.d. Trattativa in realtà (come aveva ipotizzato un’inchiesta svolta dalla procura di Palermo, poi archiviata per scadenza dei termini nel 2000) non era altro che un accordo per la realizzazione di un piano eversivo di destabilizzaizone dello stato condotta da un “sistema criminale” composto da mafia, massoneria deviata e servizi segreti deviati?

L’ipotesi non deve sorprendere e non rappresenterebbe certo una novità per il nostro paese; la storia della nostra Repubblica è costellata di eventi che vedono i vertici di cosa nostra trattare, attraverso esponenti massonici, con “presunti” terroristi ed ideatori di progetti golpistici al fine di alimentare la c.d. “strategia della tensione”

Ciò che sorprende, invece, è come, analizzando gli atti delle pagine più buie della storia del nostro paese compaiano, collegati tra loro, sempre alcuni nomi. Per rendersi conto di ciò basta fare una semplice analisi della storia professionale e massonica di un protagonista: Giuseppe Mandalari, il commercialista della mafia

E’ il 1954 quando Giuseppe Mandalari entra in massoneria e viene iniziato presso l’ Obbedienza di Piazza del Gesù.

Punto di riferimento costante di Mandalari in ambito massonico è il principe Alliata di Montereale, in rapporti con la destra eversiva, coinvolto anche nelle inchieste sul Golpe Borghese, sul Golpe Sogno, sulla organizzazione eversiva denominata “Rosa dei Venti”, il suo nome compare negli elenchi P2 di Licio Gelli.

Unico Sovrano Gran Commendatore ad vitam nella storia della massoneria italiana, Alliata di Montereale balza alle cronache dei progetti golpistici già negli anni ’50, accusato da Gaspare Pisciotta (poi morto in carcere per aver bevuto un caffè alla stricnina) di essere il mandante della strage di Portella della Ginestra, eseguita dal boss Salvatore Giuliano.

Nello stesso anno del suo ingresso in massoneria il giovane ragioniere Giuseppe Mandalari diviene dipendente dell’assessorato regionale ai Lavori Pubblici. Sono gli anni dell’ascesa di Luciano Liggio, il boss di Corleone che, grazie al legame con Vito Ciancimino, assessore ai Lavori Pubblici, si arricchisce a Palermo con l’abusivismo edilizio.

Oggetto di richieste di rinvio a giudizio sin dal 1964, Luciano Liggio (che, secondo quanto testimoniato da Tommaso Buscetta, e confermato dallo stesso Liggio, avrebbe preso parte alle riunioni tenutesi con la massoneria deviata e pezzi delle istituzioni per partecipare al Golpe Borghese e al Golpe Sogno) si dà alla latitanza nel 1969, riuscendo a scappare, mezz’ora prima di essere arrestato, da una clinica romana presso cui era ricoverato e dove riceveva le visite del capo dei servizi segreti Generale Vito Miceli (poi arrestato perché sospettato di essere coinvolto nell’organizzazione eversiva “Rosa dei Venti”, nel Golpe Borghese il suo nome compare negli elenchi P2).

Luciano Liggio, durante la sua latitanza, si dedica ai sequestri di persona (Anonima Sequestri) i cui proventi, come vedremo poi, si sospetta vengano riciclati in società cui era commercialista Giuseppe Mandalari.

Durante la latitanza accanto a Luciano Liggio troviamo Carlo Fumagalli, anche lui pare dedito ai sequestri di persona e sospettato di aver chiesto un riscatto di mezzo milione di dollari per il sequestro dell’industriale Aldo Cannavale.

Carlo Fumagalli è un personaggio ambiguo. “Estremista di centro” come lui stesso si definiva, seppur noto come leader del movimento di destra MAR (Movimento di Azione Rivoluzionaria), secondo alcune testimonianze sarebbe stato in realtà legato alle vicende della c.d. “strategia della tensione”, ai servizi segreti e, in rapporti con Giangiacomo Feltrinelli (morto a Segrate a 200 metri dalla carrozzeria DIA di Fumagalli), avrebbe dato vita al gruppo Brigate Rosse, preparando l’attentato alla pista di collaudo della Pirelli del 1971 (questo dato risulta particolarmente interessante proprio in considerazione del fatto che sul volantino di rivendicazione MAR del 13 aprile 1970 compare il simbolo della stella a cinque punte, simbolo poi adottato dalle Brigate rosse).

Principale finanziatore di Fumagalli risulta essere Jordan Vessellinoff, consuocero di Igor Markevitch, il direttore d’ orchestra coinvolto nel rapimento dell’onorevole Aldo Moro. Anche lui personaggio ambiguo, che alcune informative indicano avere legami con faccendieri, trafficanti di armi ed appartenenti a vari servizi segreti, Jordan Vessellinoff aveva fondato nel 1958 a Santa Margherita Ligure, insieme al generale Giovanni Allavena (a capo del servizio segreto trafugherà alcuni fascicoli per consegnarli a Licio Gelli) la Loggia C.A.M.E.A. (Centro Attività Massoniche Esoteriche Accettate). Tale loggia risulta collegata con le logge cameine siciliane, nei cui elenchi compare il nome di Giuseppe Mandalari, e i cui vertici furono inquisiti nel 1979, dalla magistratura milanese, per avere aiutato Sindona (coinvolto nel Golpe Sogno) nel suo finto sequestro.

Fallito il golpe del ’74 per Luciano Liggio, Michele Sindona e Giuseppe Mandalari iniziano i guai. Luciano Liggio viene arrestato a Milano e tra le sue carte viene rinvenuto un numero di telefono riservato di Ugo De Luca, al vertice della Banca Privata Finanziaria di Milano di Michele Sindona. E’ l’inizio del crollo dell’impero finanziario di Sindona.

Passano pochi mesi e il 14 agosto del 1974 il giornale della Sicilia titola: “Anonima sequestri – Si indaga sulla personalità di Giuseppe Mandalari. Specialista nell’amministrare società costituite da mafiosi”. Secondo l’articolo gli investigatori sospettavano che alcune società di cui Mandalari era amministratore, considerate paravento di grossi mafiosi (Liggio, Riina e Bagarella), servissero a ripulire il denaro proveniente dai sequestri di persona.

E’ il giudice Occorsio, che negli anni aveva indagato sul Golpe Borghese, sul Piano Solo, sullo scandalo Sifar, che, per primo, sospetta che molti sequestri avvengano, in realtà, per finanziare attentati e disegni eversivi, e confida al giudice Imposimato: “Sono certo che dietro i sequestri ci siano delle organizzazioni massoniche deviate e naturalmente esponenti del mondo politico. Tutto questo rientra nella strategia della tensione”.

Il 09 luglio 1976, Occorsio viene assassinato e la sua borsa, contenente documenti della sua indagine, viene trafugata (esattamente come accaduto per le agende dei giudici Falcone e Borsellino). L’autore materiale del suo assassinio è un neofascista, Pierluigi Concutelli, nella cui abitazione vengono rinvenuti dei soldi provenienti dal sequestro di Emanuela Trapani e la cui scheda, con l’indicazione della tessera n. 11.070, verrà ritrovata anni dopo da Giovanni Falcone a Palermo, nella sede della Loggia massonica Camea.

Ma, mentre per Liggio e Sindona (quest’ultimo morirà nel carcere di Voghera dopo aver bevuto un caffè avvelenato, esattamente come Gaspare Pisciotta, grande accusatore del Principe Alliata di Montereale) è la fine, Giuseppe Mandalari pare divenire ancora più forte e, nel 1978, riunisce diverse logge massoniche sotto la denominazione profana di Accademia di Alta Cultura (identico nome di una comunione massonica creata anni prima proprio dal principe Alliata di Montereale), cui fa seguire un collegamento operativo con altre logge presenti a Trapani. Collegati alle logge massoniche trapanesi troviamo i mafiosi Asaro e Calabrò, boss che gestiscono ad Alcamo il laboratorio di morfina-base più grande d’Europa, un miliardo di proventi al giorno, scoperto solo nel 1985. Tra i fornitori di droga del laboratorio di Alcamo vi era l’organizzazione di cui faceva parte il killer Alì Agca che, poco prima di attentare alla vita di Papa Giovanni Paolo II, soggiornerà per alcuni giorni in quelle località.

Coordinatore dei fratelli di Piazza del Gesù in Sicilia, l’importanza di Mandalari in seno alla massoneria, viene alla luce, per la prima volta, solo durante le indagini che hanno ad oggetto le logge trapanesi che si nascondevano dietro il Centro studi Scontrino, logge massoniche all’obbedienza di Giuseppe Mandalari, cui risultavano affiliati mafiosi, politici, funzionari dei servizi segreti, e presso la cui sede era presente l’Associazione musulmani d’Italia, sponsorizzata da Gheddafi (secondo il giudice Palermo affiliato nel 1969 a Londra alla loggia massonica dei Senussi) e facente capo a Michele Papa, capofila per la Sicilia del Supersismi di Santovito e Musumeci, al quale era partecipe anche Pazienza.

Ma neppure questo ennesimo “incidente” ferma Mandalari, la sua carriera continua sino al periodo stragista del 92 -’93 e all’appoggio dato alla neonata formazione politica: Forza Italia.

Come si può notare, seguendo la storia professionale e massonica di un solo protagonista si possono ripercorrere 40 anni di c.d. “misteri” italiani.

Per concludere, e ritornando alla prima domanda con cui abbiamo aperto l’articolo: se Riina dice la verità, Ciancimino con chi potrebbe aver trattato? Forse con Giuseppe Mandalari? Giuseppe Mandalari viene indicato, oltre che come il commericalista della mafia, anche come prestanome di Riina ma, vista la sua storia professionale e massonica, non potrebbe essere vero il contrario?

Ed ancora, se Borsellino non è stato ucciso dalla mafia, è possibile che la sua morte sia stata decisa perché aveva capito, esattamente come anni prima il giudice Occorsio, che la “trattativa” altro non era che un accordo, tra i soliti noti, che rientrava nella mai finita strategia della tensione?

Non lo sappiamo. Noi, basandoci su dati di fatto acquisiti, non possiamo che porci delle domande ed avanzare delle probabili ipotesi, il resto è compito della magistratura.