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Antimafia Duemila – Il rapporto dell’Onu che da ragione a Ilaria Alpi a 16 anni dalla morte

Fonte: Antimafia Duemila – Il rapporto dell’Onu che da ragione a Ilaria Alpi a 16 anni dalla morte.

“Gli sforzi per riportare la pace e la sicurezza in Somalia sono minati in maniera determinante da una corrosiva economia di guerra che corrompe ed indebolisce le istituzioni statali”.
É questo uno dei passaggi cruciali dell’ultimo rapporto al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sul Paese del Corno d’Africa. Pirateria, traffico d’armi, industria dei rapimenti, mercato dei visti per l’Occidente, ma anche l’utilizzo degli aiuti umanitari per finanziare la guerriglia islamista sono fra le componenti più perniciose dell’economia parallela di uno Stato senza Stato in guerra con se stesso dal dicembre 1990.

Economia di guerra che ha reso miliardari un gruppo ristretto di uomini d’affari somali, alcuni dei quali con legami ben saldi con l’Italia e che utilizzano uno schema rodato sul quale indagava Ilaria Alpi prima di essere uccisa 16 anni fa: usare i soldi della cooperazione per comprare armi e sostenere la guerriglia.

Il rapporto del Monitoring Group sulla Somalia non è piaciuto a nessuno. Non è andato a genio perché il suo relatore, il canadese Matt Bryden, ha esposto in maniera eloquente una realtà che era da anni sotto gli occhi di tutti. Se il traffico d’armi, la pirateria – mercoledì è stato ucciso il primo pirata da una compagnia di sicurezza privata – ed i rapimenti sono una triste consuetudine, meno lo è l’idea che la macchina degli aiuti umanitari finanziata dal contribuente globale – solo per la Somalia si spendono 850 milioni di dollari ogni anno – serva ad arricchire un ristretto gruppo di individui che rivendono il cibo sui mercati locali senza farlo arrivare ai più bisognosi e che, con quei proventi, finanziano il fondamentalismo terrorista. “Il Programma Alimentare Mondiale (Pam) e il gruppo di Eel Ma’aan” è il titolo del paragrafo dedicato alle gesta di quello che è stato definito dalle Nazioni Unite “un cartello di contractors somali”. Ne fanno parte Abukar Omar Addani, Abdulqadir Mohamed Nur detto “Enow” e Mohamed Deylaaf. Addani è un anziano signore su una sedia a rotelle con la barba rossa tipica dei vecchi somali. Il suo aspetto non deve trarre in inganno. Nel 2006 fu lui uno dei principali finanziatori dell’ascesa su Mogadiscio dei Tribunali delle Corti Islamiche. Quando gli etiopi entrarono in Somalia nel dicembre di quell’anno, Abukar Omar Addani fuggì alla volta del Kenya con le valigie piene di dollari. Arrestato alla frontiera per immigrazione clandestina, fu messo in un carcere comune per essere processato. Alla sua udienza nel gennaio del 2007 entrò in aula sputando sui giornalisti accorsi in massa a vedere una delle eminenze grigie del fondamentalismo somalo. Ad aspettarlo in aula c’era anche il suo socio, Abdulqadir Mohamed Nur detto “Enow”.

“Enow” gestisce anch’egli il porto di Eel Ma’an con una milizia stimata di duemila uomini. Abdulqadir Mohamed Nur utilizzava una società di trasporti nominata Deeqa per ottenere   gli appalti del Programma Alimentare Mondiale. Sua moglie, Khadijia Ossoble Ali, invece, usava un’organizzazione non governativa che fungeva da partner dell’Onu. Il meccanismo era semplice: il marito trasportava, la moglie distribuiva. Soltanto che, secondo il rapporto Onu, almeno la metà degli aiuti non arrivava mai a destinazione. Il risultato è che non solo il cartello gestiva 200 milioni di dollari in aiuti (cifra del 2009), ma che lucrava anche sulla parte non consegnata che era poi rivenduta sui mercati locali.

C’è poi la storia del porto di Eel Ma’ann. L’approdo fu costruito nella prima metà degli anni ’90 da Giancarlo Marocchino, il faccendiere italiano primo sulla scena nel delitto Alpi-Hrovatin e finito nel mirino per traffico d’armi e rifiuti verso la Somalia. Marocchino voleva costruire le banchine con dei container cementati pieni zeppi di rifiuti tossico-radioattivi. Quando il faccendiere lasciò la Somalia – caso vuole che anch’egli gestisse il trasporto degli aiuti del Pam – il molo fu preso in gestione nel 1999 da Enow e Addani. Per la cronaca, l’avvocato di Enow in Italia è l’ex parlamentare del Msi, Stefano Menicacci: lo stesso di Giancarlo Marocchino. Proprio il binomio armi-rifiuti-aiuti della cooperazione era una delle piste su cui lavorava Ilaria Alpi prima di essere uccisa con l’operatore Miran Hrovatin il 20 Marzo del 1994 a Mogadiscio. A pagare quel duplice omicidio un capro espiatorio portato con l’inganno in Italia: Hashi Omar Hassan. Oggi però il processo sull’omicidio Alpi-Hrovatin potrebbe essere ad una svolta. Il 17 Marzo scorso il Tribunale di Roma ha respinto la richiesta di archiviazione della Procura e disposto l’imputazione coatta per calunnia nei confronti del teste chiave dell’accusa responsabile della condanna definitiva a 26 anni di carcere del somalo Hashi Omar Hassan. “Questa è l’anticamera per la revisione del processo”, ha detto il suo avvocato Douglas Duale. Hashi è stato l’agnello sacrificale necessario a chiudere le indagini sui reali motivi e sui mandanti dell’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin.

Tratto da: Il Fatto quotidiano

Antimafia Duemila – Un altro segreto di Stato rimasto segreto

Antimafia Duemila – Un altro segreto di Stato rimasto segreto.

di Salvo Palazzolo – 28 gennaio 2010

Anche la sorella di Mauro Rostagno, come il papà dell’agente Agostino, si è ritrovata fra le mani uno strano foglio consultando i faldoni dell’inchiesta giudiziaria sulla morte del proprio congiunto. E’ un foglio, solo un foglio, con l’intestazione “Servizio per le informazioni e la sicurezza militare”.

E’ un foglio che assomiglia molto a quello inviato dal Sisde, il servizio segreto civile, ai magistrati che anni fa avevano chiesto notizie su alcuni 007, nell’ambito dell’inchiesta sull’omicidio del poliziotto Nino Agostino.
Quel foglio in cui si è imbattuta Carla Rostagno è un altro segreto di Stato imposto alle indagini della magistratura siciliana.

Nel 1997, il Sismi ha invocato “i prioritari interessi statuali tutelati dall’articolo 12 della legge 24 ottobre 1977 numero 801” quando la Procura di Trapani ha chiesto notizie sui “compiti e le aree di intervento” di tre generali dei Servizi di cui Rostagno si sarebbe interessato nella sua ultima indagine giornalistica sul traffico d’armi. Era l’estate 1988: Rostagno, direttore dell’emittente Rtc, preparava uno scoop di cui non voleva parlare con nessuno, si era fatto dare una telecamera portatile e la cassetta con le riprese la teneva chiusa nel cassetto dell’ufficio.

“Mauro mi confidò di un traffico d’armi che avveniva in una pista aerea in disuso che si trova nei pressi di Trapani – ha raccontato un amico di Mauro, Sergio Di Cori, ai magistrati – lui aveva fatto delle riprese con una telecamera”. A Di Cori Rostagno avrebbe fatto il nome di alcuni generali. Ma la Procura di Trapani, che fra il 1996 e il 1997 ha riaperto l’indagine sul delitto del giornalista sociologo, non ha potuto mai scoprire il ruolo di quegli ufficiali. E neanche la Direzione distrettuale antimafia di Palermo, che adesso prosegue le indagini, è stata più fortunata (!).

La corrispondenza fra il palazzo di giustizia e i Servizi è in uno dei 34 faldoni che racchiudono 22 anni di indagini sulla morte di Mauro Rostagno. “Gli stessi nomi fatti da Di Cori li troviamo in un processo celebratosi a Venezia per esportazione illegale di armi verso l’Iran”, scriveva il procuratore Garofalo ai colleghi di Palermo in una nota riservata, sottolineando che nel mese di novembre 1996 il ministero della Difesa aveva negato che quattro ufficiali facessero parte dello Stato maggiore della Difesa e altri tre del Sismi. Solo il 24 marzo 1997, arrivò la risposta ufficiale del Sismi. Con la laconica annotazione finale: “Nel comunicare che non è possibile precisare compiti e aree di intervento dei menzionati dirigenti, poiché riguardano attività istituzionali del Sismi e sono pertanto da ritenere compresi tra quei prioritari interessi statuali tutelati dall’articolo 12 della legge 24 ottobre 1977 numero 801, si precisa che fra tali compiti non vi è in ogni caso quello menzionato nella lettera di riferimento di tenere sotto controllo tutti i movimenti di aerei militari nei cieli italiani”.

Il segreto di Stato ha così fermato un’altra indagine. E non si è mai saputo.

Tratto da: ipezzimancanti.it

Casa della Legalita’ e della Cultura – Onlus – Affari di scorie nucleari tra Emilia e Liguria… spuntano i Mamone

Fonte: Casa della Legalita’ e della Cultura – Onlus – Affari di scorie nucleari tra Emilia e Liguria… spuntano i Mamone.

Si aggiungono tasselli a quanto stiamo seguendo da tempo.
La notizia resa nota dal giornalista Gianni Lannes ad un convegno è inquietante e, comunque, non ci stupisce.
Al centro via sarebbe di nuovo la ECO.GE dei Mamone, famiglia della ‘ndrangheta, indicata come tale sin dal 2002 dalla DIA, che da anni denunciamo per i suoi legami, le sue entrature politiche, i suoi disastri ambientali, gli appalti pubblici ed il legame solido con il mondo delle cooperative emiliane, e che è entrata in molteplici inchieste giudiziarie, tra cui l’Operazione Pandora, false fatturazioni per costituzione di fondi neri, episodi di corruzione e smaltimenti illeciti di rifiuti pericolosi.

I mezzi della ECO.GE ha dichiaro il giornalista Lannes sono stati fotografati da lui stesso al lavoro nella centrale nucleare di Caorso, in provincia di Piacenza, per gli smaltimenti connessi allo smantellamento della più grande centrale nucleare italiana. Il giornalista ha seguito poi quei mezzi marchiati ECO.GE ed ha evidenziato che ripartivano per Genova per poi giungere a La Spezia. Fatto curioso questo, da Caorso a Genova e poi La Spezia… quando La Spezia è vicinissima a Piacenza, capire il perché di questo assurdo girovagare sui camion sarebbe utile, anche considerando che a Genova non esistono aree per lo stoccaggio di scorie radioattive.
Questo lavoro relativo allo smantellamento degli impianti ed al conseguente smaltimento delle scorie è seguito dalla SOGIM, la struttura affidataria dell’incarico dal Governo, che, quindi, a quanto si apprende, ha affidato in subappaltato l’opera alla società dei Mamone, la nota ECO.GE…
I traffici di rifiuti nucleari e non, in ed attraverso la Liguria non sono una novità.
Non lo sono rispetto al confine con la Francia e non lo sono considerando che il più grande porto turistico del mediterraneo – prima del faraonico “porticciolo” di Imperia, dove lavorava sempre la ‘ndrangheta-, quello di Lavagna, è in mano ad un noto personaggio il cui nome ricorre in atti relativi a fatti inquietanti di traffici internazionali di rifiuti, tra Servizi ed ‘ndrangheta, ovvero Jack Roc Mazreku. Il nome di Mazreku lo si è trovato in molteplici filoni delle inchieste sulle navi dei veleni, lungo le rotte delle scorie e di armi, a partire da quelli per via delle navi dei Messina con, su tutte, la Jolly Rosso, per arrivare ai porti dell’Africa, dove la Comerio company era di casa, in mezzo agli “aiuti umanitari” del nostro Paese. Ora costui è a Lavagna, dove controlla quel porto mai collaudato con una diga dove il “sapore” dei veleni sembra celarsi alle terre di riempimento per l’ampliamento effettuato violando le prescrizioni più elementari… mentre i pescatori parlano di decine e decine di imbarcazioni affondate al largo di Lavagna, direzione Corsica.

Rifiuti ed armi, scorie e morte sono rotte che dalla Liguria sono sempre partite e dove le diverse province hanno giocato ruoli determinanti per gli smaltimenti illeciti di rifiuti tossici. Province dove sono accertati i “locali” della ‘ndrangheta, da Ventimiglia a Savona, da Genova a Lavagna…

Un capitolo mai pienamente chiuso è quello, ad esempio, della Rifiuti Connection dei primi anni Novanta, che vedeva noti “imprenditori” al fianco di pericolosi soggetti legati alla ‘ndrangheta, come i Fazzari – Gullace. Una cava nella ridente località turistica di Borghetto Santo Spirito, nel savonese, venne scoperta con oltre 12 mila fusti tossici. Altri 40 mila fusti vennero indicati, agli inquirenti, occultati nel levante genovese, nell’altra ridente terra di turismo e massoneria, il Tigullio, non sono mai stati cercati e potrebbero essere sepolti in quella che è divenuta una bomba ecologica innescata ed ancora inesplosa, tra le gallerie dell’immane ex Miniera di Libiola, sulle alture di Sestri Levante.

A La Spezia è tenuto in sordina e ignorato uno dei processi cardine dei traffici illeciti, quello che fa riferimento alla discarica di Pitelli, dove erano coinvolti uomini di primo piano della sinistra e dove la prescrizione per i reati principali è giunta salvifica praticamente per tutti… e dove i politici sono riusciti ad uscire di scena in fretta. Prima era un ostacolo dopo l’altro che veniva posto sulla strada dell’inchiesta coordinata dal pm Franz e poi, quando questi abbandonò il Palazzo di Giustizia spezzino, tutto cadde nel silenzio.
Ed è qui a La Spezia, dove si stava recando il capitano De Grazia prima di morire, che vi è un impatto devastante, da un lato, quella intorno alla discarica dei veleni di Pitelli dove i tumori infantili sono un record (negativo) nazionale, mentre dall’altro, quello del Porto, con l’Arsenale militare, vi è un’incidenza devastante di malattie autoimmunizzanti come la sclerosi multipla.

E’ a La Spezia che operava il boss Iamonte per riempire le navi da affondare… è qui che è pesante ed accertata, ancora una volta, la presenza di Cosa Nostra proprio nel settore portuale… e sempre da qui passava la rotta dei rifiuti derivanti dalle bonifiche di Seveso, che paiono ancora stoccate tra capannoni nella zona di Garlasco ed in alcuni lungo le banchine di La Spezia. E’ qui che vennero provati i missili “penetretor” della banda di Comerio per sparare nei fondali marini le scorie tossiche. E’ qui che recentemente un Gabriele Volpi, campione dello sport, anche lui con notevoli affari e traffici lungo le rotte con l’Africa, ed al centro di molteplici inchieste giudiziarie, ha avuto qualche banchina in concessione proprio in questo porto dell’estremo levante ligure.

Un panorama devastante dove le società di famiglie di mafia da quelle dei Fazzari-Gullace, su tutti la Sa.Mo.Ter. a quelle dei Fotia con la Scavo-Ter – entrambe già in rapporto con le società Mamone -, vedono assecondare le loro iniziative per adibire le cave a “discarica” da parte della dirigenza del settore ambiente della Regione Liguria, sempre il settore cave, sempre quella dott.ssa Minervini che era già stata indicata dalla Guardia di Finanza alla Procura di Genova tra i soggetti che, sulla partita dell’ex stabilimento “killer” della Stoppani, hanno operato per agevolare i Mamone, amici, ad esempio, del potente presidente della Regione Liguria, Claudio Burlando. Fatti le cui responsabilità delle Pubbliche Amministrazioni sono pesanti e che vedono reggere il ruolo di assessore all’ambiente della Regione Liguria quell’uomo che pare un perenne distratto, ovvero Franco Zunino, già responsabile del procedimento – nella veste di funzionario comunale di Celle Ligure – relativo all’appalto irregolare alla società Co.For. dei fratelli Guarnaccia (colpiti da arresto e sequestro, da parte della DDA di Reggio Calabria, dei beni in quanto esponenti della ‘ndrangheta impegnata nell’infiltrazione negli appalti pubblici, con l’operazione Arca).

Questa è la Liguria che ora, grazie anche alla linea del Governo Berlusconi, su impulso del “sovrano” imperiese e ministro della Repubblica, Claudio Scajola, sempre in tandem con Claudio Burlando, punta sul business del nucleare, pronta, sul nastro di partenza, per divorare la sua buona fetta di affari.

Navi dei veleni – Non lasciamo sola la Calabria : Pietro Orsatti

Navi dei veleni – Non lasciamo sola la Calabria : Pietro Orsatti.

di Pietro Orsatti Editoriale su Terra

Oggi ad Amantea la società civile scende in piazza per chiedere risposte e atti concreti. Perché la società calabrese ha memoria. E vive i segni della memoria sulla propria pelle, abbandonata in un limbo di inazione, il rifiuto di fatto del di intervenire, sola davanti alla devastazione del proprio territorio e dei propri mari. Perché tutti sapevano, da almeno 14 anni, che i mari di Calabria si sono trasformati in un cimitero di navi a perdere, di carrette fuori corso riempite di scorie e rifiuti tossici e affondate. Ottenendo due risultati: smaltire a basso costo rifiuti pericolosi e truffare le assicurazioni. Un mix di imprenditori senza scrupoli, trafficanti, mafiosi, pezzi di istituzioni che non hanno vigilato. Tutti sapevano. Perché ora non si può più negare l’evidenza, dopo il ritrovamento della Cunsky nelle acque di Cetraro nel Tirreno. Da quando la Rosso (già Jolly Rosso, dell’armatore Messina già coinvolto per traffico di rifiuti) spiaggiò sulle coste calabresi e nella cabina del comandante venne trovata un’agenda con longitudine e latitudine e accanto scritto: «La nave è affondata». Si trattava della Rigel. Una commissione d’inchiesta ottenne i fondi per ricercarla nello Jonio al largo di Capo Spartivento, ma l’azienda che aveva
ottenuto l’appalto, che più tardi si scoprì legata ai servizi, non riuscì a individuarla. Tutti sapevano che i rifiuti partivano dalla Liguria, in parte finivano nel Mare nostrum e in parte in Paesi come la Somalia. Si chiamano triangolazioni. Si prende un pezzo di mare o di terra (e mai fondali furono così propizi come quelli di Bosaso in Somalia), lo si paga a un signore locale della guerra con denaro e armi, finanziando così una bella carneficina. E chi sopravvive si becca gli effetti delle scorie. Tutti sapevano, anche Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, che proprio a Bosaso
girarono l’ultimo servizio sui traffici di armi e rifiuti. Un servizio che non è mai andato in onda. Uccisi perché sapevano. Depredati del loro perché scomodo, non raccontabile. Il legame è così palese, evidente. Oggi si saprà, finalmente, chi vuole la verità. Chi la vuole davvero. Anche nella politica. Oggi si conteranno più le assenze che le presenze. E quella del centrodestra, che ha deciso di nascondere la testa sotto la sabbia non aderendo alla manifestazione di Amantea dice più di tanti discorsi. Tutti sapevano, anche se adesso qualcuno cerca di negare. La storia delle navi a perdere è il paradigma di questo Paese, dove sapere non conta nulla. Se non quando la situazione è precipitata.

Scorie a perdere

Fonte: Scorie a perdere.

Questa è una storia particolare. Questa è una storia di uomini, mezz’uomini, ominicchi, pigliainculo e quaquaraquà, come diceva Leonardo Sciascia. Questa è una storia di nebbie. Nebbie che avvolgono tutto. Avvolgono uomini che scavano nella verità e avvolgono uomini che quella verità tentano di occultarla. Ed avvolgono navi.

Per iniziare questa storia partiamo dalla provincia del Guangdong, Cina. Ogni anno 150 milioni di televisori, lavatrici, frigoriferi ed altra immondizia “tecnologicamente avanzata” viene portata in queste terre, note non certo per la ferrea normativa ambientale. Più del 90% di questi rifiuti però non viene portato in qualche azienda per il riutilizzo o per il definitivo smaltimento. Finisce invece nei garage delle abitazioni, in strada, negli orti e viene trattato senza la minima precauzione. Da dove viene quell’immondizia? Alcuni di quei rottami… partono da Aiello del Friuli, Udine, dove confluiscono i rottami di ditte friulane, liguri, venete e lombarde allocate in un sito di stoccaggio non autorizzato e dove arriva quello stesso materiale di scarto che le “grandi ditte” del Nord (quelle che portano sulle loro spalle – a detta loro – il peso economico dell’azienda Italia) spesso imbarcano su carrette del mare per mandarle in qualche altra zona lontana dall’aura di magnificenza con la quale vengono dipinti dai nostri quotidiani. Le mandano così lontane che spesso queste carrette si perdono nel mar Tirreno. Italia.

Cetraro (Cosenza) – Un mezzo telecomandato sottomarino messo a disposizione dalla Regione Calabria ha ritrovato a 500 metri di profondità nel mare antistante le coste cosentine il relitto di una nave. Cosa che di per sé non dovrebbe destare dubbi o far porre troppe domande, tant’è vero che la notizia è passata praticamente inosservata sui media del circuito mainstream. Ma una nave dai cui oblò si vedono due scheletri (o almeno questo è quel che sembra vedersi…) e dalla quale si potrebbero prelevare ben 120 fusti pieni di materiale non identificato si può considerare “normalità”?
Cosa contengano quei fusti è irrilevante ai fini ambientali. Che contengano vernici, solventi, acidi o materiale di altro tipo la cosa certa è che quel materiale non fa bene alle nostre acque, visto che dai rilevamenti effettuati in passato sono stati accertati eccessivi livelli di piombo. La prua della Cunski, questo il nome della motonave affondata, è squarciata. Che qualcuno abbia voluto portar via quei fusti prima che potessero essere ritrovati? Cosa contenevano di tanto “importante” da avere tutta questa premura di portarsi dietro 120 fusti non certo occultabili in un paio di tasche?
E, cosa forse anche più importante: quante altre “Cunski” ci sono disseminate nei nostri mari?

A quest’ultima domanda stava tentando di rispondere il Capitano di vascello Natale De Grazia, 39 anni, una di quelle persone che la divisa che indossano la onorano sul serio. In quel periodo (siamo nel 1995) faceva il consulente tecnico del pm Francesco Neri. De Grazia stava indagando non solo – e forse non tanto – sugli affondamenti. Ma sulle rotte; quelle stesse rotte che lo avevano portato a girare in lungo e in largo l’Italia e l’Africa. Seguendo una di quelle rotte aveva scoperto un cimitero ambulante che partendo dal Nord Italia – nell’area dei c.d. “porti delle nebbie” come La Spezia e Livorno – finiva nei mari del sud o, più facilmente, lungo le coste africane. Conoscere certe cose però, in un paese che convive ed accetta i fenomeni mafiosi, può portarti a fare conoscenze indesiderate. O può portarti alla morte com’è successo a De Grazia, stroncato da un infarto il 13 dicembre del 1995 mentre da Amantea – dove si era recato per indagare sullo spiaggiamento della “Jolly Rosso”- si stava dirigendo proprio al porto di La Spezia. Si dice che ad Amantea abbia parlato con qualcuno, ma non esistono riscontri (verbali e quant’altro…) che ne possano dare l’ufficialità. Con chi ha parlato il Capitano De Grazia? Cosa gli ha detto di tanto “importante” da non permettere che quella storia fosse conosciuta da tutti? Perché il Capitano a La Spezia non ci arriverà mai. Colto da infarto o da avvelenamento? Anche questa – per ora – rimane una domanda avvolta nella nebbia, in quanto i risultati dell’autopsia fatta sul cadavere non confermerebbero l’infarto.

Se il capitano avesse potuto portare a termine le indagini, probabilmente si sarebbe imbattuto in personaggi particolari. Degni delle migliori storie di spie e controspionaggi. Come Giorgio Comerio. Di mestiere fa l’imprenditore. Settore antenne ed apparecchiature di indagine geognostica. Insomma: uno che spesso aveva a che fare con affondamenti e carichi “particolari”. Come particolari erano le sue frequentazioni, che andavano dai servizi argentini ed iracheni fino a trafficanti di armi o ad alcuni clan della costa jonica, come si evince dai libri contabili dell’azienda di cui era titolare: la O.d.m. (acronimo di Oceanic Disposal Management) con sede a Lugano che dal proprio sito internet offriva i suoi servigi di affondamento navi a chiunque ne avesse bisogno – una specie di mercenario dell’affondamento, insomma – sostenendo di non commettere reato (la Convenzione di Londra del 1972 vieta espressamente lo scarico di rifiuti radioattivi in mare) perché lui i rifiuti non li buttava “in” mare, ma “sotto” il mare in quanto – tramite l’utilizzo di una sorta di siluri d’acciaio – li spediva a 40-50 metri di profondità.

Molto prolifico per Comerio doveva essere il mercato africano, visti i frequenti contatti con i governi della Sierra Leone, del Sudafrica e con le milizie che in quegli anni lottavano in Somalia per definire chi tra Ali Mahdi e Aidid (appoggiato in un primo momento dagli U.S.A. che poi – come al solito – gli danno la caccia…) dovesse prendere il posto che fu di Siad Barre, una sorta di Gheddafi d’antan, considerato amico dell’Italia all’epoca del governo Craxi. Al governo somalo Comerio propone 5 milioni di $ per poter inabissare rifiuti radioattivi di fronte alla costa e 10.000€ di tangente al capo della fazione vincente dell’epoca (Ali Mahdi, appunto) per ogni missile inabissato. Pagamento estero su estero, ovviamente.

Come se non bastasse, in tutta questa storia c’è un giallo. Giallo come il colore della cartellina che è stata rinvenuta a casa dell’imprenditore identificata con il numero 31 ed intitolata “Somalia”. Uno potrà dire: magari ci saranno i resoconti e le carte dei suoi affari. Può anche essere. Ma che tra queste carte sia stato rinvenuto il certificato di morte di Ilaria Alpi dovrebbe quantomeno far riflettere. Interessanti poi sono anche gli appunti trovati a casa di un socio di Comerio, Gabriele Molaschi, nei quali vi sono annotati carri armati Leopard, Mig, mitragliatrici “Breda”, artiglieria pesante e leggera. Insomma, qualcuno aveva fatto la lista della spesa (probabilmente rappresentava il prezzo da pagare per lo sversamento davanti alle coste somale dei rifiuti radioattivi).

Questo dovrebbe far quantomeno riflettere, dicevo. Come dovrebbe far riflettere quello che è successo nei giorni in cui la giornalista del Tg3 e Miran Hrovatin – il suo operatore – venivano uccisi a Mogadiscio il 20 marzo del 1994. O sarebbe meglio dire venivano giustiziati. Spariscono tre block notes di appunti, sparisce l’agendina con i numeri telefonici e c’è una Commissione d’inchiesta – presieduta dall’onnipresente Carlo Taormina – che predilige una fantomatica pista “islamica”, tanto da arrivare a dire che l’uccisione dei due giornalisti sia da attribuire ad un rapimento finito male.

“1.400 miliardi di lire (che erano poi i soldi della cooperazione italiana, ndr): che fine ha fatto questa ingente mole di denaro?” Era questa la domanda che aveva spinto Ilaria Alpi a tornare di nuovo in quella terra che tanto amava: la Somalia. La stessa domanda che aveva posto al “sultano di Bosaaso” (al secolo Abdullahi Mussa Bogor, ex Ministro della Giustizia ai tempi di Siad Barre). «Stia attenta, signorina. Da noi, chi ha parlato del trasporto di armi, chi ha detto di aver visto qualcosa, poi è scomparso. In un modo o nell’altro, è morto» era stata la risposta.

Mai affermazione fu più profetica, verrebbe da dire guardando a questi 15 anni di depistaggi, imbrogli, verità parziali e verità fittizie. Quel che è certo, però, è che armi e tangenti erano i mezzi di pagamento per il disturbo dei rifiuti tossici nelle acque somale.
Ilaria Alpi era partita – anzi, ri-partita visto che era già il suo settimo od ottavo viaggio in Somalia – sulle tracce di una nave della compagnia Shifco, discussa società somala che spesso trasportava rifiuti tossici provenienti dalla Trisaia di Rotondella (MT) una sorta di immenso outlet (come nella scena iniziale di Canadian Bacon di Michael Moore) per chi aveva necessità “atomiche” come l’acquisto di uranio depleto, che ritrattato serve a costruire bombe. Mi chiedo quanto di questo uranio sia oggi tra quello con cui gli americani vorrebbero far costruire la bomba atomica all’Iran…

L’omicidio Alpi smuove un po’ la situazione, visto che dagli anni Novanta questo via vai sulla rotta dei rifiuti sembra quantomeno calmarsi. Quel che non si calma, invece, è lo sdegno della società civile.

Francesco Gangemi è sindaco di Reggio Calabria nel 1992 (anche se solo per tre settimane). Quel che interessa in questa sede, però, è il fatto che Gangemi sia anche direttore del mensile calabrese “Il Dibattito”, dalla linea spesso aggressiva verso politici e magistrati. Firma un’inchiesta a puntate dal titolo quanto mai eloquente: “Chi ha ucciso Ilaria Alpi?” che inizia così:

«Fin dai primi passi di questa mia lunga strada, che immagino irta di ostacoli e contraccolpi, voglio informare i nostri lettori e le autorità che eventuali rappresaglie che dovessi subire non sarebbero certo riconducibili alla ‘ndrangheta o ad altre organizzazioni criminali, ma ai servizi segreti deviati e assoggettati a taluni magistrati inadempienti ai loro doveri d’uffico e al governo, che rimane il fulcro delle operazioni sporche che stanno inginocchiando l’umanità intera a fronte di vantaggi di varia natura».

Questa è una storia di nebbie.
Nebbie che avvolgono cose, avvolgono luoghi e persone.
Come le nebbie che avvolgono un altro dei grandi misteri d’Italia.
Il 27 giugno 1980 un Douglas DC-9 appartenente alla compagnia aerea Itavia si squarcia in volo, nel cielo tra le isole di Ustica e Ponza. E’ questo il “mistero di Ustica”. Ma c’è un mistero anche più “misterioso” che succede quella notte. Il 18 luglio, infatti, sui monti della Sila (Calabria) viene trovato un Mig 23 libico abbattuto la notte della strage di Ustica. Il maresciallo Mario Alberto Dettori, radarista della base di Poggio Ballone (Grosseto) confessa alla moglie: «Quella notte è successo un casino, per poco non scoppia la guerra». Dettori morirà suicida nel marzo dell”87, ossessionato da una scritta che – dice – non lo abbandona mai: “il silenzio è d’oro e uccide”. Cos’è successo “quella notte” di così grave da aver sfiorato una guerra?

Una delle tesi più accreditate – e ritenute più verosimili persino dagli “esperti”- è che il Dc9 sia stato “buttato giù” da missili americani, i quali evidentemente non accettavano che il centro Enea di Rotondella fosse un “outlet aperto a tutti”, in particolare a paesi allora nemici come la Libia. Nel marzo del 1993, ad avvalorare questa tesi ci pensa Alexj Pavlov, ex colonnello del KGB il quale sostiene che il Dc9 fu abbattuto da missili americani, i sovietici videro tutto dalla base militare segreta in Libia, ma furono costretti a non rivelare quanto sapevano per non scoprire il loro punto di osservazione. Quella notte furono fatte allontanare tutte le unità sovietiche della zona perché si sapeva che ci sarebbe stata un’esercitazione a fuoco delle forze americane. Se lo sapevano i sovietici, come mai noi non ne eravamo a conoscenza? O forse lo sapevamo e – volutamente – abbiamo deciso di lasciare andare il Dc9 che, dunque, più che un aereo quella notte fu utilizzato come “tiro a segno” per i caccia americani?

Il fenomeno dello smaltimento dei rifiuti tossici è uno di quelli sui quali chi riesce a metterci le mani prende la tanto agognata “galline dalle uova d’oro”. Per capire la grandezza di questo fenomeno basti pensare che la quantità di rifiuti da smaltire prodotti nel nostro paese crea per le organizzazioni criminali (in questo caso Cosa Nostra, ‘Ndrangheta e Camorra non si fanno certo la guerra…) un giro d’affari tra i 1.000 ed i 3.000 miliardi circa di euro annui. E in queste cifre è presente solo il 15% dei rifiuti da smaltire, cioè la quantità che viene smaltita legalmente.

C’è poi un altro mistero nella faccenda delle navi a perdere.
Il 20 Giugno 1991 sulla Gazzetta del Sud compare questo articolo a firma Gaetano Vena: “Quasi completata l’operazione di demolizione della Rosso. Nessun materiale nocivo rinvenuto all’interno dei container che trasportava la nave della società Ignazio Messina S.p.A. di Genova che proveniente da Malta e diretta a La Spezia si arenò il 14 dicembre 1990 per una violenta tempesta di mare”. La “Jolly Rosso” (chiamata così perché riportò in Italia le diossine di Seveso sparse per il globo e in attesa di smaltimento…) stava tornando da Beirut, dove aveva caricato 2.200 tonnellate di rifiuti tossici da trasportare in Italia, al porto di La Spezia. C’è però una particolarità in questa storia, e i “vecchi lupi di mare” me ne daranno probabilmente ragione. Dopo questo viaggio, infatti, la Jolly Rosso diventa semplicemente la “Rosso”. E cambiare il nome di un’imbarcazione è considerato un elemento foriero di cattiva sorte (come poi succederà di lì a poco…) Quando la “Rosso” affonda, viene chiamata per il ripescaggio una società olandese, la Smit Tak: una delle società più competenti nel recupero navi e salvataggi marini. Passano 17 giorni, poi la S.T. rescinde il contratto con tanti saluti ed abbandona l’affare. Incompetenza? Non sembra, visto che la stessa Smit Tak si è occupata del recupero del Kursk, il sottomarino nucleare russo affondato nel mare di Barents balzato agli onori della cronaca qualche anno fa. Gli inquirenti sono incuriositi da due aspetti di questa società:
Così come oggi, anche agli inizi degli anni ‘90 la Smit Tak era un’impresa molto grossa, forse la più grande a livello internazionale, forse troppo grossa per un affare da poco come il recupero di una imbarcazione tutto sommato piccola come la “Rosso”; e poi è nota principalmente per il ramo di società legato alla bonifica di incidenti che hanno a che fare con materiale radioattivo.

Ad un giorno dallo spiaggiamento, a bordo del relitto della Rosso si presentano agenti dei servizi segreti che rinvengono documenti siglati O.d.m. (la società di Comerio che abbiamo visto in precedenza…). Una volta visionati, i documenti vengono restituiti alla Messina S.p.A. Perché i documenti vengono restituiti? Non servono forse come “prova” in un’eventuale indagine sui motivi che hanno portato allo spiaggiamento della Rosso? E perché questi uomini si presentano lì e – apparentemente senza alcuna autorità e senza che nessuno vi si opponga – rinvengono tali documenti, magari anche trafugando quelli che potevano essere “sconvenienti”? E per quale motivo si smuovono i servizi segreti se – ufficialmente – la Rosso trasportava “sostanze alimentari e generi di consumo”?

Servizi segreti deviati, organizzazioni criminali, l’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin e la strage di Ustica. Cosa c’è davvero dietro all’affondamento della Cunski e delle altre “navi a perdere”? E soprattutto chi?

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“Che cosa ci facciamo ancora in Afghanistan?”. Se lo chiedeva – all’indomani dell’ultima strage di soldati italiani – anche il leader dell’Italia dei Valori, Antonio Di Pietro (che pure, quando stava al governo, aveva votato per continuare la “missione di pace”, senza fiatare). Un interrogativo che in questi giorni, in queste settimane, si devono essere posto molti italiani. Anche perchè a otto anni dallo scoppio del conflitto – conflitto che per alcuni è guerra al terrorismo; per altri una pura e semplice invasione – i più manco si ricordano cosa ci siamo andati a fare a Kabul. Sempre che lo abbiano mai saputo.

Bene. Le risposte a questa benedetta domanda – “Che cosa ci facciamo ancora in Afghanistan?” – sono state tante. Politici, giornalisti e opinionisti di arte varia ci si sono dedicati per giorni tra prime pagine di giornali e prime serate tivù. Dicendo tutto e il contrario di tutto. Ma oggi Curzio Maltese – giornalista e firma di punta di “Repubblica”è riuscito a dire qualcosa di più e di diverso. Spiegando che pace e democrazia e terrorismo c’entravano e c’entrano fino a un certo punto. E che molto, invece, c’entrano le armi. Armi che le aziende tricolori vendono copiosamente. Tanto ai nostri soldati. Quanto – e per quanto faccia male, è bene farlo sapere in giro – a ribelli, insorgenti o resistenti (comunque, insomma, li si voglia chiamare).

Maltese parte da un numero che pochi conoscono. E scrive:

Una settimana prima della strage di Kabul, lo studio ricerche del congresso Usa aveva stilato il rapporto annuale sul commercio d’armi, con una buona notizia per l’industria militare italiana, tornata la seconda esportatrice del mondo. Primi, naturalmente, gli Stati Uniti, con 37,8 miliardi di dollari; staccata l’Italia con 3,7 miliardi, ma pur sempre davanti alla Russia e al resto del mondo.

Ecco, allora, osserva il giornalista di “Repubblica” che:

Le missioni militari nel mondo spesso si rivelano un doppio affare. Aumentano le commesse militari nei Paesi occidentali, ma soprattutto fanno espandere la domanda nei Paesi mediorientali, africani e in genere del Terzo mondo, dove si dirige il settanta per cento del mercato.

Qualche esempio. Maltese ne cita due. Con tanto di nomi, o meglio è il caso di dire di cognomi. Primo:

Prendete il simbolo stesso dell’arma italiana, la pistola Beretta. In Iraq la usano tanto i soldati americani e italiani, quanto i terroristi di Al Qaeda. Quattro anni fa l’esercito americano ne trovò scatoloni interi in un arsenale di terroristi. (…) In teoria non si potrebbero vendere armi non solo ai terroristi, com’è ovvio, ma anche a molti Paesi belligeranti e non, sparsi per il mondo. Ma i sistemi per aggirare l’embargo sono moltissimi, noti eppure non controllati, come la vendita a pezzi da assemblare (…)

E secondo (esempio):

Le nostre mine antiuomo (…) sono state trovate in una ventina di nazioni. A cominciare dall’Afghanistan, la nazione più minata della Terra. I Talibani usano materiali di mine russe e italiane per comporre gli esplosivi degli attentati kamikaze.

Attentati come quello che ha ucciso i nostri soldati? Sì, esatto. Ma di tutto questo – all’indomani della strage di Kabul – quasi non si è parlato. E non lo si è fatto, secondo il giornalista di “Repubblica”, per una ragione molto semplice: “(…) quando si parla di ritiro delle truppe in Iraq e Afghanistan, si parla di perdite di miliardi di commesse militari per l’industria bellica. Lo sa Berlusconi, amico personale di Guido Beretta. Lo sa Barack Obama, molto prudente sulla questione. Gli ultimi presidenti, candidati alla presidenza e primi ministri che hanno annunciato ritiri dal fronte e tagli alle spese militari, sono morti giovani“.

Tutto vero? Tutto faso? Difficile dire. Quel che è certo è che il “j’accuse” di Maltese è finito non in qualche angolino in fondo al giornale. Ma direttamente in uno spazio grosso come una cartolina dell’inserto di oggi (”il Venerdì” di Repubblica). E chissà: se fossero esiste – chessò – delle pagine locali distribuite solo su Marte, magari queste poche righe sulle ragioni di Guerra&Pace sarebbero state confinate lì. In compenso – domenica scorsa – sempre Repubblica, ma in prima pagina, ospitava un fondo firmato dal suo fondatore, Eugenio Scalfari. Titolo eloquente: “Come e perché restare a Kabul”. E giudizi tranchant sui politici italiani più propensi al ritiro: “Bossi vuole che i soldati italiani tornino a casa. Anche Di Pietro ha inalberato lo slogan del ritiro. L’anima populista dell’opposizione. Senza capire che questi slogan puramente velleitari non fanno che aumentare i rischi per i nostri militari: se la presenza italiana in Afghanistan diventasse incerta, gli assalti dei terroristi si concentrerebbero contro il nostro contingente per affrettarne la partenza”.

Forse: che parlare di ritiro è pericoloso, lo sanno bene anche a “Repubblica”.

P.S. L’articolo di Curzio Maltese – “Non esportiamo democrazia. Ma armi sì”, Venerdì di Repubblica, 25 settembre 2009 – non è ancora disponibile on line. Dovrebbe esserlo – come tutti gli articoli di “Repubblica” – a qualche giorno dalla pubblicazione. E allora, lo metteremo on line.

IL BEL PAESE DELLE ARMI | Tutto Gambatesa .net

IL BEL PAESE DELLE ARMI | Tutto Gambatesa .net.

di Monica Centofante

C’è un business che non conosce crisi e che in controtendenza con l’andamento generale del mercato è sempre in rapida espansione: è quello delle armi, un comparto in continua crescita con miliardi di dollari di fatturato. E una delle principali fonti di guadagno per il nostro Paese, che dal 1945 in poi si è sempre posizionato tra i primi dieci produttori di armamenti al mondo. A fare la nostra “fortuna”, in particolare, i Paesi del Terzo Mondo, dove da oltre trent’anni esportiamo ogni sorta di arma e di armamento, rendendoci complici di sanguinari conflitti e di violazioni dei diritti umani.
Dal secondo dopoguerra ad oggi, pizza a parte, c’è un solo made in Italy che tra alti e bassi non tramonta mai. E che in tempi di crisi, con un evidente effetto trainante sull’economia, registra un saldo attivo commerciale in netto contrasto con il deficit del Paese.
E’ il mercato delle armi, un comparto aziendale con decine di migliaia di addetti e miliardi di Euro di fatturato. Il fiore all’occhiello dell’economia italiana e uno dei principali responsabili della morte e della distruzione di milioni di vite umane.
Il rapporto annuale del Presidente del Consiglio dei Ministri – (come di consueto) pubblicato a fine marzo di quest’anno e riferito alle attività del 2008 – è coerente con i trend di crescita del settore. Che l’anno scorso ha ottenuto 1880 autorizzazioni all’esportazione per oltre 3 miliardi di Euro: il 28,58% in più rispetto al 2007, con consegne realmente effettuate per 1 miliardo e 800 milioni, autorizzazioni relative a programmi intergovernativi per 2 miliardi e 700 milioni e un volume d’affari di oltre 7 miliardi e 500 milioni di Euro.
Dati che da soli valgono a dimostrare il consolidamento e l’incremento nel “mercato globale” dell’industria bellica italiana, che si conferma come “un competitivo integratore di sistemi, capace di affermarsi in mercati tecnologicamente all’avanguardia”.
Lo rivendica con orgoglio il documento, una trentina di pagine in tutto più una ventina di tabelle, che presentano una serie di numeri dei quali però c’è ben poco da andare fieri. Più del 30% delle nostre esportazioni, si apprende, raggiunge i Paesi del sud del mondo e il 35,86% la Turchia, che ha immesso nella nostra economia oltre 1 miliardo di Euro grazie a commesse che comprendono non meglio identificati “elicotteri”.
Il termine è generico, ma le dichiarazioni pubblicate nel settembre del 2007 sul sito ufficiale del ministero della difesa turco lasciano spazio a pochi dubbi: “Nel quadro del programma Atak (Tactical Reconnaissance and Attack Helicoper ndr.) – si legge – lo scorso 7 settembre è stato raggiunto l’accordo con Agusta Westland: seguirà presto una cerimonia ufficiale”. L’accordo prevedeva la commessa di 1,2 miliardi di euro per 51 elicotteri A129 da combattimento destinati al Comando turco delle forze di terra e all’avvio delle trattative il Presidente e Amministratore Delegato di Finmeccanica, Pier Francesco Guarguaglini, si mostrava più che soddisfatto. “La scelta degli elicotteri Agusta Westland da parte della Turchia – aveva detto – conferma l’elevata competitività dei nostri prodotti e le ottime relazioni industriali” che esistono tra i due Paesi. In Turchia, tra l’altro, “Finmeccanica è presente da molti anni in diversi settori. Questa scelta rinnova i rapporti di stima e amicizia reciproci e apre la strada a nuove interessanti opportunità di collaborazione tra i due Paesi”. Agusta Westland è infatti una controllata di Finmeccanica, di cui il principale azionista è il Governo, e “forse per il semplice fatto che la Turchia sia un partner Nato e che si trattava di elicotteri ha fatto ‘sorvolare’ su qualche denuncia ribadita dalle associazioni per la difesa dei diritti umani”.
Il commento è di Giorgio Beretta, della Rete Italiana per il Disarmo, che ricorda inoltre come la stessa azienda abbia inaugurato lo scorso anno ad Ankara i suoi nuovi “Regional Business Headquarters”. D’altronde, come si dice, “business is business” e così, mentre a parole, strette di mano e visite ufficiali l’Italia si eleva a paladina dei diritti dei più deboli contro l’asse del male, dall’altra non esita a fornire ai Paesi che i diritti umani li violano costantemente i mezzi per poter proseguire a perpetrare ogni sorta di violenza.
Nell’ultimo rapporto di Amnesty International, la Turchia figura come il Paese in cui “il sentimento e la violenza nazionalisti sono aumentati sull’onda di un’accresciuta incertezza politica e degli interventi armati. La libertà di espressione ha continuato a essere limitata”, non si sono fermate le “denunce di tortura e altri maltrattamenti” ed eccessivo è l’”impiego della forza da parte delle forze dell’ordine”. “Le incriminazioni per violazioni dei diritti umani – ancora – sono state inefficaci e insufficienti”, anche nei confronti “di rifugiati e richiedenti asilo”. E “non sono cessate le preoccupazioni per la mancanza di equità processuale”.
Nessuna meraviglia.
Non è l’unica nazione interessata da violazioni dei diritti umani, né da conflitti o tensioni a cui l’Italia vende materiali d’armamento. E a cui, nel corso della storia, li ha venduti.
Basti pensare che nella rosa dei migliori clienti non mancano neppure stati canaglia come la Siria, che da noi ha comprato sistemi di puntamento per 2,8 milioni di Euro e fino al 2007 anche l’Iraq. Nel pieno della “guerra preventiva” contro l’Occidente del mondo.
Contemporaneamente, è ovvio, gli affari si fanno anche con gli Stati avversari, quelli della “lotta al terrorismo”, che sono nostri alleati. E con operazioni come quella chiusa alla fine del 2008 quando Alenia North America, controllata di Finmeccanica, ha siglato un contratto del valore di 287 milioni di dollari con l’Usaf per la fornitura di 18 velivoli da trasporto tattico G.222. Velivoli che saranno girati alle forze armate afgane (Afghanistan National Army Air Corps) dal Combined Air Power Transition Force dell’Usaf di Kabul. “Siamo orgogliosi – ha dichiarato per l’occasione Giuseppe Giordo, presidente ed amministratore delegato di Alenia – di supportare ancora una volta le Forze Armate Usa nella lotta globale al terrorismo, con la fornitura di un velivolo robusto – che ha dimostrato nel corso della sua carriera delle eccellenti capacità – per il suo utilizzo in Afghanistan da parte dell’Anaac”.
Come dire: un colpo al cerchio e uno alla botte. Lucrosissimi tutti e due.
E se questi sono i principali dati riguardanti la vendita di armamenti da guerra non sono da sottovalutare altri dati: quelli riferiti alle cosiddette “armi leggere” di fabbricazione nostrana – utilizzate per lo più nei conflitti a “bassa intensità” dei Paesi in via di sviluppo – delle quali è pieno il mondo. Con risultati, in termini di diritti umani, a dir poco disastrosi.
E il principio costituzionale secondo il quale “l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”?
Carta straccia. Aggirato da una serie di stratagemmi volti ad eludere le norme in materia di vendita di armi (peraltro relativamente recenti), da accordi internazionali, da operazioni non proprio limpide, che hanno caratterizzato tutta la storia dell’industria armiera italiana e, in modo particolare, gli ultimi quarant’anni.
Nel corso dei quali il modo di “concepire la guerra” si è lentamente trasformato: non più d’assalto, ma, dicevamo, a “bassa intensità”, recentemente definita “chirurgica”, “elettronica” o più ipocritamente “in funzione della pace, della democrazia, della libertà”.
La metamorfosi, concepita negli anni Novanta protagonisti del secondo conflitto del Golfo e della guerra in Jugoslavia, avviene l’11 settembre del 2001. E porta con sé – oltre a una serie di problematiche politico-sociali che in questa sede non tratteremo – un consistente incremento nella produzione di armi ed armamenti. Che va a sovrapporsi a quel “dividendo della pace”, seguito al crollo dell’Unione Sovietica, il quale ha avuto vita relativamente breve e che dopo una iniziale riduzione della spesa militare nei principali Paesi occidentali ha presto ceduto il passo a una nuova corsa agli armamenti. D’altronde, come giustamente annotano Riccardo Bagnato e Benedetta Verrini in Armi d’Italia, “le guerre hanno bisogno di armamenti almeno quanto gli armamenti hanno bisogno di guerre”.
E in quest’ottica, i dati raccolti da Vincenzo Comito (Le armi come impresa) e riportati nei rapporti annuali del Sipri, l’Istituto Internazionale di Ricerche sulla Pace di Stoccolma, parlano chiaro: se già dagli ultimi anni Novanta le prime cento imprese del settore a livello mondiale erano in crescita, nel 2005 la spesa per gli armamenti ha raggiunto la cifra di 1.001 miliardi di dollari, nel 2006 ha toccato i 1.204 e nel 2007 i 1.339. Cifre che corrispondono grosso modo al 2,5% del pil mondiale nei due anni e a 173 dollari per ogni abitante della terra nel 2005, a 184 dollari nel 2006, a 202 nel 2007”. Oltre ad un incremento nel 2007, rispetto al 1998, del 45%.
Anche il 2008, rispettando i ritmi di crescita a dispetto della crisi finanziaria internazionale, ha visto un incremento della spesa militare mondiale pari al 4%, ossia 1.464 miliardi di dollari. 40,6 dei quali sono stati spesi dal nostro Paese, che quest’anno si posiziona all’ottavo posto per spese militari con un aumento del budget militare nazionale pari all’1,8%.
L’Italia, si legge nel Sipri Yearbook 2009, ricopre il 2,8% della spesa militare mondiale che vede gli Stati Uniti al primo posto seguiti dalla Cina (per la prima volta dal secondo dopoguerra), da Francia, Gran Bretagna, Russia, Germania, Giappone, Italia – appunto -, Arabia Saudita e India.
E fatta eccezione per l’Europa occidentale e centrale, dal 1999 tutte le regioni del mondo hanno registrato “significativi incrementi” della spesa militare anche perché, annota il Sipri, “durante gli otto anni della presidenza di George W. Bush la spesa militare è aumentata a livelli che non si registravano dalla Seconda Guerra Mondiale”.
All’origine della tendenza alla crescita vi è dunque la spesa Usa. Dovuta non solo alla guerra in Iraq e in Afghanistan, ma come annota ancora Comito ad “una chiara visione ideologica dell’amministrazione Bush volta al mantenimento, anzi all’accrescimento, del dominio militare del paese nel mondo”. Mirato, non va sottovalutato, anche e soprattutto ad assicurarsi il controllo di zone strategiche del pianeta in vista del progressivo esaurimento delle risorse naturali ed energetiche.
Anche l’Italia – che grazie all’amicizia e all’alleanza strategica con gli Stati Uniti ha incassato lauti guadagni con la guerra all’Iraq – non si discosta da questa intenzione, tanto che nella relazione di esercizio del 2007 dell’Aiad (Associazione Industrie per l’Aerospazio, i sistemi e la Difesa) si parla dell’esigenza di una maggiore sicurezza dopo l’11 settembre, considerato “il punto di partenza per l’avvio accelerato del processo di sviluppo di nuovi mezzi tecnologici necessari per la sicurezza della collettività”. In termini di “controllo delle frontiere”, “sicurezza del sistema dei trasporti”, “protezione delle infrastrutture critiche”, “sicurezza energetica e degli approvvigionamenti”.
Per fare questo, come abbiamo già accennato e come vedremo, occorre superare una serie di “ostacoli”: dalle leggi che frenano l’industria armiera agli scontri con le associazioni pacifiste e con la società civile organizzata. Che hanno difeso strenuamente, finora con non poco successo, la legge 185/90 dagli attacchi di una politica bipartisan e senza scrupoli che intendeva cancellare con un colpo di spugna anni di lotte per ottenere più trasparenza e più etica nella produzione e nella vendita di armi e armamenti. In un’Italia pronta a sacrificare la spesa sociale, la ricerca e la cooperazione allo sviluppo, ma non certamente l’industria bellica controllata, in modo più o meno diretto, dallo stesso governo. Per questo, sottolineano ancora Bagnato e Verrini, “non è stata affatto una battuta quella del premier Silvio Berlusconi che, nell’ottobre del 2004 – non diversamente da altri prima di lui – ha promesso ai vertici di Finmeccanica di trasformarsi nel loro ‘commesso viaggiatore’ per far aumentare le commesse dei nostri aerei e sistemi di difesa. La sua è stata una dichiarazione che fotografa una realtà e avalla una tradizione storica”.
La stessa che tenteremo di ripercorrere nelle pagine che seguono, prendendo spunto dall’ultimo rapporto del Presidente del Consiglio dei Ministri “sui lineamenti di politica del Governo in materia di esportazione, importazione e transito dei materiali d’armamento” e ripercorrendo i tratti salienti della complessa storia dell’industria armiera italiana, dal secondo dopoguerra fino ai giorni nostri.
Nel farlo abbiamo attinto a diverse fonti, in particolare al prezioso e già citato testo di Benedetta Verrini e Riccardo Bagnato Armi d’Italia, nonché ad articoli, rapporti ufficiali, comunicati di associazioni pacifiste che da anni tentano di fare chiarezza su un tema controverso, per oltre quarant’anni coperto dal “segreto di Stato”.
L’intento è quello di contribuire a prendere coscienza del ruolo svolto dall’Italia nell’insicurezza mondiale, partendo da un concetto di base: che sin dal 1945 il nostro Paese si è sempre posizionato tra i primi dieci produttori di armamenti nel mondo e ha esportato senza controllo non solo armi da guerra che hanno alimentato ogni sorta di conflitto, ma anche pistole, cluster bombs, mine che (sebbene queste ultime siano state messe al bando) uccidono lentamente milioni di innocenti. Giorno dopo giorno e non soltanto quando scoppia un conflitto degno delle prime pagine.

Doppio gioco | L’espresso

Doppio gioco | L’espresso.

di Gianluca Di Feo e Stefania Maurizi

Montagne d’armi per alimentare le guerre africane. Vendute da italiani. Un regime che chiede tangenti su tutti gli affari. Ecco la Libia con cui Berlusconi stringe patti segreti

C’è un governo affamato d’armi. Cerca arsenali perché si sente debole dopo quarant’anni di regime e teme le rivolte popolari. E vuole montagne di mitragliatori per proseguire la sua spregiudicata politica di potenza che negli scorsi decenni ha contribuito a riempire l’Africa di guerre civili. Questa è la Libia che si materializza negli atti della più sconvolgente inchiesta sul traffico d’armi realizzata in Italia: verbali, intercettazioni, pedinamenti e rogatorie che raccontano l’ultimo eldorado del commercio bellico. E dove dignitari vicinissimi al colonnello Gheddafi si muovono con grande spregiudicatezza tra affari di Stato, interessi personali e trame segrete. Questa è la Libia dove si recherà Silvio Berlusconi (scheda a pag. 51), invocando accordi strategici per il rilancio dell’economia ma soprattutto per stroncare definitivamente le partenze di immigrati ed esuli verso Lampedusa. Mentre dagli atti dell’indagine – come può rivelare “L’espresso” – spunta il nome del più importante ente libico che si occupa di quei migranti rispediti indietro dall’Italia. Deportazioni che stanno creando perplessità in tutta Europa e non riescono a scoraggiare la disperazione di chi sfida il mare e spesso muore nel disinteresse delle autorità maltesi.

Prima di Berlusconi un’altra incredibile squadra di imprenditori italiani era corsa a Tripoli per fare affari. Sono i nuovi mercanti di morte, figure inedite e sorprendenti di quarantenni che riforniscono gli eserciti africani di missili, elicotteri e bombardieri. E che passano in poche settimane dai cantieri edili alla compravendita di fucili d’assalto, tank e cannoni. Improvvisarsi commercianti di kalashnikov è facilissimo: trovarne mezzo milione sembra un gioco da ragazzi. Ma tutto è a portata di mano: caccia, radar, autoblindo. Si va direttamente alla fabbrica, in Cina, nell’ex Urss o nei paesi balcanici.

L’importante è avere le conoscenze giuste, conti offshore e una scorciatoia per evitare i controlli. Tutto documentato in tre anni di indagini dalla procura di Perugia. Tutto confermato nella sostanza – anche se non sempre nella rilevanza penale – dagli stessi interessati nei lunghi interrogatori davanti al pubblico ministero Dario Razzi.

Un filo di fumo Come spesso accade le grandi trame hanno un inizio banale, perso nella noia della campagna umbra. Nel dicembre 2005 i carabinieri di Terni stavano indagando su un piccolo giro di hashish. L’attenzione dei militari si è concentrata su Gianluca Squarzolo, che lavorava per una azienda insolitamente attiva negli appalti della cooperazione internazionale: la Sviluppo di Terni. Soprattutto in Libia è riuscita a entrare tra i fornitori della nomenklatura più vicina al colonnello Gheddafi. Ha ristrutturato palazzi e ville. Merito soprattutto dei contatti che si è saputo costruire Ermete Moretti, vulcanico manager toscano. Al pm Razzi racconta di avere accompagnato uno specialista di ozonoterapia per curare il leader massimo della Jamairhia: “Anche solo a livello di fargli fare delle iniezioni, sicuramente un bello screening me l’hanno fatto prima, per vedere se ero una persona di qualche servizio segreto”. Come in tutti i paesi arabi, anche a Tripoli per fare affari ci vogliono conoscenze e mazzette. Così Moretti non si sorprende quando nel marzo 2006 gli viene proposto un nuovo business: una fornitura colossale di mitragliatori. A parlarne è Tafferdin Mansur, alto ufficiale nel settore approvvigionamenti dell’esercito libico, “vicino al capo di stato maggiore generale Abdulrahim Alì Al Sied”. Muoversi in questo settore, però, richiederebbe figure con una certa esperienza. Invece per la prima missione viene incaricato Squarzolo che parte verso Tripoli con un piccolo campionario. Quando i carabinieri gli ispezionano i bagagli a Fiumicino invece dell’hashish trovano tutt’altra merce: un catalogo di armamenti. Capiscono di essersi imbattuti in qualcosa di grosso: lo lasciano andare e fanno partire le intercettazioni. Che individuano gli altri soci.

Mister Gold Rock C’è Massimo Bettinotti, 42 anni, radicato nello Spezzino e abile nello scovare contratti bellici. C’è Serafino Rossi, imprenditore agricolo a lungo vissuto in Perù che legge Jane’s, la rivista militare più autorevole, e tra una semina e l’altra sa riconoscere ogni modello di caccia. Il nome più misterioso è quello di Vittorio Dordi, 44 anni, nato a Cazzaniga in provincia di Bergamo e studi interrotti dopo la licenza media. E la sua carriera pare ricalcata da un romanzo. Racconta di essere emigrato dalle fabbrichette tessili lombarde all’Uzbekistan per costruire impianti e telai. Nel ’98 apre un ufficio in Congo: spiega di essere stato chiamato dal presidente Kabila per rivitalizzare la coltivazione del cotone. Ma la sua vocazione è un’altra. In Congo diventa una sorta di consigliere del ministro della Difesa, ottiene un passaporto diplomatico e la concessione per una miniera di diamanti. Nel 1999 a Cipro fonda la Gold Rock e comincia a muoversi sul mercato russo degli armamenti: “Diciotto anni di esperienza, sa: sono abbastanza conosciuto…”, si vanta con il pm. La sua specialità – racconta – è la Georgia, dove si producono ordigni pregiati. Nell’interrogatorio cita il Sukhoi 25, un bombardiere che è la fenice dei conflitti africani. Un aereo corazzato, progettato ai tempi dell’invasione dell’Afghanistan: robusto, semplice, decolla anche da piste sterrate e non teme né le cannonate né i missili. Ogni tanto stormi fantasma di questi jet, con equipaggi mercenari, spuntano all’improvviso nei massacri del continente nero. Anche in Congo, ovviamente. Dordi non si presenta come un semplice compratore: parla di un suo ruolo nell’azionariato delle aziende che costruiscono caccia ed elicotteri. Millanterie? I depositi bancari rintracciati dai magistrati a Malta, a Cipro e a San Marino sembrano indicare transazioni rilevanti e un tesoretto di 22 milioni di euro al sicuro sul Titano.

Ma le sorprese di Mister Gold Rock non sono finite. “Voi pensate a Dordi come a uno che vende solo armi, mica è vero”, spiega al pm il suo amico Serafino Rossi: “M’ha detto che lui è socio di un grosso costruttore spagnolo, che fa strade, ponti, quello che stava comprando il Parma”. È Florentino Perez quel costruttore spagnolo, deduce il procuratore: il boss del Real Madrid che ha speso cifre folli per la sua squadra stellare. Perez, racconta sempre Rossi, avrebbe investito forte in Congo e Dordi conta di lavorarci insieme, “visto che sono molto amici “. Assieme ai nuovi sodali, Dordi discute anche qualche altro affaruccio: 50 mila kalashnikov e 5000 mitragliatrici russe destinate “a un sedicente rappresentante del governo iracheno” da spedire con “il beneplacito del governo americano”; cannoni navali per lo Sri Lanka, elicotteri per il Pakistan, Mig di seconda mano dalla Lituania.

Operazioni coperte Per uno come lui, i kalashnikov sono merce di scarso valore. Ma sa che i libici cercano ben altro: venti anni di embargo, decretati dopo gli attentati di Lockerbie e Berlino, hanno reso Tripoli ghiotta. Dordi spera di sfruttare i contatti partiti dall’Umbria per strappare qualche commessa più ricca. Descrive al pm nel dettaglio gli incontri con i responsabili del riarmo libico: vogliono apparati per modernizzare i carri armati T72, elicotteri da combattimento, missili terra-aria di ultimissima generazione. Insomma, il meglio per riportare l’armata di Gheddafi ai fasti degli anni Settanta.E allora perché tanta insistenza nel cercare una montagna di vecchi kalashnikov, tutti del modello più antico e rustico? Mezzo milione di Ak47 e dieci milioni di proiettili, una quantità di gran lunga superiore alle necessità dell’esercito libico. Sono gli stessi indagati a dare una risposta nelle intercettazioni: “Li vogliono regalà a destra e manca, capito?”. Il pm parla di “esigenze politico-militari, gli indagati sanno che parte della commessa sarà ceduta a terzi. Nessun problema per loro se le armi dovessero essere destinate a Stati o movimenti in contrasto con la politica estera italiana”. È una vecchia storia. Dalla fine degli anni Settanta i libici hanno cercato di esportare la loro rivoluzione verde in mezzo mondo, donando casse di ordigni: dal Ciad al Nicaragua, dal Sudan alla Liberia.

Tangentopoli a Tripoli I nostri connazionali sono maestri nell’esperanto della bustarella. Pagano le rette del college londinese per il figlio del colonnello Mansur, più una mazzetta da 250 mila dollari; altrettanti all’ingegnere libico che esamina lo shopping bellico. I soldi li fanno gonfiando i costi: i kalashnikov vengono pagati 85 dollari e rivenduti a Tripoli per 136. “Su 64 milioni e 800mila dollari che i libici pagheranno, il 60 per cento andrà agli italiani”. Ma i soldi non restano nelle loro tasche: “Non sono poi infondate le pretese dei libici di ottenere un prezzo della corruzione più elevato rispetto a quanto finora corrisposto”, continua con un filo di ironia il pm. Gli oligarchi della Jamairhia sanno però che il loro potere va difeso. Nella primavera 2006 la rivolta islamica di Bengasi, nata come protesta contro la t-shirt del ministro Calderoli, li sorprende. Si teme anche per la salute di Gheddafi. Per questo chiedono con urgenza strumenti anti-sommossa: 250 mila pallottole di gomma, 750 lancia granate lacrimogene, scudi e corpetti protettivi.

Email a raffica Come si fa a trovare mezzo milione di mitragliatori? Basta scrivere una mail alla Norinco, il colosso cinese dove i compratori con buone referenze sono accolti sempre a braccia aperte. “Nessun problema, noi non andiamo in ferie: in tre mesi avrete i primi 100mila”, rispondono al volo. Si trovano anche le società – a Malta e a Cipro – che secondo gli inquirenti servono ad aggirare i divieti della legge italiana. I libici però sono tutt’altro che sprovveduti: prima vogliono provare dei campioni della merce. Così Moretti e Bettinotti organizzano l’invio dalla Cina a Tripoli di 6 fucili d’assalto e 18 caricatori. Ma c’è un intoppo: nel documento di spedizione, i cinesi hanno indicato il nome di Bettinotti, vanificando la rete di copertura. C’è il rischio che l’affare salti. Tra le due sponde del Mediterraneo si cerca una soluzione. Che porta il nome di Khaled K. El Hamedi, presidente della grande holding libica Eng Holding. Secondo la procura questa holding “ha intermediato l’affare dei kalashnikov “. El Hamedi è un pezzo da novanta della nomenklatura libica. È cognato di uno dei figli di Gheddafi. In più, come ricostruisce a “L’espresso” una fonte che chiede l’anonimato “il padre è il generale Khweldi El Hamedi, il membro più rispettato del Consiglio del Comando della Rivoluzione: una personalità che ha ricoperto varie cariche nei ministeri della Difesa, dell’intelligence e dell’istruzione”.

Mitra e diritti umani La notte del 14 settembre 2006, Bettinotti invia un fax allo 00218214780777: è destinato alla Eng Holding, all’attenzione di Khaled El Hamedi, per trasmettere la bolla di spedizione dei kalashnikov “artefatta dal Bettinotti per evitare che si possa risalire a lui”. Quel numero di fax corrisponde anche, come “L’espresso” è in grado di rivelare, a una importante Ong di cui Khaled El Hamedi è presidente: la “International organization for peace, care, and relief” (www.iopcr.org) di Tripoli. Un’organizzazione molto attiva nel soccorso alla popolazione palestinese, ma anche nell’assistenza agli immigrati che transitano per la Libia. Racconta a “L’espresso” una fonte autorevole che opera nel settore dei diritti umani: “È la più grande organizzazione libica attiva nel settore degli immigrati. Hanno accordi con l’Alto commissariato Onu per i rifugiati per consentire l’accesso al campo di detenzione di Misratah”. Si tratta di una delle strutture dove finiscono anche i migranti respinti dal nuovo accordo Italia-Libia. “Loro sono gli unici che possono entrare in certe strutture. Ogni associazione che lavora nel settore dell’immigrazione deve passare da loro. Hanno lavorato anche con il Consiglio Italiano per i Rifugiati (Cir)”. Nel 2008 Savino Pezzotta, presidente del Cir, e Khaled El Hamedi si sono incontrati a Roma per firmare un accordo di collaborazione in difesa dei migranti.

Game over I sogni bellici degli impresari all’italiana si sono fermati al campionario di sei kalashnikov. Nel febbraio 2007 partono gli ordini d’arresto. Squarzolo, Moretti, Rossi e Bettinotti vengono catturati subito. Vittorio Dordi invece resta in Congo. Le entrature, come lui stesso dichiara, non gli mancano: “Il 16 agosto 2007 sono andato nell’ambasciata d’Italia e ho parlato con il console generale Edoardo Pucci, che è un mio conoscente da quattro anni, che veniva a casa mia a cena e io andavo pure a casa sua. L’ho messo al corrente della situazione”. Poi – continua – è la volta dell’ambasciata americana dove parla “con il security officer della Cia”. Ma la sua posizione ormai è compromessa. Nel settembre 2008 Dordi viene espulso dal Congo come persona non gradita e finisce agli arresti. L’udienza preliminare si è tenuta a giugno: in due hanno patteggiato una condanna a 4 anni. La Sfinge invece si prepara a respingere le accuse nel processo, forte dell’assistenza di Giulia Bongiorno, deputato del Pdl e presidente della Commissione giustizia. La migliore arma di difesa possibile.

Antimafia Duemila – In Italia le banche sono sempre piu’ armate

Antimafia Duemila – In Italia le banche sono sempre piu’ armate.

di Giorgio Beretta – 28 aprile 2009
Nel mondo le banche si armano sempre di più, soprattutto quelle italiane. La «regina» è la Banca Nazionale del Lavoro [BNL] seguono San Paolo, Unicredit, Antonveneta e Banco di Brescia. Finiti nel nulla i proclami di rinuncia ad appoggiare le industrie armiere dopo le campagne di pressione perché, secondo le regole della Ubi [Unione Banche Italiane], si può commerciare in armi fuori dalla Ue o dalla Nato.