Fuori la mafia… – Un film di Mauro Baldelli e Mirko Preatoni

Fuori la mafia… – Un film di Mauro Baldelli e Mirko Preatoni

MOLTO INTERESSANTE PER CHI VUOLE CAPIRE LA TRATTATIVA STATO-MAFIA

dalla pagina youtube del video:

Questo breve film documentario, della durata di circa 50 minuti, è in qualche modo figlio del convegno del 18 luglio 2013 presso la facoltà di giurisprudenza di Palermo.
In quella occasione il Procuratore Roberto Scarpinato aveva fatto riferimento allo stato di “minorità culturale” in cui viene mantenuto il paese.
Una condizione di non consapevolezza indotta grazie alla quale la responsabilità delle stragi risulterebbe ascrivibile solo all’ala militare di cosa nostra, a quei mafiosi brutti e cattivi, ex villici semianalfabeti che, da soli, sarebbero riusciti ad orientare le politiche di uno stato fino ad arrivare ad essere in grado di incidere sull’elezione del presidente della repubblica.
Ad opporsi a queste icone del male assoluto ci viene presentato uno stato fatto di uomini valorosi che in un’epica infinita battaglia cerca di contrastare questo fenomeno, di contenere questo male incurabile che in Italia si chiama mafia.
Obiettivo di questo lavoro è parlare a chi faccia di logica e buon senso il proprio punto di partenza.
Non occorre essere esperti di questioni di mafia per vedere, in molte delle storie che ci vengono raccontate, incongruenze decisamente incredibili nel senso letterale della parola e cioè non credibili.
L’assurdità di queste incongruenze ci da il metro della tranquilla arroganza dei responsabili ed al contempo della bassissima considerazione in cui è tenuta la nazione, la gente di questo paese “mantenuto minorenne”.
Ma se a questi singoli episodi non credibili si cerca di dare una lettura unitaria ecco che tutto diventa più chiaro, certamente sconfortante e terribile, ma per l’appunto logico.
Non so se questo film potrà essere di una qualche “utilità” per chi lo vedrà, ma certamente posso dire che “utile” lo è stato per noi.
L’esperienza umana che abbiamo vissuto durante le riprese e che ci hanno regalato le persone intervistate è stata indimenticabile ed è a tutti loro ed alle loro famiglie che va il nostro ringraziamento più profondo.

il pentito Lo Verso, ex autista di Provenzano, nomina Andreotti e Dell’Utri

il pentito Lo Verso, ex autista di Provenzano, riporta quanto ha appreso da Provenzano.
Notare nel secondo video il referimento alla “radice” che secondo me sarebbe quello che Vincenzo calcara chiama la “supercommissione”.

il pentito Lo Verso, ex autista di Provenzano, nomina Andreotti e Dell’Utri

il pentito Lo Verso nomina Schifani, Cuffaro e Romano

I pentiti confermano: ”Ci fu la trattativa Stato-mafia”

Fonte: http://www.19luglio1992.com/index.php?option=com_content&view=article&id=5587:i-pentiti-confermano-ci-fu-la-trattativa-stato-mafia-&catid=19:i-mandanti-occulti&Itemid=20

Scritto da Redazione AntimafiaDuemila

Dopo aver sentito Giuffré oggi sarà sentito nuovamente Brusca oltre a Spatuzza

di AMDuemila – 7 giugno 2012
Prosegue con l’esame del pentito Giovanni Brusca la terza giornata di incidente probatorio disposto dal gip di Caltanissetta nell’ambito della nuova inchiesta sulla strage di via D’Amelio che vede indagati i boss Salvo Madonia, Vittorio Tutino, Salvo Vitale e l’ex pentitoCalogero Pulci per il nuovo filone di indagine sulla strage di via D’Amelio. Brusca, interrogato dai pm nisseni e dal legale di Madonia, l’avvocato Sinatra, ieri, per oltre 7 ore, ha parlato della trattativa tra Stato e mafia. Più precisamente, ha raccontato il collaboratore di giustizia, le trattative furono molteplici, con diversi oggetti e protagonisti. Il boia di Capaci ha riferito che la più significativa delle trattative di cui è a conoscenza è quella portata avanti dal boss Totò Riina.

“Solo dopo anni – ha detto il pentito – ho scoperto dai giornali che i suoi interlocutori erano i carabinieri”. Il pentito, che per primo parlò del papello con le richieste alle istituzioni a cui il capomafia corleonese avrebbe subordinato la fine della strategia stragista, ha poi raccontato di avere saputo dal padrino che tra i soggetti che nel tempo avevano mostrato interesse a dialogare con Cosa nostra c’erano, oltre all’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino, il senatore del Pdl Marcello Dell’Utri e il leader della Lega Umberto Bossi. Brusca ha poi parlato di un altro tentativo di “dialogo” con lo Stato avviato nei mesi di marzo-aprile del 1992, prima quindi della strage di Capaci. Per spingere lo Stato a scendere a patti con Cosa nostra, insieme all’ex bandito della Mucciatella Paolo Bellini e al mafioso Nino Gioè, poi morto suicida in carcere, Brusca aveva già parlato dell’idea di colpire i monumenti storici. Bellini, piccolo criminale, alias Roberto Da Silva “esperto di opere d’arte” avrebbe avuto spesso rapporti coi boss, fatto recuperare quadri rubati ai carabinieri, e commissionato furti alla mafia. Gioè gli avrebbe chiesto cosa sarebbe successo se “un giorno la torre di Pisa non fosse più esistita” e lui avrebbe risposto che “la città sarebbe stata messa in ginocchio”. Brusca ha anche ribadito che fra l’87 e l’88 Cosa nostra, su indicazione di Toto’ Riina, avrebbe votato per il Psi e in particolare per Claudio Martelli.

Martedì anche il collaboratore di giustizia Nino Giuffré ha confermato l’esistenza della trattativa. Ai pm ha ricostruito la riunione che tenutasi tra la fine di novembre e gli inizi di dicembre del 1991 quando l’allora capo dei capi di Cosa nostra, Totò Riina, ha comunicato alla commissione provinciale l’inizio di una nuova fase, ovvero l’inizio della strategia terroristica.
Riunito in un appartamento nel centro di Palermo c’era l’intero gotha delle «famiglie»: Raffaele Ganci, Pietro Aglieri, Carlo Greco, Matteo Motisi, Michelangelo La Barbera, Giuseppe Graviano e Salvino Madonia. Certo dell’esito negativo del maxiprocesso, prossimo alla sentenza di Cassazione, Riina comunicò una lista di personaggi da eliminare: nemici – come Giovanni Falcone – e vecchi amici che non avevano rispettato i patti. “Calogero Mannino, Salvo Andò e Salvo Lima”. Sulla trattativa ha poi aggiunto: “Dalla stampa capii che Vito Ciancimino (ex sindaco mafioso di Palermo n.d.r.) stava collaborando con le forze dell’ordine o con i magistrati e chiesi spiegazioni a Provenzano. Lui rispose: ‘Vito e’ in missione si occupa dei nostri interessi’”. 
In merito alle dichiarazioni fin qui rese dai collaboratori di giustizia è intervenuto il Procuratore capo di Palermo Francesco Messineo: “Le dichiarazioni sostanziano la nostra ipotesi. Per noi, questo sviluppo di indagine di Caltanissetta è positivo, perché rafforza il nostro impianto, anche se non conosco dettagaliatamente i fatti. Fatti che stanno accertando a Caltanissetta in questo incidente probatorio disposto dal gip”. Intanto, sempre oggi, nell’aula bunker del carcere di Rebibbia, deporrà anche il pentito Gaspare Spatuzza che con le sue dichiarazioni ha consentito la riapertura dell’inchiesta. Spatuzza ha tirato in ballo Tutino, accusandolo di avere rubato la 126 imbottita di tritolo e poi usata per uccidere Borsellino, e Vitale che avrebbe avvertito il commando di cosa nostra guidato da Giuseppe Graviano dell’arrivo del magistrato in via D’Amelio. Entro domani, infine, sarà sentito anche Tommaso Cannella.

da: AntimafiaDuemila.com

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LA GERMANIA PROBLEMA D’EUROPA

Fonte: ComeDonChisciotte – LA GERMANIA PROBLEMA D’EUROPA.

DI STEFANO SYLOS LABINI
sbilanciamoci.info

I tedeschi hanno il terrore che l’eccesso di debito pubblico spinga la Banca centrale europea a stampare grandi quantità di moneta che farebbe scoppiare l’inflazione. Per questo la Cancelliera Merkel, con la sua intransigenza sul risanamento dei bilanci dei paesi europei più in difficoltà e con la sua posizione contraria verso l’emissione degli Eurobond e verso gli acquisti di titoli del debito pubblico da parte della Bce, sta spingendo l’Europa in una pericolosa recessione e in una crisi di fiducia che potrebbero avere conseguenze devastanti. Ma i tedeschi, che hanno l’economia con la produttività più elevata d’Europa, dovrebbero ricordarsi di ciò che accadde dopo la prima guerra mondiale e di conseguenza dovrebbero essere più lungimiranti per evitare di ripetere gli stessi errori che loro furono costretti a subire.

Lezioni di storia

Il Trattato di Versailles fu imposto alla Germania con la minaccia dell’occupazione militare e del blocco economico. Il Trattato istituì una commissione che doveva determinare le esatte dimensioni delle riparazioni che dovevano essere pagate dalla Germania. Nel 1921, questa cifra fu ufficialmente stabilita in 33 miliardi di dollari. John Maynard Keynes criticò duramente il trattato: non prevedeva alcun piano di ripresa economica e l’atteggiamento punitivo e le sanzioni contro la Germania avrebbero provocato nuovi conflitti e instabilità, invece di garantire una pace duratura. Keynes espresse questa visione nel suo saggio The Economic Consequences of the Peace. I problemi economici che questi pagamenti comportarono sono spesso citati come la principale causa della fine della Repubblica di Weimar e dell’ascesa di Adolf Hitler, che inevitabilmente portò allo scoppio della seconda guerra mondiale.

Quando Hitler andò al potere nel 1933 oltre 6 milioni di persone (il 20% della forza lavoro) erano disoccupate ed al limite della soglia della malnutrizione mentre la Germania era gravata da debiti esteri schiaccianti con delle riserve monetarie ridotte quasi a zero. Ma, tra il 1933 e il 1936, si realizzò uno dei più grandi miracoli economici della storia moderna, anche più significativo del tanto celebrato “New Deal” di F.D. Roosevelt. E non furono le industrie d’armamento ad assorbire la manodopera; i settori trainanti furono quello dell’edilizia, dell’automobile e della metallurgia. L’edilizia, grazie ai grandi progetti sui lavori pubblici e alla costruzione della rete autostradale, creò la maggiore occupazione (+209%), seguita dall’industria dell’automobile (+117%) e dalla metallurgia (+83%).

Nel miracolo economico degli anni ’30 i nazionalsocialisti si erano creati una teoria monetaria che suonava pressappoco così: “le banconote si possono moltiplicare e spendere a volontà, purché si mantengano costanti i prezzi. Il solo motore necessario per questo meccanismo è la fiducia. Basta creare e mantenere questa fiducia, sia con la suggestione sia con la forza o con entrambe”.

Sorprendentemente, l’artefice del miracolo economico della Germania nazista fu un uomo di origini ebraiche, Hjalmar Schacht, Ministro dell’Economia e Presidente della Banca centrale del Reich. “Il dottor Schacht è inciampato per disperazione in qualcosa di nuovo che aveva in sé i germi di un buon accorgimento tecnico. L’accorgimento consisteva nel risolvere il problema eliminando l’uso di una moneta con valore internazionale e sostituendola con qualcosa che risultava un baratto, non però fra individui, bensì fra diverse unità economiche.

In tal modo riuscì a tornare al carattere essenziale e allo scopo originario del commercio, sopprimendo l’apparato che avrebbe dovuto facilitarlo, ma che di fatto lo stava strangolando. Tale innovazione funzionò bene, straordinariamente bene, per coloro che l’avevano introdotta, e permise a una Germania impoverita di accumulare le riserve senza le quali non avrebbe potuto imbarcarsi nella guerra. Tuttavia, come osserva Henderson, il fatto che tale metodo sia stato usato a servizio del male non deve impedirci di vedere il vantaggio tecnico che offrirebbe al servizio di una buona causa”. (1)

Per il commercio estero, Schacht ideò un ingegnoso sistema per trasformare gli acquisti di materie prime da altri paesi in commesse per l’industria tedesca: i fornitori erano pagati in moneta che poteva essere spesa soltanto per comprare merci fatte in Germania. Il meccanismo, di stimolo al settore manifatturiero, funzionava come un baratto: le materie prime importate erano pagate con prodotti finiti dell’industria nazionale, evitando così il peso dell’intermediazione finanziaria e fuoriuscite di capitali. Certamente, il protezionismo prima e l’autarchia in seguito crearono un mercato chiuso in cui tutta la realtà produttiva era indirizzata e finalizzata alla produzione di beni per lo stato e/o per il consumatore tedesco. Il controllo nazista dei cambi e dei commerci esteri dà alla politica economica tedesca una nuova libertà. Anzitutto, perché il valore interno del marco (il suo potere d’acquisto per i lavoratori) viene svincolato dal suo prezzo esterno, quello sui mercati valutari anglo-americani.

Cambiali garantite dallo Stato per le imprese

Lo Stato tedesco può dunque creare la moneta di cui ha bisogno nel momento in cui manodopera e materie prime sono disponibili per sviluppare nuove attività economiche, anziché indebitarsi prendendo i soldi in prestito. E ciò senza essere immediatamente punito dai mercati mondiali dei cambi con una perdita del valore del marco rispetto al dollaro ed evitando che il pubblico tedesco fosse colpito da quel segnale di sfiducia mondiale consistente nella svalutazione della sua moneta nazionale.
In realtà, non venne praticata la stampa diretta di moneta, poiché il principale provvedimento di Schacht fu l’emissione dei MEFO, obbligazioni emesse sul mercato interno per finanziare lo sviluppo. In questo sistema è direttamente la Banca centrale di Stato (Reichsbank) a fornire agli industriali i capitali di cui hanno bisogno.

Non lo fa aprendo a loro favore dei fidi; lo fa autorizzando gli imprenditori ad emettere delle cambiali garantite dallo Stato. Con queste promesse di pagamento gli imprenditori pagano i fornitori. In teoria, questi ultimi possono scontarle presso la Reichsbank in ogni momento, e qui sta il rischio: se gli effetti MEFO venissero presentati all’incasso massicciamente e rapidamente, l’effetto finale sarebbe di nuovo un aumento esplosivo del circolante e dunque dell’inflazione. Di fatto, però questo non avviene nel Terzo Reich. Anzi: gli industriali tedeschi si servono degli effetti MEFO come mezzo di pagamento fra loro, senza mai portarli all’incasso; risparmiando così fra l’altro (non piccolo vantaggio) l’aggio dello sconto. Insomma, gli effetti MEFO diventano una vera moneta, esclusivamente per uso delle imprese, a circolazione fiduciaria.

Gli economisti si sono chiesti come questo miracolo sia potuto avvenire e alla fine la risposta è stata che il sistema funzionava grazie alla fiducia che il regime riscuoteva presso i suoi cittadini e le sue classi dirigenti, una fiducia ottenuta non solo con la propaganda e la coercizione, ma anche attraverso il progressivo miglioramento delle condizioni economiche della popolazione. Hjalmar Schacht fu l’inventore del sistema rendendo invisibile l’inflazione: gli effetti MEFO erano un circolante parallelo che il grande pubblico non vedeva e di cui forse nemmeno aveva conoscenza, e dunque privo di effetti psicologici.

In seguito Schacht (che fu processato a Norimberga e ritenuto non colpevole) spiegò d’aver pensato che, se la recessione manteneva inutilizzato lavoro, officine, materie prime, doveva esserci anche del capitale parimenti inutilizzato nelle casse delle imprese; i suoi effetti MEFO non avrebbero fatto che mobilitare quei fondi dormienti. In realtà erano proprio i fondi a mancare nelle casse, non la manodopera. E Schacht sapeva che la prosperità della finanza internazionale dipende dall’emissione di prestiti con elevato interesse a nazioni in difficoltà economica.

La disoccupazione riassorbita

Un economista britannico, C.W. Guillebaud, ha espresso con altre parole lo stesso concetto: “nel Terzo Reich, all’origine, gli ordinativi dello Stato forniscono la domanda di lavoro, nel momento in cui la domanda effettiva è quasi paralizzata e il risparmio è inesistente; la Reichsbank fornisce i fondi necessari agli investimenti (con gli effetti MEFO, che sono pseudo-capitale); l’investimento rimette al lavoro i disoccupati; il lavoro crea dei redditi, e poi dei risparmi, grazie ai quali il debito a breve termine precedentemente creato può essere finanziato [ci si possono pagare gli interessi] e in qualche misura rimborsato”. Così Hitler raggiunse il suo scopo primario: il riassorbimento della disoccupazione e la crescita dei salari del popolo tedesco senza alimentare l’inflazione. I risultati sono spettacolari per ampiezza e rapidità: nel gennaio 1933, quando Hitler sale al potere, i disoccupati sono oltre 6 milioni; a gennaio 1934, si sono quasi dimezzati e a giugno sono ormai 2,5 milioni; nel 1936 calano ancora, a 1,6 milioni e nel 1938 non sono più di 400 mila. Fu questa ripresa economica ad accrescere il consenso di Adolf Hitler e a permettere alla Germania di lanciare negli anni successivi una massiccia politica di riarmo che portò allo scoppio della seconda guerra mondiale.

Scarsa lungimiranza dei vincitori

Per evitare malintesi, tengo a precisare che considero il nazismo una ideologia criminale. L’intento del mio articolo è quello di mettere in evidenza la politica economica e monetaria seguita dalla Germania di Hitler per risollevare un Paese allo stremo. Una politica che, con i dovuti accorgimenti, potrebbe essere riproposta nell’Europa di oggi dove la disoccupazione ha raggiunto livelli inaccettabili. La Germania dovrebbe tener presente che fu la scarsa lungimiranza delle nazioni che vinsero la prima guerra mondiale a determinare l’esplosione del debito, la sua monetizzazione e l’iperinflazione. Questo generò un sentimento profondo di rivalsa nel popolo tedesco che si manifestò pienamente con il sostegno al nazionalsocialismo dopo la grande depressione. Ma il consolidamento del potere di Adolf Hitler fu reso possibile anche da una spettacolare ripresa economica che in tempi brevi permise di ricostruire le infrastrutture, di rilanciare l’industria civile e quindi di riassorbire l’enorme disoccupazione.

Il miracolo economico fu promosso da Hjalmar Schacht che escogitò un meccanismo monetario non inflazionistico in grado di fornire i capitali all’industria tedesca. Esattamente ciò che, con le dovute differenze, bisognerebbe fare oggi in Europa ma che viene impedito dalla politica egoistica e suicida del governo di destra guidato da Angela Merkel che ha come dogma l’indipendenza della Banca centrale europea dal potere politico e si oppone alla possibilità di lanciare le obbligazioni europee che potrebbero avere la stessa funzione delle obbligazioni MEFO ideate da Schacht. Al riguardo, c’è chi ha obiettato che non si trattò di un diretto finanziamento monetario del Tesoro, né di un immediato aumento del debito pubblico, però, lo Stato e la Banca centrale del Reich ebbero un ruolo determinante perché autorizzarono le emissioni e diedero la garanzia.

Italia, quali le strade percorribili?

Ma se in Europa in questo momento ci sono grandi difficoltà per finanziare un progetto di crescita, qui in Italia quali sono le strade percorribili per uscire dalla recessione che ci attanaglia? Se consideriamo il sistema delle obbligazioni MEFO, forse la debolezza che deriva dall’enorme debito pubblico potrebbe diventare un punto di forza. Più precisamente, i titoli del debito pubblico potrebbero costituire una massa monetaria gigantesca in grado di finanziare lo sviluppo dell’economia italiana. La possibilità che i titoli pubblici possano essere utilizzati negli scambi e negli investimenti sostituendo la moneta non sembra che sia stato compreso appieno sul piano teorico; sul piano pratico invece sicuramente si era capito visto che con i titoli pubblici si pagavano anche le tangenti! E proprio in questi giorni è apparsa la notizia che il corposo debito della Pubblica amministrazione con le imprese – circa 70 miliardi di euro – sia corrisposto in titoli di Stato per dare fiato alle imprese strozzate dalla stretta creditizia. Un’ipotesi ventilata già da alcune settimane, caldeggiata dal ministro Passera e che non dispiace a Confindustria, artigiani e commercianti. Il dossier riscuote per ora le perplessità di Ragioneria e Tesoro.

Per attuare una strategia di questo tipo sarebbe essenziale la trasformazione del debito estero in debito interno (2). In questo modo si potrebbe stabilizzare il valore dei titoli del debito pubblico (3) e sarebbe possibile sfuggire alla “dittatura dei mercati finanziari” (4). Così i titoli pubblici potrebbero circolare e potrebbero essere usati nel mercato interno come strumenti di pagamento. Se, invece, i titoli pubblici sono detenuti da soggetti esteri, grosse vendite fanno svalutare questi titoli intaccando la possibilità di utilizzarli come strumenti di pagamento sul mercato interno. Inoltre, poiché i titoli sono accumulati all’estero, essi vengono sottratti alla circolazione e di conseguenza perdono la loro funzione monetaria. Allora, si potrebbe pensare di far rientrare una parte consistente dei Bot in Italia (5). “Consistente” significa di entità tale da evitare operazioni speculative da parte delle banche d’affari detentrici dei Bot italiani, che guadagnano non solo sulle pressioni al rialzo sui tassi di interesse sui Bot di nuova emissione, ma, soprattutto, sul valore dei titoli derivati che assicurano i titoli di Stato (Credit Default Swaps) (6). Quindi bisognerebbe costruire di fatto un sistema di compensazione fra imprese facendo funzionare i Bot rientrati come una moneta complementare (7). In sostanza, il problema è quello di costruire una nuova regolazione dei Bot italiani in circolazione tale da farli funzionare come monete complementari (capaci di finanziare l’attività produttiva) e non come riserva di valore. È probabile che un progetto del genere potrebbe essere più efficace se non fosse limitato solo all’Italia ma venisse esteso almeno ai Paesi del bacino mediterraneo, i quali sarebbero in grado di agire come un nuovo sistema innovativo e commerciale.

In conclusione, i titoli pubblici sono un tipo di moneta che può essere usata per fare pagamenti di una certa entità dove non serve il contante. Il loro controvalore monetario si regge sulla fiducia nella capacità di rispettare gli impegni di pagamento e uno Stato ricco come l’Italia, che ha un bilancio pubblico sotto controllo, è in grado di assicurare questa fiducia. Un progetto che si ponga l’obiettivo di utilizzare i Bot come strumento di pagamento richiede delle misure per stabilizzare il valore dei titoli di Stato. La stabilizzazione del valore dei titoli comporterebbe diversi benefici in quanto permetterebbe di: allentare la morsa dei mercati finanziari internazionali sulla finanza pubblica del nostro Paese; garantire dei rendimenti sicuri al risparmio delle famiglie; utilizzare i titoli di Stato come moneta complementare. Per questi motivi dobbiamo studiare le esperienze del passato, quanto oggi viene fatto in altri paesi come il Giappone e le esperienze sulle monete complementari che esistono nel mondo.

Stefano Sylos Labini
Fonte: http://www.sbilanciamoci.info
6.02.2012

NOTE

(1) Keynes, J.M., “Il problema degli squilibri finanziari globali. La politica valutaria del dopoguerra (8 Settembre 1941)”, in Keynes, J.M., “Eutopia”, a cura di Luca Fantacci, et. al. 2011, p. 43-55.
(2) Giuseppe Guarino: “La trappola di Maastricht. Avviso ai governanti”. il manifesto domenica 4 dicembre 2011.
(3) In Giappone, un paese che ha un debito pubblico doppio rispetto all’Italia ma non ha il problema dello spread, è prevista l’emissione di particolari certificati del Tesoro da riservare al risparmio delle famiglie con rendimenti sicuri e ancorati all’inflazione, che sfuggono alle micidiali aste. Per l’Italia è da segnalare la proposta di Claudio Gnesutta sull’emissione di “Buoni eccezionali del Tesoro”, Sbilanciamoci,
(4) Si veda “La crisi degli Stati Uniti e l’esplosione della moneta privata”, saggio di Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini per Argomenti Umani
(5) Queste considerazioni sono basate sui preziosi commenti di Stefano Lucarelli, Professore presso l’Università degli Studi di Bergamo.
(6) Su questo punto si veda Andrea Fumagalli: “Prove (conclamate) di dittatura finanziaria”, Uninomade,
(7) Sulle monete complementari si veda “Introduzione alle monete complementari” di Massimo Amato e Luca Fantacci, . Di Luca Fantacci si veda anche: “Rilancio: una nuova Bretton Woods a partire dalla proposta di Keynes ” in Keynes J.M., “Eutopia”, a cura di L. Fantacci, et. al., 2011.

Articolo in corso di pubblicazione sul numero 754 de “Il Calendario del Popolo”, http://www.calendariodelpopolo.it, che sarà disponibile nelle librerie dal prossimo 12 febbraio

Accordo Nato: Sigonella sarà “capitale mondiale dei droni” | Informare per Resistere

Fonte: Accordo Nato: Sigonella sarà “capitale mondiale dei droni” | Informare per Resistere.

Antonio Mazzeo –

Per future “guerre preventive” in Medio Oriente, Africa, Est Europa, gli Usa e la Nato varano uno dei più costosi programmi nella storia dell’alleanza. L’Italia al centro del progetto. Altro che rinunciare agli F35…

«È un buon accordo, un grande accordo, un accordo ben fatto». Non nasconde la sua soddisfazione il segretario della difesa Leon Panetta: la Nato si doterà entro il 2017 di un nuovo sistema di sorveglianza terrestre, l’AGS (Alliance Ground Surveillance) e il suo centro di comando e di controllo verrà installato nella base siciliana di Sigonella. La lunga ed estenuante trattativa tra i partner ha visto però ridurre progressivamente a 13 il numero di paesi che contribuiranno a quello che si preannuncia come uno dei più costosi programmi della storia dell’Alleanza atlantica. Oltre a Stati uniti e Italia, Bulgaria, Repubblica ceca, Estonia, Germania, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Norvegia, Romania, Slovacchia e Slovenia. Un contributo operativo specifico verrà comunque da Francia e Gran Bretagna che metteranno a disposizione i propri sistemi French Heron Tp (coprodotti con Israele) e Uk Sentinel. Restano fuori Spagna e Polonia, candidatesi inizialmente con l’Italia per ospitare l’AGS con i cinque velivoli senza pilota del tipo “Global Hawk” che la Nato acquisterà dalla statunitense Northrop Grumman.

«L’accordo è un passo fondamentale verso un sistema di sorveglianza dell’Alleanza in grado di dare ai comandanti una fotografia precisa di qual è la situazione sul terreno», ha dichiarato il segretario generale Nato, Anders Fogh Rasmussen. «E la recente operazione in Libia ha dimostrato quanto importante sia questa capacità». Durante i mesi del conflitto libico, proprio a Sigonella l’US Air Force aveva schierato due “Global Hawk” e un imprecisato numero di droni MQ-1 Predator, utilizzati in particolare per individuare gli obiettivi e dirigere i bombardamenti dei caccia della coalizione a guida Nato. Nei programmi del Pentagono, la base siciliana è destinata a fare da vera e propria capitale mondiale dei velivoli senza pilota: entro il 2015 dovrà ospitare un reparto di Us Air Force con 4-5 “Global Hawk”, più altri 4 droni in via di acquisizione della Marina Usa.
Un accordo di massima per la trasformazione di Sigonella in «principale base operativa» del sistema AGS era stato raggiunto a Cracovia il 19 e 20 febbraio 2009, durante il vertice dei ministri della difesa della NATO. «Abbiamo scelto questa struttura dopo un’attenta valutazione e per la sua centralità strategica nel Mediterraneo che le consentirà di concentrare in quella zona le forze d’intelligence italiane, della Nato e internazionali», dichiarò a margine dell’incontro l’allora capo di stato maggiore della difesa, generale Vincenzo Camporini. Ancora più esplicito il vicesegretario generale per gli investimenti alla difesa dell’Alleanza, Peter C. W. Flory: «L’AGS è essenziale per accrescere la capacità di pronto intervento in supporto delle forze Nato per tutta le loro possibili future operazioni». Un sistema destinato non solo alle attività d’intelligence o alla raccolta ed elaborazione dati, ma che consentirà la realizzazione dei futuri piani di «guerra preventiva» e di first strike in Africa, est Europa e Medio oriente.

Fonte: http://www.ilmanifesto.it/

Foto di http://www.contropiano.org

http://www.perlapace.it/index.php?id_article=7767

MONTI VERSA 2,5 MILIARDI NELLE CASSE DELLA STANLEY MORGAN NEL SILENZIO PIU ASSOLUTO | STAMPA LIBERA

Fonte: MONTI VERSA 2,5 MILIARDI NELLE CASSE DELLA STANLEY MORGAN NEL SILENZIO PIU ASSOLUTO | STAMPA LIBERA.

http://ftalphaville.ft.com/blog/2012/02/01/861291/morgan-stanleys-most-mysterious-footnote-part-1/

MONTI VERSA 2,5 MILIARDI NELLE CASSE DELLA STANLEY MORGAN NEL SILENZIO PIU ASSOLUTO – (mm)
Nel silenzio assoluto, il governo Monti ha fatto un bel regalo dell’Epifania alla Morgan Stanley: 2 miliardi e 567 milioni di euro sono stati dirottati dalle casse del Tesoro a quelle della banca newyorkese. Il tutto è avvenuto il 3 gennaio scorso, un mese fa, all’insaputa degli organi di informazione italiani, così attenti ai bunga bunga o ai party del premier uscente ma evidentemente poco propensi a occuparsi dell’attuale governo in carica. Sono stati gli stessi vertici della Morgan Stanley ad aver comunicato che l’esposizione verso l’Italia è scesa da 6,268 a 2,887 miliardi di dollari: una differenza di 3,381 miliardi corrispondenti a 2,567 miliardi di euro, circa un decimo della manovra “salva-Italia” varata dall’esecutivo Monti.

 

 

 

Una somma utilizzata dal governo italiano per estinguere una operazione di derivati finanziari, anche se non è chiara la ragione per cui la Morgan Stanley abbia richiesto la “chiusura della posizione”, opzione prevista dopo un certo numero di anni da quasi tutti i contratti sui derivati ma raramente applicata: il motivo più verosimile potrebbe essere il declassamento deciso dall’agenzia di rating Standard & Poor’s. Certo, finché nessuna delle due parti fornirà spiegazioni, si potrà rimanere solo nell’ambito delle ipotesi.

 

La banca newyorkese si è limitata ad annunciare trionfalmente il recupero della somma, il governo italiano non ha fornito alcuna spiegazione e i media non indagano né chiedono alcunché, né sulla gestione delle operazioni in derivati da parte del Tesoro, né sul motivo per il quale tra tanti creditori si sia scelto di onorare il debito proprio con la Morgan Stanley. Il questo modo il governo non è tenuto a spiegare perché abbia optato per il silenzio e la segretezza assoluta anziché ammettere che, mentre venivano stangati i pensionati e non solo, lo Stato provvedeva a rimborsare 2 miliardi e mezzo alla investment bank. Non sarebbe stato il massimo dal punto di vista dell’immagine e della popolarità, ma in fondo è stato lo stesso “Full Monti”, ribattezzato così proprio dalla Morgan Stanley al momento della sua nomina a premier, a dichiarare di non dover soddisfare alcun elettore, in quanto non eletto.E allore perché tace? Ha paura dell’impopolarità?

 

Dove sono i giornalisti che ponevano le dieci domande a Berlusconi o pubblicavano le intercettazioni telefoniche? Esiste ancora qualcuno interessato ad indagare sull’operato del governo?

 

Diamo un merito all’Espresso, l’unico organo di informazione italiano a parlarne: un articolo uscito ieri a firma Orazio Carabini esprime pure un certo disappunto per il fatto che né Morgan Stanley né il Tesoro abbiano voluto fornire spiegazioni al settimanale.
(estratto da:lindipendenza.com)

Da anni si parla della pericolosità dei prodotti derivati. Mi piacerebbe sapere chi e quando ha avuto la bella pensata mettere in piedi questa, e magari altre operazioni che i pensionati sono stati chiamati a rimborsare!
Ho letto questo. La cosa, se vera, mi fa girare velocissimamente …..Ps: ricordo che è di recente introduzione in Argentina l’equiparazione a crimini umanitari azioni di finanza scellerata come queste di cui sopra!!! Meditate gente…..ma poi svegliatevi!!

ENERGIA: COSTI E DIPENDENZE, COME RISOLVERE IL PROBLEMA E CREARE OCCUPAZIONE

Fonte: ComeDonChisciotte – ENERGIA: COSTI E DIPENDENZE, COME RISOLVERE IL PROBLEMA E CREARE OCCUPAZIONE.

DI VALERIO LO MONACO ilribelle.com
Il tema dell’energia nel nostro Paese viene fuori quasi sempre solo nei momenti in cui di energia c’è bisogno e penuria. Questa volta è il caso del gas razionato in seguito all’ondata di maltempo. Poco tempo addietro, e vedremo, anche nel prossimo breve termine, in merito al blocco dell’export dell’Iran per il petrolio in seguito alla sanzioni Ue (peraltro “suggerito” dalle nostre stesse idiote politiche di zerbinaggio agli Usa, come se gli interessi statunitensi fossero i nostri) e in Estate, generalmente, per l’energia elettrica necessaria agli impianti di condizionamento.Naturalmente, in tutte queste circostanze non si manca occasione per tornare su uno dei punti critici, dal punto di vista geostrategico e anche meramente economico, del nostro Stato: dipendiamo energeticamente quasi del tutto dalle importazioni, subiamo pertanto i prezzi di cartello che ci vengono imposti, non abbiamo le centrali nucleari e via discorrendo senza entrare nel merito vero del problema e senza, soprattutto, centrare i punti nevralgici che ostano alla risoluzione dello stesso. Questo, in larga parte, dipende da una volontà tutta politica, pardon, economico-monopolistica: dominata come è dagli interessi delle lobbies – interne ed estere – non si “vuole” risolvere il problema, se non con operazioni suicide come la costruzione di inceneritori e di centrali nucleari, ad esempio, per non toccare i privilegi di pochi attori dell’energia nel nostro Paese. Che si tratti di petrolieri, trafficanti di idrocarburi e gestori di rete di energia elettrica, chi tocca i fili muore. Non solo: a conferma della tesi, quando si parla (sbagliando) anche di centrali nucleari e di inceneritori, di fatto è sempre agli stessi attori che ci si riferisce, e ai contributi pubblici elargiti per la realizzazione a tutto vantaggio, ovviamente, dei costruttori e dei gestori. Il tema invece si presta a sfatare un mito incapacitante che viene ripetuto come un mantra, e che potrebbe essere spazzato via se solo vi fosse in primo luogo la consapevolezza diffusa, tra le persone, che il problema si può risolvere, e in secondo luogo la volontà di risolverlo: cosa che ovviamente è vista come orrore da chi, nella situazione attuale, specula su un settore così strategico. Il punto è molto semplice. In ordine generale, per dipendere meno dall’energia, si deve consumarne di meno. Ciò non significa “rimanere al freddo”, come ipocritamente sostengono i detrattori di chi porta avanti un discorso del genere. Significa invece attuare tutta una serie di operazioni in grado di consumare meno pur mantenendo – attenzione – degli standard di confort uguali quasi a quelli attuali. E la cosa avrebbe un duplice, anzi triplice beneficio. Intanto – ed è un discorso prettamente inerente il tema della Decrescita – consumare meno significa costruire abitazioni in grado di ottenere lo stesso rendimento termico ed energetico, ovvero lo stesso confort, ma con un consumo decisamente ridotto. Si può fare, tanti Paesi lo fanno, e le tecnologie in tal senso ci sono già. Se da noi non lo si fa è proprio perché è necessario – ah, la crescita del Pil e le rendite di posizione dei monopolisti… – che si continui a consumare e sperperare denaro e risorse.  In secondo luogo tutto il processo di costruzione e soprattutto riconversione delle costruzioni vecchie, costose e divoratrici di energia, sarebbe in grado, da solo, di creare – sul serio: creare – decine di migliaia di posti di lavoro. E se a questo si aggiungesse la volontà di investire sul serio sulle energie alternative, che il nostro Paese è, per esposizione geografica, in grado di utilizzare (sole e vento, ad esempio, dalle nostre parti non mancano affatto) quelle decine di migliaia di posti diventerebbero centinaia di migliaia, tra occupati diretti e indotto. In terzo luogo, operare una politica di decrescita intelligente come quella appena abbozzata – ma basta davvero leggere uno dei libri di Maurizio Pallante e sulla Decrescita per avere tutti i dati tra le mani – porterebbe all’incommensurabile, e difficilmente quantificabile economicamente, per una volta almeno, vantaggio, di ridurre le nostre emissioni dannose e in ultima istanza di migliorare l’aria che respiriamo. Dunque producendo a sua volta un circolo virtuoso sulla Sanità e soprattutto sulla salute di tutti noi. Ovviamente, potremmo mandare al diavolo, o quasi, i nostri attuali “fornitori” di energia e chi ha il monopolio in Italia di distribuirla e fatturarla. A ostacolare tutto questo c’è unicamente la cecità di chi ignora tali possibilità e di chi vi si oppone, come abbiamo visto, per conservare i diritti acquisiti. Il che è un circolo chiuso: chi vi si oppone di riffa o di raffa è collegato, o direttamente proprietario, dei mezzi di comunicazione sui quali ovviamente non ha alcun interesse di far veicolare le notizie in grado di istruire i cittadini che poi, giustamente, potrebbero sostenere e portare avanti il cambiamento che lor signori temono come la peste.  Ma altrove, per esempio su questo giornale, è invece doveroso parlarne, e qui possiamo farlo, tanto per cambiare, proprio perché grazie agli abbonati noi non dipendiamo da vari inserzionisti che potrebbero obiettare sugli argomenti che decidiamo di portare avanti: avete mai visto pubblicità dell’Enel su queste pagine? Le vedete altrove, su altri giornali? Esatto: non vi stupite se da quelle parti non si parli mai di energie alternative… Ma andiamo avanti. Si dirà: con le energie alternative non si può produrre tutta l’energia che consumiamo al momento. Vero, sebbene solo in parte. Ciò che si dimentica di dire è che la maggior parte dell’energia che consumiamo attualmente va dispersa nel nulla. In altre parole, da una parte potremmo, con investimenti nel settore delle costruzioni, della coibentazione, e delle reti, consumarne meno e, attuando alcune abitudini accorte, ottenere lo stesso livello di benessere. Dall’altro lato, e il tema è fondamentale proprio in questo periodo storico nel nostro Paese, potremmo contribuire molto, ma molto significativamente, alla problematica della disoccupazione. Se il denaro sino a ora speso per il progetto del Ponte di Messina, o per la Tav (anche se con contributi europei) fosse stato invece investito nelle energie pulite, al momento avremmo molti più occupati, molti meno arrabbiati, una maggiore indipendenza energetica e una superiore qualità dell’aria. Oltre che la benedizione della Terra. Ci si deve sforzare, tutti noi, di veicolare il concetto di decrescita nel modo corretto. Altro che ritorno all’età della pietra. L’applicazione ragionata e illuminata di alcune pratiche, se non a salvare il mondo (per il momento) contribuirebbe se non altro ai diversi benefici che abbiamo citato. I discorsi sul nucleare sono un retaggio del passato sbagliato, anche se continuano a propinarceli, e di una proposta decrescente c’è invece disperato bisogno. Ma per poterla formulare c’è bisogno di qualcuno, a livello politico, che non sia di fatto connivente con le lobbies dei monopoli, che abbia spalle larghe per opporvisi e la vera voglia di rivoluzionare. Pensiamo se a una sola delle tante trasmissioni televisive, con collegamento esterno a una fabbrica di automobili che chiude, si facesse agli operai un discorso tanto rivoluzionario da spiegargli che il mercato dell’automobile è finito, e che dunque per loro, stanti così le cose, in quel settore non c’è futuro, ma che invece c’è l’Italia intera da ristrutturare e riconvertire alle energie alternative, che ci sono milioni di tetti da trasformare col fotovoltaico, ad esempio. E che insomma c’è lavoro per decenni e decenni, tra diretto e indotto, se solo vi fosse qualche vero capitano d’industria tanto capace da capire la situazione, da voler davvero rivoluzionare la propria azienda, e in grado di girare le spalle agli idrocarburi e guardare in faccia il futuro di un mondo nuovo.
Valerio Lo Monaco www.ilribelle.com/ 8.02.2012 Per gentile concessione de “La Voce del Ribelle” La Voce del Ribelle è un mensile – registrato presso il Tribunale di Roma, autorizzazione N° 316 del 18 settembre 2008 – edito da Maxangelo s.r.l., via Trionfale 8489, 00135 Roma. Partita Iva 06061431000 Direttore Responsabile: Valerio Lo Monaco All rights reserved 2005 – 2008, – ilRibelle.com – RadioAlzoZero.net Licenza SIAE per RadioAlzoZero n° 472/I/06-599 Privacy Iscrizione ROC – Registro Operatori della Comunicazione – numero 17509 del 6/10/2008

E Monti sparisce dal sito web della Trilaterale

Mario Monti Sparisce dalla Commissione Trilaterale Claudio Messora Byoblu Byoblu.Com
Dopo due o tre giorni dalla pubblicazione del post “L’interrogazione UE contro Mario Monti sul Bilderberg e sulla Trilaterale“, che si chiudeva con la richiesta di certificare le dimissioni di Mario Monti dai ruoli direttivi ricoperti nella Commissione Trilaterale e nel Gruppo Bilderberg (visto che nei rispettivi siti web risultava ancora in carica) il Presidente del Consiglio italiano sparisce dalla pagina web della sezione Europea della Trilaterale, così come dall’elenco ufficiale dei suoi membri

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ComeDonChisciotte – NIENTE SALVATAGGI PER IL PIANETA

Fonte: ComeDonChisciotte – NIENTE SALVATAGGI PER IL PIANETA.

Perché, mentre è così facile salvare le banche, è così difficile salvare la biosfera?

DI GEORGE MONBIOT http://www.monbiot.com
Le banche le salvano in una giornata. Ma anche solo per pensare di salvare il pianeta ci vogliono decenni.

Lord Stern ha calcolato che sistemare il cambiamento climatico costerebbe circa l’1% del PIL mondiale, mentre restare fermi e lasciare che ci colpisca costa tra il 5 ed il 20%. L’uno per cento del PIL equivale, al momento, a 630 miliardi di dollari. Nel marzo del 2009, Bloomberg ha rivelato che la FED [Banca Centrale degli USA, ndt] ha destinato 7,77 trilioni di dollari alle banche. Si tratta solo di un contributo del governo: eppure tale somma equivale a 12 volte il costo annuale del cambiamento climatico globale. Aggiungendo i finanziamenti degli altri paesi la cifra si moltiplica di molto.

Questo sostegno è stato dato su richiesta: appena le banche hanno dichiarato di volere aiuto, lo hanno ottenuto. Nell’arco di un solo giorno, la FED ha reso disponibili 1,2 trilioni di dollari, più di quanto l’intero pianeta abbia messo a disposizione per il cambiamento climatico negli ultimi venti anni.

Tutto si è svolto senza condizioni e anche in segreto: ci sono voluti due anni perché i giornalisti potessero illustrarne i dettagli. Le banche hanno gridato “aiuto” e il governo ha semplicemente tirato fuori il portafogli. E va ricordato che il tutto è accaduto sotto George W. Bush, la cui amministrazione si era dichiarata fiscalmente conservatrice.

Ma far sì che il governo americano impieghi una qualsiasi forma di aiuto fiscale per il pianeta – anche solo un paio di miliardi – è come togliersi un dente. “Non ce lo possiamo permettere!”, urlano i Repubblicani (e molti tra i Democratici). Rovinerà l’economia! Torneremo a vivere in caverne!”

Spesso vengo colpito dalla retorica pomposa e selvaggia di coloro che accusano gli ambientalisti di diffondere il panico. “Se questi allarmisti facessero come vogliono, distruggerebbero l’intera economia”: questo è il genere di dichiarazione che si sente quasi tutti i giorni, senza alcuna parvenza di ironia.

Nessun legislatore, per quanto ne so, è ancora stato capace di spiegare perché ci si può permettere di destinare 7,7 trilioni di dollari alle banche, mentre non è possibile investire cifre molto più basse in nuove tecnologie e risparmio energetico.

Gli Stati Uniti e le altre nazioni hanno iniziato ad affrontare seriamente il problema del cambiamento climatico nel 1988. Tuttavia, non esiste ancora un accordo mondiale vincolante ed è improbabile che ce ne sarà uno entro il 2020, se mai avverrà. Gli accordi per salvare le banche vengono conclusi senza alcuna fatica nei summit economici, mentre fare progressi nei summit ambientali sembra come usare un asino per trainare un camion di 44 tonnellate.

Per fare un esempio, il risultato di Durban, dopo imprese sovrumane, è stato migliore di quanto temessero gli ambientalisti. Dopo Copenaghen e Cancun non sembrava plausibile che le nazioni ricche e quelle povere sarebbero mai state d’accordo per creare un giorno un trattato vincolante, ma lo hanno fatto. Questo non significa che il risultato è stato buono: anche se tutto andasse come pianificato, c’è ancora la probabilità che la temperatura si surriscaldi di più di due gradi, il che minaccia molti luoghi e molti abitanti della Terra.

Il resoconto più chiaro che io abbia letto finora riguardo le negoziazioni e l’esito dell’incontro di Durban è stato scritto da Mark Lynas, che ha partecipato come consigliere del presidente delle Maldive. Egli ha documentato la complessità bizantina del risultato di vent’anni di ostruzioni e tergiversazioni. Quando le nazioni potenti voglio fare qualcosa, lo fanno in modo semplice e veloce. Quando non vogliono, i loro accordi con gli altri paesi si trasformano in un nascondino.

Ecco alcuni punti chiave:

 

  • le negoziazioni più importanti si riducono a una battaglia tra due gruppi: l’Unione Europea, i paesi meno sviluppati e le piccole isole da un lato; gli USA, il Brasile, il Sud Africa, l’India e la Cina dall’altro, cercando di resistere alla pressione.
  • Il primo gruppo ha avuto in qualche modo successo: le altre nazioni hanno acconsentito a elaborare un accordo vincolante “applicabile a tutte le parti”. In altre parole, diversamente dal Protocollo di Kyoto che regola solo le emissioni di gas serra di un gruppo di paesi ricchi, questo accordo sarebbe valido per tutti, e comunque ciò non significa necessariamente che le nazioni dovranno ridurre le emissioni.
  • Il primo gruppo non è riuscito ad ottenerlo rapidamente. Le nazioni più povere volevano un risultato legalmente vincolante entro la fine dell’anno prossimo. Ma il gruppo USA-Cina ha spinto per il 2020 e ci sono riusciti. A meno che questa situazione non cambi, limitare l’aumento della temperatura globale a due gradi o meno risulta più difficile, se non impossibile.
  • Il Protocollo di Kyoto, sebbene rimanga in vigore fino al 2017 o 2020, è ad un punto morto. Di fatto, come suggerisce Lynas, a meno che le ambiguità in esso contenute vengano limitate, potrebbe risultare addirittura inutile, perché potrebbero minare gli impegni volontari che gli stati firmatari hanno contratto.
  • Le nazioni hanno accordato la creazione di un Green Climate Fund per aiutare i paesi in via di sviluppo a limitare le emissioni di gas serra e adattarsi all’impatto del surriscaldamento globale. Ma con tre eccezioni: la Corea del Sud, la Germania e la Danimarca hanno deciso di non investire denaro nel progetto. Il fondo dovrebbe ricevere 100 miliardi di dollari all’anno: un sacco di soldi, finché non vengono paragonati a quelli delle banche.
  • Da qui al 2020, possiamo solo fare affidamento sugli impegni volontari dei paesi. Secondo uno studio dell’ONU, queste iniziative mancano dei tagli necessari per impedire un aumento superiore ai due gradi, equivalenti a circa 6 miliardi di tonnellate di biossido di carbonio.
  • Ma, pur riconoscendo i traguardi raggiunti dall’accordo di Durban, due gradi sono ancora troppi. Ha aumentato la possibilità di un impegno a mantenere l’incremento sotto un grado e mezzo di temperatura. Questo richiederebbe un programma di tagli molto più rapido di quanto previsto.

Quindi, perché risulta così facile salvare le banche e così difficile salvare la biosfera? Se per caso ci fosse bisogno di dimostrare che i nostri governi operano negli interessi dell’élite piuttosto che nell’interesse del mondo intero, ecco le prove.

**********************************************Fonte: No Bail-Out for the Planet

17.12.2011

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di ROBERTA PAPALEO

Fumus distrationis, la verità della Giunta su Cosentino – Cadoinpiedi

Fonte: Fumus distrationis, la verità della Giunta su Cosentino – Cadoinpiedi.
di Claudio Messora – 13 Gennaio 2012
“Gli indizi di colpevolezza nei confronti dell’onorevole Cosentino sono gravi e riscontrati”, recita la relazione Samperi. Pertanto, “si deve escludere che lo stesso possa essere considerato un perseguitato politico”. Un documento da leggere e far girare: parla da solo

Nicola Cosentino non va in galera. Sui quotidiani di oggi troverete i resoconti approfonditi delle strette di mano, dei batti-un-cinque, dei baci e degli abbracci del Parlamento all’onorevole di Casal di Principe. Nient’altro. Se per caso voleste cercare di capire di cosa non hanno discusso ieri alla Camera, nessuno si premunirà di raccontarvelo.

I fatti non sussistono, nel senso che è come se non esistessero proprio. Chi dice che c’è il fumus persecutionis, chi dice che è una vergogna: nessuno entra nel merito. Ma è proprio il merito che dovrebbe interessare ai cittadini. E’ il merito che consente all’opinione pubblica di prendere una posizione, non certo il vergognoso clima da stadio con il quale un Parlamento ridotto a clacque da avanspettacolo ha accolto l’esito del voto in aula, certificando una presa di posizione assunta sulla base degli interessi dei partiti, non su quelli degli italiani. Perché delle due l’una: o Cosentino doveva essere arrestato, e in quel caso non ci sarebbe stato nulla da festeggiare, o Cosentino non doveva essere arrestato, e questo significa che la magistratura, in un numero consistente di giudici e di organismi come il Tribunale del Riesame, è viziata dal fumo della persecuzione, e ci sarebbe stato da festeggiare ancor meno. La riprovevole esibizione di corporativismo cui abbiamo assistito, identica alle esultazioni per una vittoria sportiva, non è altro invece che un’autocertificazione di appartenenza alla casta. E’ come se i parlamentari avessero detto agli italiani: “Signori, noi proteggiamo noi stessi, le nostre alleanze politiche, la nostra stessa esistenza come organismo autonomo e indipendente dai cittadini, dai loro interessi ad avere un Parlamento privo di ombre e dubbi. Di voi, insomma, non ci interessa un bel niente”.

Se il voto fosse stato espressione dei contenuti dell’accusa, i toni sarebbero stati alquanto diversi. A cosa serve una Giunta per le Autorizzazioni che valuta le richieste della magistratura, se poi le sue conclusioni vengono ignorate per questioni di mera convenienza politica? Marilena Samperi, la relatrice della Giunta in aula, è stata molto chiara: “gli indizi di colpevolezza nei confronti dell’onorevole Cosentino sono gravi e riscontrati”. Come è possibile dunque ignorare sia gli indizi che le conclusioni, allo scopo di perseguire l’obiettivo per nulla attinente di sconfiggere l’ala dei maroniani e rinsaldare un fronte di alleanze utile in vista di possibili elezioni a Giugno? Quale distanza immensa si è frapposta tra gli elettori e le mitologiche arche del potere che, grazie al patto di rappresentanza stretto con i primi, veleggiano come il vascello fantasma dell’Olandese Volante, lassù tra le nuvole, ormai prive di qualunque ancora terrena?

Forse per questo i giornali si concentrano sui risultati del voto e sul trenino dei festeggiamenti, tralasciando di spiegarvi su cosa la Camera ha davvero votato ieri. Se l’opinione pubblica si concentrasse sulla relazione della Giunta, anziché sui tristi giochi di palazzo, forse l’indignazione troverebbe finalmente un varco per montare.

Allora, in questo irrespirabile fumus che non è persecutionis, ma distrationis (dal latino maccheronico), la relazione Samperi l’ho cercata io. Si trova a pagina 32 del corposo PDF contenente gli atti della seduta n.569, quella di ieri. Leggetelo e fatelo leggere: parla da solo.

LA RELAZIONE SAMPERI
Perché la Giunta per le autorizzazioni pensa che Cosentino debba essere arrestato?

Relatore per la maggioranza. Signor Presidente, onorevoli colleghi, la brevità del tempo a mia disposizione a fronte di un’ordinanza cautelare molto complessa mi impone di darla per letta e adesso la riassumerò brevemente.

L’inchiesta napoletana si inserisce in un quadro socioeconomico e politico assai degradato dove impera la camorra, quadro peraltro ben noto al Parlamento per essere stato rappresentato nel documento conclusivo della Commissione di inchiesta sulla mafia votato all’unanimità nel 2008. Il contesto è quello delle relazioni tra il ceto politico operante nel comune di Casal di Principe e l’organizzazione camorristica dei casalesi, un’osmosi – come si afferma nell’ordinanza – che genera effetti patologici nei settori più rilevanti della vita sociale e politica di quel territorio: quello elettorale, quello economico, e quello istituzionale.

Intorno a questo intreccio si muovono enormi interessi economici che si saldano con quelli dei politici nel momento elettorale. I principali protagonisti dell’inchiesta in esame, secondo l’autorità giudiziaria, sono l’allora sindaco di Casal di Principe, Cipriano Cristiano, i fratelli Corvino, Nicola Di Caterino, prima funzionario dell’ufficio tecnico di quello stesso comune e successivamente promotore della realizzazione della costruzione del centro commerciale Il Principe.

Il Corvino insieme a Cipriano Cristiano e a Di Caterino, tutti imparentati tra di loro e tutti inseriti nel tessuto amministrativo di Casal di Principe, intendono costruire un centro commerciale, ma il terreno non ha i requisiti richiesti per l’edificabilità e occorre un ingente finanziamento. L’iniziativa è volta in effetti a favorire il clan dei Casalesi e segnatamente le famiglie Schiavone e Russo. La mafiosità dell’iniziativa economica è certificata da un imponente quadro probatorio. La realizzazione del centro e i reati commessi per realizzarlo risultano essere finalizzati ad agevolare gli interessi del clan camorristico cui in definitiva, al di là del paravento della società a responsabilità limitata la Vian, il centro stesso era riferibile.

L’attività di indagine compiuta ha permesso di ricostruire le molteplici condotte illecite concernenti il rilascio del provvedimento di autorizzazione compiute nel corso della lunga e articolata procedura amministrativa che nel 2007 ha portato al rilascio del permesso per costruire: un permesso palesemente irregolare non solo perché si attesta falsamente che la Vian è già proprietaria del terreno ma anche perché adottato in difformità da quanto previsto nel piano regolatore generale. L’altro grosso ostacolo alla realizzazione dell’investimento consiste nella necessità per la Vian di ottenere un finanziamento legale. Si tratta di un affidamento fortemente a rischio perché richiesto in violazione di tutte le prescrizioni imposte dalla Banca d’Italia al fine di evitare infiltrazioni mafiose. Il ricorso al finanziamento ponte bancario è però indispensabile per dare all’operazione un’apparenza lecita. Ma la concessione del finanziamento bancario è quasi impossibile per l’impresa richiedente proprio perché avrebbe dovuto offrire solide garanzie, la dimostrazione di un consistente movimento di affari, una struttura produttiva funzionante. Al contrario la Vian aveva un capitale sociale di diecimila euro, nessun giro di affari, una fideiussione palesemente falsa a fronte di un investimento complessivo di 40 milioni di euro.

Ciò che viene contestato all’onorevole Cosentino sono proprio due interventi che si rileveranno determinanti per l’avvio del progetto di costruzione del centro commerciale Il Principe e che faranno superare resistenze altrimenti insuperabili. Uno riguarda il rilascio dell’autorizzazione amministrativa, l’altro il finanziamento bancario da parte di Unicredit per 5,5 milioni di euro. Mario Cacciapuoti, dirigente dell’UTC di Casal di Principe che avrebbe dovuto rilasciare il permesso a costruire, era interessato ad ottenere un appoggio politico per garantirsi il rinnovo dell’incarico al momento della scadenza. L’ordinanza del GIP, confermata dal tribunale del riesame sulla scorta di dichiarazioni, intercettazioni telefoniche e ambientali, considera provato l’avvenuto scambio corruttivo tra Mario Cacciapuoti e gli altri indagati avente ad oggetto lo scambio tra la riconferma al posto di dirigente dell’UTC dello stesso Cacciapuoti e gli illegittimi atti amministrativi relativi al costruendo centro commerciale.

Cipriano Cristiano pone all’onorevole Cosentino la nomina del Cacciapuoti come condizione essenziale. E Cacciapuoti, nel luglio 2006, viene rassicurato dallo stesso Cipriano, dopo un incontro con l’onorevole Cosentino, che tutto è a posto. Effettivamente Mario Cacciapuoti sarà nominato dirigente dell’UTC. Trovano così riscontro le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Raffaele Piccolo, Francesco Della Corte, Vargas, che individuano nell’onorevole Cosentino il referente politico di questa iniziativa.

Il secondo intervento contestato all’onorevole Cosentino è quello intervenuto sull’Unicredit per favorire l’erogazione del finanziamento in favore della Vian. Tale affidamento, basato su una fideiussione apparentemente concessa dal Monte dei Paschi di Siena e invece acquistata dal mediatore Flavio Pelliccioni in cambio di rilevanti somme di denaro e assegni postdatati, era, come si dice negli atti, palesemente falso, come risulta poi dai documenti sequestrati presso Unicredit. Il 14 febbraio 2007, una settimana dopo l’incontro tra l’onorevole Cosentino e i funzionari della filiale di Unicredit, Di Caterino ottiene il finanziamento. I riscontri sono costituiti da relazioni della polizia giudiziaria, dichiarazioni di collaboratori di giustizia, accertamenti bancari, intercettazioni e documenti sequestrati.

Il GIP prima ed il giudice collegiale successivamente concordano nel ritenere che l’erogazione del finanziamento ha ricevuto l’avallo dell’onorevole Cosentino, che ha accettato di recarsi personalmente nell’oscura filiale romana dell’Unicredit per fornire garanzie politiche che fossero più affidabili di quelle economico-finanziarie, assolutamente inesistenti.

Sul fumus: dai fatti narrati emerge che gli indizi di colpevolezza nei confronti dell’onorevole Cosentino sono gravi e riscontrati, ma se ciò non bastasse, la pronunzia del tribunale del riesame avverso il ricorso proposto dall’onorevole Cosentino costituisce la pietra tombale su ogni e qualsiasi ipotesi di fumus persecutionis, giacché viene chiarito come la magistratura napoletana, ora nelle vesti del giudice per le indagini preliminari, ora nella veste del tribunale collegiale, esamina esclusivamente elementi oggettivi raccolti dagli inquirenti e non mostra alcuna animosità soggettiva nei confronti del collega Cosentino.

Concludo, signor Presidente: si deve quindi escludere che l’onorevole Cosentino possa essere considerato un perseguitato politico ed è per questo che la Giunta, nella sua maggioranza, chiede all’Aula di poter autorizzare la richiesta fatta dai giudici.

Byoblu

ComeDonChisciotte – I PERICOLI DEL 2012: QUANDO L’AUSTERITÀ MORDE SUL COLLO

Fonte: ComeDonChisciotte – I PERICOLI DEL 2012: QUANDO L’AUSTERITÀ MORDE SUL COLLO.

DI JOSEPH STIGLITZ
Common Dreams

L’anno 2011 sarà ricordato come l’epoca in cui i tanti ultra-ottimisti americani hanno iniziato a perdere le speranze. Il Presidente John F. Kennedy disse una volta che la marea che si alza solleva tutte le barche. Ma, con la risacca, gli americani stanno cominciando a vedere che non solo quelli che hanno gli alberi più lunghi sono rimasti più in alto, ma che molte delle più piccole imbarcazioni sono andate in frantumi nella loro veglia funebre.

In quel breve momento in cui la marea si stava davvero sollevando, milioni di persone pensarono di avere una buona possibilità di realizzare il proprio “Sogno americano”. Ora anche questi sogni stanno arretrando. Entro il 2011 i risparmi di quelli che avevano perso il lavoro nel 2008 o nel 2009 sono stati spesi. I sussidi di disoccupazione sono finiti. I titoli sul giornale che annunciano nuove assunzioni – ancora non sufficienti per tenere il passo col numero di quelli che sarebbero entrati normalmente nella forza lavoro – significano poco per i cinquantenni che hanno una flebile speranza di riavere un impiego..

Invece, le persone di mezza età che pensavano di rimanere disoccupati solo per qualche mese ora hanno capito che sono andati, forzatamente, in pensione. I giovani che si sono laureati con decine di migliaia di dollari di debito per l’istruzione non riescono a trovare niente. Le persone che si erano trasferiti da amici e parenti sono diventati dei senza casa. Gli immobili acquistati durante il boom dell’immobiliare sono ancora sul mercato o sono stati venduti in perdita. Più di sette milioni di famiglie americane hanno perso la propria abitazione.

Il ventre molle del boom finanziario della scorsa decade è rimasto scoperto anche in Europa. I tremori in Grecia e la devozione all’austerità dei governi nazionali hanno cominciato a chiedere un pesante pedaggio già dallo scorso anno. Il contagio si è diffuso all’Italia. La disoccupazione in Spagna, che era vicino al 20% sin dall’inizio della recessione, è salita ancora più in alto. L’impensabile – la fine dell’euro – comincia a sembrare una possibilità reale.

Questo anno potrebbe essere anche peggiore. È possibile, naturalmente, che gli Stati Uniti riescano a risolvere i propri problemi politici e finalmente adottino le misure di stimolo di cui hanno bisogno per abbattere disoccupazione al 6% o 7% (il livello di pre-crisi del 4% o 5% è una speranza eccessiva). Ma ciò è improbabile così come il fatto che l’Europa riesca a capire che la sola austerità non risolverà i suoi problemi.

Al contrario, l’austerità aggraverà la flessione economica. Senza crescita, la crisi del debito – e quella dell’euro – potrà solo peggiorare. E la lunga crisi iniziata col crollo della bolla immobiliare nel 2007 e la successiva recessione continueranno.

Inoltre, i paesi emergenti più importanti, che sono riusciti con successo a evitare le tempeste del 2008 e del 2009, potrebbero non riuscire ad affrontare i problemi che si profilano all’orizzonte. La crescita del Brasile si è già fermata, alimentando l’ansia fra i vicini dell’America Latina.

Nel frattempo, i problemi a lungo termine – tra cui il cambiamento climatico, le altre minacce ambientali e l’ineguaglianza in crescita nella maggioranza dei paesi del pianeta – non sono svaniti. Alcuni sono diventato più gravi. Ad esempio, l’alto livello di disoccupazione ha depresso i salari salario e ha aumentato la povertà.

La buona notizia è che occupandosi di questi problemi a lungo termine si potrebbe aiutare risolverli nel breve. Un incremento degli investimenti per purificare l’economia a causa del riscaldamento globale aiuterebbe a incentivare l’attività economica, la crescita e la creazione di posti di lavoro. Una tassazione più progressiva, ridistribuendo i redditi dalla vetta verso il centro e il fondo, ridurrebbe simultaneamente la disuguaglianza e aumentare gli impieghi aumentando la domanda totale. Imposte più alte ai più ricchi potrebbero generare introiti per finanziare la spesa pubblica e per fornire protezione sociale alle persone sfavorite, tra cui i disoccupati.

Anche senza allargare il deficit fiscale, gli incrementi di entrate e di spesa di un simile “bilancio equilibrato” abbasserebbe la disoccupazione e aumenterebbe la produzione. Comunque, la preoccupazione è che la politica e l’ideologia su ambo i lati dell’Atlantico, ma specialmente negli Stati Uniti, non permetterà che ciò avvenga. La fissazione sul deficit spingerà per le riduzioni della spesa sociale, peggiorando l’ineguaglianza. Allo stesso modo, la durevole attrazione per l’economia supply-side, malgrado tutte le evidenze contrarie (specialmente in un periodo in cui c’è alta disoccupazione) impedirà l’aumento delle tasse ai più ricchi.

Anche prima della crisi, c’era già un ribilanciamento del potere economico, una correzione di un’anomalia vecchia di 200 anni, dove la fetta asiatica del PIL globale era precipitata da quasi il 50% a meno del 10%. L’impegno pragmatico per la crescita che si può vedere in Asia e negli altri mercati oggi emergenti contrasta con le politiche fuorvianti dell’Occidente, che, guidate da una combinazione di ideologia e interessi particolari, sembra quasi riflettere un impegno a non crescere.

Di conseguenza, il ribilanciamento economico e globale potrebbe accelerare, aumentando quasi inevitabilmente la possibilità di tensioni politiche. Con tutti i problemi che ha di fronte l’economia globale, noi saremo fortunati se questi contrasti non cominceranno a manifestarsi nei prossimi dodici mesi.

**********************************************Fonte: The Perils of 2012: When Austerity Bites Back

13.01.2012

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di SUPERVICE

Bilancio della difesa: uno scandalo a danno dei servizi pubblici | STAMPA LIBERA

Fonte: Bilancio della difesa: uno scandalo a danno dei servizi pubblici | STAMPA LIBERA.

di: Alberto Stefanelli e Piero Maestri
In queste ultime settimane tra i tanti articoli sulla crisi economica, sulla manovre e i provvedimenti governativi, sulla necessità di cospicui tagli al bilancio dello Stato – si è affacciato un inizio di dibattito sul peso delle spese militari sullo stesso bilancio pubblico e sulla possibilità di riduzioni del bilancio della difesa, con particolare riferimento al programma di acquisto di 131 caccia F35 Strike fighter (spesa prevista intorno ai 15 miliardi di Euro).
Di questo ne siamo ben lieti: da quando abbiamo fondato la rivista Guerre&Pace nel “lontano” 1992, non è passato anno senza articoli, analisi, proposte sui temi delle spese militari e nette prese di posizione per un loro drastico taglio.
Purtroppo non ci pare sia davvero un dibattito serio, perché non sembra affrontare le questioni fondamentali e politicamente più rilevanti riguardo il bilancio militare: a cosa servono queste spese, il loro legame con i debito pubblico e l’intreccio tra imprese, banche e forze armate (in fondo si tratta ancora del “complesso militare-industriale” – ora più finanziario – di cui parlava il presidente Eisenhower).
Intendiamoci: quando le spese militari e il bilancio della difesa verranno tagliati, qualsiasi sia il motivo e l’entità, saremo comunque favorevoli. Non ci convince però – anzi ci preoccupa – che questo terreno venga affrontato da due punti di vista per noi insufficienti o addirittura fuorvianti: da una parte la polemica sulla “casta militare”, indubbiamente esistente – ma che rischia di mettere in secondo piano le più preoccupanti responsabilità politiche e di banche e imprese (con Finmeccanica in primo piano); dall’altra il rischio di assecondare la tendenza alla “razionalizzazione” delle spese militari, per avere comunque forze armate più efficienti. E qui sta la questione di fondo: efficienti per fare cosa? Le forze armate italiane sono state costruite negli ultimi 20 anni per fare la guerra – ed è quello che fanno le missioni internazionali (dall’Afghanistan alla Libia), dentro il quadro di un’Alleanza atlantica che ha assunto via via il ruolo di regolatore dell’ordine mondiale e di poliziotto che si auto-autorizza a applicare sanzioni a chi viola le sue regole.
L’esempio più lampante di queste tendenze è fornito dall’articolo di Repubblica intitolato “Monta la protesta contro i caccia F35: ‘Costano troppo, il governo non li compri’” .
Nessun ripensamento sul ruolo di quei cacciabombardieri o di altri sistemi d’arma (perché gli Eurofighter è bene che li compriamo? Il programma di questi ultimi è più costoso, tra l’altro… e della seconda portaerei, la Cavour, davvero non possiamo farne senza?), ma solo l’idea di qualche “aggiustamento”. E il meglio di sé lo dà la senatrice del Pd Roberta Pinotti, già presidente della Commissione Difesa della Camera tra il 2006 e il 2008, che dichiara: “Non servono 131 caccia, il governo potrebbe ridurre l’acquisto a 40-50′‘, in buona compagnia con il dipartimento esteri dei democratici che “suggerisce a Monti una fase di “sospensione” e “ripensamento”.
Ora, la senatrice Pinotti, da sempre favorevole a tutte le guerre dell’Italia e quindi corresponsabile dei loro crimini, e sostenitrice degli aumenti delle spese militari (anche come supporto finanziario alle imprese come Finmeccanica) dovrebbe ricordarsi che la firma in fondo al “memorandum” del 2007 dell’accordo con gli Usa per gli F35 è quella del suo compagno di partito on. Forceri, uomo di Finmeccanica e già sottosegretario del governo Prodi (il governo che maggiormente aumentò le spese militari…) e che pensare di comprare 40/50 aerei inutili e dannosi non è una riduzione del danno, ma una sonora presa per i fondelli.

I dati delle spese belliche
Per discutere l’argomento è prima di tutto capire di quali cifre stiamo parlando.
Secondo gli ultimi dati disponibili del Sipri, uno dei più autorevoli centri di ricerca internazionale sulle armi, l’Italia ha speso nel 2010 circa 26,6 miliardi per la difesa militare – a fronte dei 20,3 miliardi dichiarati dal ministero della difesa – posizionandosi ancora una volta al decimo posto nella classifica dei paesi che maggiormente spendono per i loro eserciti. Ma non si tratta di un’eccezione; sempre leggendo i dati Sipri l’Italia del nuovo millennio ha speso in media ogni anno circa 25 miliardi di euro per le spese militari. Molti di più di quanto dichiarato ufficialmente.
Per il 2012 il bilancio della Difesa è pari (con l’approvazione del bilancio dello Stato il 12/11/2011) a 19.962 milioni di euro suddivisi in 14,1 miliardi per esercito, marina e aeronautica e 5,8 miliardi per i Carabinieri. A questi numeri va aggiunto che nello stato di previsione del ministero dell’Economia è presente il fondo per le missioni internazionali di pace, incrementato con 700 milioni di euro dalla Legge di stabilità, raddoppiati poi dalla manovra Monti.
Lo stato di previsione del ministero dello Sviluppo Economico comprende poi 1.538,6 milioni di euro per interventi agevolativi per il settore aeronautico e 135 milioni di euro per lo sviluppo e l’acquisizione delle unità navali della classe Fremm. La Legge di Stabilità proroga al 31 dicembre 2012 l’utilizzo di personale delle Forze armate per le operazioni di controllo del territorio per una spesa complessiva di 72,8 milioni di euro.
Si arriva così a una spesa complessiva – verificata – di oltre 23 miliardi di euro, come riportato da il manifesto.

Un bilancio per le guerre
Ma a cosa servono queste spese? Lo ripetiamo, questo è l’argomento centrale.
Non si tratta solo dell’inutile aereo F35, un aereo da attacco dalle caratteristiche tecniche tali che lo rendono adatto ad una guerra contro altre superpotenze militari; questi soldi vengono bruciati anche per mantenere un carrozzone di 180.000 uomini (e donne) in cui, come rileva il rapporto di “Sbilanciamoci 2012”, i graduati (in aumento) sono più della truppa (in diminuzione) e i generali sono in proporzione più di quelli statunitensi. Una struttura con molti marescialli in soprannumero e magari inadatti, anagraficamente, alle nuove necessità operative.
La questione va molto oltre.
L’Italia, tra i membri fondatori, partecipa da sempre a pieno titolo alle attività della Nato. Il contributo economico diretto all’Alleanza Atlantica piazza l’Italia al quinto posto tra i paesi finanziatori (nel 2007 è stato di 138 milioni di euro su un totale di 1.874,5 milioni di euro, pari al 7,4% dei contributi totali versati dagli alleati) collocandola subito dopo Usa, Regno Unito, Germania e Francia.
Per adeguarsi ai requisiti della Nato l’Italia ha dato vita già da tempo ad un ampio programma di riarmo, attualmente in atto, che si traduce nell’acquisto di 121 caccia Eurofighter per un costo totale di 18 miliardi di euro, 6 miliardi per elicotteri da attacco e da trasporto, più di 7 miliardi per 12 fregate, 1,4 miliardi per la nuova portaerei, 1,9 miliaardi per 4 sommergibili, 1,5 miliardi per 249 blindati. Più ovviamente obici, siluri, missili, radar e tutto quanto serve per operare in guerra fuori dal territorio nazionale.
Mezzi che non sono solo risorse sprecate ma che fanno danni quando vengono impiegati per le guerre della Nato. Se negli ultimi anni le truppe impegnate all’estero si aggiravano tra gli 8.000/8.500 uomini, più della metà sono stati impegnati in missioni Nato (l’Italia è il quarto paese per contributi alle operazioni a guida Nato).
Tra queste non ultimo l’Afghanistan, dove l’Italia è presente con circa 4.000 soldati (3.918 a inizio settembre) con armamenti e attrezzature al seguito, che sono costati nel 2011 più di 800 milioni di euro, che porta il totale per i dieci anni di permanenza al seguito dell’alleato statunitense a circa 3,5 miliardi di euro (mentre il totale dei fondi destinati alle missioni militari nazionali dal 2001 si aggira sui 13 miliardi di euro).
L’enorme debito pubblico italiano, come quello degli altri paesi europei, è il risultato delle scelte politiche neoliberiste – come gli articoli pubblicati sul sito http://www.rivoltaildebito.org
hanno già più volte mostrato.
Per l’argomento che trattiamo ci sembrano due le questioni connesse: da una parte l’aumento del budget della difesa, malgrado la riduzione di altri capitoli di bilancio, come conseguenza di un rilancio dell’uso della forza militare come strumento connesso alla presenza economico-politica internazionale (come già recitava il Nuovo modello di difesa del 1991); dall’altra il sostegno pubblico all’industria bellica, in particolare alla galassia di Finmeccanica.
Come dicevamo, questa non è una caratteristica solamente italiana. La Grecia, pur in bancarotta, ha continuato a destinare il 3,2% del Pil alle spese militari (oltre dieci miliardi di dollari l’anno).
L’Italia, come abbiamo visto, non è da meno, e con un debito pubblico di oltre 1.900 miliardi di euro continua ad avere il bilancio militare di cui abbiamo parlato – che ci ha fatto spendere negli ultimi 10 anni più di 200 miliardi di euro per la guerra secondo i dati ufficiali, ma ben 280 miliardi secondo il Sipri.
E’ chiaro che queste forte spesa militare ha contribuito al deficit pubblico e che il bilancio della difesa ha subito tagli decisamente ridicoli o inesistenti, ancora più scandalosi se confrontati con quelli subiti dai servizi pubblici.
L’altro elemento è quello del sostegno pubblico mascherato all’industria bellica.
L’industria militare è per sua natura un settore che dipende dalla commesse pubbliche, e anche se in questi ultimi 20 anni si sono susseguiti accordi internazionali, acquisizioni, joint-venturs, una società come Finmeccanica non potrebbe sviluppare il settore militare senza forti commesse pubbliche e senza un sostegno diretto e indiretto alle proprie produzioni.
Questo è quanto avvenuto, nello stesso periodo in cui entra in crisi la produzione civile di Fincantieri e la stessa Finmeccanica è in procinto di dismettere completamente la produzione di treni (vedi l’articolo di Marco Panaro (Meno treni e più armi. La death economy di Finmeccanica).
Il sostegno a questa impresa a capitale prevalentemente pubblico si è intrecciata nel nostro paese alle politiche di dismissioni industriali, agli scandali legati alla «cricca-economy» e in generale al legame tra politiche neoliberiste e guerre.
Un legame che viene messo in luce persino da un uomo come Innocenzo Cipolletta, già direttore di Confindustria e autore del libro “Banchieri, politici e militari” (Ed. Laterza), che in un convegno a Trento ha affermato: “Non si può comprendere la crisi del petrolio del 1974 senza la guerra del Vietnam e le tensioni in Medio Oriente. Analogamente la bolla finanziaria del 2008 è intimamente legata alle modalità con cui si è entrati in guerra contro il terrorismo internazionale. Il debito infatti si ingigantisce, e come nell’Antica Roma, chi è debitore è schiavo: in questo caso noi siamo schiavi dei mercati finanziari (le misure della BCE per esempio) che ci dicono come comportarci e quali correttivi introdurre, perdendo così la nostra sovranità”.
Su questi legami crisi-guerre-spese belliche-debito vogliamo tornarci prossimamente.

Un altro modello
per la “Difesa”
Arriviamo allora al punto che più ci interessa. Le spese militari italiane (ed europee) vanno drasticamente ridotte come conseguenza di una scelta politica precisa: non vogliamo più un modello di “difesa” pensato e strutturato per fare la guerra. Sia che si tratti di quello attuale con sprechi, privilegi e spese inutili; sia che si tratti di quello più “efficace” nel fare le guerre che vorrebbero il ministro Di Paola o il gen. Roberta Pinotti (e La Russa, prima di lei).
Non vogliamo più la partecipazione italiana alle guerre illegittime e alle missioni militari della Nato; vogliamo che l’Italia esca dalla Nato e questa “obsoleta” alleanza militare venga sciolta – o comunque che l’Europa scelga una postura internazionale pacifica e di cooperazione e co-sviluppo con il Mediterraneo, l’Asia, l’America latina e l’Africa.
È sulla base di queste scelte politiche che affrontiamo il nodo del taglio alle spese militari.
Non per arrivare a forze armate più pronte ed efficienti nel partecipare alle guerre della Nato, ma per un diverso modello di difesa.
Un modello di difesa che tenga conto che con l’equivalente di 15 giorni di guerra Emergency ha realizzato in Afghanistan tre centri chirurgici, 28 ambulatori e un centro di maternità e che l’intero programma di Emergency in Afghanistan si mantiene con l’equivalente di due giorni di presenza militare italiana.
Un modello di difesa che tenga conto, come ci ricordano i dati della campagna “Sbilanciamoci”, che con la stessa somma impiegata in dieci anni di missioni militari si potrebbero costruire, ad esempio, 3.000 nuovi asili nido che servirebbero un’utenza di 90.000 bambini, creando 20.000 posti di lavoro; inoltre installare 10 milioni di pannelli solari per 300.000 famiglie con la relativa creazione di 80.000 posti di lavoro e infine, sempre con la stessa cifra, mettere in sicurezza 1.000 scuole di cui beneficerebbero 380.000 studenti creando così altri 15.000 posti di lavoro.
Un modello di difesa che tenga conto del peso delle armi sullo sviluppo economico nazionale, come ci ricorda la ricerca della Brown University (Usa) che mostra come per ogni milione di dollari investito nel settore armi si creano 8 posti di lavoro, gli stessi posti che si otterrebbero con lo stesso investimento in programmi di sviluppo legati all’energia rinnovabile (solare, eolico, biomasse). Che però diventerebbero 14 con lo stesso investimento nell’assistenza sanitaria, nel trasporto pubblico o nelle ferrovie; e che sarebbero 15 se l’investimento avvenisse nel sistema educativo pubblico e soltanto 12 se investito nella climatizzazione delle abitazioni.
Si può naturalmente partire dalla cancellazione dei programmi più scopertamente vergognosi e scandalosi – come quello che riguarda gli F35 – come, appunto, punto di partenza di una consapevolezza di una necessaria riconversione delle politiche e del sistema militare-industriale – non come strumento di razionalizzazione delle spese stesse, cercando pure il consenso in tempi di crisi e di ristrettezze di bilancio.
Tra l’altro, come hanno dimostrato più volte la rivista “Alteconomia” e il suo redattore Francesco Vignarca, non è prevista alcuna penale per l’uscita da quel programma – e gli stessi Usa stanno profondamente rivedendolo.

Non pagare il debito, tagliare le spese militari
In questo senso l’approccio è analogo a quello della campagna “Rivolta il debito”: il problema non è più principalmente “chi deve pagare il debito”, ma la consapevolezza che il debito pubblico che si è formato in Italia (come nel resto d’Europa) è in gran parte illegittimo e per questo non deve essere pagato affatto.
Lo stesso vale per il bilancio della difesa: va drasticamente tagliato perché si può e si deve fare a meno dello strumento delle forze armate come concepito dal “pensiero unico della difesa” che ha visto sempre concordi le forze politiche da An al Pd (con brutti scivoloni anche di Prc e dintorni…).
E una parte del debito pubblico si è formato anche per permettere di tenere alte le spese della difesa, come chiedevano la Nato e gli Usa: interessante al proposito uno studio del 1999 del Government Accountabilty Office del Congresso statunitense (Nato: implications of European Integration for Allies’defense spending) che sosteneva: “Essendo le spese per la difesa una porzione relativamente piccola del bilancio dello stato, dovrebbero essere facilmente protette dai tagli. Comunque, anche se il sostegno per i tagli alla difesa è minimo, potrebbe diventare un obiettivo attrattivo: la pressione per ulteriori aumenti per le pensioni e la sanità dovute all’invecchiamento della popolazione metteranno a rischi i bilanci futuri in molti paesi europei. Una forte crescita economica è chiaramente la chiave per fornire ai governi la flessibilità necessaria a equilibrare bisogni e risorse”. La storia di questi anni ci racconta come è andata: la crescita è stata debole, la spese per pensioni e sanità è diminuita e le spese militari sono aumentate – per la gioia dei nostri “alleati” statunitensi – e intanto aumentava il debito pubblico.
La campagna contro il pagamento del debito e quella contro le spese militari sono profondamente connesse; per questo una parte dell’audit dei cittadini sul debito pubblico dovrà riguardare le spese militari come forma specifica di illegittimità della destinazione dei fondi con cui si è formato il debito pubblico.

La versione originale e integrale su http://www.guerrepace.org/index.html

Tratto da: Il debito e le spese militari | Informare per Resistere http://www.informarexresistere.fr/2012/01/12/il-debito-e-le-spese-militari/#ixzz1jLSVVzlZ
– Nel tempo dell’inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario!

Uscire dall’euro come alternativa: il caso dell’Argentina | STAMPA LIBERA

Fonte: Uscire dall’euro come alternativa: il caso dell’Argentina | STAMPA LIBERA.

di Vicenç Navarro

 Una teoria che è stata promossa da importanti ambienti finanziari, come il Fondo Monetario Internazionale (FMI), è quella sviluppata da due dei suoi economisti, Ken Rogoff e Carmen Reinhart, sorprendentemente definiti in un recente articolo come “nuovi guru dell’ economia“, i quali sostengono che le recessioni causate da crisi finanziarie devono essere risolte lentamente dopo molti anni di ripresa lenta e dolorosa. Nei loro scritti, questi autori sottolineano i termini lenta e dolorosa. La promozione di questa teoria da parte del FMI e la sua accettazione nei mezzi di comunicazione finanziari ed economici neoliberali, si spiega nel fatto che, discolpa le politiche pubbliche responsabili dello scarso recupero delle economie europee e, più in particolare, quelle dei paesi sprezzantemente definiti come PIIGS (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna), suini in inglese.

Il problema di questa teoria è che facilmente si è dimostrata essere sbagliata. Cioè, ci sono prove per invalidano la sua tesi. Prendiamo, per esempio, quello che è successo in Argentina. Questo paese ha avuto un’enorme crisi finanziaria, dovuta in parte al fatto che il valore della sua valuta era fissato in euro (scusate, volevo dire in dollaro USA). Questa parità l’aveva portata ad avere un debito di 95.000 milioni di dollari. Era il discepolo prediletto del Fondo Monetario Internazionale, applicando le ricette di tale istituzione e raggiungendo un livello di debito impossibile da sostenere.
Quindi, contro il volere del FMI e con grande ostilità da parte di questa istituzione, alla fine del 2001, il governo argentino ha deciso di abbandonare l’ancoraggio al dollaro e non pagare il debito al prezzo fissato dal FMI. Il sistema finanziario argentino è crollato e tutte le profezie predicevano che l’Argentina sarebbe entrata in recessione – a livelli di depressione – per molti, molti anni. Fin qui la teoria di Rogoff e Reinhart.
I dati, tuttavia, mostrano l’errore di quegli autori. E’ vero che l’economia argentina diminuì nella prima metà dell’anno. Ma recuperò ben presto, e in tre anni il livello di attività economica e la crescita erano già identiche a quelle del periodo pre-recessione. Parte della soluzione fu quella di recuperare la propria moneta e una propria autonomia fiscale, garantita dalla propria Banca Centrale. Inoltre, non pagò il debito pubblico ai livelli richiesti, svalutandolo notevolmente. Tutto questo gli ha permesso di recuperare rapidamente, raggiungendo uno dei livelli di crescita economica più accentuati in America Latina, il doppio del Brasile, per esempio.
Questa crescita ha avuto un impatto attraverso politiche pubbliche redistributive, per migliorare il benessere delle masse popolari. La povertà e la povertà estrema sono state ridotte di due terzi dal 2002. La spesa pubblica sociale è triplicata nel periodo 2002-2010. E nel 2009, sviluppò un programma di trasferimenti pubblici all’infanzia, che ha riguardato 3,5 milioni di bambini, diventando il programma di riduzione della povertà infantile più ambizioso dell’America Latina. La disuguaglianza è diminuita. Nel 2001 i super-ricchi (il 5% del reddito superiore) avevano un reddito 32 volte quello dei poveri (il 5% di reddito inferiore). Nel 2010 era 17 volte.
E’ vero che l’inflazione era troppo elevata, anche per gli standard dell’America Latina. Un 20-25% all’anno. Bene, ora se i salari aumentano più dell’inflazione (come sta avvenendo) e la protezione sociale, continua a ridurre le disuguaglianze, l’impatto di tale inflazione è meno dannoso di quello che sembra. Inoltre, quest’inflazione può e deve essere abbassata, ma non può essere usata per negare le grandi conquiste dell’Argentina, il che spiega l’ampio sostegno popolare al proprio governo, ampiamente rieletto alle ultime elezioni (The Argentina Success Story and its implication. Center for Economic and Policy Research. 2011)
Per valutare l’esperienza argentina dovrebbe essere confrontata con ciò che sarebbe successo se non avesse cambiato le sue politiche. Come previsto da Reinhart e Rogoff, sarebbe stata per lungo tempo (dieci o quindici anni) in una ripresa lenta e dolorosa. Invece, ha recuperato ed è cresciuta rapidamente, distribuendo in modo più uniforme la ricchezza prodotta in questi anni.
La Spagna non è l’Argentina. Ma è importante studiare la possibile rilevanza di quell’esperienza per la Spagna. Lasciare l’euro non sarebbe la mia prima proposta per uscire dalla crisi. Penso che sia meglio iniziare a trasformare l’architettura dell’Unione Europea e dell’Eurozona con la costituzione di una Banca Centrale (la Banca Centrale Europea non è una banca centrale, per paradossale che sembra: in realtà è una lobby della banca), un Dipartimento Tesoro ed altre misure, tra cui la democratizzazione delle istituzioni dell’Unione Europea volta a costruire gli Stati Uniti d’Europa. Ma temo che il dominio neoliberista della struttura del governo dell’Eurozona e dell’Unione Europea impedisce questo sviluppo, in questo caso la situazione insostenibile attuale si perpetuerà (che è ciò che vuole il capitale finanziario).
Rivolta in Ungheria contro l’Unione Europea il 14 gennaio 2012
Così, tutte le alternative devono essere considerate, compresa l’uscita della Spagna (e di Grecia, Portogallo, Irlanda e anche dell’Italia, se lo si desidera) dall’euro. La sua permanenza nell’euro, senza fare riforme mirate, significherà la Grande Depressione per milioni di cittadini di questi paesi. Inoltre, la discussione di questa possibilità – di uscire dall’euro – faciliterebbe la mano della Spagna nei negoziati con il governo Merkel e Sarkozy, dal momento che questa uscita è l’ultima cosa che vogliono tali governi, giacchè significherebbe il crollo delle loro banche. Da ciò deriva l’urgenza di avviare il dibattito sull’uscita dall’euro della Spagna, dal momento che l’assenza di questo dibattito sta impoverendo il nostro paese.

Come i media spingono il mondo alla guerra – YouTube

Come i media spingono il mondo alla guerra – YouTube.

IL MOVIMENTO DEI FORCONI È IL RISCATTO DEL SUD – Cadoinpiedi

Fonte: IL MOVIMENTO DEI FORCONI È IL RISCATTO DEL SUD – Cadoinpiedi.

di Pino Aprile – 17 Gennaio 2012
Li ho incontrati alla scuola di politica di Filaga sui monti Sicani. Mi dissero: siamo alla disperazione, pronti alle armi, ci manca solo un leader. Ed io risposi: guardate che non ho fatto neanche il militare! Non rivogliono il Regno delle due Sicilie ma sono stanchi di essere depredati e di recitare il ruolo di “Bancomat d’Italia”

In Sicilia il Movimento dei Forconi blocca la regione. I giornali ignorano il fatto. E c’è chi ipotizza strani legami politici dietro queste proteste. Lei cosa ne pensa?

Ogni volta che il Sud protesta, e vi assicuro che ha tonnellate di ragioni per farlo, si trova sempre qualche motivo per infamare le ragioni della protesta. Io a questo movimento ho dedicato un capitolo del mio ultimo libro “Giù al sud”, quando non ne parlava nessuno. Li avevo incontrati alla scuola di politica di Filaga sui monti Sicani, creata da padre Ennio Pintacuda, e avevo scoperto un mondo di cui l’Italia non sa nulla, perché se il Sud non è mafia, non è camorra, non è notizia.
Mi raccontarono che in 3 anni, su 200 mila aziende agricole, 50 mila erano state sequestrate, messe all’asta; mi raccontarono di gente che da generazioni coltivava quelle terre, che era scomparsa dall’oggi al domani in silenzio per pudore…tragedie vissute nel silenzio, all’interno delle famiglie.
Qualcuno mi si avvicinò e mi disse: noi siamo alla disperazione, pronti alle armi, ci manca solo un leader e io risposi: guardate che non ho fatto neanche il militare!
Questo è emblematico del grado di disperazione di questa gente.

Il Regno delle due Sicilie era ricchissimo. Poi l’impoverimento, la fuga del Sud. Un’emigrazione che continua anche oggi. Perché?

Ci sono almeno tre argomenti enormi nella sua domanda. Il primo, è l’impoverimento del Sud, un territorio che è esistito per oltre 700 anni con quei confini, con quella gente, e che il Regno delle due Sicilie ereditò e poi gestì per 127 anni. Per chi voglia fare dei paragoni, 127 anni è più di quanto è durato il Regno d’Italia, 85 per i Savoia, è più di quanto è durata la Repubblica italiana, è quasi quanto sono durati il Regno d’Italia e la Repubblica italiana messi insieme. Quella era una dinastia divenuta autoctona, perché creò le prime aree industriali in Italia: basta andarsi a leggere i documenti de “L’ Invenzione del mezzogiorno” scritto da Nicola Zitara, e anche tanti altri libri.
L’invasione del sud con annessione comportò la distruzione dell’economia del Sud, la chiusura dei più grandi stabilimenti siderurgici d’Italia che erano in Calabria, l’eccidio, con sparatorie, delle maestranze che volevano impedirlo, la devastazione delle più grandi e efficienti officine meccaniche d’Italia che erano nel napoletano, l’asportazione dei lingotti d’oro, della ricchezza del Regno delle due Sicilie. Tutto questo comportò una ventina d’anni dopo, oltre alla reazione armata di quelli che furono chiamati briganti, che agivano per difendere il proprio paese, l’abbandono della propria terra da parte dei meridionali, un fatto questo che non era mai accaduto in decine di millenni. L’emigrazione dal sud, secondo varie stime, ha portato via 20/25 milioni di meridionali in 90 anni.
Rispetto al passato oggi è cambiato poco o nulla. Un esempio? Il Comitato interministeriale di programmazione economica divide le quote da sbloccare, che spesso sono soldi destinati al sud, per 200 quote e destina 199 quote al nord e una al sud. Con Monti le quote, anche perché i soldi sono diminuiti, sono state circa 40, di cui 39 al nord e una al sud e in tutto il programma di Monti non c’è una parola per il sud. E poi ci si meraviglia delle proteste? I cittadini del Sud vogliono solo rispetto, attenzione ed essere considerati alla pari degli altri cittadini di questo paese.
Del movimento dei forconi fanno parte anche i pastori sardi, guidati da Felice Floris. Ricordo che quando ci furono 100 mila forme di parmigiano invendute, l’allora governo a trazione leghista le fece acquistare con i soldi destinati al mezzogiorno; quando ci fu il pecorino invenduto per i sardi, l’allora governo mandò la polizia a spaccare le teste dei sardi a randellate in Sardegna, e quando i sardi presero il traghetto per andare a Roma, li aspettarono sul molo a Civitavecchia a spaccargli le teste preventivamente, prima ancora che arrivassero nella Capitale a manifestare.
I soldi che hanno usano per il parmigiano erano stati stanziati per il sud! Poi ci si meraviglia se la gente si organizza…In Sicilia il movimento dei forconi ha cominciato a protestare dopo l’ennesimo suicidio di un signore che si è lanciato dalla sua terrazza con una corda legata al collo.

E’ ipotizzabile che la crisi economia spazzi via l’Italia e riporti ad assetti pre-unitari?

Queste sono sciocchezze che tendono a nascondere la serietà e la profondità delle argomentazioni per cui il sud protesta.
Dal Meridione sono andati via negli ultimi 10 anni 700 mila giovani laureati. In qualsiasi paese qualunque governo di destra o di sinistra si sarebbe occupato di questo problema. La verità è che nessuno lo vuole risolvere, perché questo è un affare per una parte del paese. Solo per far studiare i suoi figli e poi regalarli al nord, il sud spende circa 3 miliardi di Euro all’anno. Come dimostrano gli studi fatti sull’argomento, formare un laureato costa dalle scuole materne alla laurea 300 mila Euro, ma per quelli fuori sede la cifra aumenta di circa 100 mila. 23 mila studenti meridionali ogni anno si spostano al nord, fate voi i conti.
Una laurea dura in genere, sono calcoli de “Il Sole 24 ore” circa 7 anni, moltiplicate per 7 e avrete il salasso del sud a favore del nord per regalargli una classe dirigente a proprie spese. Questo solo per l’istruzione. Poi pensiamo ai trasporti: sono stati cancellati da un improponibile, impresentabile amministratore delegato delle Ferrovie dello Stato tutti, ma proprio tutti, i treni diretti sud – nord, il paese è stato spezzato in due nell’anno del 150° anniversario della cosiddetta unità. E ancora, il 90% degli aerei che partono dal sud deve pagare pedaggio a Malpensa, solo per far vivere un aeroporto che non doveva esistere. Per andare da Palermo a Tunisi bisogna prendere l’aereo per Malpensa e poi da Malpensa andare a Tunisi. Dovrà finire questa porcheria!
Un ultimo aneddoto, che ho raccontato nel mio libro “Terroni”: alcuni miei amici di Bari per andare a Milano si vedevano costretti a pagare all’Alitalia un biglietto più costoso del Bari -New York. Allora, per risparmiare, compravano il biglietto per New York, arrivavano a Malpensa, scendevano, strappavano il biglietto e andavano a Milano! Il sud è il Bancomat d’Italia, continuamente insultato con l’epiteto di “ladro”. In realtà, è l’unico caso al mondo nella storia dell’umanità di un ladro che più ruba e più si impoverisce, di un derubato che più viene derubato e più si arricchisce. Ci sarà qualcosa di strano?

ComeDonChisciotte – IN SICILIA, LE CINQUE GIORNATE DEI FORCONI

Fonte: ComeDonChisciotte – IN SICILIA, LE CINQUE GIORNATE DEI FORCONI.

DI DEBORA BILLI
crisis.blogosfere.it

Si scrive Forconi con la “F” maiuscola, in realtà, ma lo spirito è quello: una rivolta per occupare tutti i punti strategici della Sicilia. E’ cominciata oggi, e non ne parla praticamente nessuno a parte la stampa locale. Eppure, sembra una notizia da prima pagina. Su Il Cambiamento c’è un’intervista ad uno dei leader del Movimento dei Forconi, in cui sono rappresentati agricoltori, artigiani, allevatori, pastori, autostrasportatori, che chiedono

 

defiscalizzazione dei carburanti e dell’energia elettrica, potremmo parlare di blocco delle procedure esecutive della Serit-Equitalia, potremmo parlare di Piano di Sviluppo Rurale siciliano, potremmo parlare dell’intervento della Giustizia affinché si penalizzi e si lotti contro  il taroccaggio dei prodotti

e che da oggi 16 gennaio annunciano:

 

la nostra intenzione è quella di fermare pacificamente l’intera Sicilia bloccando i punti cruciali del trasporto regionale. Saremo sui porti, sulle autostrade e sugli scorrimenti veloci di ogni parte della regione, saremo nei pressi delle raffinerie di Gela e Priolo, ecc.

Non si tratta di sogni velleitari. La protesta è già in corso, con conseguenze imprevedibili come l’assalto ai supermercati e ai benzinai avvenuto a Gela, dove i cittadini terrorizzati di rimanere senza rifornimenti hanno forse esagerato un filino in paranoia. La ricaduta sta infatti avvenendo anche sui negozi, che rimarranno chiusi, e sulle scuole.

 

Qualora non ve importi nulla, sappiate che i Forconi stanno meditando anche di bloccare del tutto il trasporto dei carburanti dalle raffinerie siciliane, che producono ben il 50% della benzina consumata nel nostro Paese. Scommetto che ora ve ne importa di più.

 

La protesta durerà fino al 20 gennaio. Chissà se si estenderà a bersagli più succulenti, o si finirà come al solito a parlare di “caste”. Anche se la casta dei pastori siciliani non mi pare poi così tremendamente privilegiata.

Debora Billi
Fonte: http://crisis.blogosfere.it/
Link: http://crisis.blogosfere.it/2012/01/in-sicilia-le-cinque-giornate-dei-forconi.html
17.01.2012

ComeDonChisciotte – DAL FINANZ-CAPITALISMO AL FINANZ-MILITARISMO

Fonte: ComeDonChisciotte – DAL FINANZ-CAPITALISMO AL FINANZ-MILITARISMO.

DI PIOTR
megachip.info

L’Iran sta cercando di sviluppare un’arma nucleare? No.

Leon Panetta, Segretario alla Difesa degli Stati Uniti

1. Qualcuno su un blog ha fatto questo esercizio si calcolo: Se quantifichiamo il debito pubblico a 2.000 miliardi di euro e assumiamo un tasso d’interesse del 7% e infine usiamo come unità di misura temporale la “generazione” (convenzionalmente un intervallo di 25 anni), ecco le rate per estinguere il debito:

Con rata annua di 172 mld: 1 generazione (25 anni – esborso totale: 4.290 mld)

Con rata annua di 145 mld: 2 generazioni (50 anni – esborso totale: 7.246 mld)

Con rata annua di 140 mld: 6 generazioni (150 anni – esborso totale: 21.000 mld).

E’ evidente che noi non possiamo pagare il debito.

Ma non lo può fare la Grecia (forse dichiarerà il default tra tre settimane a meno che la Merkel riveda tutta la strategia della Germania, ovvero tutta la strategia dell’euro e della BCE, cioè anche nostra, nel senso preteso dagli anglosassoni).

Non lo possono restituire la Spagna, il Portogallo e la Francia.

Meno che meno la sdegnosa Gran Bretagna (che tra debito privato e pubblico arriva a oltre il 280% sul PIL, altro che noi che arriviamo fra tutti e due a circa il 246% contro una media europea del 260%, e con una ricchezza privata ben maggiore).

Non gli USA, che infatti dal 1971 pagano i loro debiti direttamente con le bombe atomiche, cioè con la loro politica di potenza necessariamente in coartata espansione.

Ma non lo può fare probabilmente nemmeno la Germania, specie se i Paesi su cui ingrassa (cioè l’Europa del Sud) verranno ridotti a scheletri.

Sì, d’accordo. In realtà l’importante sono gli interessi. Ma a patto che si possano pagare all’infinito. Altrimenti la restituzione del capitale diventa decisiva.

2. L’anno dei Maya della finanza globale si caratterizza dal fatto che nel 2012 dovranno essere rifinanziati titoli di stato per 11.550 miliardi di euro, pari ad un sesto del PIL mondiale. Le banche europee hanno in scadenza titoli propri per 800 miliardi. Inoltre ci sono le scadenze dei titoli delle aziende: quasi 800 miliardi nella sola Europa. E ovviamente quelle delle banche americane e asiatiche. La morale è che serve quasi un quarto del PIL mondiale per fare fronte a questa necessità finanziaria.

Ovviamente se il debito aumenta serve geometricamente di più. Ecco perché non è un caso se la data fatidica per la manovra lacrime e sangue non era il 2011 né il 2013 ma proprio il 2012 (ed ecco perché gli Italiani nati nel 1952 sono così sfigati).

E, come dovrebbe ormai essere evidente a tutti, che Berlusconi sia caduto proprio allo scadere del 2011 e che al suo posto Mario Monti sia subentrato just in time ed ex officio – leggi Napolitano su input di Merkel, Obama, Bilderberg, Trilateral, Goldman Sachs, Macchia Nera e Banda Bassotti – non è un caso nemmeno quello.

Era inevitabile, tutto previsto dagli astri della Haute Finance. Con buona pace di quei tapini alcolizzati dall’antiberlusconismo che sono andati sotto il Quirinale a cantare “Bella ciao! (da figlio di partigiano, ogni volta che ci penso mi viene l’orticaria – è più forte di me).

Ma non è solo un problema nostro. Come dicono le cifre, il 70% del debito pubblico è composto da emissioni di Giappone e Usa. Tokyo ha bisogno di rinnovare 3.500 miliardi, Washington 4.500.

Noi però facciamo la nostra porca figura con oltre 350 miliardi di titoli del debito pubblico in scadenza. Per quanto riguarda il debito privato abbiamo in pole position Unicredit con 30 miliardi in scadenza, IntesaSanPaolo con 24 miliardi, e tra gli industriali Telecom, con quasi 8 miliardi di dollari e Fiat con 1,25 miliardi (al 9,25%).

La Francia può vantare la Bnp Paribas con 270 miliardi di dollari e in complesso ha il 50% dell’esposizione a breve di tutta la UE. Ma non basta: il sistema bancario francese è molto esposto sui titoli pubblici italiani: nel capitalismo tout se tient, nell’espansione e nel disastro.

Ci penseranno le lotte di potere a decidere chi ci guadagnerà e chi ci perderà. Perché se sistemicamente tout se tient, non è vero che i capitalisti siano solidali tra loro nella buona e nella cattiva sorte: loro non si sposano mai con nessuno, al massimo vanno ad escort.

Non è quindi una gran sorpresa che la Francia sia stata declassata da Standard & Poor’s. Si aspettava solo l’OK politico. Perché la Francia dopotutto è stata la punta di diamante della guerra alla Libia. E molte altre guerre bisognerà ancora fare.

3. Per non far collassare il castello di carte occorre da una parte ridurre i debiti e dall’altra immettere denaro fresco nel sistema. Questo vuol dire che il ritrovato asse Parigi-Berlino deve andare a farsi fottere. E’ meglio un asse Roma-Parigi o una nuova troika Roma-Parigi-Bonn, con la prima che, fustigata sul sedere, ha il mandato obamiano di far cambiare le idee alla terza e la seconda che fa da “traduttore simultaneo” tra le altre due, ovvero media.

Ma la mediazione non deve diventare una lungaggine.

Se la Francia viene declassata, gli attentati a Damasco aumentano e le operazioni in Siria sono destinate ad aumentare e a cambiare di qualità, scala e intensità. Assad lo ha capito benissimo e cerca di fare quel che può. Ha appena annunciato un’amnistia generale. L’esperienza della Libia dice però che questo è l’inizio della fine, perché i tagliagole fondamentalisti liberati da Gheddafi su promessa di rinunciare alla violenza andarono subito a farsi armare dall’Occidente e dai sui sicari. La situazione in Siria è diversa, di sicuro. E la Russia stavolta probabilmente non ha intenzione di concedere una no-fly zone sulla Siria.

Ma ricordiamoci che di là, cioè di qua, da noi in Occidente, tra i potenti regna la disperazione. E questo fa paura.

Il tempo per loro stringe, e prima che qualcuno dica alla Haute Finance mondiale e ai poteri territoriali in simbiosi con loro: “Vedo”, si potrebbe pensare alla mossa pazza-arrogante-disperata del dottor Stranamore. La guerra con la sua “distruzione creatrice”. E innanzitutto distruzione dei “libri mastri”, come dice Giulietto Chiesa, ad esempio grazie al probabile collasso dell’economia globale conseguente alla chiusura dello Stretto di Hormuz. Per non considerare il forte rischio di allargamento mondiale del conflitto.

Altro che blitz della Finanza a Cortina! Qui al posto del registratore di cassa faranno trovare il fallout radioattivo.

Allo stato maggiore russo c’è ormai la rassegnazione di assistere entro l’anno ad una guerra atomica presso i propri confini, senza poterci fare nulla.

Prima però l’Occidente dovrà neutralizzare la Siria. Lo farà creando caos e indebolendo Assad e gli Alauiti fino al collasso. Detto incidentalmente, dato che gli Alauiti proteggono da sempre il 10% cristiano della popolazione, possiamo aspettarci qualche bel pogrom da questo indebolimento o addirittura espulsioni di massa. La Santa Sede però non alza nemmeno un sopracciglio. Qualcuno vedeva nell’antirelativismo di Ratzinger una sorta di argine filosofico al relativismo nichilistico del capitalismo. Filosoficamente quadrava. Ma materialmente – sempre questo materialismo tra i piedi! – mi sa tanto che sulla filosofia ha vinto un probabile agreement tra la finanza cattolica e quella anglosassone. Così, a naso. Perché le cose segrete non le sapremo mai, o le sapremo troppo tardi. Intanto al Vaticano, Monti continua a non far pagare l’ICI.

In compenso la stessa logica che lo ha spinto a iniziare il massacro sociale lo spingerà a mandarci in guerra con gli alleati contro l’Iran. Lo faremo, in un modo o in un altro. Quanto meno perché, se non mi ricordo male, facciamo parte integrante della struttura d’attacco Bataan Expeditionary Strike Group, che nemmeno dipende dalla NATO ma direttamente dal Comando europeo degli Stati Uniti (fu un regalo Prodi-D’Alema).

Esagerazioni?

Beh, la Libia sta ancora fumando. Altro che esagerazione.

E il generale statunitense Wesley Clark giura che la tabella di marcia con Yemen, Somalia, Afghanistan, Iraq, Libia, Siria, Libano e Iran, l’ha letta veramente al Pentagono. E poi, se ci ricordiamo del Patriot Act di Bush jr, dovremmo sapere benissimo che negli USA, come in tutto il mondo, quando si va alla guerra bisogna premunirsi contro i “nemici interni”. Ecco perché il 2 gennaio di quest’anno il democratico Obama, il leader nero che tanto ha fatto sognare la nostra sciagurata e irresponsabile sinistra, ha firmato il famigerato National Defense Authorization Act, che sospende le libertà civili e consente la “detenzione a tempo indeterminato degli Americani”, come ricorda Michel Chossudovsky.

Á la guerre comme á la guerre.

Dobbiamo aprire gli occhi e scongiurare in ogni modo questa sciagura mondiale.

Piotr (Пётр)
Fonte: http://www.megachip.info
Link: http://www.megachip.info/tematiche/guerra-e-verita/7517-finanzmilitarismo.html
16.01.2012

Prodi e la laurea a Soros l’uomo che ha fatto perdere il 30 % del potere d’acquisto agli italiani | STAMPA LIBERA

Fonte: Prodi e la laurea a Soros l’uomo che ha fatto perdere il 30 % del potere d’acquisto agli italiani | STAMPA LIBERA.

L’Italia ai criminali consegna la laura onoris causa anzichè un mandato di cattura…

George Soros (parassita speculatore finanziario): è un nome che dovrebbe far tremare ma che in pochi conoscono . Infatti il 16 settembre 1992 tramite una speculazione finanziaria guadagnava 1,1 miliardi di dollari, faceva svalutare la sterlina costringendola a uscire dallo SME (sistema monetario europeo) . Lo stesso giorno attaccava pure la lira italiana. A seguito dell’attacco speculativo di Soros, l’incompentenza e la complicità di personaggi italiani quali Carlo Azeglio Ciampi e Mario Draghi, allora rispettivamente governatore della Banca d’Italia e direttore generale del Tesoro, hanno regalato a Soros e agli speculatori 15.000 miliardi di lire, una perdita secca provocata da un utilizzo più complice che maldestro di riserve per 48 miliardi di dollari che non ha impedito una svalutazione della lira del 30% e una sua uscita dallo SME.

Soros è condannato all’ergastolo in Indonesia per Speculazione sulla moneta locale.
Soros è condannato alla pena di Morte in Malesia per aver distrutto e speculato sulla moneta locale disastrando l’economia di questo paese.
Soros è stato condannato dallo stato francese per insider trading e lo multò di 2 milioni di dollari. il Parassita ricorse alla corte europea dei diritti dell’uomo ma la condanna è stata confermata. Soros che opera principalmente a Londra è inoltre ricercato dall’Fbi per insider trading in Usa.
Dietro molte rivoluzioni c’è la sua mano è incredibilmente Prodi partecipo’ alla cerimonia della laurea honoris causa conferita a Soros dalla facolta’ di economia dell’ Universita’ di Bologna, presieduta da Stefano Zamagni, stretto collaboratore dell’ ex primo ministro emiliano. E presento’ anche l’ edizione italiana del libro autobiografico dell’ uomo che nel ‘ 92 aveva guadagnato somme enormi speculando contro la lira e contribuendo (con varie banche d’ affari) a far bruciare alla Banca d’ Italia circa 40 mila miliardi di lire in riserve valutarie.
Si noti i nomi che circolano già dal 1992 Draghi : direttore generale del Tesoro poi presidente della banca d’Italia e ora Presidente della Bce.

http://forum.chatta.it/politica/8153773/prodi-e-la-laurea-a-soros-l-uomo-che-ha.aspx

L’Italia consegnata a Goldman Sachs  

http://www.fattisentire.org/modules.php?name=News&file=article&sid=1913

Mafia: testimone di gistizia in sciopero della fame a Palermo

Fonte: Mafia: testimone di gistizia in sciopero della fame a Palermo.

(AGI) – Palermo, 16 gen. – Il testimone di giustizia di Bivona Ignazio Cutro’, l’imprenditore che grazie alle sue denunce ha fatto arrestare e condannare diversi mafiosi della zona del Belice, ha iniziato stamane lo sciopero della fame. Cutro’, insieme ad alcuni aderenti del Comitato Cutro’, del Comitato Paolo Giaccone, e ai familiari del giornalista Beppe Alfano, hanno anche iniziato un presidio di protesta di fronte al Palazzo d’Orleans, la sede della presidenza della Regione siciliana. Ignazio Cutro’ ha chiesto di essere ricevuto dal governatore Raffaele Lombardo e ha annunciato che il suo digiuno andra’ avanti fino a quando non ricevera’ garanzie relative alla risoluzione della sua drammatica vicenda.
All’imprenditore infatti la societa’ di riscossione ha notificato una cartella esattoriale di oltre 80 mila euro per una procedura che, secondo Cutro’, avrebbe dovuto essere bloccata e che invece e’ andata avanti per una serie di problemi di carattere burocratico della prefettura di Agrigento. Il comitato Cutro’ ha ricevuto gia’ nella mattinata due assegni dell’importo di mille euro ciascuno provenienti dal Comitato Paolo Giaccone e dai familiari del giornalista Beppe Alfano. (AGI) Ag1/Mrg/Mzu

ESTORSIONI: SOLIDARIETA’ CON IMPRENDITORE ANTIRACKET

(ANSA) – PALERMO, 16 GEN – Ignazio Cutro’, l’imprenditore edile di Bivona (Ag) che si e’ ribellato al racket e che ha minacciato lo sciopero della fame e della sete in segno di protesta contro le cartelle esattoriali che gli sono state recapitate, e’ a Palermo, a palazzo d’Orleans, in attesa di essere ricevuto dal governatore Raffaele Lombardo. Con lui c’e’ una rappresentanza del comitato Cutro’, sorto in sostegno da un gruppo di associazioni agrigentine. Due assegni da 1000 euro ciascuno sono stati consegnati questa mattina all’imprenditore edile come contributo per saldare il pagamento della cartella esattoriale di quasi 86 mila euro che gli e’ stata inviata dall’agenzia Serit. Il primo assegno assegno e’ stato donato da Luigi Furitano, portavoce del comitato spontaneo ‘Paolo Giaccone’, il secondo da Chicco e Sonia Alfano, figli del giornalista Beppe Alfano, ucciso dalla mafia l’8 gennaio del 1993. (ANSA).

Francia, raddoppiano le leucemie infantili vicino le centrali nucleari – Cadoinpiedi

Fonte: Francia, raddoppiano le leucemie infantili vicino le centrali nucleari – Cadoinpiedi.

Le Monde, autorevole quotidiano francese, a pag.7 nell’edizione di venerdì 13 gennaio 2012, dedica una bella mezza pagina allo studio francese condotto da Jacqueline Clavel a proposito dell’aumenti di casi di leucemia infantile nei pressi delle centrali nucleari. Lo trovate qui.
La ricercatrice è direttrice dell’Unità 754 dell’Inserm nonché membro del Cesp e ha dimostrato la correlazione tra la frequenza delle leucemie infantili e la prossimità di una centrale nucleare. Ma restano ancora sconosciute le cause. Le leucemie acute rappresentano il 30% dei cancri che colpiscono i bambini. Dopo il ripristino nel 1990 in Francia di un Registro nazionale dei tumori infantili il numero dei casi annuali (l’incidenza) nella fascia d’età tra gli 0 e i 14 anni è restata stabile intorno ai 470 casi. Ci sono 80 casi tra i 15 e i 19 anni. I fattori di rischio per questo genere di cancro che va a colpire i globuli bianchi restano ignoti. La genetica spiega che il 5% delle leucemie acute dipendono da fattori ambientali e le radiazioni ionizzanti sono state messe sotto accusa.

L’équipe della Clevel che include anche scienziati dell’IRSN ha lavorato a partire dal Registro nazionale delle emopatie dei bambini dal 2002 al 2007 . Hanno realizzato uno studio comparativo tra casi di leucemia (2753 bambini al di sotto dei 15 anni) e un gruppo di età analoga di soggetti testimoni (popolazione generica pari a 5000 per anno), comparando le incidenze delle leucemie nella popolazione di bambini e adolescenti che vivono nel raggio di 5Km da una centrale nucleare e nella popolazione pediatrica in generale. Ebbene il risultato è che la probabilità per un bambino o un’adolescente di soffrire di una leucemia è di 1,9 volte più elevata se vive a meno di 5 Km da una centrale nucleare. I casi osservati sono 14 contro 7,4 casi nella popolazione testimone. L’indice, se riferito a bambini al di sotto dei 5 anni è ancora più elevato con 8 casi osservati su 3,6 della popolazione testimone, dunque 2,2 volte in più. Gli autori dello studio però prendono le distanze dalla possibile spiegazione di una crescita di rischio leucemia nei pressi delle centrali nucleari a causa del rilascio di radionuclidi nell’aria. Spiega Jacqueline Clavel:

Non abbiamo ritrovato alcuna associazione tra l’aumento del rischio di leucemia e la zona geografica stabilita in funzione della dose di radiazioni a cui i soggetti sono stati esposti. Le dosi sono mille volte inferiori della radioattività naturale. sarebbe dunque necessario identificare i fattori che spieghino le nostre osservazioni. Il nostro studio mostra una correlazione tra le leucemie in prossimità di una centrale nucleare. Ma poiché non abbiamo identificato i fattori che le causano non possiamo giungere a conclusioni in termini di prevenzione.

Ovviamente gli scienziati autori dello studio invitano altri colleghi a approfondire con nuove ricerche le cause. Di certo è chiaro che non conviene vivere nei pressi di una centrale nucleare se non oltre i 5km.

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