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Le ‘relazioni pericolose’ di Dell’Utri

Fonte: Le ‘relazioni pericolose’ di Dell’Utri.

Nel mirino gli incontri del senatore tra il ’92 e il ’93.

PALERMO. Ora che la Dia, su delega della Procura antimafia di Firenze, cerca riscontri a presunti incontri tra il senatore Marcello Dell’Utri e i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, boss stragisti del ’93, setacciando gli alberghi romani e analizzando centinaia di tabulati telefonici, i magistrati rileggono le “relazioni pericolose” del senatore – già condannato per mafia a 9 anni – durante il ’93, nel pieno della stagione delle bombe.

E in particolare in autunno, subito dopo l’estate trascorsa dai due boss tra feste e cene, in un appartamento all’interno di una grande villa di Porto Rotondo, a poche centinaia di metri in linea d’aria, dalla villa del futuro presidente del Consiglio Berlusconi. Gli investigatori stanno rileggendo quel periodo cruciale per la storia recente del nostro Paese a partire dagli incontri con Vittorio Mangano, il fattore di Arcore, che andò a trovare Dell’Utri a Milano nel novembre ’93. Gli incontri, annotati nelle agende del leader di Publitalia e ammessi in un primo tempo da Dell’Utri “per ragioni personali” (spiegazioni bollate in sentenza come “giustificazioni impacciate”), sono stati recentemente smentiti dal suo difensore, Alessandro Sammarco, che li ha negati sostenendo come il senatore fosse stato indotto in errore dal non avere letto le annotazioni nell’agenda.

Ma i contatti siciliani di Dell’Utri, in quel periodo, sono numerosi, e da lui sempre diligentemente annotati, come nel caso di un block notes a lui sequestrato, nel quale tra il foglio datato 21/12/1993 e il foglio datato 3/2/1994, sono segnati numerosi contatti intrapresi dall’avvocato catanese Nino Papalia, indagato in passato dalla Dda di Catania per traffico d’armi. In una di queste (al foglio 3/2/1994) si legge: “Avv. Papalia per candidature su Catania”. Non solo contatti, ma dalle agende di Dell’Utri sono venuti fuori numeri telefonici di interesse investigativo: nella nota del 4/4/1996, la Dia ha segnalato che sull’elenco “agenda 12/5/1993”, sequestrata a Villa La Comacina, residenza del senatore, sono stati trovati due numeri telefonici di Perrin Patrick, un faccendiere in contatto con Licio Gelli, e implicato in una vicenda di esportazione clandestina di pesetas. Un uomo ben conosciuto dagli investigatori che nel 1982 avevano emesso un fonogramma di ricerche internazionali nei suoi confronti perché ritenuto coinvolto nella rapina di un portavalori assieme a Francesco Mangion e Giuseppe Strano, entrambi esponenti del clan Santapaola di Catania. I riflettori investigativi si riaccendono anche sul periodo precedente, sempre a cavallo delle stragi, e cioè sui brevi soggiorni che Dell’Utri ha fatto presso l’Hotel Villa Igea di Palermo nel novembre 1991, nel marzo 1992, nel giugno 1992 e nell’ottobre 1992. La Dia, infine, ha elaborato i traffici telefonici di Dell’Utri e di altri personaggi, considerati vicini a Cosa Nostra, tra i quali i misteriosi Salvatore Scardina e Rosario Cattafi (il primo titolare di una villa di Santa Flavia dove il 1° aprile del ’93 un summit mafioso diede il via libera alla campagna stragista nel “continente”, il secondo avvocato barcellonese già indagato per i suoi rapporti con i servizi segreti e la massoneria deviata) “individuando – come scrive il gip di Caltanissetta che ha archiviato l’inchiesta sui mandanti occulti delle stragi – diversi punti di contatto anche nel periodo di interesse della presente indagine”.

Giuseppe Lo Bianco (il Fatto Quotidiano, 2 giugno 2010)

B. e l’incubo Spatuzza

Fonte: B. e l’incubo Spatuzza.

Quando nel 1998 fu archiviata l’inchiesta sulle connessioni tra  stragi e politica, non c’era ancora il grande pentito

Venti pentiti, ritenuti credibili, raccontano dall’interno i rapporti tra Berlusconi, Dell’Utri e i boss mafiosi durante la stagione delle stragi. Da Francesco Di Carlo a Calogero Ganci, da Gioacchino Pennino ad Angelo Siino, da Pietro Romeo a Giovanni Ciaramitaro. Sono capi e gregari che raccontano come in quel periodo tra i boss e i due leader di Forza Italia fu stretto un accordo elettorale: la mafia avrebbe fatto votare in massa la nuova formazione politica in cambio di una normativa giudiziaria più favorevole (“41 bis, legislazione sui collaboratori di giustizia, recupero di garantismo processuale trascurato dalla legislazione dei primi anni ’90”). Un accordo elettorale frutto di un rapporto che, secondo i magistrati, “non ha mai cessato di dimensionarsi sulle esigenze di Cosa Nostra”, ma che non basta a stabilire l’esistenza, a monte, di un patto preventivo tra quei politici e i boss mafiosi per pianificare ed eseguire le stragi. Ecco perchè le posizioni di Berlusconi e Dell’Utri, indagati dodici anni fa come “mandanti occulti” sono state archiviate, ed ecco perchè il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso oggi imprime, a sorpresa, con le sue dichiarazioni, una brusca  accelerazione mediatica alle indagini sul ’93, alludendo ad una matrice politica del terrorismo mafioso.

Grasso sa benissimo – poichè lui stesso (con i pm di Firenze Fleury, Chelazzi, Nicolosi e Crini) è tra i firmatari della richiesta di archiviazione – che quelle indagini, arenatesi nel novembre del 1998 con il decreto del gip Giuseppe Soresina, oggi trovano uno straordinario impulso nelle nuove investigazioni riaperte a Firenze e a Caltanissetta, dopo la collaborazione del pentito Gaspare Spatuzza. Grasso sa che le nuove analisi dei pm nisseni e fiorentini ripartono da un dato certo: nel biennio ’92-’93, Cosa Nostra “attraverso un programma di azioni criminali, ha inteso imprimere un’accelerazione alla situazione politica nazionale così da favorire trasformazioni incisive e da agevolare l’avvento di nuove realtà  politiche”. Cosa nostra ha cioè pianificato ed eseguito le stragi agevolando un obiettivo “politico”, esterno ai suoi più diretti interessi: seminare il caos, favorire il ribaltone istituzionale, e traghettare il Paese dalla Prima alla Seconda Repubblica. Sono parole che lo stesso procuratore nazionale aveva già sottoscritto, proprio dodici anni fa, in quella richiesta di archiviazione nei confronti di Berlusconi e Dell’Utri, che fino ad oggi – incredibilmente – è rimasta inedita.

In quell’atto, oltre a spiegare il percorso investigativo e logico-giuridico che li ha condotti a chiedere l’archiviazione, i magistrati di Firenze sottolineano un dato certo: sono “molteplici – scrivono i pm – gli elementi acquisiti univoci nella dimostrazione che tra Cosa Nostra e il soggetto politico imprenditoriale intervennero, prima ed in vista delle consultazioni elettorali del marzo 1994, contatti riconducibili allo schema contrattuale, appoggio elettorale-interventi sulla normativa di contrasto della criminalità organizzata”. Il rapporto di scambio – e cioè un accordo – c’è stato, anche se al semplice livello di promesse ed intese reciproche. Resta, all’epoca, sospesa una domanda finale: e cioè se il “dinamismo politico-militare dei boss, di cui quell’accordo fu uno degli effetti (…) attrasse di fatto – proprio nel momento storico in cui l’iniziativa militare veniva deliberata o era in corso – anche l’interlocutore politico”. E cioè se Berlusconi e Dell’Utri abbiano indirizzato i progetti eversivi di Cosa Nostra o se, invece, ne abbiano solo beneficiato a posteriori, senza averne alcuna consapevolezza o responsabilità. In questo quadro stagnante, ma sconosciuto per dodici anni, si inseriscono oggi le parole di Gaspare Spatuzza, che sembra riprendere i fili di un discorso interrotto, sia attribuendo una valenza politica allo stragismo, sia, soprattutto, indicando come “interlocutori” dei suoi capi, i boss Filippo e Giuseppe Graviano, gli stessi leader politici archiviati in passato. L’ex armiere i Brancaccio rilegge l’intera stagione delle bombe a partire dalla fine del ’91, quando i boss della cupola mafiosa, Giuseppe Graviano, Matteo Messina Denaro, Vincenzo Sinacori, sono tutti a Roma per uccidere Giovanni Falcone, Claudio Martelli, Maurizio Costanzo. Ma gli assassini, pronti a liquidare gli avversari con un colpo di pistola, si fermano. Succede qualcosa, in quel momento – lascia intendere Spatuzza – che fa cambiare il progetto di morte. Che fa pensare a modalità più “spettacolari” per quegli omicidi. Che induce a pianificare le stragi come strumento di terrore e di condizionamento. Che suggerisce di utilizzare la vendetta mafiosa, trasformandola in strategia politica, in strategia della tensione. Succede, fa capire Spatuzza, che in quel momento appare sulla scena politica italiana  un nuovo soggetto, appaiono nuovi interlocutori: persone che si propongono come tali ai boss preoccupati dall’imminente sentenza del maxi in Cassazione. Non c’è ancora un partito, ma i capimafia sanno (e, stando alle rivelazioni di Pino Lipari, l’ex consigliori di Riina e Provenzano, lo sanno direttamente da Dell’Utri) che presto ci sarà una nuova formazione politica. E che sarà un partito aperto alle esigenze di una legislazione giudiziaria “morbida”, tema cruciale per Cosa nostra. Agevolare la sua affermazione, sarà un affare per l’organizzazione mafiosa.

Spatuzza dice che quei nuovi soggetti, quei “nuovi interlocutori” sono Berlusconi e Dell’Utri, fornendo un ulteriore tassello a quella ipotesi investigativa che dodici anni fa finì in archivio. Oggi Grasso, che fin dall’ìnizio ha sponsorizzato la collaborazione di Spatuzza, getta acqua sul fuoco e dice che le sue parole sono state “decontestualizzate”, ipotesi e ragionamenti che volano più in alto dei poteri che la Costituzione gli attribuisce. Poi la butta in scherzo: “’Un mandato di cattura per Berlusconi? Calma, nessun mandato, anche perchè non ne avrei i poteri”.


Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza (il Fatto Quotidiano, 28 maggio 2010)

Intervista ad Alfio Caruso, autore del libro “Milano ordina uccidete Borsellino”

Fonte: Intervista ad Alfio Caruso, autore del libro “Milano ordina uccidete Borsellino”.

Lo scrittore catanese racconta i retroscena della strage di via D’Amelio e i rapporti tra Milano e mafia.

Sono passati 18 anni dall’assassinio di Paolo Borsellino e ancora non si sa nulla di chi azionò il telecomando della strage… Perché ancora tanti misteri avvolgono l’uccisione del magistrato della mafia?

“Perché nel 1992 le indagini furono fuorviate dall’invenzione del testimone oculare, Scarantino, il quale soltanto nei mesi addietro ha rivelato di essersi inventato tutto”.

Gli inquirenti sbagliarono per incapacità professionale o per conto terzi?
“Anche Spatuzza ammette di non sapere chi ha eseguito materialmente la strage… E questo la dice lunga sull’accuratezza della preparazione”.

Lei ha già realizzato molti altri volumi che parlano del possibile intreccio fra politica e mafia. Cosa l’ha spinta, in particolare, a occuparsi di Paolo Borsellino?
“La sensazione che fin qui ci avessero raccontato una verità ufficiale che faceva acqua da ogni parte. In realtà, i primi rapporti fra mafia e politica risalgono alla fine dell’Ottocento… E continuano tranquillamente…”

Dove si trovava Alfio Caruso il 19 luglio del ’92 e come reagì al nuovo attentato, di poco successivo a quello costato la vita a Giovanni Falcone?
“Ero alla mia scrivania di vicedirettore della ‘Gazzetta dello Sport’. Le reazioni le ho raccontate in ‘Da Cosa nasce Cosa’ “.

Nel suo libro si comincia a parlare di Milano-mafia introducendo l’argomento Graviano. I due Graviano sono infatti i più decisi a intraprendere l’assassinio di Borsellino e hanno anche dei rapporti stretti con l’imprenditoria nazionale che prende quota propria dal capoluogo lombardo.
Come andò la vicenda del gennaio ’94, quando i due vennero ammanettati da Gigi il Cacciatore?
“Nessuno degli altri ospiti del ristorante si accorse del fulmineo intervento delle forze dell’ordine.”

Secondo un suo personale parere che fine ha fatto la fantomatica ‘agenda rossa’ di Borsellino?
“È servita a ricattare un po’ d’insospettabili e a far compiere qualche carriera impensabile.”

Dopo Falcone fu la volta di Borsellino. Il terzo giudice antimafia per eccellenza era Ayala”. Non cominciò anche lui a sentirsi braccato?
“Braccato lo era già da tempo, ma da due anni per sua fortuna stava in Parlamento eletto deputato del Partito Repubblicano.”

Arriviamo quindi a Marcello Dell’Utri, (la cui carriera spicca il volo nell’83 alla corte di Berlusconi), condannato a nove anni per associazione mafiosa. Lui parla di un complotto ai propri danni”.
Perché non sono verosimili le sue dichiarazioni?
“Sul conto di Dell’Utri si sono accumulate tante e tali testimonianze di segno contrario da rendere verosimile la sua innocenza solo stabilendo che lui è la persona più sfortunata del geoide terrestre”.

Lei nel suo libro parla spesso di ‘Entità Esterna’. Come possiamo definirla in parole semplici?
Una congrega d’insospettabili altolocati.”

“Milano ordina uccidete Borsellino” è fin troppo esplicito. L’assassinio di Falcone è voluto da Cosa Nostra e appoggiato dall’Entità Esterna; quello di Borsellino è ordito, invece, dall’Entità Esterna e appoggiato dalla mafia”. Sono parole che mettono i brividi…
“Purtroppo l’Italia è questa.”

Chi è Gaetano Fidanzati?
“Uno dei più importanti boss mafiosi tra il 1960 e il 2000”.

I mafiosi approdano in Lombardia negli anni Sessanta e da lì non si sono più mossi. Oggi si può realmente parlare di ‘capitale economica della mafia’?
“Oggi prevalgono gli interessi della ‘ndrangheta…”

È vero che Berlusconi assunse Mangano per tenere a bada i mafiosi che lo volevano rapire?
“Se è falso, finora non sono riusciti a dimostrarlo”.

Là dove agisce il Grande Capitale, là dove ripuliscono tutti i solidi, là dove ogni patrimonio può essere investito e moltiplicato. In una parola, Milano. Una Milano che ancora alla fine del 2009 accoglieva e proteggeva boss del calibro di Fidanzati, di Martello, di Matranga.
Da Milano, quindi, viene emessa la condanna a morte di Borsellino… Qual è la molla che fa scattare l’operazione mafiosa?
“Si parla dell’intervista rilasciata dal magistrato siciliano a due giornalisti transalpini…”

Come spiega l’ignorata sentenza d’appello del “Borsellino bis” (2002)?
“Il magistrato palermitano era intenzionatissimo a estendere le indagini su Milano e sul grande capitale”.

Ci avviciniamo a Expo 2015 e molti temono le infiltrazioni mafiose. Come crede sia realmente possibile tenere a bada il fenomeno?
“Basterebbe volerlo”.

da Milanoweb

Antimafia Duemila – Processo Dell’Utri: Il senatore contribui’ alla trattativa

Fonte: Antimafia Duemila – Processo Dell’Utri: Il senatore contribui’ alla trattativa.

di Monica Centofante – 19 marzo 2010
Palermo.
“Marcello Dell’Utri contribuì alle trattative del ’93-’94 tra lo Stato e Cosa Nostra, come già risultava prima delle dichiarazioni del pentito Gaspare Spatuzza”.

E’ la ricostruzione presentata in aula questa mattina dal procuratore generale Antonino Gatto, che dopo l’interruzione sopraggiunta per consentire l’audizione dello stesso Spatuzza e dei boss Giuseppe e Filippo Graviano, ha ripreso la requisitoria al processo contro il senatore del Pdl. Accusato di concorso esterno in associazione mafiosa e condannato in primo grado a nove anni di reclusione.
Nel corso dell’udienza, durata oltre quattro ore, il pg ha illustrato alla Corte, presieduta dal giudice Claudio Dell’Acqua, le “prove tangibili dei rapporti tra l’imputato e importanti elementi di spicco legati a Cosa Nostra”. Partendo dal boss Stefano Bontade e da contatti avvenuti a cavallo tra il 1974 e il 1975 per poi concentrarsi sui primi anni Novanta. Più precisamente tra il 1992 e il 1994, gli anni bui delle stragi, quando Marcello Dell’Utri “intratteneva saldi rapporti con i fratelli Graviano”. Che tra le altre cose “gli raccomandarono il calciatore Giuseppe D’Agostino, figlio di un loro uomo, perche’ venisse fatto giocare nel Milan” e “che trascorrevano la latitanza a Milano”.
Una cosa, quest’ultima, anomalissima, come aveva sottolineato il pentito Gaspare Spatuzza, che dei Graviano era un uomo di fiducia e che da loro avrebbe poi ereditato la guida del mandamento di Brancaccio.
In quegli anni, ha spiegato Gatto ripercorrendo le dichiarazioni del pentito e di altri prima di lui, “i Graviano erano interessati a Sicilia Libera”. Un movimento di tipo separatista, o almeno autonomista, che aveva l’obiettivo di costruire una nuova forza politica tutta siciliana e tutta mafiosa. E che avrebbe dovuto sopperire alla mancanza di referenti politici che in quel periodo caratterizzava Cosa Nostra, alla disperata ricerca di agganci affidabili dopo la fine dello storico legame con la Democrazia Cristiana e il fallimento dei rapporti con il Psi.
L’esperimento Sicilia Libera, come hanno dichiarato diversi collaboratori di giustizia, fu poi accantonato e lasciato alla deriva perché l’associazione mafiosa siciliana aveva spostato la sua attenzione verso un’altra formazione politica, e precisamente verso Forza Italia. Come spiega in particolare Antonino Giuffré, al tempo braccio destro di Bernardo Provenzano. Lo stesso Provenzano, ha proseguito Gatto ricordando le parole del Giuffré già riportate nella sentenza di primo grado, che “uscì allo scoperto” e per la prima volta si assunse la responsabilità in prima persona e disse: “Ci possiamo fidare”.
Una ricostruzione che si sposa perfettamente con il racconto di Spatuzza, che dalle parole del boss Giuseppe Graviano aveva dedotto l’esistenza in quegli anni di una trattativa tra Cosa Nostra e lo Stato che avrebbe portato benefici per tutti, carcerati compresi. E che sarebbe poi andata a buon fine. Almeno secondo quanto gli avrebbe riferito lo stesso boss di Brancaccio nel corso di un incontro a due al Bar Doney di Via Veneto, a Roma. “In quell’occasione – ha detto il pg – col petto gonfio di gioia il capomafia disse di avere trovato ‘persone serie’ che gli avrebbero consentito di mettersi il Paese nelle mani”: ossia “Berlusconi e un nostro compaesano Dell’Utri”. Un soggetto, aveva dichiarato a verbale Spatuzza, “vicinissimo a Cosa Nostra”.
Sull’attendibilità del pentito, Gatto ha poi incentrato la parte centrale della sua requisitoria, che si protrarrà almeno per un’altra udienza prima di cedere il passo all’arringa dei difensori.
Anche se “nessun organo giudicante si è ancora pronunciato sulla sua attendibilita’” ha sottolineato, “l’origine della sua collaborazione costituisce un criterio ineludibile di verifica”: per la genesi del pentimento, che trae origine da un percorso spirituale, confermato da esponenti ecclesiastici che l’hanno seguito, nel “camminino di fede”; per il grado di certezza che accompagna le sue rivelazioni; per il parere positivo espresso dalle procure di Firenze, Palermo e Caltanissetta alla sua ammissione al programma di protezione.  “Dopo che le sue nuove dichiarazioni, come quelle relative alla strage di Via D’Amelio, hanno indotto la procura di Caltanissetta a riaprire le indagini”.
La nuova udienza del processo è aggiornata al 26 marzo prossimo con la prosecuzione della requisitoria che, salvo imprevisti, dovrebbe concludersi il 9 aprile.

Antimafia Duemila – ”Riaprire Pianosa e l’Asinara”, cosi’ Sandokan e Graviano non si incontrano

Fonte: Antimafia Duemila – ”Riaprire Pianosa e l’Asinara”, cosi’ Sandokan e Graviano non si incontrano.

“Se l’antimafia fallisce nei suoi obiettivi primari per motivi di spazio non c’è da perdere altro tempo. Bisogna chiedere con forza degli interventi.

Non penso a cose particolari, che necessitino una pronuncia legislativa. Basterebbe un provvedimento amministrativo. Penso alla riapertura delle supercarceri di Pianosa e dell’Asinara, che negli anni scorsi hanno garantito il massimo della sicurezza e l’effettività del 41 bis. Già lo stesso ministro della Giustizia aveva prospettato questa eventualità, poi per varie ragioni politiche non si e’ potuta realizzare”. Il procuratore aggiunto alla Dda, Antonio Ingroia, dice a “Repubblica” come si potrebbe fare in modo che non riaccada quanto scoperto dallo stesso giornale e pubblicato ieri: i colloqui nell’ora d’aria fra Giuseppe Graviano e Francesco Schiavone. “Madre natura” e “Sandokan”, due boss di primissimo ordine.

“Il carcere duro non ha una funzione penalizzante per il detenuto – continua Ingroia – ma ha solo lo scopo di impedire che il mafioso possa continuare ad essere tale. E questo obiettivo si realizza evitando di fargli pianificare affari e strategie. Ovvero impedendogli di comunicare all’esterno. Oggi è necessario considerare qualcosa di più insidioso – conclude il magistrato – il sistema mafioso integrato. Cosa nostra, ‘ndrangheta e camorra fanno affari insieme. Ecco perché gli incontri in carcere fra esponenti di organizzazioni criminali diverse sono davvero pericolosi”.

Tratto da: livesicilia.it

Antimafia Duemila – Pg: ”Dell’Utri contribui’ a trattativa, Provenzano si fidava”

Fonte: Antimafia Duemila – Pg: ”Dell’Utri contribui’ a trattativa, Provenzano si fidava”.

“Alle trattative del periodo ’93-’94 tra lo Stato e Cosa nostra contribui’ Marcello Dell’Utri come gia’ risultava prima delle dichiarazioni di Gaspare Spatuzza”. Lo ha detto il procuratore generale Antonino Gatto, nella udienza dedicata alla requisitoria del processo contro il senatore del Pdl Marcello Dell’Utri, imputato di concorso in associazione mafiosa e condannato in primo grado a 9 anni. “A Milano Dell’Utri aveva rapporti con i fratelli boss di Brancaccio, Giuseppe e Filippo Graviano – ha detto Gatto -. I Graviano erano interessati al movimento politico ‘Sicilia libera’, poi confluito in Forza Italia. I due fratelli erano latitanti a Milano e avevano saldi rapporti con l’imputato, al punto che gli raccomandarono il calciatore Giuseppe D’Agostino, figlio di un loro uomo, perche’ venisse fatto giocare nel Milan”. Il Pg si e’ soffermato a lungo sulla “natura politica” dei discorsi fatti da Giuseppe Graviano a Spatuzza al bar Doney di Roma e a Campofelice di Roccella: “In quelle occasioni, col petto gonfio di gioia – ha proseguito il Pg – il boss disse di avere trovato ‘persone serie’ che gli avrebbero consentito di mettersi il Paese nelle mani: Berlusconi e Dell’Utri”. Gatto si e’ soffermato a lungo sui contatti che, tra la fine del ’93 e il gennaio ’94, “avrebbero dovuto portare benefici per tutti, compresi i carcerati. Si attendevano – ha aggiunto il rappresentante dell’accusa – provvedimenti e interventi da chi doveva fare le leggi. E questo era lo scopo di Graviano, ma non solo. Secondo quanto ha riferito un altro collaborante, Nino Giuffre’, anche Bernardo Provenzano usci’ allo scoperto in quello stesso periodo e disse: ‘Ci possiamo fidare'”.

Pg: Spatuzza è attendibile

19 marzo 2010
Palermo.
Si incentra tutta sulla attendibilità del pentito Gaspare Spatuzza la parte centrale della requisitoria del pg Nino Gatto, pubblica accusa al processo per concorso esterno in associazione mafiosa al senatore del Pdl Marcello Dell’Utri, ripresa questa mattina dopo una lunga pausa. Tre, secondo il pg Nino Gatto, gli argomenti che proverebbero l’attendibilità del collaboratore: la genesi del suo pentimento che trae origine da un percorso spirituale, confermato da esponenti ecclesiastici che l’hanno seguito, nel “camminino di fede”; l’ok delle procure di Firenze, Palermo e Caltanissetta alla sua ammissione al programma di protezione e il grado di certezza che accompagna le rivelazioni del pentito. “Spatuzza – dice Gatto – sa bene che portata hanno le sue dichiarazioni tanto che paragona l’effetto delle sue verità sulla strage di via D’Amelio, che hanno indotto i magistrati a riaprire l’inchiesta, alla rivelazione ‘a uno che ha fatto un palazzo di 10 piani che ha utilizzato cemento depotenziato'”. Gatto ha giustificato le originarie titubanze del pentito nel parlare dei rapporti tra mafia e politica con il timore delle conseguenze che certe rivelazioni avrebbero avuto. Infine il pg ha ripetuto i tratti salienti delle dichiarazioni del collaboratore sull’imputato. In particolare Gatto ha fatto riferimento al racconto di Spatuzza sull’incontro che questi avrebbe avuto, a gennaio del ’94, a Roma col boss Giuseppe Graviano. In quell’occasione il capomafia avrebbe detto al pentito che “avevano chiuso tutto grazie a due persone: Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi”, facendo intendere con queste parole l’esistenza di un accordo tra la mafia e la politica.

Troppe coincidenze nella Sicilia che non dimentica

Fonte: Troppe coincidenze nella Sicilia che non dimentica.

27 febbraio 2010 – Palermo. Tre fatti di cronaca, apparentemente slegati tra loro. L’omicidio dell’avvocato Enzo Fragalà, politico di lungo corso, ucciso barbaramente a bastonate da uno sconosciuto. L’imminente nascita del partito del sud annunciata dal governatore Raffaele Lombardo, una sorta di Lega in salsa siciliana. L’avvio di un nuovo processo contro Totò Cuffaro, questa volta per concorso esterno. Tutti fatti siciliani. Hanno qualcosa in comune? Ci sono analogie con il passato? Se il delitto Fragalà avesse – come sembra – un movente mafioso la sua morte appare un messaggio preciso diretto a tutti quegli avvocati parlamentari – o ex – che hanno difeso imputati di mafia.
Il nome di Fragalà viene accostato in queste ore sempre più spesso a quello di Salvo Lima. E non certo perché l’avvocato sia stato come Lima la cerniera tra politica e mafia. Ma perché la sua morte, come quella di Lima denuncerebbe un accordo tradito. Quello per cui i boss in carcere si aspettavano leggi a favore che non sono arrivate. Una minaccia che arriva da lontano, dal luglio del 2002, dieci anni esatti dalle stragi Falcone e Borsellino, quando il boss Bagarella denunciava la situazione dei detenuti al 41bis, “usati come merce di scambio dalle varie forze politiche”. Seguirono due lettere indirizzate “agli avvocati parlamentari” che si erano dimenticati dei loro clienti. La minaccia fu tradotta in una nota dei servizi secondo la quale Cosa nostra minacciava alcuni avvocati-parlamentari. Tra loro c’era Fragalà, insieme a Nino Mormino, oggi legale di Cuffaro. Con l’omicidio Fragalà Cosa nostra è passata ai fatti, a distanza di otto anni da quelle minacce?

A tirare in ballo gli avvocati parlamentari che se ne “fottevano” dei loro clienti in galera, furono due boss di prima grandezza, Giuseppe Graviano e Salvino Madonia. Proprio quel Graviano che il pentito Spatuzza afferma aver stretto con Dell’Utri e Forza Italia un patto elettorale. Al processo d’appello contro il senatore, il boss ha risposto così: “Sarà mio dovere quando il mio stato di salute lo permetterà di informare l’Illustrissima Corte d’Appello per rispondere a tutte le domande che mi verranno poste”. Un messaggio ricattatorio? Graviano potrebbe confermare Spatuzza? Le analogie con il 2002, con quelle minacce, non finiscono qui.
In quell’anno a finire nei guai fu anche il capo di Forza Italia in Sicilia, Gianfranco Micciché, coinvolto in una storia di droga come persona informata sui fatti. I sussurri del Palazzo dicevano che tutta la vicenda puzzava di ricatto mafioso, sia nei confronti di Micciché che del suo sponsor, il Presidente del Consiglio. Il cui nome un mese dopo, era il 22 dicembre 2002, comparve su uno striscione allo stadio di Palermo: “Uniti contro il 41bis. Berlusconi dimentica la Sicilia”. Qualcuno aveva promesso la fine del carcere duro?

Oggi Micciché è una spina nel fianco del Pdl in Sicilia, co-fondatore insieme con Lombardo del Partito del Sud. Una nuova avventura politica che però nasce vecchia. Fu infatti Vito Ciancimino a pensarci per primo e la mise nero su bianco nel “suo papello” che doveva diventare la base della trattativa nata nel 1992 tra stato e mafia. Qualcuno mise pure in pratica l’idea e nacque Sicilia Libera. A tirare le fila era Bagarella e quel partito prese in seguito il nome di Forza Italia-Sicilia Libera. Coincidenze? Il governatore Lombardo, futuro leader del partito del Sud manda in crisi il Pdl siciliano e il sistema di potere del suo predecessore Cuffaro, finito a difendersi nelle aule del tribunale palermitano dalle accuse di mafia.
Un futuro che ricalca il passato e che a sua volta divora il presente. Perché c’è infine un’analogia terribile ed è quella con il biennio delle stragi, ’92-’93. Oggi come allora sta per finire un ciclo politico. Oggi come allora Cosa nostra ha in mano un potenziale ricattatorio fortissimo. Oggi come allora si parla di trattativa tra stato e mafia. Non solo quella che Massimo Ciancimino sta raccontando nei tribunali. Ma un’altra molto più attuale e che forse ha armato la mano contro Enzo Fragalà. Una trattativa che come sempre ha bisogno di sangue e terrore. Perché a Palermo e in Sicilia si passa su tutto e non si dimentica nulla.

Nicola Biondo (ANTIMAFIADuemila, 27 febbraio 2010)

Sabella: “Sapevo del patto tra lo Stato e Provenzano fin dal 1996”

Questa ricostruzione del patto stato mafia rischiara molti angoli bui e pare molto credibile:

Fonte: Sabella: “Sapevo del patto tra lo Stato e Provenzano fin dal 1996”.

Parla Alfonso Sabella, il magistrato “stritolato dalla trattativa”, come lo definì Marco Travaglio in un’intervista di qualche tempo fa su Il Fatto Quotidiano. Parla alla presentazione a Roma del libro “Il Patto” di Nicola Biondo e Sigrifdo Ranucci (1 febbraio 2010). Il libro che per la prima volta si addentra nelle carte del processo Mori-Obinu e racconta la storia incredibile di Luigi Ilardo, mafioso della famiglia di Piddu Madonia, confidente segreto del colonnello Michele Riccio, infiltrato in Cosa Nostra con il preciso obiettivo di condurre i Carabinieri alla cattura di Bernardo Provenzano, il capo indiscusso di Cosa Nostra dopo la cattura di Salvatore Riina. Quando Ilardo però, il 30 ottobre 1995, li porterà proprio all’uscio della masseria di Provenzano, dai vertici del Ros arriverà l’ordine di fermarsi e non intervenire. Oggi, i verbali di Massimo Ciancimino rimettono insieme i pezzi mancanti del puzzle e spiegano il perché di questa come di un’altra serie impressionante di coincidenze inquietanti. Parla Sabella e dice cose pesantissime e inedite, ma con la calma e la pacatezza che lo cottraddistinguono. Dice che in realtà anche prima delle dichiarazioni di Massimo Ciancimino si poteva sapere come erano andate davvero le cose. Lui e i suoi colleghi di Palermo, all’epoca delle indagini successive alle stragi, già avevano capito tutto. Ma non c’erano nè le condizioni giudiziarie, nè quelle politiche per poter giungere alla verità. Eppure era tutto troppo chiaro. Ora, dice Sabella, dopo 17 anni, sembrano esserci finalmente le condizioni giudiziarie. Quelle politiche, purtroppo, ancora no. E per quelle, si spera di non dover attendere altri 17 anni.
Di seguito i passi salienti del suo intervento.

Io sapevo


Quello che adesso sta emergendo, io come altri colleghi della procura di Palermo lo sapevamo già almeno dieci anni fa. Facciamo dodici. (…) Il patto non è stato uno, i patti sono stati tanti. Il primo aveva avuto dei tentativi di accordo, dei tentativi di trattativa, dei patti conclusi, dei patti che non hanno avuto buon esito e così si è andati avanti, almeno per quel che mi riguarda, a cavallo tra le stragi di Capaci e Via D’Amelio, probabilmente già prima della strage di Capaci, fino ai giorni nostri. (…) Queste cose erano già uscite nel lontano 1996, dopo la cattura di Giovanni Brusca. Brusca io l’ho interrogato tantissime volte, più di un centinaio, sono quello che l’ha catturato, quello che l’ha convinto a collaborare, quello che ha raccolto le sue dichiarazioni, ero in qualche modo il suo magistrato di riferimento. (…) Parlando con me mi ha raccontato del papello. Quello che adesso viene fuori dal papello, per esempio, il primo punto del papello, la revisione del maxiprocesso, non avevo bisogno di saperlo dal papello, perché lo sapevo già dal ’97 quando Brusca mi aveva detto che l’unica cosa che interessava a Salvatore Riina era la revisione del maxiprocesso. Del resto, i mafiosi non hanno un’etica, (…) gli interessa soltanto due cose: potere e denaro.  Denaro e potere. Non hanno nessun altro interesse. (…) E chi decide di trattare con questa gente si deve assumere le proprie responsabilità. Probabilmente adesso ci sono le condizioni giudiziarie perché si faccia luce su queste cose. Ma non ci sono certamente le condizioni politiche. A questo punto dicono: “Tu sei un magistrato, sei soggetto solo alla legge”. Secondo una certa equazione che ho visto all’inaugurazione dell’anno giudiziario, il magistrato è soggetto alla legge, le leggi le fa il parlamento, il magistrato è soggetto al parlamento. Del sillogismo mi sfugge qualche pezzo, probabilmente c’è qualcosa della logica che non riesco a comprendere bene, però questo è il sillogismo del nostro ministro. Fin quando un magistrato viene messo nelle condizioni di svolgere il suo lavoro e di essere giudice solo soggetto alla legge, le cose stanno in un certo modo, quando questo non si verifica, probabilmente le cose vanno in un modo un pochino diverso…


Paolo Borsellino era l’ostacolo principale alla trattativa

Ci sono stati punti oscuri. Io continuo a battere sulla mancata perquisizione del covo di Salvatore Riina. (…) Io con le cose che ho trovato in tasca a Bagarella ci ho arrestato 200 persone. Mi chiedo: che cosa si poteva fare con quello che avremmo trovato a casa di Salvatore Riina? Stiamo parlando del capo dei capi di Cosa Nostra. Questa è una cosa che nessuno sa, una chicca. La certezza che quella casa fosse la casa di Riina si è avuta soltanto per caso, perché non c’era alcuna prova, avevano imbiancato tutto, con i Carabinieri del Ros che avevano assicurato che avrebbero controllato quel covo con le telecamere. La certezza si è avuta soltanto perché in un battiscopa era finito un frammento di una lettera che Concetta Riina, la figlia di Riina, aveva scritto a una compagna di scuola. Soltanto per caso. E’ l’unica cosa che si è trovata. (…) Non è una cosa da sottovalutare. Perché secondo me è la chiave di lettura del patto che è raccontato in questo libro. Ovvero un patto che viene stipulato, concluso, sottoscritto. Mi assumo le mie responsabilità di quello che dico: patto da cui verosimilmente si determina la morte di Paolo Borsellino, perché Paolo Borsellino molto probabilmente viene ucciso a seguito di questo patto.
Ricapitoliamo. Viene ammazzato Giovanni Falcone, c’è un movente mafioso fortissimo per la strage di Capaci. Falcone è l’uomo che ha messo in ginocchio Cosa Nostra, che l’ha processata, che l’ha portata sul banco degli imputati, l’ha fatta finalmente condannare (sentenza del dicembre dell’86). Il 30 gennaio 1992 (perché le date sono importantissime) viene confermata dalla Cassazione la sentenza di condanna all’ergastolo per la cupola di Cosa Nostra. (…) Al 30 gennaio c’è la sentenza. Falcone in quel momento è al Ministero e viene accusato da Cosa Nostra di aver brigato, di aver fatto in modo che quel processo non finisse al collegio della prima sezione della Cassazione presieduta da Corrado Carnevale. Il 12 di marzo viene ammazzato Salvo Lima. Salvo Lima è l’uomo, secondo tutti i collaboratori di giustizia, ancorché non sia mai stato processato e condannato per questo, che era il referente politico di una determinata corrente della DC in Sicilia per conto di Cosa Nostra. Ovvero era il canale tra la politica e Cosa Nostra. A questo punto è normale che i nostri Servizi si diano da fare. Quindi io credo che i movimenti siano iniziati già prima della strage di Capaci. E’ soltanto un’ipotesi e null’altro. Sta di fatto che il 23 di maggio viene ammazzato Giovanni Falcone. Riina deve dire a Cosa Nostra che “questo cornuto” è morto, Cosa Nostra si è vendicata. Si prendono i classici due piccioni con una fava secondo i collaboratori di giustizia, perché Falcone viene ammazzato alla vigilia delle elezioni del presidente delle repubblica. In quel momento sapete benissimo chi era il candidato alla presidenza della repubblica (Giulio Andreotti, n.d.r.), persona che così, a seguito della strage di Capaci, non viene proposta e viene eletto poi un altro presidente della repubblica (Oscar Luigi Scalfaro, n.d.r.).


Tinebra ha creduto sempre a Scarantino, io mai

A questo punto ci sono quegli incontri di cui sta parlando Massimo Ciancimino. C’è un pezzo dello stato che va da Massimo Ciancimino e chiede: “Che cosa volete per evitare queste stragi?” Il messaggio a questo punto è arrivato chiaro allo stato. Noi stiamo eliminando tutti i nemici e gli ex-amici, quelli che ci hanno garantito delle cose che poi non ci hanno più dato. A questo punto arriva il papello. Il primo punto del papello è la revisione del maxiprocesso. (…) Ora abbiamo una vicenda inquietante. Il primo luglio del 1992 Paolo Borsellino viene convocato d’urgenza al Viminale dovi si incontra con il ministro dell’Interno di quel momento (Nicola Mancino, n.d.r.).  Il ministro dell’Interno di quel momento negherà sempre di avere avuto quell’incontro, incontro confermato dall’altro procuratore aggiunto di Palermo, il dottor Aliquò, di cui si trova traccia nell’agenda di Paolo Borsellino. Quella trovata, perché una poi è stata fatta sparire e non s’è mai trovata, l’agenda rossa. Su quella grigia annotava dettagliatamente “Ore 18:00, Viminale, Mancino”. Che cosa succede in quell’incontro? Non lo sappiamo. Possiamo fare un’ipotesi. Allora, se al primo punto del papello c’è la revisione del maxiprocesso, chi è l’ostacolo principale alla revisione del maxiprocesso? Il giudice che insieme a Giovanni Falcone ha firmato l’ordinanza-sentenza di quel maxiprocesso. Ha un nome e un cognome e si chiama Paolo Borsellino. Ipotizziamo che a Borsellino venga proposto di non protestare tanto in caso di una revisione del maxiprocesso e Paolo si rifiuti, che cosa succede? Paolo muore. (…)
Non ho mai creduto che Pietro Aglieri fosse il responsabile dell strage di Via D’Amelio. Pietro Aglieri è stato condannato sulla base delle dichiarazioni di Scarantino. Scarantino era il pentito di cui mi occupavo io a Palermo. E’ stato sempre dichiarato inattendibile, non l’ho mai utlizzato nemmeno per gli omicidi che confessava. Il dottor Tinebra l’ha utilizzato fino in fondo fino ad ottenere delle sentenze passate in giudicato. Io lo dicevo su una base logica. La strage di Via D’Amelio è talmente delicata che se l’ha fatta Riina, la doveva commissionare per forza ai suoi uomini più fidati, ovvero ai fratelli Graviano. Non poteva commissionarla a un uomo di Provenzano che è Pietro Aglieri.  (…)


La mancata perquisizione del covo di Riina è la chiave di tutto

Paolo muore: due piccioni con una fava. Da un lato si alza il prezzo della trattativa dalla parte di Salvatore Riina, dall’altra parte si elimina l’ostacolo alla revisione del maxiprocesso. Perchè a Riina interessavo solo quello. Questa è solo un’ipotesi però vi assicuro che ci sono tanti elementi che vanno in quella direzione. E la prova poi ne è in quello che è raccontato esattamente in questo libro. Il Patto. Il patto (e questo lo dico invece senza il minimo problema) che invece è stato stipulato a quel punto tra lo stato e un’altra parte di Cosa Nostra, che non era più Salvatore Riina, ma la parte “moderata” che si chiama Bernardo Provenzano. Perché quello da cui bisogna partire è che Cosa Nostra non è un monolite. Cosa Nostra non era unitaria, Cosa Nostra già in quel momento aveva delle spaccature. (…) Il patto prevede questo. Da un lato Provenzano garantisce la cattura di Salvatore Riina (ho più di un elemento per dire che Salvatore Riina è stato venduto da Provenzano e non me lo deve venire a dire Ciancimno adesso: lo sapevo già). (…) Provenzano garantisce che non ci sarebbero state più stragi e infatti non ce ne sono state più, vengono fatte nel ’93 dagli uomini di Bagarella, ovvero di Riina, fuori dalla Sicilia. Dall’altro lato ha avuto garantita l’impunità. Aveva avuta garantita la sua latitanza, come dimostra la vicenda Ilardo in maniera inequivocabile: una parte dell’Arma dei Carabinieri ha più che verosimilmente protetto e tutelato la latitanza di Bernardo Provenzano. Ma perché Provenzano fosse in grado di mantenere questo patto, questa è la novità di quello che sto dicendo, probabilmente una delle richieste era che venisse consegnato Riina, ma non l’associazione. Anzi. Che l’intera associazione mafiosa dovesse passare nelle mani di Bernardo Provenzano. E’ questa la ragione per cui a mio avviso non si perquisisce la casa di Riina. Perché nell’accordo Provenzano vende Riina, ma non vende l’associazione mafiosa. Tutto questo con il sigillo del nostro stato. L’impresa mafia. (…) Balduccio Di Maggio sarebbe quello che ha portato i Carabinieri a casa di Riina. Sappiamo benissimo (adesso Ciancimino lo dice) ma lo sapevamo già che non era così, perché i Carabinieri erano sul covo di Riina già prima che Di Maggio venisse arrestato, quindi figuriamoci… Se la magistratura di Palermo fosse entrata nel covo di Riina avrebbe non dico distrutto, ma avrebbe dato un colpo, se non mortale, quasi, all’associazione mafiosa.


Intervento del giudice Alfonso Sabella alla presentazione del libro “Il Patto” di Nicola Biondo e Sigfrido Ranucci
(1 febbraio 2010)
(trascrizione ed introduzione di Federico Elmetti)

LINK: Alfonso Sabella, un giudice stritolato dalla Trattativa (Marco Travaglio, il Fatto Quotidiano, 10 e 12 novembre 2009)

Lotta alla mafia nel mirino | Pietro Orsatti

Fonte: Lotta alla mafia nel mirino | Pietro Orsatti.

Dopo la bomba alla Procura di Reggio Calabria, parla il pm di Palermo Di Matteo. «La storia di Cosa nostra, con la sua volontà di combattere lo Stato con attentati e omicidi eccellenti, è una vicenda di corsi e ricorsi»
di Pietro Orsatti su left/Avvenimenti

E’ ormai una guerra. Niente più scaramucce ma un conflitto totale combattuto su più fronti contemporaneamente. Uno stratega militare la chiamerebbe “guerra di accerchiamento”. A farne le spese, obiettivo comune di soggetti e interessi differenti e sconnessi, è l’insieme della magistratura, in particolare i pubblici ministeri che si occupano di mafie, di intrecci mafiosi, di infiltrazioni del sistema criminale nella politica, nelle istituzioni e nell’economia. L’ordigno fatto esplodere domenica scorsa davanti alla Procura generale di Reggio Calabria è solo l’atto più eclatante e visibile. Si voleva intimidire la magistratura, è evidente, in particolare quei togati che stanno indagando su fatti di ’ndrangheta e corruzione e infiltrazioni nelle istituzioni locali e negli appalti. Atto diretto ed esplicito. «I criminali sono portati a pensare che nel processo d’appello le cose si sistemano – ha detto, commentando l’attentato, il procuratore generale di Reggio Calabria, Salvatore di Landro – . Quando questo non avviene, quando anche qui si rendono conto che prendono bastonate, qualcuno può avere la tentazione di reagire». E allora una “bombetta” di avviso. Non è la sola. Non solo in Calabria. In seguito all’arresto del boss di Altofonte, San Giuseppe Jato, Borgetto e Partinico, Domenico Raccuglia, del 15 novembre scorso a Calatafimi si è venuti a conoscenza della capacità tecnica e militare di Cosa nostra, e anche forse della sua volontà, di colpire con un attentato “bersagli eccellenti”, fra i quali non è difficile ipotizzare anche un possibile attacco a qualche magistrato “simbolo” in questa fase di forte offensiva da parte dello Stato nei confronti della mafia.

A non sottovalutare questo segnale è proprio uno dei pm di Palermo, Antonino Di Matteo. «Chi da decenni è abituato ad analizzare e studiare il fenomeno e a confrontarsi con le indagini e i processi sa benissimo che la storia di Cosa nostra anche da un punto di vista della capacità e della volontà di contrapporsi frontalmente allo Stato con attentati o omicidi eccellenti è una vicenda di corsi e ricorsi – spiega il magistrato da poco eletto presidente dell’Associazione nazionale magistrati di Palermo -. È nel dna di Cosa nostra la necessità e la capacità di ricorrere allo scontro frontale quando l’organizzazione lo ritiene opportuno e necessario per se stessa. Soltanto chi non conosce bene la storia di Cosa nostra e il suo modo di ragionare può sottovalutare determinati rischi solo perché negli ultimi quindici anni ha mantenuto un profilo basso, di immersione». Effettivamente una fase di immersione di Cosa nostra già avvenne negli anni Sessanta. Addirittura si ipotizzò il suo scioglimento. Poi con la strage di viale Lazio, compiuta a Palermo il 10 dice del ’69, divenne chiaro che non solo Cosa nostra era tutt’altro che in via di ritirata ma che c’era un nuovo soggetto militare in ascesa: i corleonesi di Totò Riina e Bernardo Provenzano che aprirono da quel momento un’offensiva ferocissima e sanguinosa verso i propri rivali diretti e contro lo Stato. Che si concluse solo nel biennio delle stragi 1992-93.

Questo rialzare il tiro da parte della criminalità nei confronti di chi indaga sulle mafie per conto dello Stato è un segnale preoccupante. Che si somma all’aggressività nei confronti della magistratura da parte di ampi settori della politica che non fanno riferimento alla sola maggioranza di governo. Una politica che sta cercando in tutti i modi, attraverso riforme organiche e blitz legislativi di vario tipo, di fermare l’azione in corso da parte della magistratura o di delegittimare di volta in volta uno più o magistrati che hanno ampliato il loro raggio di azione, passando dall’analisi e repressione degli aspetti militari della criminalità organizzata, debordando verso le implicazioni politiche, amministrative ed economiche del fenomeno mafia. Come ad esempio è successo dopo le ultime dichiarazioni in aula del collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza nel processo di appello a Marcello Dell’Utri. «Non è una novità che le polemiche sui pentiti, sui collaboratori di giustizia, si scatenino solo ed esclusivamente quando le dichiarazioni di questi alzano il tiro sulla politica, sull’imprenditoria e le istituzioni – spiega il pm Di Matteo -. La legge del 2001 che regolamenta la collaborazione con la giustizia degli ex mafiosi ritengo che vada bene così com’è, è già abbastanza restrittiva e rigorosa, per cui un ulteriore giro di vite sarebbe pericolosissimo perché disincentiverebbe definitivamente la collaborazione».
E sempre in relazione al processo Dell’Utri, ha lasciato una scia velenosa di polemiche anche la sospensione di parte del regime del 41bis applicato al boss di Brancaccio Giuseppe Graviano, che in aula si era avvalso della facoltà di non rispondere anche, questo ha fatto intendere, perché non erano state accolte le sue richieste di alleggerimento del proprio regime carcerario. Al processo Dell’Utri aveva detto: «Quando starò meglio potrei chiedere di essere sentito». Presto fatto, a meno di un mese dalla presentazione (per la seconda volta) dell’istanza del boss pluricondannato all’ergastolo anche per la strage di via D’Amelio del 19 luglio 1992, si è visto sospendere l’isolamento diurno. Da ora, nel supercarcere di Opera a Milano, potrà comunicare con altri detenuti, mafiosi e non, e avere quindi la possibilità di ricevere e inviare comunicazioni con l’esterno. Comunicazioni che proprio il 41bis, nella sua formulazione, intende impedire. La scorsa settimana questa decisione dei magistrati di sorveglianza ha scatenato, ovviamente, un putiferio, facendo intervenire anche due dei magistrati più in vista oggi sulla lotta alla mafia. Da un lato il procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso ha spiegato che secondo lui la revoca dell’isolamento diurno per il boss mafioso Giuseppe Graviano è «una decisione presa da un giudice investito da una istanza di un difensore e che quindi non dovrebbe comportare nessuna altra valutazione dietrologica», dall’altro il procuratore aggiunto della direzione antimafia Antonio Ingroia è entrato nel merito giuridico e tecnico, affermando che «il problema è legislativo e la decisione che ha riguardato Graviano pone un tema centrale nel dibattito sul 41 bis e la lotta alla mafia. Dovrebbe essere previsto al più presto un prolungamento del periodo di tre anni di isolamento diurno per chi ha commesso reati particolarmente gravi, come quelli di mafia. Purtroppo – aggiunge Ingroia – le indagini ci dicono che i padrini di Cosa nostra continuano ancora a trovare il modo per oltrepassare le barriere del carcere duro, facendo arrivare gli ordini all’esterno». Come sia andata, le domande restano. Che sia stato un premio a Graviano per non aver testimoniato o un incentivo perché parli, rimangono molte ombre. Se non altro per la coincidenza dei tempi nell’applicazione dell’alleggerimento con l’udienza al processo Dell’Utri. Una serie di sospetti che già stanno scatenando polemiche durissime e le richieste più estreme, fra le quali quella della riapertura delle carceri speciali di Pianosa e l’Asinara, luoghi disumani e terribili che, nonostante fossero giustificate in ragione di una lotta estrema contro la mafia dopo le stragi del 1992, rappresentano un capitolo oscuro nella storia del rispetto dei diritti umani nel nostro Paese.

E poi, altra coda velenosa del dibattito (se vogliamo chiamarlo così, in realtà dai toni utilizzati sembrava di assistere a una rissa) è l’ipotesi da parte di alcuni esponenti della maggioranza di sopprimere o limitare all’interno di una codifica rigida e restrittiva per l’azione giudiziaria il reato di “concorso esterno” in associazione mafiosa. Guarda caso proprio il reato per cui è stato condannato a nove anni in primo grado il senatore Marcello Dell’Utri. «Il vero salto di qualità nella lotta alla mafia, soprattutto in questo momento storico – spiega ancora il pm Antonino Di Matteo – lo riusciremo a fare solo se sarà possibile colpire proprio i cosiddetti “colletti bianchi”: gli imprenditori, i politici, gli uomini delle istituzioni, quelli che consapevolmente e fattivamente contribuiscono alla realizzazione di fini importanti per l’organizzazione criminale. Il ricorso al “concorso esterno” è stato fondamentale e lo potrebbe essere ancora di più per debellare veramente la mafia. E vorrei anche ribadire che spesso l’apporto del concorrente esterno è ben più importante per Cosa nostra rispetto all’apporto di un uomo d’onore “punciutu”, che magari fa estorsioni o è rappresentante di una famiglia mafiosa. È attraverso i concorrenti che Cosa nostra esercita il suo potere. Sarebbe un errore che, con l’intervento su questa figura, si ponesse il concorrente esterno come una figura minore per Cosa nostra. Perché così non è». Sopprimere quindi la connotazione di questo reato dal codice sarebbe, secondo Di Matteo, un colpo mortale alla lotta alla mafia. C’è poi da dire che il concorso esiste per tutti i reati. Il concorso in truffa, rapina, omicidio, eccetera. Non è un’invenzione specifica della normativa antimafia. E non solo. «Poi, e questa è una mia valutazione personale, io sono contrario a una connotazione “normativa” specifica dei casi di concorso esterno in associazione mafiosa – prosegue il magistrato -. Anche perché la mafia è un fenomeno in continua evoluzione, temo che la previsione normativa di condotte definibili come concorso esterno possa poi non andare di pari passo con le tecniche mafiose di infiltrazione dei poteri pubblici. Se noi andiamo a vedere come si è evoluta l’azione, ad esempio nelle tecniche di riciclaggio dei capitali sporchi – e parlo delle tecniche “mafiose” di riciclaggio e infiltrazione dell’economia – capiamo che diventa anche difficile “normativizzare” oggi il concorso esterno in associazione mafiosa con un strumento che sia efficace anche fra dieci anni».
Ma di cosa avranno da preoccuparsi questi benedetti magistrati. Dopo tutto sia il premier che il ministro dell’Interno hanno annunciato un “piano” per debellare la mafia definitivamente entro la fine della legislatura. Quella stessa mafia spa che rappresenta quasi un terzo dell’economia reale di questo Paese.

Giuseppe Graviano, “Per il momento io non sono in condizioni di…”

Fonte: Giuseppe Graviano, “Per il momento io non sono in condizioni di…”.

[il video lo potete trovare a questa pagina]

Scritto da Dario Campolo

A volte le parole non bastano, possono anche essere di parte, di quale parte non si sà perchè ognuno tira l’acqua al suo mulino. Come Redazione di 19Luglio1992.com noi cerchiamo di fare tutto ciò che possiamo per stare da una parte sola: Giustizia e Verità.

Ecco quindi il video nel quale il boss mafioso Giuseppe Graviano è intervenuto l’undici dicembre 2009 al processo d’appello che vede il sen. Marcello Dell’Utri imputato a Palermo per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa. Questo video è per noi fondamentale e unico nel suo genere: “lanciare messaggi”.

Buona visione e buona interpretazione.

Saldi di giustizia

Fonte: Saldi di giustizia.

Scritto da Nicola Tranfaglia

Ecco la notizia. Giuseppe Graviano boss mafioso del quartiere Brancaccio a Palermo, condannato all’ergastolo per numerosi assassini, ha avuto una rilevante riduzione di pena nell’applicazione del carcere duro non dovendo più sottostare all’isolamento diurno. Graviano, interrogato l’11 dicembre scorso al processo Dell’Utri, aveva rifiutato di deporre e aveva chiesto che non gli fosse più applicato il regime previsto dall’articolo 41 bis.
La questione è assai complessa. Basta fare la storia di quel regime carcerario per rendersi conto come l’art. 41 bis (approvato nel 1975 per i reati di terrorismo, poi esteso nel 1992 ai reati di mafia come misura provvisoria e successivamente nel 2002 nel decennale della strage di Capaci) sia stato regolarmente prorogato come misura di carcere duro e segno di volontà dello Stato di non venire a patti con le associazioni mafiose e mettere i detenuti in condizione di non poter comunicare più con l’esterno e tanto meno con i propri seguaci e compagni di mafia. Un precedente clamoroso fu l’abolizione dell’isolamento diurno concessa nel 2001 a Totò Riina che suscitò allora forti polemiche.

L’attuale normativa prevede in termini generali «che dopo la stabilizzazione del 41 bis il detenuto può presentare, più volte nel tempo, richiesta di sospensione perché non sussistono più le condizioni, mentre a seguito di una sospensione non può essere nuovamente sottoposto a questo regime carcerario. Il giudice di merito deve valutare se la persona sia ancora socialmente pericolosa, collegata con l’organizzazione mafiosa. La valutazione, difficilmente dimostrabile, si traduce facilmente nella revoca del 41 bis senza alcun rischio e senza alcuna formale irregolarità».
La decisione di concedere a un boss tutt’altro che pentito e anzi deciso a non parlare, almeno fino ad ora, la misura di alleggerimento della pena, non può non preoccupare l’opinione pubblica. C’è un legame tra la concessione proprio a Graviano e la sua scelta di non testimoniare al processo Dell’Utri? Con una simile scelta si vuol mandare un messaggio sul mutato atteggiamento dello Stato rispetto al carcere duro impersonato dall’applicazione dell’articolo 41 bis e dell’isolamento diurno? In un caso, come nell’altro, si tratta di segnali preoccupanti che si verificano proprio mentre sono in corso il processo al senatore Dell’Utri e l’indagine della procura di Palermo per l’individuazione dei mandanti delle stragi mafiose del ’92 e del ’93.
La situazione è, per così dire, molto delicata. Chi ha seguito le vicende del rapporto tra mafia e politica ricorda infatti che, tra le richieste che Cosa Nostra – guidata in quel momento, almeno formalmente, da Riina e Provenzano – presentò a chi conduceva le trattative per lo Stato (sicuramente i Ros dei Carabinieri ma non sappiamo per conto di chi), quella dell’abolizione del 41 bis, o di una sua consistente attenuazione, era tra le più importanti che l’associazione mafiosa aveva elaborato. Sta forse scoppiando la pace tra Cosa Nostra e i poteri attuali?

Fonte: L’Unità.it (Nicola Tranfaglia, 4 Gennaio 2009)

Antimafia Duemila – Lumia: ”Revoca a boss Graviano apre trattativa per comprare silenzio su stragi”

Fonte: Antimafia Duemila – Lumia: ”Revoca a boss Graviano apre trattativa per comprare silenzio su stragi”.

Una scelta incredibile. Giuseppe Graviano è uno dei boss più pericolosi, responsabile della stagione delle stragi insieme agli altri vertici di Cosa Nostra.

Con la revoca dell’isolamento diurno gli si lancia un messaggio e si apre di fatto una trattativa tesa a comprare il suo silenzio su quanto è avvenuto realmente durante la stagione stragista 92/93.
Bisogna reagire con fermezza e chiedere subito il ripristino della misura. Lo farò in Aula e in Commissione antimafia e chiederò anche che si accertino le responsabilità di questa scelta disastrosa, che la dice lunga su quanto si voglia realmente fare luce sulle collusioni mafiose.

Mafia, Sonia Alfano, Chiediamo confronto con il Ministro Alfano

La trattativa è ancora in corso…

Fonte: Mafia, Sonia Alfano, Chiediamo confronto con il Ministro Alfano.

In un comunicato, Sonia Alfano, come presidente dell’associazione Nazionale Familiari vittime di mafia, commenta l’alleggerimento del regime carcerario al Boss Mafioso Giuseppe Graviano:

“Di fronte all’ennesima farsa della giustizia italiana, di cui è oggi protagonista il boss di Brancaccio Giuseppe Graviano, l’Associazione Nazionale Familiari Vittime di Mafia chiede un confronto con il Ministro Angelino Alfano invitandolo a non presentarsi in compagnia della sua portavoce Danila Subranni, figlia del Generale del ROS ancora oggi indagato dalla Procura della Repubblica di Palermo per favoreggiamento al boss Bernardo Provenzano. Lo dichiara in una nota il Presidente dell’Associazione Sonia Alfano. Segnali come l’alleggerimento del 41bis per Graviano – prosegue Sonia Alfano – ci inducono a pensare ad una ricompensa per il silenzio e le cose non dette nell’ambito del processo Dell’Utri ed una prosecuzione della trattativa tra Cosa Nostra e lo Stato.

Giuseppe Graviano per l’udienza relativa al processo Dell’Utri aveva scritto una lettera in cui elencava i suoi problemi di salute dovuti agli anni passati in isolamento al 41bis, dichiarando che sarebbe stato suo dovere, quando il suo stato di salute lo avesse permesso, informare l’Illustrissima Corte d’Appello per rispondere a tutte le domande.
Che qualcuno abbia colto il suo messaggio e abbia risposto celermente? Del resto, Dell’Utri si era mostrato compiaciuto di fronte al rifiuto di Graviano di rispondere ai magistrati.”

Stragi, nuove accuse

Fonte: Stragi, nuove accuse.

Scritto da Marco Lillo

Nessuna orologeria: i verbali inediti di due altri pentiti che già nel ‘96 coinvolgevano il Cavaliere e Dell’Utri

Minchiate a orologeria. Secondo lo stato maggiore del Pdl le parole di Gaspare Spatuzza su Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi non sono credibili perché arrivate fuori tempo massimo: “I magistrati hanno chiesto per Spatuzza il programma di protezione solo dopo che il pentito ha fatto i nomi di Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri”, ha detto il sottosegretario Alfredo Mantovano davanti a 5 milioni di spettatori ad Anno zero. Mentre per il capogruppo dei senatori del Pdl, Maurizio Gasparri, Spatuzza non è credibile quando parla di una trattativa tra la mafia e il duo Berlusconi-Dell’Utri perché le sue accuse arrivano 11 anni dopo il suo arresto e ben 15 anni dopo i fatti.

I due esponenti del Pdl dovranno trovare altri argomenti per smontare le parole di Spatuzza. Il programma di protezione per Spatuzza, infatti, è stato chiesto dalla Procura di Firenze il 28 aprile 2009 e quella di Caltanissetta ha dato il suo ok solo una settimana dopo. Mentre il primo verbale nel quale il pentito accusa Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri arriva due mesi dopo: il 18 giugno. Il baratto scellerato ipotizzato da Mantovano quindi, per dirla alla siciliana, è una minchiata. Non solo, è una minchiata in mala fede. Il programma di protezione è stato approvato il 23 luglio, un mese dopo le dichiarazioni di Spatuzza su Berlusconi, perché la Commissione ministeriale ha perso tempo per dare il via libera. E, purtroppo per lui, a presiedere quella commissione è proprio il sottosegretario Mantovano. Anche la storia delle dichiarazioni a orologeria che arrivano all’improvviso dopo 11 anni si rivela una seconda “minchiata” in mala fede per chi conosce gli atti.

Quando l’attenzione delle televisioni sarà scemata, due pentiti meno famosi di Spatuzza saranno chiamati a confermare le sue parole. Sono Pietro Romeo e Giovanni Ciaramitaro e i verbali delle loro dichiarazioni rese negli anni passati smentiscono la favoletta dell’improvvisa illuminazione di Spatuzza. Purtroppo il direttore del tg1 Augusto Minzolini quel giorno sarà distratto e non dedicherà un editoriale alle loro parole, come ha fatto quando i boss non pentiti Filippo e Giuseppe Graviano hanno fatto semplicemente il loro mestiere smentendo Spatuzza. Eppure le loro parole sono molto più interessanti perché arrivate in tempi non sospetti. Proprio per questa ragione, il pm Antonino Gatto ha chiesto di ascoltarli nel processo di appello a Marcello Dell’Utri.

Giovanni Ciaramitaro è un semplice manovale della cosca di Brancaccio guidata dai fratelli Graviano. Nonostante il suo basso livello gerarchico, però la testimonianza di questo killer condannato per le stragi è ritenuta interessante perché risale al lontano 1996. Ciaramitaro ha raccontato che un mafioso di livello più alto, Francesco Giuliano, gli riferì le confidenze ricevute dai boss: “Berlusconi è amico nostro è quello che ci serve per aggiustare le leggi sulle carceri. Quando diventerà presidente del consiglio ci farà le leggi”.

Ciaramitaro spiega poi che, in quell’occasione con Giuliano parlarono anche della strategia della mafia nel 1993-94. Giuliano gli avrebbe spiegato “noi dobbiamo fare le stragi e poi Berlusconi proporrà di togliere il 41 bis (il regime carcerario di isolamento per i mafiosi ndr). Io gli chiesi: “Ma allora il politico che avevate in mano è Berlusconi?”. E lui mi rispose: ‘sì è Berlusconi’”. L’altro pentito che il procuratore generale Nino Gatto ha chiamato a deporre nel processo Dell’Utri è Pietro Romeo. Anche lui è un picciotto di basso livello che aveva il ruolo di artificiere e ladro di auto nel commando che si occupò delle stragi. Ma anche nel suo caso è la data a rendere interessante il suo verbale, depositato al processo Dell’Utri. Il 14 dicembre del 1995, quando Spatuzza non era stato ancora arrestato, Romeo ha raccontato ai magistrati di Firenze che il boss Giuseppe Graviano già nel 1993-1994 aveva raccontato il vero movente delle stragi ai suoi uomini più fidati, come Francesco Giuliano. Quelle parole poi erano state riportate ai livelli più bassi ed erano così giunte alle orecchie di Romeo.

Quando Romeo chiese a Giuliano “‘scusa ma perché dobbiamo fare tutti questi attentati al nord?”. Il mafioso che era più vicino di lui ai boss rispose “che prima di essere arrestato Giuseppe Graviano aveva raccontato a Giuliano e ad altri che bisognava fare gli attentati di Roma Firenze e Milano e che un politico a Milano gli diceva che così andava bene e che dovevano mettere altre bombe. Questo colloquio ci fu mentre eravamo io e Giuliano da soli in auto, dopo il fallito attentato a Contorno del 14 aprile 1994”. Dalla lettura di questo primo verbale è evidente la ritrosia del pentito a entrare nei dettagli su un tema così delicato. Però il 29 giugno del 1996 (un anno prima dell’arresto di Spatuzza e 12 anni prima del suo pentimento) Romeo cita l’uomo che allora era il numero due della cosca. Quando il pubblico ministero Alfonso Sabella gli chiede “lei nel precedente verbale il nome del politico non ce l’ha fatto. Ora ci vuole dire qualcosa di più?”. Romeo risponde: “Io quel nome l’ho sentito da Spatuzza. Un giorno eravamo io, Francesco Giuliano e Gaspare Spatuzza in un campo di mandarini a Ciaculli. Quel giorno Giuliano disse: ‘ma sarà Andreotti il politico che ha fatto mettere tutti questi esplosivi?’ E Spatuzza rispose: ‘no’. Così è nato questo discorso. Allora Giuliano fece il nome di Berlusconi e Spatuzza disse che quel politico era Berlusconi. Il colloquio avvenne intorno a ottobre del 1995”. Poi Romeo ricorda un altro particolare: “Spatuzza alle elezioni mi diede un bigliettino per un candidato di Forza Italia, ma non ricordo chi fosse”. Dopo il pentimento di Spatuzza e il suo primo verbale nel quale il pentito accusa Berlusconi (a giugno 2009) Romeo e Ciaramitaro sono stati risentiti. E hanno confermato le loro accuse. Romeo e Ciaramitaro in quei verbali lontani dicono più di Spatuzza. Mentre l’ex reggente del mandamento di Brancaccio (che dispone di informazioni di prima mano provenienti dal boss Graviano) non arriva mai a definire Dell’Utri e Berlusconi mandanti delle stragi, i due picciotti sostengono addirittura che “il politico di Milano” aveva deciso persino gli obiettivi da colpire nel 1993.

Le loro informazioni però erano di terza mano e questa imprecisione, secondo i pm, non è una smentita della loro credibilità. Ma una conferma.

In Il Fatto Quotidiano, 27 dicembre 2009

Genchi: “Due o tre cose che so di Spatuzza”

Fonte: Genchi: “Due o tre cose che so di Spatuzza”.

Parla il superesperto di intercettazioni telefoniche: “Il mafioso che accusa Berlusconi fece importanti chiamate nei giorni delle stragi”. Ma conversava anche col misterioso La Lia, sul cui numero chiamavano boss e politici

Palermo, dicembre. Tutto era cominciato con un’intervista, poco più di un anno fa, sulle colonne di questo giornale. Spiegò cosa fosse la sua banca dati informatica, il cosiddetto «archivio Genchi».
Mi disse: «Raccontiamo la verità in un libro. Dal perché allontanarono me e De Magistris in Why Not?, alle indagini sulle stragi del ’92 e ‘93 che fui costretto ad abbandonare». Rispetto ad allora, Gioacchino Genchi, 49 anni, consulente telematico di magistrati di mezza Italia, pesa una quarantina di chili di meno. Da luglio sta testimoniando alla Procura di Caltanissetta su come le inchieste sui mandanti delle stragi del ’92 furono fermate. E pare deciso a non fermarsi più.


Scontro in udienza

E infatti il libro è appena stato pubblicato, ma dalle mille pagine che ne sono uscite, è rimasto fuori un episodio, che spiega qui, su Oggi. È la storia di un telefono cellulare, appartenuto ad un signore di cui probabilmente non avete mai sentito parlare, certo Giovanni La Lia, siciliano di Misilmeri, provincia di Palermo. Una storia davvero inquietante e ora assai importante che ha deciso di narrare in seguito al deposito delle dichiarazioni di Gaspare Spatuzza, killer del quartiere Brancaccio dei Graviano, condannato per le stragi del ’93, il mafioso che ha tenuto banco nelle ultime settimane. Spatuzza ha raccontato infatti, tra le altre cose, che il suo boss, Giuseppe Graviano, nel gennaio ’94 in un bar di via Veneto a Roma, gli avrebbe ordinato di non spargere più sangue perché Berlusconi e Dell’Utri «avevano messo l’Italia nelle loro mani». Dichiarazioni pesanti.
Al processo d’appello al senatore Dell’Utri, precisamente nell’udienza eccezionalmente tenutasi a Torino per ragioni di sicurezza, Giuseppe Graviano si è avvalso della facoltà di non rispondere. Suo fratello Filippo, invece, ha smentito Spatuzza.
Alla fine del 1992 Genchi era il vice del gruppo che indagava sulle stragi, gruppo non a caso denominato «Falcone-Borsellino». Cosa risulta nel suo «archivio» su Spatuzza, sui Graviano e sul telefono cellulare del signor La Lia? «Cominciamo dall’inizio» racconta Genchi. «Perché nell’inchiesta sulle stragi fu svolto un lavoro immenso. Recuperammo addirittura tutte le telefonate fatte in Sicilia il 23 maggio e il 19 luglio 1992, i giorni di Capaci e via D’Amelio. E quando acquisimmo i traffici telefonici nel giorno delle due stragi, trovai anche importanti chiamate del cellulare di Spatuzza, intestato a suo nome e acceso il 7 agosto 1991».
Spatuzza sembra essere un filo conduttore che porta dalla strage di via D’Amelio, costata la vita al giudice Paolo Borsellino e ai cinque agenti della sua scorta, a quelle di Milano, Roma e Firenze.
Vediamo le coincidenze.
Il 27 gennaio 1994 Giuseppe e Filippo Graviano vengono arrestati in un ristorante di Milano insieme ad altri (questi ultimi accusati del reato di favoreggiamento). Una settimana più tardi, il 5 febbraio, viene organizzata la prima riunione dei club di Forza Italia dell’isola all’Hotel San Paolo di Palermo. Tra i partecipanti, c’è pure un club di Misilmeri, nato da appena tre giorni, uno tra i primissimi in Sicilia. Ed è questo il club intorno al quale si annida un crocevia di misteri senza precedenti.

Numero che scotta

In mano, Genchi sventola due vecchi verbali, del 13 e del 18 di aprile del 1994. Siamo a due mesi da quegli episodi. I carabinieri, proprio nel corso dell’inchiesta su chi abbia favorito la latitanza dei Graviano a Milano, hanno trovato un numero di telefono che scotta maledettamente. E hanno così convocato per sommarie informazioni il suo proprietario, Giovanni La Lia, 30 anni.
Chi è La Lia? È un disoccupato, ma è un tizio intraprendente, visto che due mesi prima, il 2 febbraio, si è buttato in politica: è lui infatti ad aver fondato il club di Misilmeri che ha partecipato al meeting dell’Hotel San Paolo. L’uomo si presenta e spiega della nascita del club, dei soci fondatori. Gli chiedono fra l’altro se abbia mai sentito parlare di Dell’Utri. No. Gli pare solo sia un tizio della Fininvest. Al Nord, dice, conosce solo due persone, di Forza Italia: Angelo Codignoni, segretario nazionale dei club, e Gianfranco Miccichè, perché neodeputato siciliano.
E i carabinieri arrivano al dunque. Gli domandano se abbia mai prestato il cellulare a qualcuno. No, risponde. E Graviano lo conosce? Mai sentito nominare. E dice pure che non sa di chi sia un numero di telefono che gli mostrano. Pochi giorni più tardi torna in caserma: non lo sa proprio.
E allora qualcosa non torna.

La donna del boss

Dice Genchi: «Dai tabulati, risultava che La Lia si era sentito più volte con quel numero. Lo usava Francesca Buttitta, la  donna che era nel ristorante con i Graviano la sera dell’arresto. Ossia la fidanzata di Giuseppe Graviano, il Graviano di cui oggi parla Spatuzza, e che assai probabilmente era l’uomo che con quel numero chiamava La Lia. Perciò La Lia era stato convocato dai carabinieri».
I tabulati del disoccupato di Misilmeri, correndo a ritroso nel tempo, raccontano una storia sempre più oscura: «Il  suo telefono fu attivato il 4 marzo 1992, due mesi prima delle stragi siciliane, ma io fui in grado di acquisire soltanto le sue chiamate successive al gennaio 1993».
Genchi continua nella sua ricostruzione: «La prima cosa assolutamente singolare è che da allora il cellulare di La Lia chiamò per mesi quasi esclusivamente una sola persona, che poi risultò essere un suo cugino. Un macellaio di nome Giovanni Tubato. È, più precisamente, l’uomo accusato di essere  il custode dell’esplosivo della strage di Capaci e di quelle del ’93. Ma da Tubato non possiamo sapere più nulla. È stato ammazzato il 20 agosto del 2000».
Mentre si avvicina la nuova stagione delle stragi, primavera ’93, sul telefono di La Lia arrivano intanto nuove chiamate. Ad aprile arrivano quelle del cellulare di certo Giusto Bocchiaro, amico d’infanzia e vecchio datore di lavoro. Ma il suo telefono non lo usa sempre lui: più spesso è nelle mani di un cugino di secondo grado, Pietro Lo Bianco.

Lupara Bianca

«Un altro boss di Misilmeri», spiega Genchi, «uomo di Bagarella e Riina, ucciso dalla lupara bianca. Bocchiaro aveva una casa in aperta campagna con un magazzino, utilizzato da Lo Bianco (che all’epoca era latitante). All’interno fu ricavato un bunker con un enorme arsenale di armi. Ed è il magazzino di cui parla oggi Spatuzza, in cui sarebbe stato custodito pure il lanciamissili che, nelle intenzioni dei boss, doveva servire per ammazzare il giudice Giancarlo Caselli.

Gruppo di fuoco

«Il fatto singolare è che queste cose non sono affatto emerse ora che tutti si stupiscono, ma dodici anni fa, quando Bocchiaro lo confessò ai carabinieri e io accertai le telefonate».
E dunque c’è questo misterioso cellulare del disoccupato La Lia, presidente del futuro «club pioniere» di Forza Italia di Misilmeri, che contatta l’armiere delle stragi Tubato, il boss Lo Bianco fatto ammazzare dagli sgherri di Provenzano dopo la cattura di Riina, e Giuseppe Graviano, il capo assoluto di Brancaccio. Ma non è finita.
«Già», osserva Genchi, «gli aspetti più inquietanti arrivano ora. Il 18 maggio 1993 sul telefono di La Lia si fa viva un’altra persona che ha attivato il suo cellulare appena dieci giorni prima. E dal 12 giugno 1993 fino al 22 luglio 1993 sarà, tranne in due casi, il suo unico interlocutore. È un giovane medico. Si chiama Salvatore Benigno, detto u picciriddu. Benigno è tra le persone che hanno commesso, il 27 maggio 1993, la strage di via dei Georgofili a Firenze. Oggi è tra i pochissimi stragisti non più, da tempo, al 41 bis». A fine luglio ci sarà la strage di via Palestro, a Milano. Ed è un elemento da tener presente anche perché ci furono altre due persone a chiamare l’utenza intestata a La Lia…
«Ed è qui l’elemento d’interesse. Perché uno è Giorgio Pizzo, anch’egli condannato per le stragi di Roma, Firenze e Milano. Ma della famiglia dei Graviano. E l’altro, pure lui ormai riconosciuto colpevole degli stessi delitti, e pure lui dei Graviano, è proprio Gaspare Spatuzza, che si sentì con La Lia il 9 luglio del 1993».
Pare un gigantesco reticolo, quello che unisce Brancaccio e Misilmeri: Tubato, l’armiere delle stragi; Lo Bianco, il custode di un arsenale di Cosa Nostra; il boss Giuseppe Graviano, condannato per le stragi per essere al vertice della Cupola; gli esecutori materiali delle stragi Salvatore Benigno, Giorgio Pizzo e Gaspare Spatuzza, che oggi vuole collaborare. E tutti loro che passano dallo stesso cellulare. Il cellulare di un disoccupato che presto si butterà in politica con il nuovo partito.
Commenta Genchi: «Non dimentichiamoci che all’inizio del ’94 un attentato fallì allo stadio Olimpico e altri ne erano in programma, ma improvvisamente la strategia stragista si interruppe. Tutti gli attentati furono messi a punto da questo medesimo gruppo di fuoco, che, come ora si sa, disponeva di tale arsenale. Ma ciò che mi sorprende è che su queste consulenze assai datate nessuno che si sia occupato delle stragi del ’92 e del ‘93 mi abbia mai chiamato a testimoniare. Tanto che a Firenze, pur avendo acquisito la mia consulenza sul telefono in uso a a La Lia, non si sono per nulla soffermati ad approfondire cosa successe dopo, con lo stesso cellulare usato con tutti questi stragisti».
Ma con chi ebbe contatti il famoso cellulare di La Lia una volta terminata la stagione delle stragi? Dice Genchi: «Fino a qualche giorno prima dell’arresto dei Graviano, il bacino d’utenza è quello che ho descritto, col gruppo di fuoco della mafia. Poi, a febbraio cambia. È stato ipotizzato, anche in sede giudiziaria, che quella utenza intestata a La Lia sia stata sfruttata, in alcuni periodi, da altri. E che probabilmente poi il cellulare sia tornato a essere usato unicamente da La Lia. Tant’è che vi compaiono chiamate ad altri club di Forza Italia, come quello di Bagheria, e a politici dell’isola. Ad esempio si sentì con il deputato del Pdl Gaspare Giudice e con il senatore di Forza Italia Michele Fierotti, entrambi scomparsi. C’è poi una serie di chiamate, da marzo a maggio del 1994, con un numero di Rino La Placa, già consigliere comunale Dc a Palermo, poi responsabile regionale del Ppi e attualmente tesoriere siciliano del Pd. La prima di queste telefonate era del 27 marzo 1994. Dai tabulati risulta che lo stesso La Placa due giorni dopo telefonò a un’utenza dell’abitazione romana di Silvio Berlusconi, in via Santa Maria dell’Anima».
In realtà nessuno può dire con certezza chi veramente chiamava chi e per quali ragioni. Cioè quali fossero realmente autori, destinatari e contenuti di questo aggrovigliato traffico telefonico. Né si può sostenere che la telefonata di La Placa in via dell’Anima vada al di là di una pura coincidenza.
Interpellato da Oggi, Rino La Placa, cade dalle nuvole. Il numero di cellulare intestato a lui che Genchi trovò in contatto con La Lia, e due giorni dopo con l’abitazione di Silvio Berlusconi, ma anche con il coordinatore regionale dell’epoca di Forza Italia Salvatore La Porta, e con altri politici di spicco in Forza Italia, dice di non ricordarlo. Ma esclude categoricamente di averlo usato lui. «Non ho mai conosciuto queste persone. Tantomeno ho mai chiamato Berlusconi. Ma proprio perché mi dice che tale numero era intestato a me, avendone avuti io tanti, andrò a fondo e cercherò di capire se qualche mio collaboratore lo usasse».
Conclude Genchi: «Forse è sulla natura di queste chiamate che si sarebbe dovuto e si dovrebbe ancora approfondire per capire se le accuse di Spatuzza abbiano o meno qualche rilevanza».


Edoardo Montolli (settimanale “Oggi” n°53, 30 dicembre 2009)

LINK
1) Mister Misteri. “Non sono uno spione”. Guerra tra procure. Parla Gioacchino Genchi (Edoardo Montolli, “Oggi”, 16 dicembre 2008)
2)
Il caso Genchi. Storia di un uomo in balia dello Stato“, pagina facebook dedicata al libro di Gioacchino Genchi
3) Il
BLOG di Gioacchino Genchi
4)Genchi, la mafia e Forza Italia” (Paolo Dimalio, Antefatto blog, 18 dicembre 2009):

Il titolo del libro del giornalista Edoardo Montolli dice tutto: “Il caso Genchi, un uomo in balia dello stato”. Esperto di informatica, siciliano doc, all’inizio degli anni ’90 Genchi è il primo a portare i computer nelle procure. Collabora con Falcone e Borsellino, indaga sulle stragi di Capaci e via d’Amelio. Poi lavora con De Magistris su why Not, e il pozzo nero dei fondi europei destinati al meridione.




Fonte: antefattoblog


Sa molto, “troppo”, dice lui. E da servitore dello Stato, diventa un mostro da sbattere in prima pagina. Il 24 gennaio 2009, il premier annuncia il più grave scandalo della Repubblica. Destra e sinistra, a braccetto, accusano Genchi di tenere in scacco i telefoni di mezza Italia. “350 mila utenze”, urla il premier. “Il caso Genchi è un caso rilevante per il libertà e la democrazia”, gli fa eco il presidente del Copasir Francesco Rutelli. “Un caso da Corte Marziale” rincara Maurizio Gasparri. La Repubblica italiana al guinzaglio di uno sconosciuto tecnico informatico, che stringe tra le mani chissà quali dossier. Peccato che Genchi non abbia mai intercettato nessuno. Il suo compito è verificare l’attendibilità delle intercettazioni disposte dalla magistratura. Perciò controlla i tabulati telefonici, da dove partono le telefonate, incrocia i dati e archivia tutto. Se le informazioni di Genchi fossero arrivate a Milano nel ’92 mentre scoppiava Tangentopoli, spiega Di Pietro, “oggi avremmo un altro paese, un’altra politica, un’altra imprenditoria”. Ma ora il tecnico siciliano inizia a vuotare il sacco. Per lungo tempo ha incassato in silenzio. “Ho concesso qualche metro di vantaggio ai miei accusatori”, dice lui. “Ora sono qua, trenta chili in meno, tanta voglia di combattere e andare avanti”. E passa al contrattacco. Iniziando da Spatuzza e la nascita di Forza Italia.

Paolo Dimalio

Genchi, la mafia e Forza Italia.

Interessante il video

Fonte: Genchi, la mafia e Forza Italia.

Il titolo del libro del giornalista Edoardo Montolli dice tutto: “Il caso Genchi, un uomo in balia dello stato”.
Esperto di informatica, siciliano doc, all’inizio degli anni ’90 Genchi è il primo a portare i computer nelle procure. Collabora con Falcone e Borsellino, indaga sulle stragi di Capaci e via d’Amelio. Poi lavora con De Magistris su why Not, e il pozzo nero dei fondi europei destinati al meridione.

Sa molto, “troppo”, dice lui. E da servitore dello Stato, diventa un mostro da sbattere in prima pagina. Il 24 gennaio 2009, il premier annuncia il più grave scandalo della Repubblica. Destra e sinistra, a braccetto, accusano Genchi di tenere in scacco i telefoni di mezza Italia. “350 mila utenze”, urla il premier. “Il caso Genchi è un caso rilevante per il libertà e la democrazia”, gli fa eco il presidente del Copasir Francesco Rutelli. “Un caso da Corte Marziale” rincara Maurizio Gasparri.

La Repubblica italiana al guinzaglio di uno sconosciuto tecnico informatico, che stringe tra le mani chissà quali dossier. Peccato che Genchi non abbia mai intercettato nessuno. Il suo compito è verificare l’attendibilità delle intercettazioni disposte dalla magistratura. Perciò controlla i tabulati telefonici, da dove partono le telefonate, incrocia i dati e archivia tutto. Se le informazioni di Genchi fossero arrivate a Milano nel ’92 mentre scoppiava Tangentopoli, spiega Di Pietro, “oggi avremmo un altro paese, un’altra politica, un’altra imprenditoria”. Ma ora il tecnico siciliano inizia a vuotare il sacco. Per lungo tempo ha incassato in silenzio. “Ho concesso qualche metro di vantaggio ai miei accusatori”, dice lui. “Ora sono qua, trenta chili in meno, tanta voglia di combattere e andare avanti”. E passa al contrattacco. Iniziando da Spatuzza e la nascita di Forza Italia.

Blog di Beppe Grillo – Le verità di Genchi sulla nascita di Forza Italia

Fonte: Blog di Beppe Grillo – Le verità di Genchi sulla nascita di Forza Italia.

Sommario:
La fine della Prima Repubblica
L’ala stragista di Cosa Nostra e Forza Italia

La fine della Prima Repubblica

“Mi chiamo Gioacchino Genchi, ho 49 anni, sono il più grande scandalo della storia della Repubblica, fino a un anno fa ero un comune cittadino, un funzionario di Polizia che aveva lavorato per oltre 20 anni nelle più importanti indagini italiane: da Palermo a Milano, da Catanzaro a Catania, da Locri a Siderno, a Reggio Calabria; nei processi di mafia, di omicidi, di criminalità organizzata, nei processi ai colletti bianchi; il sequestro di Silvia Melis e tante, tante altre indagini, prima che scoppiasse il cosiddetto “Caso Genchi”. Si tratta di una delle più grandi pantomime di questo sistema, con la quale si è cercato di bloccare un’indagine, quella del Pubblico Ministero di Catanzaro Luigi De Magistris, ma non solo, si è impedito a dei magistrati di fare le indagini sul conto di altri magistrati e poi, alla fine, si è cercato di far fuori me. Si è cercato di impedire che io potessi continuare a dare il contributo che stavo dando a tanti magistrati da Palermo a Caltanissetta, a Catania, a Catanzaro, a Roma e a Milano, in indagini importanti. Tutto ciò per impedire che questo lavoro, iniziato con Giovanni Falcone e proseguito, purtroppo, ahimè con le indagini sulla strage di Capaci, in cui Falcone era stato ucciso e poi con la strage di Via d’Amelio, potesse portare una volta per tutte a individuare i mandanti reali di quelle stragi e, probabilmente, gli esecutori che, assai probabilmente, sono molto diversi da quelli che sono stati individuati finora.
Sono sulla riva del fiume e sto vedendo sostanzialmente passare il cadavere del mio nemico. Perché le cose che avevo detto e scritto diciassette anni fa si stanno avverando. 17 anni fa non condivisi le scelte investigative che portarono alla chiusura posticcia delle indagini sulla strage di Via d’Amelio con il pentito Scarantino. Ho assunto delle posizioni durissime, ho messo nero su bianco quale era il mio punto di vista sui mandanti morali di quelle stragi e anche sugli esecutori. Adesso i fatti mi stanno dando ragione.
Le indagini che furono fatte nel ’94, ’95, ’96 e 97 a Palermo nelle indagini di mafia su Dell’Utri, su Berlusconi, sulla nascita della Fininvest ci hanno portato a acquisire elementi incontrovertibili su quello che è accaduto in Italia nei primi anni ’90, sulla fine della Prima Repubblica e su come la classe politica ha creato quei nuovi equilibri, quei nuovi leaders, quei nuovi partiti, o meglio quel nuovo partito che doveva consentire di fare sì che, secondo un detto autorevolissimo di Tommasi di Lampedusa ne “Il Gattopardo”, se vogliamo che tutto resti come è ogni cosa deve cambiare. C’era la necessità di cambiare tutto, perché i partiti tradizionali della Prima Repubblica si erano resi impresentabili, erano sotto l’occhio del ciclone non solo di mani pulite per le inchieste giudiziarie, per gli arresti che ogni giorno vedevano decapitare e rinchiudere in carcere leader politici appartenenti al mondo imprenditoriale che quella politica aveva foraggiato. No, perché la gente, il popolo iniziava a ribellarsi a quella classe politica e quindi c’era una progressiva erosione della fiducia, una delegittimazione di quella classe politica e a questa delegittimazione, che nasceva da Mani Pulite, si è aggiunta un’ulteriore forte delegittimazione da parte della mafia, di quella mafia che aveva appoggiato un partito come Democrazia Cristiana, che fin dal 1987 inizia a portare il conto alla Democrazia Cristiana.

L’ala stragista di Cosa Nostra e Forza Italia

La Seconda Repubblica nasce nel momento in cui, nelle ceneri della Prima Repubblica, questi referenti di Cosa Nostra iniziano a cercare nuovi uomini, iniziano a cercare tra i rottami, tra le macerie di quella Prima Repubblica che si era consumata, quei soggetti che, anche per pregresse conoscenze nel campo imprenditoriale, come probabile investimento di risorse economiche e finanziarie della mafia, avevano dato un certo affidamento. Lì il mio lavoro fornisce e ha fornito ai processi e ne fornirà dei risultati che ritengo i più importanti in assoluto sotto il profilo dell’oggettività, della dimostrazione della genesi della nascita mafiosa del partito di Forza Italia, di come dei soggetti appartenenti a Cosa Nostra, appartenenti all’ala stragista di Cosa Nostra, che certamente ha consumato le stragi del 1993, agiscano in perfetta sintonia con le fasi prodromiche e organizzative del partito di Forza Italia a Palermo e in tutta Italia. Viene varato un primo tentativo di creazione di una lega siciliana, Sicilia Libera e, proprio dalla ricostruzione dei dati di traffico telefonici, si è potuto accertare con certezza processuale che uomini di Costa Nostra direttamente collegati a Leoluca Bagarella, il più sanguinario tra i criminali di mafia che siano mai esisti nella storia della mafia da quando esiste la mafia in Sicilia, proprio il gregario di Leoluca Bagarella era in contatto con esponenti romani appartenenti alla massoneria, collegati alla P2, con i quali si sono fatte delle riunioni a Palermo e in Sicilia in date ben precise, tra Palermo e Catania e ci sono dei contatti telefonici con questi soggetti e, immediatamente dopo, a stretto giro questi soggetti hanno chiamato direttamente a casa di Silvio Berlusconi. Ma non finisce qua, perché quando il progetto separatista o il progetto del partito Sicilia Libera, che nasceva un po’ come clonazione di quelli che erano stati il successo e l’esplosione della Lega, che prende lo spazio della frantumazione, dell’annientamento dei partiti tradizionali al nord, quando questo progetto viene abortito, viene abortito nel nome della costituzione di un partito unico che, da associazione nazionale Forza Italia, diventa partito Forza Italia con la creazione dei club di Forza Italia. E lì ci sono delle date che sono indimenticabili, che sono certe: la data con cui nasce il partito di Forza Italia e la data in cui si organizzano i primi clubs a Palermo e si tengono le prime riunioni, una delle quali viene tenuta, non a caso, all’Hotel San Paolo di Palermo: l’Hotel San Paolo, costruito dai costruttori Ienna per conto della mafia, per conto dei Graviano, un Hotel San Paolo nel quale i Graviano pensavano di allocare, all’ultimo piano, nell’attico di un grattacielo per le altezze dei palazzi di Palermo l’appartamento giardino della loro madre, dei loro genitori. In quell’albergo si tiene la prima riunione a cui partecipano gli esponenti mafiosi di Brancaccio e gli esponenti mafiosi di Misilmeri: uno di questi, che è stato sentito nel 1994, si chiama Lalia. Lalia conferma che il club Forza Italia di Braccaccio e quello di Misilmeri sono stati creati a febbraio. Noi vedremo poi dal traffico telefonico che la sezione di Forza Italia, il club Forza Italia di Palermo viene attivato in Via Sciuti appena a marzo, quindi nasce prima quello di febbraio e poi quello di marzo. Ho effettuato la ricostruzione del traffico telefonico di Lalia in un’indagine di mafia, un indagine di omicidio a Misilmeri, l’indagine dove viene trovato il bunker con i lanciamissili con i quali doveva essere fatto l’ulteriore attentato a Caselli, da quegli uomini che poi vengono fatti uccidere tutti da Bernardo Provenzano. Nel telefono di La Lia ci sono i contatti telefonici con Pietro Benigno, condannato all’ergastolo per le stragi di Firenze, ci sono i contatti telefonici con Spatuzza, con lo stesso cellulare con cui Spatuzza, come ho accertato nel 1992, si sentiva e utilizzava il giorno 23 maggio della strage di Capaci e il 19 luglio 1992, la strage di Via d’Amelio.
Partendo da quei contatti telefonici, si ricostruisce la catena dei rapporti del cellulare di Lalia, che è uno dei tanti soggetti che si sentono con parlamentari di Forza Italia, persone che diventeranno senatori, persone che diventeranno deputati regionali, persone che diventeranno esponenti locali del partito di Forza Italia e le chiamate sono perfettamente sequenziali: prima Lalia chiama queste persone, queste persone immediatamente dopo chiamano a casa di Silvio Berlusconi.
Tutto si può pensare, ma i numeri telefonici, i contatti telefonici non sono opinioni, sono dati oggettivi.” Gioacchino Genchi

“Dell’Utri telefonava ai mafiosi, ho le prove”

“Dell’Utri telefonava ai mafiosi, ho le prove”.

”Ho evidenze di telefonate di Dell’Utri ai mafiosi. Ci sono chiare prove che risultano dai tabulati, dei suoi contatti telefonici già all’origine della fondazione di Forza Italia. Ho dei dati inconfutabili che dimostrano come alcuni appartenenti di spicco a Cosa Nostra abbiano preso parte alla genesi del partito in Sicilia oltre che essere direttamente collegati ai soggetti che hanno compiuto le stragi del ’93”. E’ quanto ha rivelato Gioacchino Genchi, consulente informatico per diverse procure, ospite di Klaus Davi nel programma tv Klauscondicio in onda su YouTube.

“Alcuni telefoni legati a fondatori dei club di Misilmeri e di Brancaccio, che si riunivano all’hotel San Paolo di Palermo costruito per conto dei Graviano e ad oggi confiscato alla mafia, sono stati utilizzati – ha detto il consulente – per chiamare mafiosi, stragisti, altri soggetti ora pentiti e condannati all’ergastolo, anche per… contattare a casa il presidente Silvio Berlusconi.

Queste per me sono prove che dimostrano in modo indiscutibile il legame tra chi ha provveduto alla fondazione del partito in Sicilia e chi, a Milano o Roma, ha tirato le fila con i mafiosi. E Dell’Utri – conclude Genchi – é il soggetto che avvicina il Cavaliere a Palermo. Con lui non c’é stato solo un rapporto imprenditoriale ma da loro dipende l’intera genesi politica del partito”.

Genchi aggiunge nella intervista che “la mente di Cosa Nostra è sempre stata negli Usa. Prova ne sono i ripetuti viaggi del boss mafioso, Domenico Raccuglia, negli Stati Uniti fin dai tempi delle stragi del ’92. Queste furono decise in America, non certo a Corleone”.

“I rapporti oltreoceano sono stati la prima cosa che ho evidenziato nelle mie relazioni e nelle mie consulenze proprio alla vigilia dell’attentato di Via D’Amelio. Mi riferisco a delle chiamate fatte negli States nell’estate del ’92 che furono il punto di coordinamento e di controllo dell’attività stragista in Italia. Il cervello è sempre stato là, là dove c’era Buscetta”.

Nella intervista Genchi non esclude la possibilità di “una nuova stagione di stragi, soprattutto se le trattative tra Cosa Nostra, i suoi referenti e le istituzioni dovessero ‘saltare'”.

“Al momento – spiega Genchi – ritengo che un simile scenario tuttavia sia improbabile ma, visto il clima di tensione che si é creato in Italia, tutto è possibile. Il passaggio che stiamo vivendo è molto difficile, ci sono grossi scontri che non sono certamente quelli tra maggioranza e opposizione visto che spesso votano in accordo, come nel caso di Cosentino. Quindi, nel momento in cui le lotte non sono più in Parlamento, privato completamente di ogni funzione, è possibile che accada tutto e il contrario di tutto”.

“Lo Stato – conclude perentorio Genchi – non prevede attentati di mafia perché Cosa Nostra è messa bene ed è già tutelata da esso”.

Ansa, Antimafiaduemila

Trattativa a cielo aperto

Fonte: Trattativa a cielo aperto.

Scritto da Marco Travaglio

I messaggi del senatore, i silenzi eloquenti di Giuseppe Graviano. Tra Cosa Nostra e Stato segnali sul 41-bis a favore di telecamera.

La valanga di parole storte che si rovescia ogni giorno sul processo Dell’Utri nasconde malamente il tentativo di occultare una realtà drammatica che è sotto gli occhi di tutti: la trattativa fra Stato e mafia, iniziata dai carabinieri del Ros nell’estate del ’92 dopo la strage di Capaci, culminata nella consegna del papello ai nuovi referenti politici e nella consegna di Riina al Ros da parte degli uomini di Provenzano, ripresa nel ’93 da Dell’Utri con gli uomini di Provenzano e del clan Graviano, sfociata nella fine delle stragi nel ’94, continua tutt’oggi. Siamo ormai ai tempi supplementari, il regime berlusconiano è alle corde, e chi si aspetta che i vecchi patti vengano rispettati si rende conto di dover giocare il tutto per tutto. Non più nelle segrete stanze, dietro le quinte, con trattative sotterranee sulla “dissociazione” e messaggi cifrati (il proclama di Bagarella sui politici che non rispettano le promesse, lo striscione allo stadio di Palermo sul 41-bis). Ma a scena aperta. Alla luce del sole. In favore di telecamera. Perché tutti capiscano e chi di dovere si assuma finalmente le proprie responsabilità.

Il Graviano sbagliato.
Il gioco delle parti tra i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, lungi dallo smentire Spatuzza, lo conferma. Spatuzza dice che era Giuseppe il suo capo, non Filippo. Infatti Filippo nel 2004, nel carcere di Tolmezzo, gli disse che bisognava far sapere a Giuseppe che, se non arrivava quel che doveva arrivare (benefici carcerari per i boss al 41-bis), bisognava andare a parlare con i magistrati”. E fu Giuseppe, tra la fine del 1993 e l’inizio del ‘94, a confidare a Spatuzza prima che c’era un progetto politico dietro le stragi del ’93, poi che con Berlusconi e Dell’Utri in politica Cosa Nostra aveva “il paese nelle mani”. Dunque è Giuseppe, non Filippo, che potrebbe confermare le parole del pentito. Filippo nega tutto, ma Giuseppe se ne guarda bene. Potrebbe chiudere definitivamente la partita e liquidare il pentito in due parole: “Tutte bugie”. Invece ne pronuncia ben di più, tramite il suo avvocato: “Mi avvalgo della facoltà di non rispondere perché non sto bene a causa del 41-bis, ma, quando il mio stato di salute me lo permetterà, sarà mio dovere rispondere”. Paradossalmente, se la trattativa sul 41-bis andrà a buon fine, lui parlerà. Resta da capire che cosa dirà: confermerà o smentirà Spatuzza, che finora non solo non ha mai smentito, anzi ha addirittura elogiato come un “fraterno amico” da “rispettare” perché “ha fatto le sue scelte”? Il paradosso è proprio questo: se gli danno quel che chiede, lui potrebbe inguaiare i vertici del governo. Ma potrebbe farlo anche se non gli danno quel che chiede. In ogni caso, è una clamorosa conferma alle rivelazioni di Spatuzza sull’insofferenza dei Graviano per le promesse non mantenute.

Marcello risponde a tono.
Dell’Utri, se davvero fosse estraneo a quel mondo, potrebbe chiamarsene fuori. Invece entra a piedi giunti in questo dialogo a distanza. Ha già detto che per lui i mafiosi si dividono in eroi (quelli che, come Mangano, non solo non parlano di lui né di Berlusconi, ma non parlano tout court, restando mafiosi: come anche Riina, Provenzano, Bagarella e così via) e in bugiardi che dicono “minchiate” (Spatuzza, ma anche gli altri venti che hanno parlato di lui in 15 anni di inchieste e processi sul suo conto). Il 7 dicembre, a Porta a Porta, Dell’Utri spiega che“Spatuzza è un assassino efferato e non capisco come si possa dopo tanti anni dire queste cose. Ma l’obiettivo è chiaro: Spatuzza ottiene prebende, ottiene di uscire dal carcere, lavoro per lui e per le persone a lui vicine. Spatuzza con questo pentimento si è santificato e io passo per un efferato stragista”. Quando invece Filippo Graviano dice di non conoscerlo e smentisce Spatuzza, Dell’Utri si spertica in elogi e gli conferisce una patente di pentito attendibile: “Sono meravigliato dalla dignità e dalla compostezza di questo signore. Ha detto cose che mi meravigliano. Nel guardarlo ho avuto l’impressione di dignità da parte di uno che si trova in carcere e ha delle sofferenze. A differenza dell’impressione che mi ha fatto Spatuzza, mi è parso di vedere dalle parole di Filippo Graviano il segno di un percorso di ravvedimento”. Peccato che Filippo Graviano non sia pentito di un bel nulla, tant’è che nega financo di essere mafioso,nega i delitti per cui è stato condannato all’ergastolo, delitti molto più gravi di quelli commessi da Spatuzza, visto che questo era solo un sottoposto, mentre l’altro è uno dei capi. Dunque, contrariamente a quanto previsto da una legge dello Stato voluta da Giovanni Falcone, per Dell’Utri i pentiti veri sono i mafiosi che non confessano e non collaborano. Figurarsi l’entusiasmo dei boss irriducibili per le parole di un parlamentare della Repubblica. E figurarsi l’allarme fra i pentiti veri, la cui sicurezza dipende dal sottosegretario Alfredo Mantovano: che dovrebbe attenersi ad assoluta terzietà, dovendo valutare le richieste dei magistrati per assegnare i programmi di protezione, e invece va in tv ad attaccare l’attendibilità dei pentiti a cui dovrebbe garantire l’incolumità perché collaborino serenamente con la giustizia.

Il destino del processo.

È stata un autogol di un magistrato “inadeguato, dilettante e disinvolto” la scelta del pg di Palermo di introdurre Spatuzza nell’ultima fase del processo Dell’Utri prima di sottoporlo ai necessari riscontri, come scrivono certi maestrini che danno le pagelle ai giudici? Assolutamente no. Quando c’è il tempo, si cercano i riscontri in proprio. Quando, come nel caso delle recentissime dichiarazioni di Spatuzza, queste arrivano nella fase finale del processo, è doveroso riversarvele, accompagnate dai riscontri già trovati dalla Dia e dalla Procura di Firenze (che ritiene Spatuzza attendibile, tant’è che ha chiesto di ammetterlo al programma di protezione). Tanto più che Spatuzza non fa altro che aggiungere un tassello a quanto già dimostrato in primo grado: i già accertati rapporti fra Dell’Utri e i Graviano. Spetterà poi ai giudici valutare le nuove testimonianze alla luce dei fatti già emersi nel processo. La stessa cosa accadde al processo Cusani, dove Di Pietro portò in aula i segretari dei partiti che gli avevano appena confessato di essersi spartiti la maxitangente Enimont. E, guardacaso, alla fine fioccarono le condanne.

MARCO TRAVAGLIO

da Il Fatto Quotidiano del 13 dicembre 2009

Il Pdl minaccia i pm | Pietro Orsatti

Il Pdl minaccia i pm | Pietro Orsatti.

di Pietro Orsatti

Nell’edificante dibattito sul caso Dell’Utri e effetti collaterali, non poteva mancare Maurizio Gasparri con una dichiarazione che avrebbe fatto venire giù un diluvio di critiche da destra e sinistra se il personaggio non ci avesse abituato a ben altro. «E adesso chi pagherà per il caso Spatuzza-sputazza? Una vergognosa montatura basata su bugie che un semplice uditore giudiziario avrebbe potuto giudicare tali con immediatezza, ma che una serie di magistrati, invece, hanno considerato talmente credibili da ammettere Spatuzza- sputazza in un’aula». E poi: «Per questo sosterremo con vigore con Quagliariello e Compagna la proposta di una commissione d’inchiesta sulla gestione dei pentiti. Tutto questo capitolo va indagato». Da chi? Da un parlamento che copre l’affaire Cosentino, vuole approvare la vendita dei beni confiscati alla mafia, vuole mettere mano al reato di concorso esterno in associazione mafiosa? Perché il punto centrale è proprio questo. Si può davvero pensare di essere credibili quando si costituisce una commissione di inchiesta che indaghi su quei pentiti che accusano gli stessi politici? Il caso Cosentino, ancor di più di quello di Dell’Utri, è esemplificativo della distorsione che si sta sviluppando in questi ultimi tempi. Cosentino è accusato da almeno cinque collaboratori. Sarebbero, secondo la logica gasparriana, tutte sputazze? Il paradosso che si è vissuto negli ultimi tre giorni di un parlamento che salva in estremis Cosentino e osanna non un pentito, ma un boss stragista come Fillippo Graviano perché ha mostrato coerenza con il suo «niente sacciu» in relazione agli ipotizzati rapporti tenuti da lui e suo fratello Giuseppe con Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi. La politica, sul tema della legalità, è entrata in una fase di cortocircuito. Ormai, pur di salvare premier e suoi più stretti collaboratori da accuse terribili come quello di concorso esterno, si fa di tutta un’erba un fascio e si manda a gambe levate l’assetto istituzionale per poi puntare a elezioni anticipate. «Se Berlusconi vuole andare al voto anticipato sappia che si troverà di fronte alle urne uno schieramento repubblicano in difesa della democrazia», si sbilancia Casini, che certo dopo le disavventure giudiziarie di molti suoi compagni di partito non è certo un tifoso dei pm. Ma sembra che anche lui si sia reso conto che da una “campagna d’inverno” come quella in atto rimarrebbe ben poco sia del Paese che delle sue istituzioni.