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Antimafia Duemila – Cuffaro: affidabile per Provenzano ma a processo non entra la prova Ciancimino

Fonte: Antimafia Duemila – Cuffaro: affidabile per Provenzano ma a processo non entra la prova Ciancimino.

di Silvia Cordella – 10 giugno 2010
“Cuffaro ha cercato il contatto con l’organizzazione criminale per vincere le elezioni del 1991, quando era candidato alle Regionali nella lista della Democrazia Cristiana”. Per questo andò a chiedere i voti ad Angelo Siino, colui che gestiva per conto della mafia il rapporto con le amministrazioni siciliane e con gli imprenditori per l’assegnazione dei lavori pubblici.

È quanto ha affermato oggi il procuratore di Palermo, Nino Di Matteo, durante la requisitoria del processo per concorso esterno in associazione mafiosa che si sta celebrando in abbreviato a carico dell’ex Presidente della regione siciliana Salvatore Cuffaro. “Altro che ‘la mafia fa schifo’”, slogan utilizzato dall’ex Governatore nella sua campagna contro l’organizzazione mafiosa, “Cuffaro – ha detto Nino Di Matteo – ha cercato il contatto con l’organizzazione criminale per vincere le elezioni” che quell’anno lo fecero arrivare all’Ars grazie a 80 mila preferenze. L’ex deputato, ha spiegato ancora il magistrato, “non è un politico qualunque e questo non è un qualunque processo di mafia e politica. Stiamo processando un esponente politico di primo piano, attualmente Senatore della Repubblica eletto dopo una condanna per favoreggiamento a mafiosi”. Una Pena che nel 2008 aveva causato le sue dimissioni ma che non gli fu di ostacolo per giungere a Palazzo dei Marescialli. Il Pubblico Ministero ha così snocciolato in aula le parti salienti dell’inchiesta nata dalle ceneri di quella sulle “Talpe” in Procura. Le illecite “condotte dell’ex Governatore – ha spiegato  – comprendono un periodo che va dal ’91 fino al 2003- 2004, cioè per tutto l’arco temporale in cui Cuffaro ha fatto politica”. Per questo il reato di concorso esterno contestato oggi sarebbe dovuto essere mosso nei suoi confronti già nel primo procedimento a suo carico. L’onorevole democristiano infatti “ha intrattenuto rapporti con mafiosi di spicco e di eterogenea provenienza per tutta la durata della sua carriera politica”. Personaggi condannati per “associazione mafiosa o reati associativi”, da Angelo Siino al boss Giuseppe Guttadauro, fino a Vincenzo Greco (cognato del capomafia), Domenico Miceli (ex assessore alla Sanità di Palermo condannato per concorso esterno), Salvatore Aragona (ex braccio destro del capomafia), ed ancora, al pentito Francesco Campanella e al maresciallo del Ros, condannato anche lui in secondo grado per concorso esterno, Giorgio Riolo. “Si deve partire da qui – secondo la pubblica accusa – se si vuole capire il patto politico – mafioso elettorale stretto da Cuffaro con Cosa Nostra”. Un patto emerso nel 2001 con la sua vittoria a capo della Regione e la contemporanea scoperta da parte del Ros, di un dialogo fra lui e il boss di Brancaccio mediato da Aragona e Miceli. Il Procuratore, citando le parole del collaboratore di giustizia Nino Giuffrè, ha poi parlato della fiducia che Bernardo Provenzano avrebbe riposto nell’ex deputato. Una volta, il pentito si era presentato al cospetto del suo capo per portargli le rimostranze di alcuni imprenditori che si lamentavano del politico. ‘Manuzza’ quella volta si sentì rispondere dal capo di Cosa Nostra: “Ricordati che dobbiamo tenere buoni i rapporti, dobbiamo farlo stare a suo agio e non lo dobbiamo disturbare”. Aggiungendo: “Cuffaro è un punto di riferimento preciso, una persona affidabile”.
Insomma, secondo Giuffrè, Provenzano, dopo l’appoggio elettorale fornito a Forza Italia, all’inizio degli anni Novanta, si preparava a puntare su un nuovo “cavallo” di razza. Stava ritornando “al suo vecchio amore, la Dc e i partiti nati dalle sue ceneri, perché pensava che gli ex democristiani sapevano rispettare i patti”. “Perciò nel 2001 Provenzano appoggiò Cuffaro alle elezioni regionali ma, come spiegherà Giuffrè, da dietro le quinte per non bruciarlo”. Un appoggio che, secondo l’ex capomafia di Racalmuto, oggi pentito, Maurizio Di Gati, arrivò anche dalle cosche agrigentine e trapanesi che contribuirono a una sicura vittoria di Cuffaro, poi eletto Presidente con un milione e mezzo di preferenze.
Durante la requisitoria il pm ha poi manifestato grande rammarico per “la legittima scelta del rito abbreviato” che “ha impedito di sviluppare ulteriormente nel processo prove come le dichiarazioni di Gaspare Romano e Massimo Ciancimino o i risultati delle indagini sui termovalorizzatori in Sicilia, che dimostrano che le gare sono state vinte da aziende i cui responsabili sono stati rinviati a giudizio per mafia”. Un capitolo questo che potrà essere approfondito forse in un’inchiesta patrimoniale appena aperta e coordinata dal capo del dipartimento mafia ed economia della Procura, Roberto Scarpinato, tesa a verificare un’eventuale sproporzione tra i redditi dichiarati da Cuffaro e i sui beni. Indagine che per ora è stata smentita dalla difesa del Senatore.

B. e l’incubo Spatuzza

Fonte: B. e l’incubo Spatuzza.

Quando nel 1998 fu archiviata l’inchiesta sulle connessioni tra  stragi e politica, non c’era ancora il grande pentito

Venti pentiti, ritenuti credibili, raccontano dall’interno i rapporti tra Berlusconi, Dell’Utri e i boss mafiosi durante la stagione delle stragi. Da Francesco Di Carlo a Calogero Ganci, da Gioacchino Pennino ad Angelo Siino, da Pietro Romeo a Giovanni Ciaramitaro. Sono capi e gregari che raccontano come in quel periodo tra i boss e i due leader di Forza Italia fu stretto un accordo elettorale: la mafia avrebbe fatto votare in massa la nuova formazione politica in cambio di una normativa giudiziaria più favorevole (“41 bis, legislazione sui collaboratori di giustizia, recupero di garantismo processuale trascurato dalla legislazione dei primi anni ’90”). Un accordo elettorale frutto di un rapporto che, secondo i magistrati, “non ha mai cessato di dimensionarsi sulle esigenze di Cosa Nostra”, ma che non basta a stabilire l’esistenza, a monte, di un patto preventivo tra quei politici e i boss mafiosi per pianificare ed eseguire le stragi. Ecco perchè le posizioni di Berlusconi e Dell’Utri, indagati dodici anni fa come “mandanti occulti” sono state archiviate, ed ecco perchè il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso oggi imprime, a sorpresa, con le sue dichiarazioni, una brusca  accelerazione mediatica alle indagini sul ’93, alludendo ad una matrice politica del terrorismo mafioso.

Grasso sa benissimo – poichè lui stesso (con i pm di Firenze Fleury, Chelazzi, Nicolosi e Crini) è tra i firmatari della richiesta di archiviazione – che quelle indagini, arenatesi nel novembre del 1998 con il decreto del gip Giuseppe Soresina, oggi trovano uno straordinario impulso nelle nuove investigazioni riaperte a Firenze e a Caltanissetta, dopo la collaborazione del pentito Gaspare Spatuzza. Grasso sa che le nuove analisi dei pm nisseni e fiorentini ripartono da un dato certo: nel biennio ’92-’93, Cosa Nostra “attraverso un programma di azioni criminali, ha inteso imprimere un’accelerazione alla situazione politica nazionale così da favorire trasformazioni incisive e da agevolare l’avvento di nuove realtà  politiche”. Cosa nostra ha cioè pianificato ed eseguito le stragi agevolando un obiettivo “politico”, esterno ai suoi più diretti interessi: seminare il caos, favorire il ribaltone istituzionale, e traghettare il Paese dalla Prima alla Seconda Repubblica. Sono parole che lo stesso procuratore nazionale aveva già sottoscritto, proprio dodici anni fa, in quella richiesta di archiviazione nei confronti di Berlusconi e Dell’Utri, che fino ad oggi – incredibilmente – è rimasta inedita.

In quell’atto, oltre a spiegare il percorso investigativo e logico-giuridico che li ha condotti a chiedere l’archiviazione, i magistrati di Firenze sottolineano un dato certo: sono “molteplici – scrivono i pm – gli elementi acquisiti univoci nella dimostrazione che tra Cosa Nostra e il soggetto politico imprenditoriale intervennero, prima ed in vista delle consultazioni elettorali del marzo 1994, contatti riconducibili allo schema contrattuale, appoggio elettorale-interventi sulla normativa di contrasto della criminalità organizzata”. Il rapporto di scambio – e cioè un accordo – c’è stato, anche se al semplice livello di promesse ed intese reciproche. Resta, all’epoca, sospesa una domanda finale: e cioè se il “dinamismo politico-militare dei boss, di cui quell’accordo fu uno degli effetti (…) attrasse di fatto – proprio nel momento storico in cui l’iniziativa militare veniva deliberata o era in corso – anche l’interlocutore politico”. E cioè se Berlusconi e Dell’Utri abbiano indirizzato i progetti eversivi di Cosa Nostra o se, invece, ne abbiano solo beneficiato a posteriori, senza averne alcuna consapevolezza o responsabilità. In questo quadro stagnante, ma sconosciuto per dodici anni, si inseriscono oggi le parole di Gaspare Spatuzza, che sembra riprendere i fili di un discorso interrotto, sia attribuendo una valenza politica allo stragismo, sia, soprattutto, indicando come “interlocutori” dei suoi capi, i boss Filippo e Giuseppe Graviano, gli stessi leader politici archiviati in passato. L’ex armiere i Brancaccio rilegge l’intera stagione delle bombe a partire dalla fine del ’91, quando i boss della cupola mafiosa, Giuseppe Graviano, Matteo Messina Denaro, Vincenzo Sinacori, sono tutti a Roma per uccidere Giovanni Falcone, Claudio Martelli, Maurizio Costanzo. Ma gli assassini, pronti a liquidare gli avversari con un colpo di pistola, si fermano. Succede qualcosa, in quel momento – lascia intendere Spatuzza – che fa cambiare il progetto di morte. Che fa pensare a modalità più “spettacolari” per quegli omicidi. Che induce a pianificare le stragi come strumento di terrore e di condizionamento. Che suggerisce di utilizzare la vendetta mafiosa, trasformandola in strategia politica, in strategia della tensione. Succede, fa capire Spatuzza, che in quel momento appare sulla scena politica italiana  un nuovo soggetto, appaiono nuovi interlocutori: persone che si propongono come tali ai boss preoccupati dall’imminente sentenza del maxi in Cassazione. Non c’è ancora un partito, ma i capimafia sanno (e, stando alle rivelazioni di Pino Lipari, l’ex consigliori di Riina e Provenzano, lo sanno direttamente da Dell’Utri) che presto ci sarà una nuova formazione politica. E che sarà un partito aperto alle esigenze di una legislazione giudiziaria “morbida”, tema cruciale per Cosa nostra. Agevolare la sua affermazione, sarà un affare per l’organizzazione mafiosa.

Spatuzza dice che quei nuovi soggetti, quei “nuovi interlocutori” sono Berlusconi e Dell’Utri, fornendo un ulteriore tassello a quella ipotesi investigativa che dodici anni fa finì in archivio. Oggi Grasso, che fin dall’ìnizio ha sponsorizzato la collaborazione di Spatuzza, getta acqua sul fuoco e dice che le sue parole sono state “decontestualizzate”, ipotesi e ragionamenti che volano più in alto dei poteri che la Costituzione gli attribuisce. Poi la butta in scherzo: “’Un mandato di cattura per Berlusconi? Calma, nessun mandato, anche perchè non ne avrei i poteri”.


Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza (il Fatto Quotidiano, 28 maggio 2010)

Tutti insieme appassionatamente mafiosi – Passaparola – Voglio Scendere

Fonte: Tutti insieme appassionatamente mafiosi – Passaparola – Voglio Scendere.

Buongiorno a tutti, oggi parliamo di una vecchia storia che risale al 1989, a 21 anni fa e che è il fallito attentato all’Addaura contro Giovanni Falcone e i due giudici svizzeri che lavoravano insieme a lui quel giorno nella casa al mare che aveva affittato Falcone per quella estate, però partiamo da una cosa che ci siamo detti l’anno scorso, esattamente di questi giorni.

Stato, doppio Stato e affini
Il 9 maggio 2009, celebrando Il Giorno della Memoria delle vittime del terrorismo e delle stragi, il Presidente della Repubblica Napolitano, disse delle cose molto giuste sul ruolo, di connivenze, di depistaggi di apparati dello Stato per inquinare le indagini su alcuni dei più foschi misteri della nostra storia recente, disse anche una cosa che mi era sembrata molto sbagliata e non soltanto a me, cioè disse: il nostro Stato democratico, proprio perché è sempre rimasto uno stato democratico e in esso abbiamo sempre vissuto, non in un fantomatico doppio Stato, porta su di sé questo peso delle verità non complete.

A questo punto su Il Corriere della Sera il vicedirettore Pierluigi Battista disse che finalmente il Capo dello Stato aveva affondato l’ideologia del doppio Stato e fece l’elenco di tutti gli storici che avevano sostenuto invece il fatto che in Italia lo Stato non si è mai limitato a quella versione ufficiale, pubblica che vediamo davanti alle quinte sul palcoscenico, ma ha sempre avuto anche un doppio fondo, un dietro le quinte, un altro Stato, un doppio Stato che faceva esattamente il contrario di quello che lo Stato ufficiale proclamava e rivendicava pubblicamente, mentre lo Stato ufficiale andava ai funerali dei caduti delle stragi piangendo e promettendo verità piena e promettendo linea dura contro l’eversione rossa, nera, mafiosa etc. in segreto poi c’erano in realtà rappresentanti dello stesso Stato che occultavano, depistavano, facevano sparire prove, mettevano su false piste i magistrati etc.

Perché  mai il Capo dello Stato abbia definito fantomatica la teoria del doppio Stato e perché mai Il Corriere della Sera se la sia presa con gli storici che l’hanno sostenuta con le prove alla mano, non si è mai capito e devo dire che quello che sta venendo fuori grazie a uno scoop di Repubblica di Attilio Bolzoni sui retroscena della strage tentata e fallita per puro caso dell’Addaura contro Giovanni Falcone, che avrebbe dovuto morire, secondo una parte dello Stato italiano, del doppio Stato italiano, rimane un mistero. Ora però Bolzoni rivela che la Procura di Palermo sta indagando su un’altra versione, probabilmente quella più attendibile di quel falso attentato che avrebbe dovuto portare Falcone a morire con 3 anni di anticipo rispetto alla strage di Capaci del maggio del 1992, avrebbe dovuto morire all’Addaura il 21 giugno 1989.

Cosa succede all’Addaura? Per saperlo bisogna tornare un po’ indietro di un anno, al 1988 e quello che sto dicendo non è di mia iniziativa, ma è contenuto nella sentenza di condanna definitiva contro Bruno Contrada che si è beccato 10 anni per concorso esterno in associazione mafiosa e Contrada era il numero 1 della Questura di Palermo, poi è stato ai vertici dell’alto commissariato antimafia di Palermo e poi è andato a Roma a fare il N. 3 del Sisde (Servizio segreto civile) era un poliziotto, ha vissuto gran parte della sua carriera a Palermo, tutto intorno a lui sono stati assassinati gli uomini migliori dell’antimafia della Questura di Palermo, lui non è stato mai sfiorato e secondo i giudici che l’hanno condannato non è stato sfiorato perché era una delle quinte colonne della mafia all’interno delle forze di polizia che avrebbero dovuto combattere la mafia, era uno di quegli uomini del doppio Stato che colludeva con la mafia anziché combatterla.

In questa sentenza Contrada si racconta la storia di Oliviero Tognoli. Chi è? E’ un professionista che secondo Falcone che faceva le indagini su di lui, riciclava i soldi della mafia in quegli anni. A un certo punto Tognoli che era indagato sia in Italia, sia in Svizzera dove riciclava i soldi della mafia per riciclaggio di denaro sporco, poi è stato condannato anche per traffico di droga, fugge, fugge poco prima che lo arrestino, fugge nel 1988 perché qualcuno molto ben informato su quello che sta per accadere, l’arresto di Tognoli, telefona a Tognoli mentre sta all’Hotel Ponte di Palermo e lo avverte che c’è un mandato di cattura di Falcone a suo carico e lui scappa.
Poi viene preso nel 1988, la fuga è di qualche mese precedente, e si confida naturalmente con i poliziotti svizzeri che lo acchiappano e che sono il Commissario Clemente Gioia e l’Ispettore Enrico Mazzacchi e lui confida a Gioia che la soffiata che lo ha fatto scappare, veniva da un suo pari grado, pari grado del Commissario Gioia, da un altro poliziotto e non dice di più.
Qualche mese dopo, il 3 febbraio 1989 Tognoli viene interrogato congiuntamente da giudici italiani e svizzeri, per i giudici svizzeri c’è Carla Del Ponte, la famosa Carla Del Ponte, per i giudici di Palermo c’è il pubblico Ministero, Giuseppe Ayala e il giudice istruttore Giovanni Falcone.
La Del Ponte ha raccontato al processo Contrada e è stato confermato il suo racconto da Giuseppe Ayala, dice quello che successe in quell’interrogatorio di Tognoli, da questa parte del tavolo c’erano lei, Ayala e Falcone, da quell’altra parte c’era Tognoli che era stato appena arrestato.
“Chiuso il verbale dell’interrogatorio, dice la Del Ponte, mentre Tognoli se ne stava andando, Falcone gli si è avvicinato per salutarlo e gli ha chiesto chi fosse stato a avvertirlo, affinché lui potesse rendersi latitante, Tognoli non voleva rispondere, si schermiva, allora Giovanni Falcone fece un nome, Bruno Contrada, è stato Contrada? – questo per dire anche l’idea che aveva Falcone di Contrada ben prima che fosse arrestato per richiesta di Caselli e poi condannato – è stato Bruno Contrada?” gli disse Falcone e Tognoli guardandoci tutti e due ci rispose sì e fece un cenno col capo, Falcone disse subito, però dobbiamo verbalizzare, dobbiamo risederci e riaprire il verbale” perché questa è una notizia di reato, un poliziotto in servizio ai vertici della Polizia dei servizi segreti, accusato da un riciclatore della mafia di averlo fatto scappare. “Tognoli disse no, non voleva verbalizzare il nome di Contrada, aveva paura -dice la Del Ponte- io dissi: va beh, questo lo discutete nel pomeriggio”, perché evidentemente l’interrogatorio avrebbe dovuto riprendere nel pomeriggio.

Tognoli a quel punto parla con il suo Avvocato, il quale poi racconta l’altro poliziotto svizzero che era presente, Mazzacchi, conferma a Falcone che la talpa è Contrada, quindi prima Tognoli e poi l’Avvocato di Tognoli, confermano a Falcone che la talpa è Bruno Contrada.
L’8 maggio, 3 mesi dopo, Tognoli però cambia versione e dice che ad avvertirlo per farlo scappare era stato suo fratello Mauro, naturalmente i giudici del processo Contrada credono che sia buona la prima versione e credono che quello che raccontano la Del Ponte, Ayala, Mazzacchi e Gioia sia vero, anche perché subito dopo, due mesi dopo c’è il fallito attentato all’Addaura.

Cosa succede all’Addaura? Nella villa affittata per le vacanze da Falcone e dalla moglie Francesca Morvillo? Falcone riceve la visita della Carla Del Ponte, di un altro giudice svizzero Leman e del poliziotto Gioia che erano lì per parlare con lui delle indagini sul riciclaggio di Tognoli e di altri per conto della mafia.
La mafia piazza 75 candelotti di esplosivo sulla scogliera antistante la villa, poi a un certo punto, poco prima che esploda questo gigantesco ordigno che avrebbe devastato tutto e avrebbe ammazzato Del Ponte, Falcone, Leman, i poliziotti etc., scoprono e disinnescano fortunatamente questa bomba, anche perché in mare c’era un canotto sospetto con delle persone che poi si allontanano.

Contrada e l’attentato fallito a Falcone
Falcone, scrivono i giudici che hanno condannato Contrada, indicò al PM di Caltanissetta che indagavano su quell’attentato, (le indagini sugli attentati contro i magistrati non li fa mai la Procura dove lavorano i magistrati, ma sempre la Procura vicino, quindi sull’attentato a Falcone indaga la Procura di Caltanissetta), Falcone viene sentito come testimone dai giudici di Caltanissetta che indagano sull’attentato all’Addaura, quindi siamo tra il 1989 quando avviene l’attentato fallito e il 1992 quando poi Falcone muore per l’attentato riuscito. Falcone va a testimoniare a Caltanissetta e indica ai PM che indagavano su quel delitto, leggo dalla sentenza Contrada, “quale possibile movente dell’attentato dell’Addaura, le indagini che stava svolgendo con i colleghi svizzeri presenti a Palermo proprio il giorno dell’attentato, del Ponte, Leman e il poliziotto Gioia e indicò la possibilità che da quelle indagini potessero emergere conseguenze di natura istituzionale.”

Falcone collega alle istituzioni l’attentato, non alla mafia, affermò in particolare che Tognoli, il riciclatore, aveva detto per intero la verità sui suoi collegamenti con la mafia siciliana e sulle inquietanti vicende riguardanti la sua fuga di Palermo. Le istituzioni chi erano evidentemente?
Le forze di polizia, Contrada, deve dunque condividersi, scrivono i giudici che hanno condannato Contrada in via definitiva, l’osservazione del Tribunale che ha condannato Contrada in primo grado, “non vi è dubbio alcuno che l’intervento esplicato da Contrada in favore di Tognoli costituisce un grave fatto specifico a suo carico in perfetta sintonia con il complessivo quadro accusatorio e con le tipologie di condotte dallo stesso Contrada esplicate in favore di Cosa Nostra, l’imputato Contrada servendosi delle notizie di cui era venuto in possesso in ragione dei propri incarichi istituzionali, era riuscito con una tempestiva informazione, a rendere possibile la sottrazione e la cattura di Tognoli, prezioso intermediario di cui si avvaleva Cosa Nostra per lo svolgimento dei propri illeciti nel riciclaggio del denaro proveniente dal narcotraffico”, questo è quello che noi sappiamo, quindi Falcone riteneva che la matrice dell’attentato all’Addaura fosse istituzionale, fosse collegato alle indagini che lui stava facendo su Tognoli e al fatto che Tognoli gli aveva detto che a farlo scappare era stato Bruno Contrada, esponente insigne delle istituzioni di Polizia, Ministero dell’Interno, forze dell’ ordine e poi Sisde.
Perché  dico questo? Perché è come se ce lo fossimo dimenticato Contrada, come se ci fossimo dimenticati che ogni tanto qualche uomo delle istituzioni che tradisce per colludere con la mafia viene preso, ritenuto colpevole, condannato e a quel punto nessuno se ne ricorda più, in questi giorni si parla dell’Addaura ma tutti si dimenticano Contrada e quello che pensava di lui Falcone e quello che era successo subito prima e cioè la fuga di Tognoli e poi a mezza bocca l’ammissione di Tognoli che a farlo scappare era stato Contrada. Contrada è a piede libero perché risulta malato, non sta scontando la pena, ma in ogni caso è stato condannato in via definitiva.

Adesso veniamo alle novità anche se pure questa è una novità, perché non ne parla nessuno e quindi anche se sta scolpita nelle sentenze definitive, nessuno la conosce e tutti se la dimenticano perché Contrada è sempre stato difeso dai vertici della Polizia, dalla politica etc..
Le novità, secondo quello che ha ricostruito Attilio Bolzoni in base alle indagini che stanno conducendo i magistrati di Palermo, sono semplicemente clamorose.
Intanto si è scoperto che la bomba nella scogliera, i 75 candelotti di dinamite dentro una borsa non è stata depositata sulla scogliera il 21 giugno quando poi fu scoperta, poco prima che esplodesse, ma la mattina prima, il 20 giugno, questa non è una cosa particolarmente importante, se non il fatto che questa borsa ha stazionato per più di un giorno sulla scogliera antistante la villa di Giovanni Falcone.
Pare che i gruppi presenti quel giorno davanti alla villa di Falcone fossero due: da una parte a terra, non via mare, ma dall’altra parte, dietro la villa, erano nascosti un commando di mafiosi della famiglia dell’Acqua Santa, insieme a uomini dei servizi segreti e erano quelli che volevano morto Falcone e erano quelli che avevano sistemato via terra, dunque, la borsa con i candelotti.
In mare c’era l’altro gruppo, su un canotto, a distanza probabilmente con dei cannocchiali, binocoli per osservare quello che stava succedendo sulla scogliera, c’erano due persone, due subacquei vestiti con la muta da subacqueo che tenevano d’occhio quello che succedeva, si era sempre pensato che questo fosse un gruppo di appoggio rispetto agli altri, in realtà invece, pare che questi due sommozzatori fossero lì per cercare di impedire che Falcone morisse.
Questa è proprio la scena plastica del doppio Stato, da una parte i sommozzatori della Polizia nel canotto che cercano di impedire l’attentato, ma sanno che è in corso l’attentato e fanno di tutto affinché non si verifichi e dall’altra parte invece ci sono uomini dei servizi e della mafia insieme, dello Stato e dell’antistato a braccetto che quella borsa di dinamite hanno deposto e quella borsa  di dinamite vogliono che esploda per uccidere Falcone, Stato, doppio Stato e antistato, la mafia: c’è tutto in questa scena a mare e a terra.

Chi sono i due sommozzatori? Non c’è ancora certezza sulla loro identità, ma secondo le ricostruzioni ultime rivelate da Bolzoni, i due sommozzatori che sono sul canotto a mare sono due poliziotti: Antonino Agostino e Emanuele Piazza, facevano ufficialmente un lavoro e ufficiosamente avevano altre mansioni, sono poliziotti che agiscono nella zona grigia, forse per conto dei servizi, forse perché hanno dei compiti borderline rispetto a quelli ufficialmente riconosciuti e definiti.
L’agente Agostino, agente ufficialmente del commissariato di San Lorenzo a Palermo, pare che in realtà stesse lavorando di nascosto alla cattura dei latitanti mafiosi. Dura poco l’agente Agostino, dopo l’attentato all’Addaura, che è il 21 giugno, il 5 agosto dello stesso anno, un mese e mezzo dopo circa, Agostino viene ucciso insieme alla moglie Ida, gli assassini non saranno mai scoperti. Chi frequenta Palermo e gli incontri antimafia conosce il papà di Agostino, è un signore che ha una barba lunghissima perché ha fatto una specie di giuramento, si chiama Vincenzo Agostino, che non taglierà la barba fino a che non sarà fatta giustizia sulla morte del figlio e della nuora.

Anche Riina chiede le sue indagini
Chi ha ucciso l’agente Agostino e la moglie? Perfino Riina non sapeva chi era stato a ucciderli, tant’è che ordinò un’indagine interna, i mafiosi hanno il controllo del territorio, quando muore qualcuno nel territorio che controllano e loro non sanno chi l’ha fatto ammazzare, si stupiscono perché di solito hanno diritto di vita e di morte, decidono loro chi viene ammazzato e chi no, quando viene ammazzato qualcuno e loro non ne sanno niente, si informano e quindi Riina commissionò un’indagine interna, ma come dice il pentito Giovanbattista Ferrante che era proprio mafioso nella famiglia di San Lorenzo, dove c’era il commissariato dove lavorava Agostino, neanche Riina riuscì a sapere nulla sull’omicidio di Agostino 45 giorni dopo il fallito attentato all’Addaura.
Si è  poi saputo, dice Ferrante, che Agostino era stato ucciso perché  voleva rivelare i legami mafiosi di alcuni esponenti della Questura di Palermo, anche sua moglie li conosceva e quindi è stata uccisa insieme a lui, anche se sapete che per uccidere una donna i mafiosi devono avere un buon motivo, altrimenti secondo vecchi codici, la risparmiano, è stata uccisa perché si ritiene che anche lei sapesse delle collusioni mafiose di esponenti della Questura di Palermo e alla Questura di Palermo c’era Contrada. Questo è stato ucciso perché voleva rivelare i legami mafiosi di esponenti della Questura di Palermo, l’ha detto un altro pentito, dopo che Riina ha fallito la sua indagine interna, evidentemente si è scoperto che questo era il movente e lo ha rivelato un nuovo collaboratore di giustizia che si chiama Oreste Pagano.
La squadra mobile di Palermo indagando sull’omicidio di Agostino aveva imboccato una pista passionale, storie di donne che è il tipico modo per insabbiare un’indagine, dire che sono storie di donne, lo si dice per tanti delitti eccellenti, sono depistaggi e così sull’agente Agostino nessuno ha mai saputo chi lo abbia assassinato.

Chi era l’altro sommozzatore? Era un ex poliziotto, secondo queste ultime ricostruzioni, un ex  poliziotto che si chiama Emanuele Piazza. Emanuele Piazza era un ex agente di Polizia, scrive Bolzoni che aveva anche lui iniziato a collaborare con i servizi segreti, il Sisde, sempre il servizio civile, quello della Polizia, nella ricerca dei latitanti, anche lui dopo il fallito attentato all’Addaura dura poco, viene ucciso il 15 marzo 1990, meno di un anno dopo l’attentato all’Addaura che è di giugno, quindi 8 mesi dopo la strage attentata all’Addaura, muore anche l’altro poliziotto che è sul canotto, perché vengono uccisi entrambi? Non si sa, si sa che anche lui viene assassinato, lui viene strangolato. Per questo omicidio, come per il delitto Agostino, la mobile imbocca la pista passionale e sostiene che era scappato da Palermo per seguire la sua donna in Tunisia, altro depistaggio.

Due morti misteriose, tutte e due subito dopo l’attentato all’Addaura, tutte e due liquidate come vicende passionali e quindi dimenticate, è ovvio che se si vuole nascondere chi e perché ha ucciso i due poliziotti che stavano davanti all’Addaura, è perché evidentemente si vuole nascondere qualcosa riguardo all’Addaura, quel qualcosa potrebbe proprio essere il fatto che questi due poliziotti avevano scoperto che pezzi delle istituzioni stavano per far saltare in aria Falcone e si sono precipitati via mare sul posto, nella speranza di sventare questo attentato, speranza che poi si è concretizzata perché proprio vedendo loro che si agitavano in mare, la scorta di Falcone ha disinnescato in tempo la bomba.

In quel periodo le prime indagini interpellarono ovviamente i bagnanti che stavano lì  sulla costiera dell’Addaura per cercare di dare un volto, un identikit a queste due persone che stavano sul canotto e gli identikit furono fatti, ma si pensa che non siano mai state consegnate alla Magistratura e infatti scrive Bolzoni, non si trovano, non si sono mai trovati, adesso i magistrati li stanno cercando, evidentemente perché si voleva evitare che risalendo a chi stava sul canotto, si riuscisse a risalire anche a questo doppio gioco che stava facendo lo Stato, alcuni per sventare l’attentato, altri per farlo.

Ma non è  mica finita qua, perché ci sono altri testimoni dell’Addaura che sono morti ammazzati, oltre ovviamente ai due poliziotti che abbiamo citato Piazza e Agostino, oltre a Falcone ovviamente, viene ammazzato anche Francesco Paolo Gaeta che è un piccolo mafiosetto della borgata dell’Acqua Santa che il giorno dell’attentato fallito all’Addaura, casualmente aveva assistito a strani movimenti di uomini di Cosa Nostra e non solo intorno alla villa di Falcone. Poco tempo dopo il fallito attentato all’Addaura, anche Gaeta viene ammazzato a pistolettate e la cosa viene liquidata come un regolamento di conti fra spacciatori, lui non era un mafioso, era un malavitoso di piccolo cabotaggio, ma attenzione, perché c’è anche Luigi Ilardo che muore in circostanze misteriose.

Chi è Luigi Ilardo? L’abbiamo raccontato quando abbiamo introdotto il processo che è in corso a Palermo a carico di due ufficiali del Ros Mori e Obinu che sono accusati di avere favorito la mafia perché nonostante che il confidente Ilardo avesse rilevato al Colonnello Michele Riccio in quale casolare era nascosto Bernardo Provenzano già nel 1995, gli uomini del Ros non vollero andare a catturare Provenzano e quindi c’è questo processo che sta arricchendosi delle testimonianze del figlio di Cancimino e di tanti altri nuovi dichiaranti, i quali danno un senso al fatto che Provenzano era diventato un intoccabile, proprio perché pare che avesse consegnato o avesse messo i Carabinieri del Ros sulle piste di Riina e quindi in qualche modo si fosse reso invulnerabile agli occhi del Ros, dei Carabinieri.
Cosa c’entra Luigi Ilardo con l’Addaura? Quest’ultimo nelle sue confidenze al Colonnello Riccio che alla fine l’aveva convinto a collaborare con la giustizia, a diventare un pentito, a entrare nel programma di protezione e quindi a mettere nero su bianco, a verbale quello che invece prima gli spifferava soltanto come confidente, fu ucciso pochi giorni prima che venisse ufficializzata la sua posizione di collaboratore di giustizia e pochi giorni prima che verbalizzasse le sue confidenze, le confidenze che però Riccio aveva annotato ovviamente sui suoi taccuini e che quindi ha raccontato come testimone diretto in questo processo, ottenendo il rinvio a giudizio del Colonnello Mori e del Colonnello Obinu.

Cosa aveva detto Ilardo tra le altre cose al Colonnello Riccio? Gli aveva detto: noi sapevamo che a Palermo c’era un agente che faceva cose strane, si trovava sempre in posti strani, aveva la faccia da mostro, siamo venuti a sapere che era anche nei pressi di Villa Grazia quando uccisero il poliziotto Agostino. Quindi lui sa che sul posto dell’attentato in cui fu ucciso il poliziotto che stava sul canotto davanti all’Addaura c’era un esponente della Polizia o dei servizi, un agente che faceva cose strane e che aveva una faccia da mostro, una faccia butterata, era un uomo molto brutto, torvo, butterato con il volto segnato da chiazze e quest’uomo con la faccia da mostro ritorna anche nel racconto di altri e alcuni lo fanno coincidere con quel Signor Franco o Signor Carlo che secondo il figlio di Ciancimino era una specie di ombra di suo padre, Vito Ciancimino perché era addetto alla protezione, alla sorveglianza di Vito Ciancimino e partecipo’ in quella veste addirittura nel 1992 alla trattativa tra Ciancimino e il Ros da una parte e i capi della mafia Riina e Provenzano dall’altra parte, quel Signor Carlo o Signor Franco di cui si sta cercando di stabilire un’identità certa anche se probabilmente con l’aiuto di Massimo Ciancimino i Magistrati stanno arrivando a dargli un nome e un cognome.
Omicidi di Antistato
L’agente Agostino viene ucciso a agosto del 1989 e come scrive Salvo Palazzolo su Repubblica “subito dopo il suo assassinio arrivano a casa sua degli agenti, ma anche dei signori che non sono agenti e che sono strane presenze, ricorderà il padre di Agostino, erano molto interessati a quello che lui aveva in casa” perché?
Perché quando è morto Agostino, suo padre va, vede il figlio cadavere, il figlio insanguinato, gli prende il portafoglio dalla tasca e nel portafoglio trova un appunto scritto a mano dall’agente Agostino: “se mi succede qualcosa andate a guardare nell’armadio della mia stanza da letto” chi abbia guardato in quell’armadio non si sa, cosa abbiano trovato non si sa, si sa che ci fu una visita nella casa dell’agente Agostino, se qualcosa fu trovato non fu messo agli atti, ma fu fatto sparire e di quello che hanno trovato in quel famoso armadio non c’è, agli atti dell’inchiesta un inventario, non si sa neanche nel rapporto della perquisizione cosa fu trovato.
Oltretutto il padre dell’agente Agostino ricorda anche lui che 20 giorni prima che fosse ucciso il figlio, un uomo con la faccia da mostro aveva chiesto di suo figlio, lo stava cercando in qualche modo e dice: aveva la faccia martellata dal vaiolo con un muso da cavallo e i capelli biondastri, è una presenza che sembra ricorrere su vari luoghi di vari misteri – poi naturalmente i giornali ci si appassionano a queste cose della faccia da mostro, magari era semplicemente una persona un po’ brutta.
Sappiamo sicuramente che dopo il delitto Agostino qualcuno si incarica di far sparire della roba dall’armadietto, dove lui nel suo portafoglio aveva detto: se mi succede qualcosa andate a cercare lì e se pensava che gli sarebbe successo qualcosa, è evidente che l’agente Agostino aveva subodorato pericoli a suo carico.

Questa è  la cosa che noi sappiamo, adesso si è mossa perfino la Commissione parlamentare antimafia, questo ente inutile che teniamo in piedi non si sa bene per cosa, si è mosso addirittura il Copasir, presieduto da D’Alema mentre la Commissione antimafia è presieduta da Pisanu per capire… così all’improvviso scoprono che ci sono presenze dei servizi segreti nei misteri d’Italia, di mafia e di Stato e si interessano, chiedono carte, stiamo parlando, anche Veltroni è intervenuto, purtroppo di orecchianti di queste vicende che per anni si sono completamente disinteressati, ogni tanto leggono un giornale, scoprono che c’è qualcosa e si danno da fare, ma penso che sia meglio che si tengano a debita distanza e che si lasci lavorare la Magistratura su questo.

Devo dire che più si va avanti nella scoperta di questi retroscena e più si avvalora quella teoria del doppio Stato che il nostro Capo dello Stato frettolosamente aveva liquidato un anno fa come fantomatica, probabilmente noi abbiamo una classe politica che sa molte cose, che ne nasconde moltissime, che ha paura che emergano grazie al fatto che oggi si sta rompendo di nuovo il fronte della solidarietà monolitica del potere e quindi ci sono spazi perché qualcuno salti su a raccontare, a ricordare vecchie storie, quindi hanno tutta la sensazione che questa potrebbe essere una fase di apertura, basta aprire, l’abbiamo detto tante volte, una piccola fessura e immediatamente dentro a quella fessura possono passare dei raggi di luce!
Il caso dell’Addaura che pure ci sembra lontano e sepolto è in realtà concatenato con l’attentato, purtroppo poi riuscito a Capaci, con quello che è legato subito dopo alla trattativa e cioè il delitto Borsellino, informato del fatto che Stato e mafia stavano trattando e quindi immediatamente eliminato e rimosso come un ostacolo sulla strada della trattativa, poi le stragi del 1993 che danno vita alla Seconda Repubblica, c’è un legame molto chiaro tra tutti questi avvenimenti, che arriva fino a noi, perché naturalmente la nostra Seconda Repubblica in quegli anni e da quei misteri lì è nata e mi pare ovvio che un Paese che non conosce le sue origini, le origini delle sue istituzioni è un Paese molto triste, per fortuna abbiamo ancora investigatori, magistrati e giornalisti che su quei misteri vogliono fare luce, noi ovviamente terremo d’occhio tutto quanto, continueremo a seguire queste vicende, per il momento passate parola!

Antimafia Duemila – Pentito: ”Vito Ciancimino volle delitti Mattarella e Reina”

Fonte: Antimafia Duemila – Pentito: ”Vito Ciancimino volle delitti Mattarella e Reina”.

Il segretario provinciale della Dc Michele Reina e il presidente della Regione siciliana Piersanti Mattarella furono uccisi da Cosa nostra su richiesta dell’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino.
Lo dice, svelando per la prima volta il nome del mandante politico dei due delitti, il collaboratore di giustizia Francesco Di Carlo, nel libro «Un uomo d’onore», Bur-Rizzoli, scritto dal giornalista di Repubblica Enrico Bellavia. «Ciancimino – dice Di Carlo – non era uomo d’onore. Riina lo detestava, Provenzano invece lo considerava un amico. Fu Riina a darmi un quadro chiaro della situazione quando parlando di Ciancimino, dopo l’omicidio del segretario provinciale della Dc Michele Reina avvenuto nel 1979, mi disse a muso duro che quelli erano affari di Provenzano e non suoi». «Reina e Ciancimino – prosegue Di Carlo – erano stati soci e avevano condiviso un percorso politico ma poi erano entrati in rotta di collisione. Riina non se ne era preoccupato, Provenzano invece aveva raccolto gli sfoghi di Ciancimino che si andava a lamentare da Binnu per appalti e costruzioni che trovavano ostacoli. Ciancimino e Provenzano avevano affari insieme. È in questo ambito che è maturato l’omicidio: Binnu toglieva le spine a Ciancimino». «So che c’era Ciancimino dietro a quel delitto. – rivela Di Carlo – L’ho sempre saputo. È Ciancimino la causa delle tragedie che hanno messo su Piersanti Mattarella. Ho visto Piersanti tre o quattro mesi prima che fosse ucciso. Già sapevo che Binnu Provenzano premeva sulla commissione per avere il via libera all’omicidio come sollecitato da Vito Ciancimino». Spiega Di Carlo: «Se un politico di Cosa Nostra o vicino all’organizzazione va dai capi a dire direttamente o per interposta persona che c’è un altro che ostacola i piani di comune interesse, non sta raccontando un fatto, nè confidando una difficoltà. Sta chiedendo aiuto e il genere di aiuto che Cosa Nostra può offrire non si può non immaginare. Ecco perch‚ dico che ci sono delitti politici che hanno mandanti politici».

ANSA

Martelli-Mancino, scontro sul ring del processo Mori

Martelli-Mancino, scontro sul ring del processo Mori.

«Avemmo la sensazione che tra i carabinieri del Ros e Vito Ciancimino ci fossero rapporti stretti ma se avessi avuto sentore che c’era una trattativa in corso tra pezzi dello Stato e la mafia, avrei fatto l’inferno». Claudio Martelli nell’estate del ‘92, a cavallo tra gli eccidi di Capaci e di via D’Amelio, era a conoscenza che c’erano in corso contatti “anomali” per fermare le stragi tra alcuni ufficiali del Ros e l’ex sindaco mafioso di Palermo, Vito Ciancimino. L’ex ministro socialista lo ha confermato l’8 aprile, diciotto anni dopo quella stagione di sangue in un’aula di tribunale, incalzato dalle domande dei pm Antonio Ingroia e Nino Di Matteo. Ha parlato per due ore, in qualità di testimone, al processo in corso a Palermo contro il generale del Ros, Mario Mori, e il colonnello Mauro Obinu, entrambi accusati di favoreggiamento aggravato a Cosa nostra per la mancata cattura del boss Bernardo Provenzano, nell’ottobre del ‘95, a Mezzojuso. L’ex Guardasigilli conferma che venne a conoscenza che gli ufficiali dell’Arma erano in contatto con Ciancimino, già a fine di giugno del ‘92, quando l’allora direttore degli Affari penali, Liliana Ferraro, gli riferì quello che aveva appreso parlando con il capitano del Ros, Giuseppe De Donno.

«La Ferraro – ha aggiunto Martelli deponendo al processo – mi raccontò di avere invitato De Donno a rivolgersi a Borsellino. Praticamente la Ferraro mi fece capire che il Ros voleva il supporto politico del ministero a questa iniziativa. Io mi adirai – ha aggiunto Martelli – perché trovavo una sorta di volontà di insubordinazione della condotta dei carabinieri. Avevamo appena creato la Dia, che doveva coordinare il lavoro di tutte le forze di polizia e quindi non capivo perché il Ros agisse per conto proprio». Martelli, rispondendo alle domande dei pm palermitani, si infuria ancora oggi e tira in ballo anche l’allora ministro dell’Interno (Nicola Mancino, che però nega) da lui stesso informato di quanto aveva appreso dalla Ferraro.

«Nell’ottobre del 1992 – prosegue il racconto di Martelli – Ferraro mi disse di avere visto De Donno e che questi le aveva chiesto di agevolare alcuni colloqui investigativi tra mafiosi detenuti e il Ros e se c’erano impedimenti a che la procura generale rilasciasse il passaporto a Vito Ciancimino. Dare credibilità a Ciancimino – ha aggiunto – per cercare di catturare latitanti era un delirio. Per questo chiamai l’allora procuratore generale di Palermo Bruno Siclari esprimendogli la mia contrarietà alla storia del passaporto». In soldoni il Ros, secondo Martelli, agiva di testa propria e senza l’avallo della procura per mera presunzione: «Non ho mai pensato che Mori e De Donno fossero dei felloni, ma che agissero di testa loro. Che avessero una sorta di presunzione o orgoglio esagerato. Sono convinto che lo scopo del Ros, fermare le stragi, fosse virtuoso ma che il metodo usato – ha aggiunto Martelli -, contattare Ciancimino senza informare l’autorità giudiziaria, fosse inaccettabile».

Tuttavia Nicola Mancino, attuale vice presidente del Csm, pochi minuti dopo la fine dell’udienza in cui ha testimoniato Martelli, nega all’Ansa di essere stato informato dall’ex Guardasigilli dei contatti tra Ros e Ciancimino: «Né Martelli né altri mi parlò mai di contatti con Ciancimino – afferma Mancino. Ho sempre escluso, e coerentemente escludo anche oggi, che qualcuno, e perciò neppure il ministro Martelli, mi abbia mai parlato della iniziativa del colonnello Mori del Ros di volere avviare contatti con Vito Ciancimino. Ribadisco che, per quanto riguarda la mia responsabilità di ministro dell’Interno, nessuno mi parlò mai di possibili trattative con la mafia». Le parole di Mancino non sono una novità.

In diverse occasioni ha detto che lo Stato non trattò ma, di quella torbida stagione, nega anche un’altra circostanza: l’incontro con il giudice Paolo Borsellino che ci sarebbe stato proprio il giorno del suo insediamento al Viminale (il 1 luglio ‘92). Il giudice quella mattina, mentre negli uffici romani della Dia stava raccogliendo le confessioni del pentito Gaspare Mutolo, ricevette una telefonata e sospese l’interrogatorio per recarsi, pare, proprio al Viminale a incontrare Macino. Quando tornò da quell’incontro, come confermò anche Mutolo, Borsellino era visibilmente agitato tanto da mettersi in bocca due sigarette contemporaneamente. Mancino, fino a oggi, non ha negato la possibilità che l’incontro sia potuto avvenire ma ha sempre ribadito di non ricordare se “tra gli altri giudici che venivano a omaggiarlo per la sua nomina” ci fosse stato anche Paolo Borsellino. Strano o, quantomeno, anomalo.

Dalla deposizione di Martelli emerge, poi, un’altra misteriosa circostanza, legata alla cattura del boss Totò Riina: «Il generale dei carabinieri Francesco Delfino, nell’estate del ‘92, vedendomi preoccupato, – ha aggiunto l’ex ministro della Giustizia rispondendo ancora alle domande dei pm Ingroia e Di Matteo – mi disse che dovevo stare tranquillo perché mi avrebbero fatto un bel regalo di Natale e aggiunse che Riina me lo avrebbero portato loro». Il generale Delfino, di fatto, diede a Martelli una notizia vera perché il capo dei capi fu catturato dal Ros dopo Natale, il 15 gennaio ‘93, grazie alle confidenze, raccolte dallo stesso alto ufficiale, di Balduccio Di Maggio. «Per quanto riguarda la vicenda dell’arresto di Riina – dice a Il Punto Claudio Martelli – ricordo perfettamente di aver ricevuto una telefonata da parte dell’allora sindaco di Milano, Aldo Aniasi, in cui mi chiedeva di incontrare un suo amico generale dei carabinieri che a suo dire doveva riferirmi delle cose importanti. Così, qualche tempo dopo, incontrai Delfino e in quella circostanza mi informò che Riina stava per essere arrestato.

Queste cose – aggiunge l’ex ministro della Giustizia – le ho raccontate solo ora perché solo ora sono stato chiamato a deporre in un processo. Nell’estate del ‘92, lo ripeto, segnalai a chi di competenza che a mio avviso il Ros stava tenendo un comportamento anomalo, ma in quel momento non potevo sapere che fosse il preludio di una trattativa. Con Mancino – aggiunge Martelli – non parlai della trattativa, non avevo elementi per pensare questo, lo informai solo degli “anomali” contatti che c’erano in corso tra alcuni ufficiali del Ros e l’ex sindaco Ciancimino. Mi sembrava assurdo che i carabinieri agissero di propria iniziativa, senza informare né la magistratura né la Dia, che era stata appena creata per coordinare l’attività investigativa. Non parlai con lui di una possibile trattativa tra Stato e mafia, su questo aspetto ha ragione, ma lo informai certamente di quanto avevo appreso dalla Ferraro, così come informai il capo della Dia e quello della polizia. Il colloquio avvenne tra la fine di giugno e i primi di luglio, quindi subito dopo la sua nomina a ministro dell’Interno e – chiosa l’ex Guardasigilli socialista – certamente prima della strage di via D’Amelio».

da Ilpuntotc.com (22 aprile 2010)

Le 14 lettere di Matteo Messina Denaro

Fonte: Le 14 lettere di Matteo Messina Denaro.

C’è un politico che Bernardo Provenzano ha “messo a disposizione” di Matteo Messina Denaro. C’è un prete che continua a mandare saluti a Matteo Messina Denaro e gli scrive: “Se hai bisogno della benedizione di Gesù Cristo sai dove e come trovarmi”. C’è un imprenditore che è pronto a intestarsi alcune quote di una società per fare grandi affari in provincia di Trapani. C’è un “amico”, che era devoto a Francesco Messina Denaro, e adesso è al servizio del figlio. C’è un tipografo che ha appena stampato un nuovo documento al nuovo leader carismatico di Cosa nostra, il trapanese Matteo Messina Denaro.

Ci sono cinque, e chissà quanti altri, insospettabili che da 16 anni proteggono la latitanza dell’ultimo depositario dei segreti di Totò Riina e Bernardo Provenzano. Quei cinque sono citati, con grande rispetto, da Messina Denaro nelle sue lettere: senza nomi, naturalmente, ma con diversi particolari che dicono della immutata capacità di infiltrazione di Cosa nostra nella società legale (o presunta tale). Bisogna leggerle con attenzione le lettere di Matteo Messina Denaro: quelle che sono state sequestrate nel corso degli ultimi anni sono 14. Sette, ritrovate dalla polizia nel covo di Bernardo Provenzano, a Corleone, l’11 aprile 2006. Due, sequestrate nel covo di Salvatore e Sandro Lo Piccolo, a Giardinello, durante il blitz fatto dalla squadra mobile di Palermo il 5 novembre 2007. Cinque lettere sono state invece consegnate al Sisde, il servizio segreto civile, dall’ex sindaco di Castelvetrano, Antonino Vaccarino, pure lui in contatto epistolare col latitante, fra il 2004 e il 2005.

Eccole, di seguito, le 14 lettere scritte da Matteo Messina Denaro. Leggerle è importante per capire cosa è diventata oggi Cosa nostra. Il padrino che ha voluto le stragi di Firenze, Roma e Milano sostiene di essere investito di una “causa”: “Se io fossi nato due secoli fa, con lo stesso vissuto di oggi già gli avrei fatto una rivoluzione a questo stato italiano e l’avrei anche vinta”. Però, poi, le parole che seguono non sono proprio da Che Guevara: “In Italia da circa 15 anni c’è stato un golpe bianco tinto di rosso attuato da alcuni magistrati con pezzi della politica ed ancora oggi si vive su quest’onda”. Questa l’ho già sentita, e ho lo sensazione di sapere anche dove.

Le lettere di Messina Denaro, alias Alessio, a Bernardo Provenzano

1-10-2003
1-2-2004
25-5-2004
30-9-2004
6-2-2005
30-9-2005
21-1-2006

I due capimafia discutono soprattutto di una questione economica che vedeva contrapposti i clan di Trapani (legati a Messina Denaro) e quelli di Agrigento (legati la latitante Giuseppe Falsone). Le lettere fanno riferimento alla figura di un insospettabile imprenditore del settore della grande distribuzione, Giuseppe Grigoli. Per chi vuole approfondire l’argomento, ecco la memoria depositata dalla Procura di Palermo al tribunale che si è trovato a dover giudicare la posizione di Grigoli:
Memoria della Procura

Le lettere di Alessio a Vaccarino, alias Svetonio
1-10-2004
1-2-2005
22-5-2005
30-9-2005
28-6-2006

Le lettere di Alessio a
Salvatore Lo Piccolo
Sandro Lo Piccolo

Salvo Palazzolo (tratto da: http://www.ipezzimancanti.it)

Pd e Pdl in estinzione – Voglio Scendere

Fonte: Pd e Pdl in estinzione – Voglio Scendere.

Buongiorno, sono Peter Gomez, Marco Travaglio è stato bloccato dall’eruzione islandese, non perché si trovi in Islanda, ma perché si trovava in giro per l’Italia per una serie di presentazioni, quindi oggi cercherò di palarvi io delle cose di cui vi avrebbe parlato Marco.

La mafia non deve esistere
Sia io che Marco, siamo rimasti molto colpiti questa settimana dall’ennesima uscita del nostro Presidente Silvio Berlusconi sui fatti che riguardano Cosa Nostra. La settimana scorsa il 16 aprile il giorno in cui la pubblica accusa chiedeva una condanna a 11 anni di reclusione nel processo di appello contro il Sen. Marcello Dell’Utri già condannato in primo grado a 9 anni per concorso esterno in associazione mafiosa, Silvio Berlusconi ha tirato fuori uno dei suoi leitmotiv che lo caratterizza dal 1994 e questa volta per i giornali se l’è presa con Roberto Saviano l’autore di Gomorra. In realtà la questione è più complessa e non riguarda solo Roberto Saviano, ma riguarda tutti noi.

Ricordo, per chi non l’avesse letto, cosa ha detto Berlusconi, Berlusconi ha detto che la nostra mafia risulta essere la sesta mafia al mondo e che però è quella conosciuta perché c’è stato un supporto promozionale, dice Berlusconi, che l’ha portata a essere un elemento molto negativo di giudizio per il nostro paese e ha ricordato poi le 8 serie della Piovra ritrasmesse in televisione in 160 paesi del mondo e soprattutto la letteratura sui fatti di mafia che parte da Gomorra e arriva a tutto il resto.
A Roberto Saviano per chi ha letto i giornali in questi giorni ci sta pensando da solo a difendersi e ha anche ipotizzato il fatto di lasciare la sua Casa Editrice Mondadori e per questo ha provocato l’intervento di Marina Berlusconi, la figlia del Premier che è Presidente della Mondadori. In realtà dietro questa presa di posizione di Berlusconi che dicevo che non è affatto nuova, si nasconde un ragionamento molto vecchio che non è neanche made in Berlusconi.

Il primo a tirare fuori questa storia è stato infatti Michele Greco, il Papa della mafia che nel corso dei suoi processi incominciò a accanirsi contro il padrino di Mario Puzzo, sostenendo che quel libro, quel romanzo, tutto quel parlare di mafia l’aveva portato alla sbarra.
Berlusconi Premier, poi, nell’ottobre del 1994 riprese per la prima volta questo tipo di dichiarazioni, sostenendo che avevamo fatto un grande danno al paese con le fiction sulla mafia, perché la mafia rappresenta solo una parte infinitesimale dell’Italia rispetto a 57 milioni di abitanti che aveva allora il paese e immediatamente dopo quella presa di posizione che risaliva all’ottobre 1994 ce ne era stata un’altra altrettanto significativa e era stata la presa di posizione di Totò Riina che si trovava a quell’epoca già in carcere perché era stato arrestato il 15 gennaio 1993 e Riina dalla gabbia gli aveva risposto: è vero? Ha ragione il Presidente Berlusconi, tutte queste cose sono invenzioni, tutte queste cose da tragediatori che discreditano l’Italia e la nostra bella Sicilia, si dicono tante cose cattive con questa storia di Cosa Nostra, della mafia che fanno scappare la gente, ma quale mafia, quale piovra e sono tutti romanzi!

Non si tratta di polemizzare con Berlusconi ma di mettere qualche puntino sulle “i”, i dati ci dicono che Berlusconi ha un’immagine totalmente irreale del nostro paese, la prima causa di sottosviluppo delle regioni del sud che oggi si vorrebbero dividere dal resto del paese a partire dal federalismo fiscale per arrivare alla secessione sono proprio le organizzazioni criminali, al di là di questa classifica se la mafia sia al primo o al sesto posto, certamente Cosa Nostra in questo momento si trova indietro rispetto alla ’ndrangheta , resta il fatto che le mafie in Italia, ce l’ha detto il Censis, fatturano circa 100 miliardi l’anno, il 9,5 del Pil italiano è prodotto dalle organizzazioni criminali, il 70% degli esercizi commerciali e delle imprese in Sicilia pagano il pizzo e addirittura questa cifra sale o saliva all’80%, il Censis poi con un’indagine condotta attraverso questionari anonimi mandati a 700 diversi imprenditori, è giunto alla conclusione che il motivo per cui c’è un grande divario, distacco tra le regioni del sud rispetto a quelle del nord, è proprio riconducibile alle organizzazioni criminali, c’è un dato che meglio di tutti gli altri però spiega cosa significhi Cosa Nostra, ‘ndrangheta oggi o cosa significano il potere delle organizzazioni criminali rispetto alla società civile e è un dato economico che non ha niente a che fare con il bene e il male, certo possiamo ricordare che le organizzazioni criminali in questo paese, negli ultimi anni, negli ultimi 25 anni hanno ammazzato più di 10 mila persone, mentre tutti noi continuiamo a parlare di allarme terrorismo, quando il terrorismo nell’epoca degli anni di piombo arrivò a solo 600 morti ammazzati, ma il dato più impressionante è il dato su cui dobbiamo riflettere per capire di cosa parliamo quando parliamo di mafia, è un dato che ci viene raccontato dalla realtà di Bagheria, Bagheria è un paesone di 40 mila abitanti a una ventina chilometri da Palermo, che per tanti anni è stata la sede sociale del vecchio capo di Cosa Nostra, il vecchio capo di tutti i capi, Bernardo Provenzano, ebbene a Bagheria esisteva e esiste tutt’ora una clinica che si chiama la clinica Santa Teresa di Bagheria di proprietà di un prestanome di Bernardo Provenzano, di Michele Aiello, questa clinica era una clinica avanzatissima, forse era la clinica privata più avanzata di tutta la Sicilia, nella quale si conducevano le migliori terapie antitumorali di tutta l’isola, per questo arrivavano pazienti da tutta l’isola.
Questa clinica era ovviamente una clinica convenzionata, la convenzione era stata condotta in prima persona per molti aspetti dall’ex  Presidente della Regione Sicilia Totò Cuffaro, attualmente condannato anche in secondo grado per favoreggiamento a alcuni personaggi di Cosa Nostra e attualmente sotto inchiesta per concorso esterno in associazione mafiosa.
Grazie a questo tipo di convenzioni un ciclo completo di terapia antitumorale alla prostata nella clinica Santa Teresa di Bagheria prima dell’intervento della Magistratura, costava 136 mila Euro, una cifra importante soprattutto se arriviamo a pensare che quei 136 mila Euro li pagavamo tutti noi con le nostre tasse, anche chi risiede in Lombardia e in Piemonte. Dopo l’intervento della Magistratura la clinica Santa Teresa è stata affidata a un commissario, ha continuato a lavorare e i prezzi sono scesi per le terapie antitumorali a livello di quelli di altre regioni per esempio del nord, oggi un ciclo completo di terapia antitumorale alla prostata che prima costava 136 mila Euro, costa 8.093 Euro.
In questi 125 mila Euro di differenza sta tutto il problema mafie e Cosa Nostra, perché  mafia, ‘ndrangheta e camorra oltre che essere violente, non convengono e non convengono prima di tutto alle casse di uno Stato che mai come in questo momento non si può permettere spese di questo tipo.
La mafia è  mafia perché ha rapporti con la politica e con le istituzioni, se non avesse rapporti con le politiche e con le istituzioni, sarebbe semplicemente gangsterismo e noi da 200 anni non staremmo qui a discutere su come sconfiggerla, questo è il problema di Cosa Nostra, certo magari facendo neanche troppe dietrologie si potrebbe pensare che nelle dichiarazioni di Silvio Berlusconi c’è nascosta una prosecuzione di quella trattativa che voi conoscete molto bene iniziata tra mafia e Stato nel 1992 e mai conclusa, probabilmente c’è questo, ma c’è anche dell’altro, c’è un problema che riguarda direttamente la selezione delle nostre classi dirigenti da parte dei partiti politici sia di destra che di sinistra, perché una selezione delle classi dirigenti sulla base del rischio mafia, non è stata mai fatta o quasi mai stata fatta da nessun tipo di partito politico.
In Sicilia negli scorsi anni è accaduto un evento importante, la Confindustria siciliana mentre altre Confindustria del nord storcevano il naso, ha deciso di espellere non solo gli imprenditori collusi, ma anche gli imprenditori che pagavano il pizzo, una rivoluzione copernicana perché chi paga il pizzo, Codice Penale alla mano non è una persona che commette un reato, è una persona che è vittima di un reato, è una persona che subisce un’estorsione e commette un reato solo se, quando viene chiamato di fronte a un magistrato, si rifiuta di parlarne, perché in quel momento sarà responsabile di una falsa testimonianza, di una testimonianza reticente, eppure la Confindustria ha deciso di lanciare questo segnale che poi in parte ha seguito e in parte no, ma è un segnale importante.
Mirello Crisafulli, la mafia e il PD

Non è  mai accaduto invece che un partito politico decidesse di espellere un proprio appartenente perché aveva rapporti continuativi con Cosa Nostra. Ieri l’altro a Enna è avvenuto un primo fatto che poteva sembrare importante, a Enna si erano tenute le primarie per le elezioni di sindaco del Partito Democratico, Enna è un posto molto particolare in Sicilia è un po’ come il paese di Asterix nella Francia, nella Gallia occupate dai romani è una provincia tradizionalmente rossa.
A Enna il politico più importante è un signore che si chiama Mirello Crisafulli, quest’ultimo è un signore molto importante e è un esempio dei rapporti attuali tra mafia e politica, un esempio su cui si esercitano sociologi e anche criminologi, perché? Enna ha Mirello Crisafulli che è un esponente storico del Partito Comunista, poi del Pds, poi dei DS e poi del PD, nel 2000 viene ripreso da dalle microcamere piazzate dalla squadra mobile di Caltanissetta in un albergo di Pergusa, a Enna le microcamere sono state piazzate perché gli agenti di polizia sperano di riprendere una banda di estorsori che vanno dal proprietario dell’Hotel per chiedere il pizzo, in realtà le microcamere riprendono un’altra cosa, riprendono il boss di Enna, Raffaele Bevilacqua, un ex avvocato, è importante che sia un ex avvocato perché se andiamo a vedere quello che non ci raccontano i giornali, ci accorgeremo che negli ultimi 10 anni buona parte dei capimafia che sono stati arrestati e poi condannati erano capimafia laureati, che facevano i politici, architetti, avvocati, notai, erano persone riconducibili e benissimo introdotte all’interno della società civile.
Anche Raffaele Bevilacqua era uno di questi, era stato un politico, negli anni 90 aveva seduto anche come consigliere provinciale nel Consiglio Provinciale di Enna come esponente della DC, poi era stato arrestato e era stato condannato a 11 anni per mafia perché era un capo mafia.
Nel 2000 Bevilacqua entra in questo Hotel di Pergusa, l’Hotel Garden, accompagnato da due guardia spalle, incontra il suo vecchio amico Mirello Crisafulli, i due si vedono e immediatamente si baciano, ce l’avesse raccontato un pentito non ci avrebbe creduto assolutamente nessuno, poi si danno appuntamento e si siedono in una saletta riservata, il direttore dell’Hotel porta un block notes e una penna, i due dicono: no, niente appunti, meglio non lasciare traccia.
Cominciano a parlare di appalti e di favori, in realtà dal filmato non si riesce a capire chi comandi su chi, perché il boss mafioso chiede e il politico risponde e molte volte gli dice di no, fatti i cazzi tuoi, bene da tutto questo parte un’inchiesta, Mirello Crisafulli si autosospende, allora era solo un deputato regionale, i magistrati indagano e poi decidono di archiviare la sua posizione, sostanzialmente cosa si dice in questa archiviazione? Si dice: è del tutto vergognoso quello che è accaduto, un importante esponente politico ha accettato di avere rapporti con un così importante boss già condannato, attualmente Bevilacqua è stato condannato di nuovo per omicidio, però da quel colloquio non possiamo avere la prova che con il suo comportamento Mirello Crisafulli abbia rafforzato in maniera sensibile l’organizzazione Cosa Nostra, è un passaggio giuridico, tecnico.
Mirello Crisafulli viene riammesso, ritorna a fare politica, nelle elezioni successive viene candidato in Parlamento e grazie a quella legge che ci impedisce ormai di eleggere i nostri deputati, ma fa sì che vengano nominati esclusivamente dalle segreterie del partito, entra trionfalmente in Parlamento, verrà rinominato in Parlamento nel 2008, uomo potentissimo, partecipa alle primarie del PD a Enna, le vince anche perché l’attuale Sindaco Agnello che fa parte del PD, ma fa parte di una corrente diversa rispetto a quella di Crisafulli, decide di non partecipare, poi 3 giorni fa in seguito a una lettera aperta scritta da alcuni deputati, tra cui Beppe Lumia del PD, decide di ritirare la propria candidatura con molto ritardo è un passaggio positivo questo, ma è un passaggio su cui dobbiamo riflettere perché questa è l’eccezione che conferma la regola.
In questi giorni e mi veniva da sorridere, si parla molto della polemica e del tentativo del Presidente del Senato di smarcarsi dal Pdl per costituire forse un gruppo parlamentare separato, qualche giorno fa in una trasmissione della sera di Gianluigi Paragone avete assistito a una rissa furibonda tra due esponenti finiani della Pdl che erano Bocchino e Urso rispetto a un esponente di Comunione e Liberazione del Pdl che era Lupi, se ne sono dette di tutti i colori e oggi sui giornali scopriamo che Bocchino e Urso potrebbero finire di fronte ai probiviri del Popolo della Libertà perché con il loro comportamento, secondo alcuni avrebbero leso all’immagine e al prestigio di quel partito.
Il regolamento del Pdl è abbastanza preciso da questo punto di vista e dice che chiunque può mettere in discussione il prestigio del partito, può essere sottoposto a questo tipo di procedimento e arrivare fino all’espulsione.
Dicevamo prima che però i probiviri mai di nessun partito si sono occupati da questo punto di vista di quello che sono i rapporti tra i parlamentari e le organizzazioni criminali, nel governo come sapete fa ancora il sottosegretario all’economia un signore che è Nicola Cosentino, per il quale pende una richiesta di arresto che è stata respinta dalla Camera di appartenenza, nelle liste del Pdl è entrato a far parte in Regione Campania un signore che proveniva dal PD e mi pare che si chiamasse Conte che ha anche lui sulle spalle il suo bel procedimento per fatti di camorra.
La lotta alla mafia e il salto di qualità
Quello che accade di solito è esattamente il contrario, perché accade tutto questo? Accade tutto questo perché, come diceva Borsellino, mafia e politica sono due organizzazioni che controllano lo stesso territorio o si fanno la guerra o si mettono d’accordo.
E’ vero che il Ministro Maroni, Polizia e Carabinieri negli ultimi anni hanno ottenuto degli straordinari risultati sul fronte della guerra alle organizzazioni criminali, quanto questo dipenda dal Ministro o quanto questo dipenda dall’opera dei magistrati e delle forze di Polizia è una lunga discussione, ricordo solo che in questi anni si è assistiti a dei tagli impressionanti dal punto di vista di bilancio rispetto ai finanziamenti alle forze di polizia, ma un dato di fatto è incontestabile, in questi anni, come non passato, si va generalmente a colpire esclusivamente la mafia militare.
Per quanto riguarda i rapporti politici e i rapporti istituzionali, si è  molto più indietro, un esempio su tutti: qualche anno fa viene arrestato in Sicilia un signore che si chiama Mercadante, quest’ultimo è un potentissimo deputato regionale e è diventato deputato regionale nonostante che fosse cugino di Tommaso Cannella, quest’ultimo era il boss di Prizzi, il paese immediatamente vicino a Corleone e era un fedelissimo di Provenzano Bernardo.
Mercadante finisce sotto inchiesta più volte per i suoi rapporti con Cosa Nostra, mai il partito interviene, del resto quel partito nel 1996 aveva eletto come Presidente della Regione un signore che si chiamava Giuseppe Provenzano che era un commercialista, che era originario di Corleone, suo padre era corleonese doc, il quale aveva avuto una caratteristica, era stato il commercialista della convivente di Bernardo Provenzano, era finito sotto inchiesta per una serie di affari condotti con la convivente di Provenzano e poi era stato arrestato e poi prosciolto per insufficienza di prove, tutto questo era avvenuto sul finire degli anni 80, poi nel 1996 nonostante che fosse un signor nessuno, l’allora Pdl che si chiama Forza Italia, decide di candidarlo e lo fa diventare persino Presidente della Regione, in contemporanea entra prima in Consiglio Comunale e poi in Consiglio regionale Mercadante.
Quest’ultimo è un medico, è un radiologo, è cugino primo di un importantissimo boss mafioso, finisce sotto inchiesta più volte e mai i probiviri del partito intervengono per fare qualcosa.
E’ evidente che il garantismo è giusto e vale nelle aule di Tribunale, quando si fa politica nella selezione delle classi dirigenti devono valere dei criteri che sono diversi, i criteri di normale buonsenso, se io ho dei rapporti continuati, se vado spessissimo a pranzo o a cena con i boss, per una logica di elementare prudenza il mio partito politico deve escludermi e portare avanti qualcun altro che non ha quel tipo di rapporti politici, perché tanta gente, tante brave persone vogliono fare politica e ne hanno il diritto di farlo, in realtà questi tipi di comportamenti non vengono mai sanzionati, il rischio mafia non viene mai preso in considerazione e si arriva qui al caso Mercadante che è un caso emblematico.
Il caso Mercadante
Le microspie che questo governo, il governo che combatte la mafia vuole di fatto abolire perché tra le norme che vengono proposte da questo esecutivo e che sono già state votate c’è quella che vieterà di piazzare le microspie a casa di un boss, perché le microspie potranno essere piazzate esclusivamente nel luogo in cui si presume che venga commesso un reato, nel luogo in cui si presume che si parli di traffico di droga o di omicidio, quindi non verranno più messe in macchina, queste microspie cosa ci raccontano?
Ci raccontano che Mercadante nella campagna elettorale del 2006 si era messo d’accordo con Nino Rotolo e altri importanti boss palermitani per candidare e portare in Consiglio Comunale il nipote di un boss e guarda caso partecipavano all’allora motore azzurro tutti gli esponenti di sangue, imparentati con un… partecipavano alla propaganda elettorale dell’allora Forza Italia in quel di Palermo, aprivano anche dei baracchini.
In una di queste intercettazioni risulta anche un rapporto tra Mercadante e Antonino Cinà, quest’ultimo era il medico di Riina, il medico che ha condotto la trattativa, i due discutono come far vincere un concorso pubblico da un primario che faceva il viceprimario a Milano all’ospedale di Riguarda, viene utilizzata Cosa Nostra quindi per tentare di truccare un concorso pubblico. Mercadante finisce in prigione, viene arrestato nel 2006 e è sommerso da una quantità impressionante di prove, una quantità impressionante di prove che porterà poi alla sua condanna a 10 anni di reclusione. Ebbene, la cosa interessante è quella che accade dopo il suo arresto, dopo il suo arresto uno si aspetterebbe, va beh, lui si è autosospeso, i famosi probiviri che adesso se la dovrebbero prendere un Urso e Bocchino perché hanno polemizzato con i colleghi di partito intervengono su di lui, no accade che in carcere c’è una processione di parlamentari che lo vanno a trovare, entrano in carcere Basiglio Germanà, Stefania Craxi, Innocenzo Leontini, Mario Ferrara e persino il futuro Ministro di Grazia e Giustizia, quello che dice di combattere la mafia, Angelino Alfano.

Con le dichiarazioni di Berlusconi e soprattutto con questo tipo di comportamenti, si dà  un segnale chiaro alle organizzazioni criminali, si strizza l’occhio alle organizzazioni criminali, per questo ma polemica di questi giorni non è una polemica che riguarda Roberto Saviano o la Mondadori, non è il caso di entrare, ricordare neanche a Marina Berlusconi che non è vero, come ha affermato in una lettera che la sua Casa Editrice non abbia mai censurato nessuno, il primo episodio di censura che ricordi riguarda proprio la Mondadori nel 1994, quando dall’edizione italiana dell’Europa dei Padrini, il libro scritto da Fabrizio Calvi e pubblicato dalla Mondadori, scompaiono due pagine che esistevano nell’edizione francese che riguardano Vittorio Mangano, più recentemente ci ricordiamo il caso di Sara Mago, costretta a cambiare Casa Editrice lasciare l’Einaudi per uno dei suoi libri, proprio perché polemizzava con il Premier.

Si dicono molte cose e ci si perde spesso la memoria, su una cosa però dovremmo avere ben chiare tutti le idee, la mafia ci giudica dai comportamenti e dalle parole, per questo è importante quello che scrive Saviano, Lirio Abbate, per questo quello che dice il nostro Presidente del Consiglio fa abbastanza schifo!

Quando la tonaca non fa il frate

Fonte: Quando la tonaca non fa il frate.

A Barcellona Pozzo Di Gotto (ME), paese dov’è radicata una forte organizzazione di stampo massonico-mafioso, c’è il Convento dei Frati Minori di Sant’Antonio da Padova.

La sacra struttura, ospitò, fino all’anno 2002, il frate Salvatore Massimo Ferro, che continuava, seppur saltuariamente, a frequentare il convento di Barcellona Pozzo di Gotto, dopo che fu trasferito a Messina.
Il frate Salvatore Massimo Ferro è figlio di Antonio Ferro, capo mandamento di Cosa Nostra di Canicattì (AG), nonché compare di Bernardo Provenzano.
E’ fratello di Calogero Ferro, condannato per associazione mafiosa.
E’ fratello di Gioacchino Ferro e Roberto Ferro, entrambi arrestati per associazione mafiosa, facevano parte del tessuto associativo di Bernardo Provenzano, curavano i suoi interessi, i suoi affari, la corrispondenza, gli spostamenti, e veicolavano il denaro sporco dello stesso Provenzano. Ferro Gioacchino è ancora detenuto. Ferro Roberto è stato assolto.
E’ nipote di Salvatore Ferro, un fedelissimo di Bernardo Provenzano al punto di essere fra i pochissimi prescelti a partecipare al summit del 31 ottobre del 1995 a Mezzojuso (PA), riunione che determinò il rinnovamento di Cosa Nostra.
E’ strettissimo parente di una famiglia mafiosa completamente implicata negli affari di Bernardo Provenzano.
Nonostante queste parentele imbarazzanti, non è mai stato allontanato dalla Sicilia.

Sappiamo che Provenzano si è rifugiato a Barcellona Pozzo di Gotto perché ci sono delle intercettazione ambientali che ne danno certezza. La sorella del boss Bisignano parlando con un immobiliarista disse: “Avevano ragione i Manca, che dicono che suo figlio ha visitato Provenzano, tutti lo sapevamo che “iddu” era qua.” Tuttavia non è mai stata fatta indagine accurata per scoprire dov’era nascosto esattamente il boss latitante.
Nell’anno 2003 un tumore alla prostata colpì Bernardo Provenzano, Attilio Manca era uno dei migliori urologi d’Italia, fu uno dei primi ad eseguire la prostatectomia in laparoscopia, aveva studiato in Francia questa nuova tecnica, ed era originario di Barcellona Pozzo di Gotto.
Bernardo Provenzano è stato per ben 2 volte ricoverato a Marsiglia, in 2 cliniche differenti, entrambe le volte sotto falso nome: Gaspare Troia. La prima volta, dal 7 al 10 luglio 2003 per esami in una piccola clinica privata di La Ciotat. La seconda volta, il 29 ottobre 2003 nella clinica privata “Casamance” di Aubagne. Occupò la stanza numero 7, gli venne asportato un tumore alla prostata col metodo della laparoscopia.

I genitori di Attilio Manca dicono di aver ricevuto, in quei giorni, una telefonata del figlio Attilio in cui disse di essere in Francia per assistere ad un intervento, e, per la prima volta, non sarebbe tornato a casa per le festività, vi farà ritorno il 5 novembre. Il ritorno di Bernardo Provenzano in Sicilia è stato il 4 novembre.
Nelle indagini si nomina un urologo siciliano, un urologo che non è mai stato trovato.
Dalle dichiarazioni fatte da un anonimo al Maresciallo Guazzelli (ucciso nel 1992), sappiamo che Bernardo Provenzano era conosciuto dalla mafia di Sambuca di Sicilia,  come “un uomo che non ammetteva errori, era un individuo pieno di soldi, una persona che andava per le spicce, faceva uccidere anche al minimo dubbio”; da qui, capiamo che Provenzano non avrebbe avuto alcuno scrupolo a risparmiare la vita al medico che lo curò. Attilio Manca era una specie di luminare, forse era un ragazzo anche ingenuo, in fondo aveva passato la vita sui libri e nelle sale operatorie, a 34 anni era un medico raro nel suo genere.
Ora, un uomo con tutti quei soldi, che da latitante va ad operarsi a Marsiglia sotto falso nome, ovviamente pretende il miglior medico in Italia. Chi è stato questo medico? Attilio Manca, originario di Barcellona Pozzo di Gotto, territorio di Provenzano.

A questo punto bisognerebbe chiedersi chi è il tramite fra un boss mafioso latitante da oltre quarant’anni ed un ragazzo tanto onorevole?
Ugo Manca, pregiudicato per detenzione abusiva di arma, e condannato in 1° grado per traffico di droga (di recente assolto in appello), frequentatore di molti personaggi di interesse investigativo come Angelo Porcino, Lorenzo Mondello, Rosario Cattafi ed altri, è il cugino in primo grado del dottor Attilio Manca. È sua l’impronta che venne rilevata nel mese di marzo nella casa di Viterbo in cui venne ritrovato il corpo dell’urologo. Ugo Manca giustificò l’impronta dicendo di essere stato nella casa del cugino il 15 dicembre 2003. Evidentemente Ugo Manca non sapeva che la famiglia del medico ucciso era stata a casa di Attilio il 23 e 24 dicembre, e la madre aveva provveduto ad una profonda pulitura di tutta la casa e del luogo dove fu ritrovata l’impronta. Inoltre, la polizia scientifica, al momento del rilevamento dell’impronta, dovrebbe essere in grado di rilevare quando l’impronta è stata lasciata; ma alla procura di Viterbo questi particolari non interessano.

Il ruolo di Ugo Manca nella vicenda non si ferma qui, in una telefonata ai genitori 10 giorni prima di morire, Attilio chiese informazioni su un tale Angelo Porcino (lo ritroveremo nel 2007 in carcere con l’accusa di tentata estorsione con l’aggravante mafiosa), perché era stato contattato telefonicamente dal cugino Ugo Manca e questi gli aveva preannunciato che Porcino sarebbe andato a trovarlo a Viterbo per un consulto. Quindi, Ugo Manca era il chiaro tramite fra Attilio e un personaggio legato alla mafia Barcellonese.
I rapporti fra Ugo Manca e Angelo Porcino, diventano palesi anche da un altro “piccolo” dettaglio: furono sorpresi insieme ad un summit di sospetto sapore mafioso il 7 maggio 2002.
Il giorno dopo il ritrovamento del cadavere del cugino, Ugo Manca si recò alla Procura della Repubblica di Viterbo per sollecitare, a nome dei genitori del medico, la restituzione del corpo e il dissequestro dell’appartamento. Ma il padre e la madre di Attilio, ascoltati dal pm, hanno dichiarato di non aver mai chiesto al loro nipote di fare tali richieste.
Il caso Manca, a distanza di tutti questi anni, resta ancora un grande e imbarazzante mistero sotto tutti i fronti; la Procura di Viterbo continua a non indagare, il Vaticano e l’Ordine dei Frati Minori di Sant’Antonio da Padova non hanno mai provveduto a far trasferire da subito e molto lontano un frate con una posizione tanto imbarazzante, anzi, il frate Salvatore Massimo Ferro ha denunciato per diffamazioni l’avvocato della famiglia Manca, Fabio Repici. Anche la madre di Attilio è stata denunciata dal Rev.do Fr. Matteo Castiglione.

Helene Benedetti di ‘Informare per Resistere’ (tratto da ANTIMAFIADuemila.com, 17 aprile 2010)

Quella ‘trattativa’ per salvare 7 politici

Fonte: Quella ‘trattativa’ per salvare 7 politici.

Nel 1991 la mafia è pronta a uccidere su indicazione di Riina. Ma qualcuno le fa cambiare strategia

Questa è una storia inconfessabile. Fatta di sangue, polvere da sparo e paura. Non prendetela per la verità. Perché per ora è solo una verità possibile. Una ricostruzione verosimile che si è affacciata nelle menti degli investigatori dopo la deposizione dell’ex Guardasigilli, Claudio Martelli, davanti ai giudici che stanno processando per favoreggiamento aggravato l’ex comandante del Ros, generale Mario Mori. Ridotta a una frase – ma come si sa, quando si parla di mafia le cose sono molto più complicate – suona più o meno così. Nel 1992 lo Stato trattò con Cosa Nostra per salvare la vita a un lungo elenco di politici: i ministri o ex ministri Calogero Mannino, Salvo Andò, Martelli, Giulio Andreotti e Carlo Vizzini, il deputato regionale Sebastiano Purpura e il presidente della regione Rino Nicolosi. Sette nomi eccellenti, considerati a torto o ragione dai clan dei traditori, ai quali si deve aggiungere la lista, compilata come la prima in più fasi, dei nemici a tutto tondo: i magistrati Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Piero Grasso e i poliziotti Arnaldo La Barbera, Gianni De Gennaro e Rino Germanà. Per capire come si giunge a questa ipotesi, bisogna però cominciare dai fatti certi.

Vediamoli. A partire dal febbraio del 1991, mese in cui Falcone, osteggiato dai colleghi, lascia Palermo per diventare di fatto il braccio destro di Martelli, la situazione per Cosa Nostra precipita. Da una parte arriva nelle mani dei magistrati (ma subito dopo degli uomini d’onore e dei politici) un rapporto, redatto proprio dai carabinieri di Mori, su mafia e appalti in Sicilia che rischia di far saltare affari per mille miliardi di lire. Dall’altra, con Falcone al ministero, le cosche capiscono che la musica è cambiata. Subito il governo (presidente del Consiglio Andreotti) vara un decreto per rimettere in prigione 16 importanti boss scarcerati per decorrenza termini. Poi Martelli si muove per evitare che in Cassazione i processi per mafia finiscano sempre alla prima sezione presieduta da Corrado Carnevale, il giudice allora soprannominato ammazzasentenze.

Totò Riina, all’epoca capo incontrastato di Cosa Nostra, diventa una belva. All’improvviso capisce che le garanzie ricevute sul buon esisto del maxi-processo, istruito negli anni ‘80 da Falcone e Paolo Borsellino, in cui lui stesso è stato condannato all’ergastolo non valgono niente. Anche in terzo grado il verdetto sarà sfavorevole. Nella seconda parte dell’anno, raccontano le sentenze, si svolgono così una serie di vertici tra capi-mafia in cui Riina annuncia la decisione di “pulirsi i piedi”. Cioè di ammazzare, non solo i nemici, ma anche chi nei partiti aveva fatto promesse e non le manteneva. Si discute dei nomi dei personaggi da eliminare e intanto parla di fare guerra allo Stato con attentati a poste, questure, tralicci dell’Enel, caserme dei carabinieri e alle sedi della Democrazia cristiana (quattro verranno colpite in Sicilia).

“Si fa la guerra per fare la pace”, spiega a tutti il boss corleonese, in quel momento già alla ricerca di una nuova sponda politica con cui stringere un nuovo accordo. Poi, il 31 gennaio del ‘92, come pronosticato, la Cassazione priva di Carnevale, conferma le condanne del maxi. E così il 12 marzo, a campagna elettorale appena iniziata, l’eurodeputato Salvo Lima, da anni proconsole di Andreotti, in Sicilia muore sotto i colpi dei killer. E’ un messaggio diretto al divo Giulio che sarebbe dovuto giungere nell’isola l’indomani. Falcone intuisce quanto sta accadendo. E, come scriverà La Stampa, commenta: “Il rapporto si è invertito: ora è la mafia che vuole comandare. E se la politica non obbedisce, la mafia si apre la strada da sola”.

I politici siciliani cominciano davvero a tremare. Il 20 febbraio, ma questo lo si scoprirà solo molti anni dopo, in casa di Girolamo Guddo (un amico dell’ex fattore di Arcore, Vittorio Mangano) si è tenuta un riunione operativa in previsione della “pulizia dei piedi”: si è parlato della morte di Lima, di quella di Ignazio Salvo (18 settembre ‘92), dell’attentato a Falcone e di molte delle altre persone da eliminare. Il programma prevede che a essere colpito, dopo Falcone, sia l’ex ministro dell’Agricoltura e leader siciliano della sinistra Dc, Mannino. Quale sia la forza della mafia gli italiani se ne rendono conto il 23 maggio osservando le centinaia di metri asfalto divelti dal tritolo a Capaci.

Morto Falcone, tutto sembra perduto. Mentre nel nord infuria Tangentopoli, gli apparati investigativi antimafia appaiono in ginocchio. È a quel punto che, secondo l’accusa, Mori e il suo braccio destro, Giuseppe De Donno, decidono di battere la strada che porta a don Vito Ciancimino, l’ex sindaco mafioso di Palermo, legato a doppio filo all’alter ego (apparente) di Riina: Bernardo Provenzano. A giugno, ha sostenuto due giorni fa Martelli, De Donno contatta un’importante funzionaria del ministero, Liliana Ferraro. L’ufficiale le spiega di essere in procinto di vedere don Vito “per fermare le stragi”. E, secondo l’ex ministro, chiede una sorta di “supporto politico”. Ferraro avverte di quanto sta accadendo Borsellino, amico fraterno di Falcone e favorito nella corsa alla poltrona di procuratore nazionale antimafia. Intanto Giovanni Brusca, il boss oggi pentito che ha azionato il telecomando di Capaci, si sta già muovendo con pedinamenti e sopralluoghi per far fuori Mannino. Ai primi di giugno il ministro Dc viene però avvertito da un colonnello dell’Arma (chi?) dei rischi che sta correndo. Visibilmente teso lo racconterà lui stesso in un colloquio dell’8 luglio con Antonio Padellaro, allora vicedirettore de L’Espresso (il settimanale lo pubblicherà in parte a fine luglio e integralmente nel 1995). Mannino dice: “Secondo i carabinieri c’è un commando pronto ad ammazzarmi”. L’ufficiale gli ha consegnato un rapporto di sette pagine con sopra stampigliata la parola “segreto” in cui è riassunta tutta la strategia di morte di Cosa Nostra. Mannino – che oltretutto annovera nella sua corrente molti esponenti legati ai clan – sa dunque perfettamente cosa sta accadendo. E nella conversazione spiega pure che Lima è stato ucciso per non aver potuto rispettare i patti sul maxi-processo.

Le paure di Mannino sono però destinate a rientrare. Salvatore Biondino, un colonnello di Riina, sempre a giugno comunica a Brusca che il progetto di omicidio è sfumato. La mafia ha cambiato strategia. Nel mirino all’ultimo momento è stato messo Borsellino che morirà il 19 luglio in via D’Amelio. Perché? Oggi gli investigatori riflettono su due episodi. I presunti incontri precedenti alla bomba di via D’Amelio tra Mori e don Vito Ciancimino in cui vennero avanzate le prime richieste allo Stato. E la nascita del governo Amato del 28 giugno. A sorpresa il ministro dell’Interno Vincenzo Scotti (durissimo con Cosa Nostra), viene sostituito da Nicola Mancino (sinistra Dc come Mannino). Mentre pure Martelli (contrario a ogni ipotesi di trattativa) per qualche giorno, su proposta di Bettino Craxi, rischia di perdere la poltrona di guardasigilli. “Ero preoccupato”, ha spiegato l’ex ministro, “era come si fosse esagerato con la lotta alla mafia…Il messaggio pareva essere: ‘Troviamo una forma più blanda di contrasto, ci abbiamo vissuto per 50 anni’”. Il risultato è comunque che Cosa Nostra lascia perdere i politici (tranne Martelli, intorno alla cui casa ancora il 4 dicembre si aggirano boss impegnati in sopralluoghi) e si dedica invece a Borsellino, notoriamente contrario ad ogni ipotesi di patto. La trattativa aveva dunque come obiettivo la loro sopravvivenza? O semplicemente i politici si sono salvati in conseguenza della trattativa? Il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso, lo scorso dicembre, sembrava propendere per la seconda ipotesi: “Probabilmente”, diceva, “i mafiosi cambiarono obiettivo perché capirono che non potevano colpire chi avrebbe dovuto esaudire le loro richieste”. Oggi però sappiamo che quell’elenco di politici da ammazzare, già a giugno, era in gran parte noto. E la storia potrebbe cambiare. Di molto.

Peter Gomez (il Fatto Quotidiano, 8 aprile 2010)

Antimafia Duemila – Il vice di Provenzano parla con i pm. Pino Lipari: ”Il papello ai carabinieri”

Fonte: Antimafia Duemila – Il vice di Provenzano parla con i pm. Pino Lipari: ”Il papello ai carabinieri”.

di Salvo Palazzolo – 31 marzo 2010

Il boss che faceva da “ministro dei lavori pubblici” del capo di Cosa nostra accetta di farsi interrogare dai magistrati che indagano sulla trattativa  e conferma alcuni passaggi della ricostruzione di Massimo Ciancimino, che intanto ha ritrovato un documento del padre su Dell’Utri.

Il vice di Provenzano parla con i pm Pino Lipari: “Il papello ai carabinieri”

Dopo anni di carcere, oggi dice: “Io ritengo in cuor mio di aver riscoperto i valori delle istituzioni. Perché troppi guai ho avuto, una famiglia distrutta e tutto il resto. Ecco perché rispondo”. Pino Lipari, 74 anni, il ministro dei lavori pubblici di Bernardo Provenzano, resta ancora uno degli irriducibili di Cosa nostra (nonostante i buoni propositi annunciati), ma accetta di parlare con i magistrati di Palermo che indagano sulla trattativa fra pezzi dello Stato e la mafia. Il boss (ormai tornato in libertà) ha spiegato ai pm Nino Di Matteo e Antonio Ingroia di aver discusso del papello con Vito Ciancimino, durante un incontro all’hotel Plaza di Roma.

“Era l’inizio di dicembre 1992  –  tiene a precisare Lipari, che sembra avere la preoccupazione di tenersi lontano dalla trattativa  –  era dopo questi eventi”. Ciancimino gli avrebbe detto: “Il papello l’ho consegnato al capitano De Donno”. I magistrati hanno chiesto a Lipari di cosa si parlò durante quell’incontro romano. Il boss dice: “Ciancimino mi tenne mezz’ora, tre quarti d’ora. Mi spiegò che il papello riguardava una richiesta di abolizione del 41 bis e anche l’abolizione degli ergastoli. Mi fece un quadro di tutta la situazione”. Era stato Ciancimino a volere l’incontro al Plaza. “Forse voleva che io riferissi a Provenzano”, accenna Lipari, che poi racconta pure del suo incontro con il boss corleonese, qualche tempo dopo: “Il ragionamento di Provenzano era questo. Per assurgere a dignità di trattativa non poteva essere solo il colonnello Mori a chiedere un discorso di questo tipo… per parlare di queste cose ci deve essere dietro una cappa di protezione, che sono cose superiori, istituzioni”.

In un interrogatorio del luglio scorso, Lipari sostiene di avere saputo del papello anche da un altro protagonista della trattativa, Antonino Cinà, il medico di Totò Riina. Ma solo nel 2000. “Cinà ha avuto il papello da Riina (…) Era dentro una busta, che poi fu consegnata a Ciancimino”. Lipari riferisce ai magistrati anche alcune parole di Cinà: “Vito mi disse che c’era questa trattativa”. E ancora: “Mi disse, c’è una trattativa che vogliono fare per vedere di finire ste stragi”.

Lipari aveva già accettato di parlare con i magistrati di Palermo nel 2002, ma all’epoca il procuratore Piero Grasso aveva ritenuto poco attendibile il suo racconto. Durante alcune intercettazioni in carcere, infatti, il boss diceva ai familiari di aver “aggiustato” le dichiarazioni ai pm riguardanti i rapporti mafia e politica e poi quelle sui beni di Cosa nostra. Otto anni dopo, per la Procura di Palermo le parole di Lipari sono diventate un importante riscontro al racconto offerto da Massimo Ciancimino sulla trattativa. Così, i verbali con la testimonianza del padrino sono finiti nel processo che vede imputato il generale dei carabinieri Mario Mori di aver coperto la latitanza di Bernardo Provenzano. Dopo le dichiarazioni di Ciancimino, anche il capitano De Donno è finito sotto inchiesta.

Tratto da: palermo.repubblica.it

Antimafia Duemila – Requisitoria al processo Dell’Utri, per il procuratore strinse un patto con i clan

Fonte: Antimafia Duemila – Requisitoria al processo Dell’Utri, per il procuratore strinse un patto con i clan.

Si è incentrata sul presunto patto stretto tra la mafia e il senatore Marcello Dell’Utri la requisitoria del pg Nino Gatto, pubblica accusa al processo d’appello al parlamentare del Pdl.
Gatto concluderà il suo intervento alla prossima udienza, fissata per il 16 aprile, con la richiesta di pena. L’imputato, in primo grado, è stato condannato a 9 anni per concorso in associazione mafiosa.

A sostegno del presunto accordo tra Dell’Utri e la mafia il pg ha citato, tra l’altro, due intercettazioni – una del 1999 e una del 2001 – in cui emergerebbe che l’imputato avrebbe chiesto voti a Cosa nostra e si sarebbe messo a disposizione delle cosche. Nella prima intercettazione, avvenuta nell’autoscuola palermitana in cui il boss Bernardo Provenzano organizzava i suoi summit durante la latitanza, il mafioso Carmelo Amato avrebbe espressamente fatto riferimento all’accordo elettorale stretto da Dell’Utri con i clan. La seconda intercettazione è relativa a una conversazione del boss Giuseppe Guttadauro che faceva cenno a “impegni presi da Dell’Utri con la mafia”.

Il pg ha citato come significativo del patto tra mafia e politica il disegno di legge, portato avanti nel 1994, col sostegno del presidente della commissione giustizia del Senato dell’epoca Tiziana Maiolo, che prevedeva modifiche al regime delle misure cautelare per i reti di mafia da cui i boss avrebbero tratto benefici. Ma il provvedimento non venne approvato perché il governo Berlusconi cadde. Solo successivamente diventò legge, ma senza le modifiche favorevoli ai mafiosi. Il pg ha citato poi le dichiarazioni del capomafia agrigentino Maurizio Di Gati che aveva appreso di un particolare impegno della Maiolo a favore dell’approvazione del testo. Al termine dell’udienza la corte ha indicato nel 4 giugno la possibile data dell’inizio della camera di consiglio per il verdetto.

Antimafia Duemila – Processo Dell’Utri: Il senatore contribui’ alla trattativa

Fonte: Antimafia Duemila – Processo Dell’Utri: Il senatore contribui’ alla trattativa.

di Monica Centofante – 19 marzo 2010
Palermo.
“Marcello Dell’Utri contribuì alle trattative del ’93-’94 tra lo Stato e Cosa Nostra, come già risultava prima delle dichiarazioni del pentito Gaspare Spatuzza”.

E’ la ricostruzione presentata in aula questa mattina dal procuratore generale Antonino Gatto, che dopo l’interruzione sopraggiunta per consentire l’audizione dello stesso Spatuzza e dei boss Giuseppe e Filippo Graviano, ha ripreso la requisitoria al processo contro il senatore del Pdl. Accusato di concorso esterno in associazione mafiosa e condannato in primo grado a nove anni di reclusione.
Nel corso dell’udienza, durata oltre quattro ore, il pg ha illustrato alla Corte, presieduta dal giudice Claudio Dell’Acqua, le “prove tangibili dei rapporti tra l’imputato e importanti elementi di spicco legati a Cosa Nostra”. Partendo dal boss Stefano Bontade e da contatti avvenuti a cavallo tra il 1974 e il 1975 per poi concentrarsi sui primi anni Novanta. Più precisamente tra il 1992 e il 1994, gli anni bui delle stragi, quando Marcello Dell’Utri “intratteneva saldi rapporti con i fratelli Graviano”. Che tra le altre cose “gli raccomandarono il calciatore Giuseppe D’Agostino, figlio di un loro uomo, perche’ venisse fatto giocare nel Milan” e “che trascorrevano la latitanza a Milano”.
Una cosa, quest’ultima, anomalissima, come aveva sottolineato il pentito Gaspare Spatuzza, che dei Graviano era un uomo di fiducia e che da loro avrebbe poi ereditato la guida del mandamento di Brancaccio.
In quegli anni, ha spiegato Gatto ripercorrendo le dichiarazioni del pentito e di altri prima di lui, “i Graviano erano interessati a Sicilia Libera”. Un movimento di tipo separatista, o almeno autonomista, che aveva l’obiettivo di costruire una nuova forza politica tutta siciliana e tutta mafiosa. E che avrebbe dovuto sopperire alla mancanza di referenti politici che in quel periodo caratterizzava Cosa Nostra, alla disperata ricerca di agganci affidabili dopo la fine dello storico legame con la Democrazia Cristiana e il fallimento dei rapporti con il Psi.
L’esperimento Sicilia Libera, come hanno dichiarato diversi collaboratori di giustizia, fu poi accantonato e lasciato alla deriva perché l’associazione mafiosa siciliana aveva spostato la sua attenzione verso un’altra formazione politica, e precisamente verso Forza Italia. Come spiega in particolare Antonino Giuffré, al tempo braccio destro di Bernardo Provenzano. Lo stesso Provenzano, ha proseguito Gatto ricordando le parole del Giuffré già riportate nella sentenza di primo grado, che “uscì allo scoperto” e per la prima volta si assunse la responsabilità in prima persona e disse: “Ci possiamo fidare”.
Una ricostruzione che si sposa perfettamente con il racconto di Spatuzza, che dalle parole del boss Giuseppe Graviano aveva dedotto l’esistenza in quegli anni di una trattativa tra Cosa Nostra e lo Stato che avrebbe portato benefici per tutti, carcerati compresi. E che sarebbe poi andata a buon fine. Almeno secondo quanto gli avrebbe riferito lo stesso boss di Brancaccio nel corso di un incontro a due al Bar Doney di Via Veneto, a Roma. “In quell’occasione – ha detto il pg – col petto gonfio di gioia il capomafia disse di avere trovato ‘persone serie’ che gli avrebbero consentito di mettersi il Paese nelle mani”: ossia “Berlusconi e un nostro compaesano Dell’Utri”. Un soggetto, aveva dichiarato a verbale Spatuzza, “vicinissimo a Cosa Nostra”.
Sull’attendibilità del pentito, Gatto ha poi incentrato la parte centrale della sua requisitoria, che si protrarrà almeno per un’altra udienza prima di cedere il passo all’arringa dei difensori.
Anche se “nessun organo giudicante si è ancora pronunciato sulla sua attendibilita’” ha sottolineato, “l’origine della sua collaborazione costituisce un criterio ineludibile di verifica”: per la genesi del pentimento, che trae origine da un percorso spirituale, confermato da esponenti ecclesiastici che l’hanno seguito, nel “camminino di fede”; per il grado di certezza che accompagna le sue rivelazioni; per il parere positivo espresso dalle procure di Firenze, Palermo e Caltanissetta alla sua ammissione al programma di protezione.  “Dopo che le sue nuove dichiarazioni, come quelle relative alla strage di Via D’Amelio, hanno indotto la procura di Caltanissetta a riaprire le indagini”.
La nuova udienza del processo è aggiornata al 26 marzo prossimo con la prosecuzione della requisitoria che, salvo imprevisti, dovrebbe concludersi il 9 aprile.

Antimafia Duemila – Pg: ”Dell’Utri contribui’ a trattativa, Provenzano si fidava”

Fonte: Antimafia Duemila – Pg: ”Dell’Utri contribui’ a trattativa, Provenzano si fidava”.

“Alle trattative del periodo ’93-’94 tra lo Stato e Cosa nostra contribui’ Marcello Dell’Utri come gia’ risultava prima delle dichiarazioni di Gaspare Spatuzza”. Lo ha detto il procuratore generale Antonino Gatto, nella udienza dedicata alla requisitoria del processo contro il senatore del Pdl Marcello Dell’Utri, imputato di concorso in associazione mafiosa e condannato in primo grado a 9 anni. “A Milano Dell’Utri aveva rapporti con i fratelli boss di Brancaccio, Giuseppe e Filippo Graviano – ha detto Gatto -. I Graviano erano interessati al movimento politico ‘Sicilia libera’, poi confluito in Forza Italia. I due fratelli erano latitanti a Milano e avevano saldi rapporti con l’imputato, al punto che gli raccomandarono il calciatore Giuseppe D’Agostino, figlio di un loro uomo, perche’ venisse fatto giocare nel Milan”. Il Pg si e’ soffermato a lungo sulla “natura politica” dei discorsi fatti da Giuseppe Graviano a Spatuzza al bar Doney di Roma e a Campofelice di Roccella: “In quelle occasioni, col petto gonfio di gioia – ha proseguito il Pg – il boss disse di avere trovato ‘persone serie’ che gli avrebbero consentito di mettersi il Paese nelle mani: Berlusconi e Dell’Utri”. Gatto si e’ soffermato a lungo sui contatti che, tra la fine del ’93 e il gennaio ’94, “avrebbero dovuto portare benefici per tutti, compresi i carcerati. Si attendevano – ha aggiunto il rappresentante dell’accusa – provvedimenti e interventi da chi doveva fare le leggi. E questo era lo scopo di Graviano, ma non solo. Secondo quanto ha riferito un altro collaborante, Nino Giuffre’, anche Bernardo Provenzano usci’ allo scoperto in quello stesso periodo e disse: ‘Ci possiamo fidare'”.

Pg: Spatuzza è attendibile

19 marzo 2010
Palermo.
Si incentra tutta sulla attendibilità del pentito Gaspare Spatuzza la parte centrale della requisitoria del pg Nino Gatto, pubblica accusa al processo per concorso esterno in associazione mafiosa al senatore del Pdl Marcello Dell’Utri, ripresa questa mattina dopo una lunga pausa. Tre, secondo il pg Nino Gatto, gli argomenti che proverebbero l’attendibilità del collaboratore: la genesi del suo pentimento che trae origine da un percorso spirituale, confermato da esponenti ecclesiastici che l’hanno seguito, nel “camminino di fede”; l’ok delle procure di Firenze, Palermo e Caltanissetta alla sua ammissione al programma di protezione e il grado di certezza che accompagna le rivelazioni del pentito. “Spatuzza – dice Gatto – sa bene che portata hanno le sue dichiarazioni tanto che paragona l’effetto delle sue verità sulla strage di via D’Amelio, che hanno indotto i magistrati a riaprire l’inchiesta, alla rivelazione ‘a uno che ha fatto un palazzo di 10 piani che ha utilizzato cemento depotenziato'”. Gatto ha giustificato le originarie titubanze del pentito nel parlare dei rapporti tra mafia e politica con il timore delle conseguenze che certe rivelazioni avrebbero avuto. Infine il pg ha ripetuto i tratti salienti delle dichiarazioni del collaboratore sull’imputato. In particolare Gatto ha fatto riferimento al racconto di Spatuzza sull’incontro che questi avrebbe avuto, a gennaio del ’94, a Roma col boss Giuseppe Graviano. In quell’occasione il capomafia avrebbe detto al pentito che “avevano chiuso tutto grazie a due persone: Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi”, facendo intendere con queste parole l’esistenza di un accordo tra la mafia e la politica.

Il colonnello del Quirinale nella trattativa

Fonte: Il colonnello del Quirinale nella trattativa.

Scritto da Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza

Perquisì la casa di Ciancimino ma gli sfuggì il “papello” Stato-Mafia

Tutti insieme appassionatamente. Ufficiali in divisa, intermediari, capi mafiosi e “aiutanti”: tutti protagonisti a partire dal 1992 della trattativa tra Cosa nostra e lo Stato. Sarebbero una decina, fino a questo momento, le persone indagate dalla procura di Palermo nell’ambito dell’inchiesta sul negoziato, dai contorni ancora oscuri, tra i rappresentanti delle istituzioni e i boss corleonesi aperto nel periodo a cavallo tra la strage di Capaci e quella di via D’Amelio.

IL COLONNELLO. Da oggi nel fascicolo dei pm Paolo Guido e Nino Di Matteo c’è anche il nome di un colonnello dei carabinieri, in servizio presso il nucleo del Quirinale: Antonello Angeli, indagato per favoreggiamento: “Per aver aiutato diversi soggetti coinvolti nella trattativa, omettendo di sequestrare i documenti” rinvenuti nella villa all’Addaura di Massimo Ciancimino, durante la perquisizione del 17 febbraio 2005. Tra questi c’era anche il famigerato “papello” custodito con altre carte all’interno di una cassaforte, che non fu neppure aperta.


Con il colonnello Angeli sono indagati il generale Mario Mori e il suo ex braccio destro Giuseppe De Donno, quest’ultimo sospettato – in base all’articolo 338 del codice penale – di violenza o minaccia ad un corpo politico, amministrativo o giudiziario dello Stato. All’ex ufficiale del Ros viene contestata anche l’aggravante dell’articolo 339 del codice penale, che sanziona l’aver commesso il fatto in piu’ di 10 persone. Altri indagati nella stessa inchiesta sono i boss corleonesi Totò Riina e Bernardo Provenzano, e il “mediatore” Antonino Cinà, il medico di Riina che fece da postino tra i boss e don Vito Ciancimino, consegnando proprio al figlio Massimo il foglio con la lista dei benefici che Cosa nostra pretendeva in cambio della fine dello stragismo: richieste, sostiene Massimo, da far pervenire agli ufficiali del Ros. Tra gli indagati per la trattativa sembra ci siano anche il misterioso Carlo-Franco, i due agenti dei servizi riconosciuti da Massimo Ciancimino, e con tutta probabilità lo stesso figlio di don Vito che nella vicenda, per sua stessa ammissione, ha svolto un suo ruolo più che significativo. E’ lui, Massimo, l’unico che su quel negoziato non risparmia notizie e particolari. Il suo racconto è la ricostruzione di una serie di incontri tra il padre e i carabinieri del Ros, culminata con la consegna del “papello” da parte di Totò Riina e la successiva cattura di quest’ultimo al centro di Palermo. Gli altri indagati sembrano molto meno loquaci. Interrogati ieri dai pm di Palermo, l’ex ufficiale del Ros De Donno e il colonnello Angeli hanno preferito avvalersi della facoltà di non rispondere. L’ufficiale dei carabinieri in servizio presso la Presidenza della Repubblica si è presentato al Palazzo di giustizia ieri mattina, accompagnato dal suo difensore di fiducia, l’avvocato Salvatore Orefice; e quando i pm Guido e Di Matteo gli hanno contestato l’accusa di favoreggiamento, fornendo come elementi di prova le dichiarazioni di Massimo Ciancimino, ha preferito tacere. Il figlio di don Vito ha raccontato che quella cassaforte, contenente importanti documenti relativi alla trattativa, era ben visibile ma non e’ stata ispezionata. Secondo gli inquirenti, il comportamento di Angeli sarebbe stato finalizzato proprio ad evitare il ritrovamento di manoscritti dell’ex sindaco e altre prove che avrebbero potuto documentare il negoziato condotto dagli esponenti del Ros.

LA TELEFONATA. Ciancimino ha raccontato che quel giorno, il 17 febbraio del 2005, si trovava a Parigi quando ricevette una telefonata dal fratello che lo avvisava che c’era in corso una perquisizione nella sua abitazione dell’Addaura. Ciancimino ha poi aggiunto che gli fu passato al telefono il capitano dei carabinieri che coordinava la perquisizione (Massimo lo indica come “il capitano Angelini o Gentilini”) al quale lui disse di rivolgersi al custode della casa, Vittorio Angotti, per qualsiasi necessità, compresa la disponibilità di chiavi utili alla perquisizione. Il figlio di don Vito ha detto che a quel punto parlò al telefono con Angotti e gli chiese se i carabinieri avessero visto la cassaforte. Angotti – ha concluso Massimo nel verbale del 30 luglio 2009 – rispose che i militari non avevano chiesto nulla . Nella cassaforte, secondo Ciancimino jr, oltre a denaro contante e ad alcuni orologi di pregio, c’era anche il “papello”.
Anche De Donno, che da qualche anno ha lasciato l’Arma, ieri ha preferito non parlare. Secondo Ciancimino jr, De Donno sarebbe stato protagonista degli incontri con Vito Ciancimino e i boss per fermare la stagione delle stragi del 1992. Tra le fonti di prova che i pm hanno elencato all’ex capitano del Ros, anche le testimonianze dell’ex guardasigilli Claudio Martelli e dell’ex direttore degli Affari penali del ministero della Giustizia, Liliana Ferraro. Quest’ultima, nell’autunno scorso, raccontò ai pm di essere stata avvicinata da De Donno in un arco di tempo tra il 21 e il 28 giugno del ’92. In quell’incontro l’ex ufficiale le avrebbe comunicato che il Ros aveva avviato ”un’iniziativa investigativa” con Vito Ciancimino. Notizia che la Ferraro passò poi a Borsellino il 28 giugno. Tre settimane prima che il giudice fosse assassinato.

Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza (il Fatto Quotidiano, 11 marzo 2010)

La cassaforte invisibile del ‘papello’


Palermo, 11 marzo 2010.
Tutto nasce da una perquisizione in una villetta al  numero 3621 di lungomare Cristoforo Colombo a Palermo, all’Addaura, al confine con Mondello. È il 17 febbraio del 2005 la casa è quella di Massimo Ciancimino che è indagato per riciclaggio. Lui è fuori città e viene informato della perquisizione. Comunica al personale in casa di collaborare ed aprire la cassaforte .

Passano gli anni ed è Massimo Ciancimino, interrogato dai magistrati, a tornare su quella perquisizione. Come mai, si chiede, non fu vista e non fu aperta la cassaforte? Si trattava pur sempre di una indagine per riciclaggio.

Ciancimino  racconta ai magistrati che in quella cassaforte si trovava sia il cosiddetto ‘papello’, cioè le richieste di Cosa Nostra nella trattativa con  uomini dello Stato  per interrompere le stragi, sia  il ‘contro-papello’, le proposte di Vito Ciancimino. Eppure nel verbale della perquisizione non c’è traccia di quella cassaforte e del suo contenuto.

Il 30 luglio dello scorso anno i sostituti procuratori Di Matteo e Scarpinato tornano in quella villetta e si rendono conto che quella cassaforte era impossibile non vederla.

Il 10 marzo di questo anno viene sentito il maggiore Antonello Angeli, responsabile di quella perquisizione: è accusato di favoreggiamento aggravato per avere aiutato  più persone ad eludere le investigazioni “in merito alla vicenda della cosiddetta trattativa tra i vertici di Cosa Nostra e rappresentanti dello Stato omettendo dolosamente di sequestrare  documenti di evidente interesse processuale” .

A favore di questa accusa non ci sarebbero  solo l’ispezione dei magistrati dello scorso luglio e le dichiarazioni di Massimo Ciancimino, ma anche le dichiarazioni di altri testi su quanto è accaduto durante e successivamente la perquisizione. In altre parole, qualcuno tra i partecipanti a quella perquisizione avrebbe raccontato che il cosiddetto papello che per il generale Mori non sarebbe mai esistito, in realtà fu  trovato, ma rimesso nella cassaforte da dove era stato preso.

Né del papello, né della cassaforte fu mai fatta menzione.

Davanti alle contestazioni dei magistrati il maggiore Antonello Angeli, ora in forze al gruppo dei Carabinieri per la sicurezza del Presidente della Repubblica, ha deciso di avvalersi della facoltà di non rispondere. Stessa decisione è stata presa dal Colonnello Giuseppe De Donno.

Maurizio Torrealta (Rainews24, 11 marzo 2010)

La doppia pista su faccia da mostro

La doppia pista su faccia da mostro.

Un discusso agente segreto, con un piede nello Stato e uno nelle cosche, e un dipendente regionale vicino a Ciancimino

Le “facce da mostro” che giravano in Sicilia negli anni delle stragi erano due: un discusso agente segreto, con un piede nello Stato e l’altro nelle cosche, e un dipendente regionale vicino all’ex sindaco Ciancimino, che suo figlio Massimo avrebbe già identificato. Entrambi sarebbero morti: il primo nel 2004, il secondo due anni prima. Due ombre, tanti sospetti e solo poche certezze, in quanto solo uno di loro, il dipendente regionale, è stato recentemente identificato, attraverso una foto. A dare un nome a quel volto, con quella vistosa cicatrice sulla guancia destra, è stato, per l’appunto, Massimo Ciancimino, il figlio del boss don Vito, quello del “papello” e della trattativa tra Stato e mafia. Due volti sfigurati, inguardabili e indimenticabili, rimasti impressi nella memoria di decine di testimoni e di cui – a distanza di vent’anni da quella stagione di sangue – si sa davvero ancora poco.

La spia

La prima misteriosa figura, che entra ed esce dalle oscure vicende siciliane apparterrebbe a un agente del Sisde, il servizio segreto civile (oggi Aisi). Secondo i racconti di alcuni testimoni – che lo chiamano in causa in almeno quattro vicende (tre delitti ed almeno un fallito attentato) – aveva un volto sfigurato, paragonabile solo a quello di un mostro, ma nulla a che fare con il dipendente regionale. Nelle storie di mafia, “faccia da mostro”, c’è dentro fino al collo. Gli inquirenti pare non lo abbiano ancora identificato e pare che non sia servito a nulla il tentativo, compiuto il 18 novembre dai magistrati di Palermo e Caltanissetta, di ottenere nuove informazioni dal Dipartimento delle informazioni per la sicurezza, attraverso un ordine di esibizione di atti del Sisde e del Sismi, finora rimasti riservati.


Gli affari riservati

Tuttavia, secondo quanto è riuscito a ricostruire Il Punto, “faccia da mostro” sarebbe stato un sottoufficiale della polizia di Stato, di origini siciliane. Per anni, almeno così pare, in servizio presso l’ufficio affari riservati del Ministero dell’Interno, alle dipendenze di Federico Umberto D’Amato (tessera P2 n. 554). Poi, intorno al ’84, il misterioso agente segreto sarebbe transitato nella sezione “criminalità organizzata” del centro Sisde di Palermo (via Notarbartolo). Tra l’89 ed il ’92 era alle dirette dipendenze di Bruno Contrada, il numero tre del Servizio condannato nel 2007 a 10 anni per concorso esterno in associazione mafiosa. “Faccia da mostro” sarebbe rimasto in servizio a Palermo fino al ’96 e tutta la sua carriera si sarebbe svolta lì, poi la pensione e una collaborazione esterna con il Sisde che si sarebbe definitivamente conclusa nel ’99. Scompare, a causa del tumore che nel frattempo gli ha aggredito il volto, nel 2004.


Il pentito

Ne parla anche la “gola profonda” Luigi Ilardo, il mafioso, vicerappresentante provinciale di Caltanissetta, cugino e braccio destro del boss Giuseppe “Piddu” Madonia, che nel ’95 aveva messo sulle tracce di Bernardo Provenzano i carabinieri, ma un anno dopo gli tapparono per sempre la bocca. Ilardo confidò al colonnello Michele Riccio del Ros che a Palermo c’era un agente segreto con la faccia da mostro che frequentava strani ambienti, uno chiaccherato: insomma un uomo dello Stato che stava dalla parte sbagliata, antipatico ai mafiosi solo per via di quella faccia. Il confidente, parlando dello strano agente segreto, disse agli inquirenti: “Di certo questo agente girava imperterrito per le strade di Palermo. Stava in posti strani e faceva cose strane”.


Il fallito attentato

Il suo nome, anzi il suo soprannome, comincia a saltare fuori nell’89, quando a parlare di lui è una donna che poco prima del ritrovamento di un ordigno vicino la villa di Giovanni Falcone, all’Addaura, lo notò da quelle parti, dentro un’auto, insieme a un altro individuo. La donna se lo ricorda proprio perché il suo volto era inguardabile. Era il 21 giugno 1989, Falcone aveva affittato per il periodo estivo quella villa sulla costa palermitana. Introno alle 7.30 tre agenti di scorta trovano sugli scogli, a pochi metri dall’abitazione, una muta subacquea, un paio di pinne, una maschera ed una borsa sportiva blu contenente una cassetta metallica. Dentro c’è un congegno a elevata potenzialità distruttiva. La bomba non esplode, l’attentato fallisce.


Delitto 1

“Faccia da mostro” è legato anche a una lunga scia di sangue e strane morti, come l’omicidio dell’agente di polizia Antonino Agostino e di sua moglie Ida Castellucci, avvenuto il 5 agosto 1989 a Villagrazia di Carini. Agostino dava la caccia ai latitanti, pare anche per conto del Sisde, e sembra avesse informazioni sul fallito attentato all’Addaura. Le indagini non hanno mai chiarito, fino in fondo, come sono andate le cose, però sembra che l’agente, poco prima di morire, avesse ricevuto in casa una strana visita, quella di un collega con la faccia deforme. A dirlo è suo padre, Vincenzo, che riferì agli inquirenti che un giorno notò “faccia da mostro”, uno “con il viso deforme che prendeva o gli dava notizie”, vicino l’abitazione del figlio. Per lui, quell’uomo, era inguardabile: “Quell’uomo è venuto a casa mia, voleva mio figlio. Quel tizio non è soltanto implicato nei fatti di Capaci e via D’Amelio, ha fatto la strage in casa mia, quella in cui sono morti – disse ai magistrati il padre di Agostino – mio figlio Nino, mia nuora e mia nipote. Due persone vennero a cercare mio figlio al villino. Accanto al cancello, su una moto, c’era un uomo biondo con la faccia butterata. Per me era faccia da mostro”.


Delitto 2

Un altro pesante sospetto lega “faccia da mostro” a un altro delitto, quello dell’ex agente di polizia Emanuele Piazza. Il suo nome in codice era “topo”, collaborava anche lui con il Sisde, era amico di Nino Agostino, ma non era ancora un effettivo. Figlio di un noto avvocato palermitano, era un infiltrato e dava la caccia ai latitanti quando, il 15 marzo 1990, scompare nel nulla. Molti anni dopo si saprà che fu “prelevato” con un tranello dalla sua abitazione da un ex pugile, vecchio compagno di palestra, portato in uno scantinato di Capaci, ucciso e sciolto nell’acido. Cercava la verità sulla morte del suo amico Antonino Agostino, forse l’aveva anche trovata, e anche lui sapeva qualcosa dell’Addaura.


Faccia da mostro-bis

“La Dia, incaricata dalla procura, – scrive Salvo Palazzolo nel libro “I pezzi mancanti” (Editori Laterza, 2010), – individua un dipendente regionale, già interrogato dopo il delitto Piazza, perché il suo nome era contenuto nell’agendina della vittima. E’ affetto da “cisti lipomatosa” nella parte destra del viso, risulta deceduto nel 2002. Le indagini – prosegue Palazzolo nella sua ricostruzione – dicono pure che ha fatto parte del comitato di gestione di un’unità sanitaria locale, su indicazione dell’ex sindaco condannato per mafia Vito Ciancimino”.


Delitto 3

Una traccia che lega l’agente segreto con la faccia da mostro a un’altra vicenda di sangue arriva addirittura dal lontano ’86 ed è ancora il pentito Luigi Ilardo a chiamarlo in causa. Siamo a Palermo, quartiere di San Lorenzo, è il 7 ottobre ’86, un bambino di 11 anni, Claudio Domino, viene ucciso mentre sta rientrando a casa. Lo freddano su un marciapiede, a colpi di pistola. Suo padre è il titolare di un’impresa di pulizie che lavora anche nell’aula bunker, ma non è un mafioso. Due pentiti raccontano che ad uccidere il bambino sarebbe stato l’amante di sua madre (poi giustiziato da Cosa Nostra) perché li avrebbe visti insieme. Secondo un altro boss, il piccolo Claudio Domino sarebbe stato ucciso (da un altro killer poi eliminato) perché, sbirciando in un magazzino, avrebbe visto confezionare alcune dosi di eroina. I giudici, tuttavia, crederanno ai primi due pentiti, accreditando la versione che il bambino vide l’amante di sua madre e per questo fu giustiziato. Ilardo, tuttavia, riferisce agli inquirenti che quel giorno, nel quartiere San Lorenzo, mentre veniva assassinato quel bambino, c’era anche “faccia da mostro”.


Fabrizio Colarieti (
www.ilpuntontc.it, 11 marzo 2010)

Antimafia Duemila – Ciancimino, ma quali ciance

Fonte:Antimafia Duemila – Ciancimino, ma quali ciance.

di Marco Travaglio – 26 febbraio 2010

Lo scandalo Prostituzione&Corruzione Civile Spa ha scacciato dai giornali la lunga deposizione di Massimo Ciancimino sulle trattative Stato-mafia del 1992-93 e sui rapporti fra Berlusconi, Dell’Utri e Cosa Nostra.

Così l’ultima parola, anzi l’ultimo delirio sul caso è rimasto in appalto ai troppi commentatori interessati o improvvisati, tutti volti a squalificare l’attendibilità del rampollo dell’ex sindaco mafioso di Palermo. Non solo Berlusconi e i suoi house organ (‘Le ciance di Ciancimino’ e via sproloquiando). Non solo il ministro Alfano, al quale qualcuno dovrebbe spiegare che il suo compito è far funzionare la giustizia, non insegnare il mestiere a giudici e pm né rilasciare patenti di inattendibilità a pentiti e testimoni. Ma anche il sociologo Pino Arlacchi, eurodeputato Idv, e l’ex magistrato Giuseppe Di Lello, esponente del Prc: i due hanno sentenziato – non si sa in base a quale competenza specifica – che Ciancimino jr. racconta balle.

Chissà se han saputo che il 27 gennaio, mentre cianciavano a ruota libera, la II sezione del Tribunale di Palermo consacrava per la prima volta l’attendibilità del ‘dichiarante’ nelle motivazioni della condanna a 10 anni e 8 mesi per mafia dell’ex deputato regionale forzista Giovanni Mercadante. Contro di lui, fra gli altri, ha testimoniato Ciancimino jr. in veste di depositario dei segreti paterni. E ha detto la verità: “Ritiene il Tribunale di poter esprimere un giudizio di alta credibilità su quanto dichiarato da Massimo Ciancimino”, “racconto fluido e coerente, senza contraddizioni di sorta: ogni circostanza riferita ha trovato. ulteriori precisazioni e argomentazioni a riscontro”. “Quel che è certo”, scrivono i giudici, “e può indiscutibilmente affermarsi nel presente processo è che egli ebbe realmente modo di assistere a incontri tra il padre e Provenzano. che parlavano di affari, appalti mafia e politica”.

Questione non da poco, visto che proprio per il suo ruolo di trait d’union fra il genitore e Provenzano è ritenuto dalla procura un teste decisivo su papello, trattativa e origini di Forza Italia: “La vicinanza di Massimo Ciancimino al padre”, aggiunge il Tribunale, “ha fatto di lui un testimone, se non un protagonista di riflesso di incontri ed episodi, oggi al centro di interesse investigativo in quanto utili a ricostruire il perverso sistema di frequentazioni, alleanze e accordi politico-istituzionali che fece dei corleonesi un centro di potere oltre che un gruppo di assassini senza scrupoli, capaci di condizionare la storia politico-sociale-economica della Sicilia (e in parte della Repubblica) dagli anni 70 a buona parte dei 90”. Di più: “Le sue propalazioni. costituiscono riscontro indiretto alle affermazioni di collaboranti quali Giuffrè”. Già braccio destro di Provenzano, Giuffrè raccontò ben prima di Ciancimino e di Spatuzza il patto stipulato nel ’93 fra il boss e Dell’Utri per l’appoggio di Cosa Nostra alla nascente Forza Italia. Dopo questa sentenza, le ‘ciance’ potrebbero diventare riscontri.

Tratto da: L’espresso

Sabella: “Sapevo del patto tra lo Stato e Provenzano fin dal 1996”

Questa ricostruzione del patto stato mafia rischiara molti angoli bui e pare molto credibile:

Fonte: Sabella: “Sapevo del patto tra lo Stato e Provenzano fin dal 1996”.

Parla Alfonso Sabella, il magistrato “stritolato dalla trattativa”, come lo definì Marco Travaglio in un’intervista di qualche tempo fa su Il Fatto Quotidiano. Parla alla presentazione a Roma del libro “Il Patto” di Nicola Biondo e Sigrifdo Ranucci (1 febbraio 2010). Il libro che per la prima volta si addentra nelle carte del processo Mori-Obinu e racconta la storia incredibile di Luigi Ilardo, mafioso della famiglia di Piddu Madonia, confidente segreto del colonnello Michele Riccio, infiltrato in Cosa Nostra con il preciso obiettivo di condurre i Carabinieri alla cattura di Bernardo Provenzano, il capo indiscusso di Cosa Nostra dopo la cattura di Salvatore Riina. Quando Ilardo però, il 30 ottobre 1995, li porterà proprio all’uscio della masseria di Provenzano, dai vertici del Ros arriverà l’ordine di fermarsi e non intervenire. Oggi, i verbali di Massimo Ciancimino rimettono insieme i pezzi mancanti del puzzle e spiegano il perché di questa come di un’altra serie impressionante di coincidenze inquietanti. Parla Sabella e dice cose pesantissime e inedite, ma con la calma e la pacatezza che lo cottraddistinguono. Dice che in realtà anche prima delle dichiarazioni di Massimo Ciancimino si poteva sapere come erano andate davvero le cose. Lui e i suoi colleghi di Palermo, all’epoca delle indagini successive alle stragi, già avevano capito tutto. Ma non c’erano nè le condizioni giudiziarie, nè quelle politiche per poter giungere alla verità. Eppure era tutto troppo chiaro. Ora, dice Sabella, dopo 17 anni, sembrano esserci finalmente le condizioni giudiziarie. Quelle politiche, purtroppo, ancora no. E per quelle, si spera di non dover attendere altri 17 anni.
Di seguito i passi salienti del suo intervento.

Io sapevo


Quello che adesso sta emergendo, io come altri colleghi della procura di Palermo lo sapevamo già almeno dieci anni fa. Facciamo dodici. (…) Il patto non è stato uno, i patti sono stati tanti. Il primo aveva avuto dei tentativi di accordo, dei tentativi di trattativa, dei patti conclusi, dei patti che non hanno avuto buon esito e così si è andati avanti, almeno per quel che mi riguarda, a cavallo tra le stragi di Capaci e Via D’Amelio, probabilmente già prima della strage di Capaci, fino ai giorni nostri. (…) Queste cose erano già uscite nel lontano 1996, dopo la cattura di Giovanni Brusca. Brusca io l’ho interrogato tantissime volte, più di un centinaio, sono quello che l’ha catturato, quello che l’ha convinto a collaborare, quello che ha raccolto le sue dichiarazioni, ero in qualche modo il suo magistrato di riferimento. (…) Parlando con me mi ha raccontato del papello. Quello che adesso viene fuori dal papello, per esempio, il primo punto del papello, la revisione del maxiprocesso, non avevo bisogno di saperlo dal papello, perché lo sapevo già dal ’97 quando Brusca mi aveva detto che l’unica cosa che interessava a Salvatore Riina era la revisione del maxiprocesso. Del resto, i mafiosi non hanno un’etica, (…) gli interessa soltanto due cose: potere e denaro.  Denaro e potere. Non hanno nessun altro interesse. (…) E chi decide di trattare con questa gente si deve assumere le proprie responsabilità. Probabilmente adesso ci sono le condizioni giudiziarie perché si faccia luce su queste cose. Ma non ci sono certamente le condizioni politiche. A questo punto dicono: “Tu sei un magistrato, sei soggetto solo alla legge”. Secondo una certa equazione che ho visto all’inaugurazione dell’anno giudiziario, il magistrato è soggetto alla legge, le leggi le fa il parlamento, il magistrato è soggetto al parlamento. Del sillogismo mi sfugge qualche pezzo, probabilmente c’è qualcosa della logica che non riesco a comprendere bene, però questo è il sillogismo del nostro ministro. Fin quando un magistrato viene messo nelle condizioni di svolgere il suo lavoro e di essere giudice solo soggetto alla legge, le cose stanno in un certo modo, quando questo non si verifica, probabilmente le cose vanno in un modo un pochino diverso…


Paolo Borsellino era l’ostacolo principale alla trattativa

Ci sono stati punti oscuri. Io continuo a battere sulla mancata perquisizione del covo di Salvatore Riina. (…) Io con le cose che ho trovato in tasca a Bagarella ci ho arrestato 200 persone. Mi chiedo: che cosa si poteva fare con quello che avremmo trovato a casa di Salvatore Riina? Stiamo parlando del capo dei capi di Cosa Nostra. Questa è una cosa che nessuno sa, una chicca. La certezza che quella casa fosse la casa di Riina si è avuta soltanto per caso, perché non c’era alcuna prova, avevano imbiancato tutto, con i Carabinieri del Ros che avevano assicurato che avrebbero controllato quel covo con le telecamere. La certezza si è avuta soltanto perché in un battiscopa era finito un frammento di una lettera che Concetta Riina, la figlia di Riina, aveva scritto a una compagna di scuola. Soltanto per caso. E’ l’unica cosa che si è trovata. (…) Non è una cosa da sottovalutare. Perché secondo me è la chiave di lettura del patto che è raccontato in questo libro. Ovvero un patto che viene stipulato, concluso, sottoscritto. Mi assumo le mie responsabilità di quello che dico: patto da cui verosimilmente si determina la morte di Paolo Borsellino, perché Paolo Borsellino molto probabilmente viene ucciso a seguito di questo patto.
Ricapitoliamo. Viene ammazzato Giovanni Falcone, c’è un movente mafioso fortissimo per la strage di Capaci. Falcone è l’uomo che ha messo in ginocchio Cosa Nostra, che l’ha processata, che l’ha portata sul banco degli imputati, l’ha fatta finalmente condannare (sentenza del dicembre dell’86). Il 30 gennaio 1992 (perché le date sono importantissime) viene confermata dalla Cassazione la sentenza di condanna all’ergastolo per la cupola di Cosa Nostra. (…) Al 30 gennaio c’è la sentenza. Falcone in quel momento è al Ministero e viene accusato da Cosa Nostra di aver brigato, di aver fatto in modo che quel processo non finisse al collegio della prima sezione della Cassazione presieduta da Corrado Carnevale. Il 12 di marzo viene ammazzato Salvo Lima. Salvo Lima è l’uomo, secondo tutti i collaboratori di giustizia, ancorché non sia mai stato processato e condannato per questo, che era il referente politico di una determinata corrente della DC in Sicilia per conto di Cosa Nostra. Ovvero era il canale tra la politica e Cosa Nostra. A questo punto è normale che i nostri Servizi si diano da fare. Quindi io credo che i movimenti siano iniziati già prima della strage di Capaci. E’ soltanto un’ipotesi e null’altro. Sta di fatto che il 23 di maggio viene ammazzato Giovanni Falcone. Riina deve dire a Cosa Nostra che “questo cornuto” è morto, Cosa Nostra si è vendicata. Si prendono i classici due piccioni con una fava secondo i collaboratori di giustizia, perché Falcone viene ammazzato alla vigilia delle elezioni del presidente delle repubblica. In quel momento sapete benissimo chi era il candidato alla presidenza della repubblica (Giulio Andreotti, n.d.r.), persona che così, a seguito della strage di Capaci, non viene proposta e viene eletto poi un altro presidente della repubblica (Oscar Luigi Scalfaro, n.d.r.).


Tinebra ha creduto sempre a Scarantino, io mai

A questo punto ci sono quegli incontri di cui sta parlando Massimo Ciancimino. C’è un pezzo dello stato che va da Massimo Ciancimino e chiede: “Che cosa volete per evitare queste stragi?” Il messaggio a questo punto è arrivato chiaro allo stato. Noi stiamo eliminando tutti i nemici e gli ex-amici, quelli che ci hanno garantito delle cose che poi non ci hanno più dato. A questo punto arriva il papello. Il primo punto del papello è la revisione del maxiprocesso. (…) Ora abbiamo una vicenda inquietante. Il primo luglio del 1992 Paolo Borsellino viene convocato d’urgenza al Viminale dovi si incontra con il ministro dell’Interno di quel momento (Nicola Mancino, n.d.r.).  Il ministro dell’Interno di quel momento negherà sempre di avere avuto quell’incontro, incontro confermato dall’altro procuratore aggiunto di Palermo, il dottor Aliquò, di cui si trova traccia nell’agenda di Paolo Borsellino. Quella trovata, perché una poi è stata fatta sparire e non s’è mai trovata, l’agenda rossa. Su quella grigia annotava dettagliatamente “Ore 18:00, Viminale, Mancino”. Che cosa succede in quell’incontro? Non lo sappiamo. Possiamo fare un’ipotesi. Allora, se al primo punto del papello c’è la revisione del maxiprocesso, chi è l’ostacolo principale alla revisione del maxiprocesso? Il giudice che insieme a Giovanni Falcone ha firmato l’ordinanza-sentenza di quel maxiprocesso. Ha un nome e un cognome e si chiama Paolo Borsellino. Ipotizziamo che a Borsellino venga proposto di non protestare tanto in caso di una revisione del maxiprocesso e Paolo si rifiuti, che cosa succede? Paolo muore. (…)
Non ho mai creduto che Pietro Aglieri fosse il responsabile dell strage di Via D’Amelio. Pietro Aglieri è stato condannato sulla base delle dichiarazioni di Scarantino. Scarantino era il pentito di cui mi occupavo io a Palermo. E’ stato sempre dichiarato inattendibile, non l’ho mai utlizzato nemmeno per gli omicidi che confessava. Il dottor Tinebra l’ha utilizzato fino in fondo fino ad ottenere delle sentenze passate in giudicato. Io lo dicevo su una base logica. La strage di Via D’Amelio è talmente delicata che se l’ha fatta Riina, la doveva commissionare per forza ai suoi uomini più fidati, ovvero ai fratelli Graviano. Non poteva commissionarla a un uomo di Provenzano che è Pietro Aglieri.  (…)


La mancata perquisizione del covo di Riina è la chiave di tutto

Paolo muore: due piccioni con una fava. Da un lato si alza il prezzo della trattativa dalla parte di Salvatore Riina, dall’altra parte si elimina l’ostacolo alla revisione del maxiprocesso. Perchè a Riina interessavo solo quello. Questa è solo un’ipotesi però vi assicuro che ci sono tanti elementi che vanno in quella direzione. E la prova poi ne è in quello che è raccontato esattamente in questo libro. Il Patto. Il patto (e questo lo dico invece senza il minimo problema) che invece è stato stipulato a quel punto tra lo stato e un’altra parte di Cosa Nostra, che non era più Salvatore Riina, ma la parte “moderata” che si chiama Bernardo Provenzano. Perché quello da cui bisogna partire è che Cosa Nostra non è un monolite. Cosa Nostra non era unitaria, Cosa Nostra già in quel momento aveva delle spaccature. (…) Il patto prevede questo. Da un lato Provenzano garantisce la cattura di Salvatore Riina (ho più di un elemento per dire che Salvatore Riina è stato venduto da Provenzano e non me lo deve venire a dire Ciancimno adesso: lo sapevo già). (…) Provenzano garantisce che non ci sarebbero state più stragi e infatti non ce ne sono state più, vengono fatte nel ’93 dagli uomini di Bagarella, ovvero di Riina, fuori dalla Sicilia. Dall’altro lato ha avuto garantita l’impunità. Aveva avuta garantita la sua latitanza, come dimostra la vicenda Ilardo in maniera inequivocabile: una parte dell’Arma dei Carabinieri ha più che verosimilmente protetto e tutelato la latitanza di Bernardo Provenzano. Ma perché Provenzano fosse in grado di mantenere questo patto, questa è la novità di quello che sto dicendo, probabilmente una delle richieste era che venisse consegnato Riina, ma non l’associazione. Anzi. Che l’intera associazione mafiosa dovesse passare nelle mani di Bernardo Provenzano. E’ questa la ragione per cui a mio avviso non si perquisisce la casa di Riina. Perché nell’accordo Provenzano vende Riina, ma non vende l’associazione mafiosa. Tutto questo con il sigillo del nostro stato. L’impresa mafia. (…) Balduccio Di Maggio sarebbe quello che ha portato i Carabinieri a casa di Riina. Sappiamo benissimo (adesso Ciancimino lo dice) ma lo sapevamo già che non era così, perché i Carabinieri erano sul covo di Riina già prima che Di Maggio venisse arrestato, quindi figuriamoci… Se la magistratura di Palermo fosse entrata nel covo di Riina avrebbe non dico distrutto, ma avrebbe dato un colpo, se non mortale, quasi, all’associazione mafiosa.


Intervento del giudice Alfonso Sabella alla presentazione del libro “Il Patto” di Nicola Biondo e Sigfrido Ranucci
(1 febbraio 2010)
(trascrizione ed introduzione di Federico Elmetti)

LINK: Alfonso Sabella, un giudice stritolato dalla Trattativa (Marco Travaglio, il Fatto Quotidiano, 10 e 12 novembre 2009)

Il Patto (tra la mafia e lo Stato). Intervista a Nicola Biondo.

Fonte: Il Patto (tra la mafia e lo Stato). Intervista a Nicola Biondo.

I confini tra una parte (quanta?) dello Stato e la mafia sono sottili, spesso inesistenti. Viene persino il dubbio che l’Italia alla fine della Seconda Guerra Mondiale sia stata liberata dai mafiosi americani guidati da Lucky Luciano e non dagli Alleati (ma forse da tutti e due insieme alla CIA…). L’intervista a Nicola Biondo è sconvolgente, ma anche surreale. Ne emerge un gioco di specchi in cui scompare qualunque regola, ogni credibilità delle Istituzioni. Biondo descrive un girone infernale senza nessuna speranza di purgatorio o paradiso nel quale non precipitano i malvagi, ma i cittadini onesti: magistrati, poliziotti, politici, giornalisti in una mattanza nella quale la mafia è spesso il braccio armato di poteri protetti dallo Stato.

Intervista a Nicola Biondo

Il Patto tra Stato e mafia
“Mi chiamo Nicola Biondo, sono un giornalista freelance scrivo per L’Unità, con Sigfrido Ranucci, un inviato RAI abbiamo scritto un libro per Chiare Lettere, si intitola: “Il Patto. Da Ciancimino a Dell’Utri, la trattativa segreta tra Stato e mafia nel racconto inedito di un infiltrato”. Raccontiamo una storia straordinaria, molto poco conosciuta, quella di Luigi Ilardo, nome in codice Oriente.
Luigi Ilardo dal 1994 al 1996 ha smesso di essere un mafioso e è diventato un infiltrato, tutto quello che ascoltava e vedeva non era più a beneficio della sua famiglia mafiosa, ma a favore degli uomini dello Stato.
Luigi Ilardo è un caso eccezionale della lotta a Cosa Nostra, in pochi mesi fa decapitare le famiglie mafiose di tutta la Sicilia orientale, ma cosa più incredibile, inizia un rapporto epistolare con Bernardo Provenzano, Ilardo è il primo che racconta il metodo dei pizzini che consentiva a Bernardo Provenzano di comunicare all’esterno con i suoi uomini, Ilardo è il primo a raccontarcelo. Ilardo incontra Bernardo Provenzano il 31 ottobre 1995, e da infiltrato informa i Carabinieri del Ros, che però incredibilmente non arrestano il boss e soprattutto non mettono sotto osservazione il suo covo che per sei anni Bernardo Provenzano continuerà a frequentare indisturbato.
La storia di Luigi Ilardo ci ha consentito di vedere in diretta questo Patto, di farci quelle domande che ci si è sempre fatti, come mai Cosa Nostra, una banda di criminali, sia riuscita a durare così tanto, sia riuscita a imporre il proprio dominio non soltanto in Sicilia, ma nel nord Italia, ha investito, si è esportata in mezzo

Bernardo Provenzano e la pax mafiosa
La storia di Luigi Ilardo incrocia tanti misteri, tanti segreti che ormai forse non sono più né misteri né segreti, la verità è lì, basterebbe poco per poterla raccontare, per poterla vedere. Luigi Ilardo per primo fa il nome di Marcello Dell’Utri, lo definisce un insospettabile esponente dell’entourage di Silvio Berlusconi. Lo fa nel gennaio del 1994, racconta in diretta il patto politico – elettorale che il Gotha di Cosa Nostra avrebbe fatto con la nascente Forza Italia, fa i nomi e non è solo quello di Marcello Dell’Utri, noi li possiamo fare, ciò non significa che siano colpevoli queste persone di cui adesso racconterò, ma l’infiltrato Luigi Ilardo li fa, sono i nomi di Salvatore Ligresti, di Raul Gardini, fa in maniera particolare dell’entourage di Raul Gardini i nomi di famosi imprenditori a lui legati che poi saranno definitivamente processati e condannati per concorso esterno in associazione mafiosa, fa il nome di politici, a parte Dell’Utri, come quello del papà dell’attuale Ministro della difesa La Russa e di suo fratello Vincenzo e lega questo contatto che la famiglia La Russa avrebbe avuto con Cosa Nostra, insieme con la famiglia Ligresti. Tutto questo ci porta a vedere in maniera chiarissima quello che per Ilardo era normale, un patto tra Stato e mafia, quel patto che noi oggi vediamo chiaramente nei processi, la mancata cattura di Bernardo Provenzano, come la racconta Ilardo è finita in una processo che oggi abbiamo su tutte le prime pagine nei giornali, il processo al generale Mori, proprio perché quest’ultimo era l’ufficiale di più alto rango, responsabile di quell’operazione che avrebbe dovuto consentire l’arresto di Provenzano 11 anni prima di quando effettivamente è accaduto.
Il racconto di Massimo Ciancimino ci permette ancora di più di scendere nei particolari e i personaggi sono sempre gli stessi, in questo caso il generale Mori che nel 1992 incontra Vito Ciancimino, i contorni di questi incontri sono ancora sfuggenti per molti, sono chiarissimi per le sentenze, quella è stata una trattativa, l’obiettivo era di catturare alcuni capi latitanti e lasciarne altri fuori, come Bernardo Provenzano per esempio, quella mafia invisibile, affaristica che ripone nel fodero l’arma delle stragi, per portare avanti una vera e propria pax mafiosa, quindi la mancata cattura di Provenzano che raccontiamo attraverso questo racconto inedito dell’infiltrato Luigi Ilardo, non è altro che un tassello del patto tra Stato e mafia, noi ti lasciamo libero, tu non fai più le stragi, noi ti consentiamo di fare affari, anzi li facciamo insieme!

Omicidi di Stato e di mafia
Quella che abbiamo raccontato non è soltanto una storia di patti, di accordi, è anche una storia scritta con il sangue, il sangue di molti poliziotti uccisi, Ilardo racconta che un ruolo importantissimo hanno avuto i servizi segreti italiani in molti omicidi politici e non avvenuti in Sicilia, lui racconta che alcuni poliziotti sono stati traditi e uccisi da un misterioso agente dei servizi, Ilardo lo chiama “faccia da mostro” noi ci siamo chiesti: quante facce da mostro hanno girato indisturbate in Sicilia, commettendo delitti che come dice Ilardo non erano nell’interesse di Cosa Nostra? Di questi delitti adesso noi possiamo individuarli, sono il delitto di Piersanti Mattarella, il Presidente della Regione Sicilia ucciso nel 1980, il delitto di Pio La Torre, il capo dell’opposizione comunista alla Regione Sicilia, ci sono delitti di poliziotti che Ilardo individua come delitti non di mafia, ma di Stato, c’è una frase agghiacciante che Luigi Ilardo avrebbe detto nell’unico incontro avuto con il Generale Mori e la frase è questa: “Molti attentati addebitati a Cosa Nostra non sono stati commessi da noi, ma dallo Stato e voi lo sapete benissimo!”.

Il palazzo scomparso
E’ anche una storia di sangue quella dei magistrati, seguendo Luigi Ilardo, ci siamo imbattuti nell’ennesima storia incredibile, cioè quella di un palazzo che scompare, il palazzo è quello di via D’Amelio, in questo palazzo appena ultimato il 20 luglio 1992, a 24 ore dalla strage che ha ucciso Paolo Borsellino e i suoi ragazzi di scorta, due poliziotti e la Criminalpol salgono e si imbattono nei due costruttori, gli chiedono se hanno visto qualcosa, poi chiedono alla centrale via telefono se hanno precedenti penali, quei due costruttori sono due costruttori mafiosi, a quel punto sta per scattare l’arresto o quantomeno un interrogatorio in questura.Uno dei due poliziotti sale sulla terrazza e vede che il teatro della strage è lì, a due passi, c’è una visuale perfetta, nota anche delle cicche a terra, un mucchio di cicche a terra, il tempo di prepararsi a portare questi due costruttori in centrale per un interrogatorio, arriva un’altra volante, l’interrogatorio non si fa, i due poliziotti stilano un verbale e per 17 anni credono che quella pista sia stata abbattuta, invece no, oggi noi abbiamo riportato nel nostro libro la testimonianza, quel verbale di quei due poliziotti su quel palazzo gestito da costruttori mafiosi è sparito dalla Questura di Palermo. La Procura di Caltanissetta che indaga non l’ha trovato, c’è di più, i nomi di quei due costruttori finiranno da lì a poche settimane nei verbali di due importanti pentiti che accusavano Bruno Contrada n° 3 del Sisde e ex capo della Questura di Palermo, diranno questi pentiti: questi due costruttori hanno fornito a Bruno Contrada un appartamento, la loro versione ha retto in Cassazione, le indagini hanno appurato che questi due costruttori erano confidenti di Bruno Contrada e per conto di Cosa Nostra gli fornivano un appartamento. Quel palazzo di Cosa Nostra che dà su Via D’Amelio non è mai stato attenzionato dalle indagini, anzi a 48 ore dalla strage, in quel palazzo ritorna una squadra di Carabinieri, scrive un rapporto e dicono che è tutto a posto, strano, perché quel palazzo con quei costruttori era il primo luogo che si sarebbe dovuto indagare, ancora oggi, com’è noto, noi non sappiamo dove gli attentatori della strage di Via D’Amelio si sono piazzati, nessun pentito ce lo racconta, probabilmente perché davvero non è solo un segreto di mafia ma è anche un segreto di Stato.

Luigi Ilardo viene tradito, viene ucciso, i suoi racconti rimangono blindati, il colonnello Michele Riccio che li raccoglie subisce un arresto, una serie di disavventure, ma finalmente la verità di Ilardo, della mancata cattura di Bernardo Provenzano arriva in un’aula di giustizia e è quell’aula di giustizia dove oggi stanno venendo fuori tanti particolari su una trattativa tra Stato e mafia!”

Antimafia Duemila – ”Marcello Dell’Utri e’ il garante di una mafia non stragista”

Antimafia Duemila – ”Marcello Dell’Utri e’ il garante di una mafia non stragista”.

di Beatrice Borromeo – 11 febbraio 2010
“Mio padre Vito diceva sempre che Berlusconi prima o poi sarebbe caduto sul DPF. Che cos’è ? Sono i suoi punti deboli: Dell’Utri, Previti e le Femmine”.

Massimo Ciancimino è arrabbiato per le dichiarazioni rilasciate dal senatore Marcello Dell’Utri al Fatto, in cui il figlio dell’ex sindaco di Palermo viene descritto come “lo scemo di famiglia”, che viene “gestito dai pm” in cambio di sconti di pena. “Faccio causa a Dell’Utri – annuncia Ciancimino – perché ho già sopportato anche troppo le sue intimidazioni. Ogni volta che parla mostra la sua vera natura”.

Si è offeso perché Dell’Utri le ha dato dello scemo?

Pensi che uno degli elementi per cui sono stato condannato è che mio padre mi ha nominato suo unico erede. Evidentemente non mi considerava così stupido. Dell’Utri vuole solo screditarmi.

Cos’ha pensato leggendo l’intervista?
Che questo è un Dell’Utri in grande difficoltà.

Secondo il senatore lei è manovrato dai pm.
Non mi è mai stato chiesto di dichiarare nulla che non fosse vero. E non lo farei mai.

Quindi il pm Antonio Ingroia non è il regista occulto dei pentiti?
Questa la chiamo “sindrome da procura”. Vogliono creare un caso. E magari Ingroia, per certe sue esternazioni, si presta. Ma io non sono mai stato spinto a dire nulla.

Secondo Dell’Utri lei lo accusa per guadagnare sconti di pena.
Falso. Mi hanno solo applicato le attenuanti generiche perché ero incensurato e ho collaborato.

Allora lo fa per salvare il tesoretto che, secondo il senatore, nasconde all’estero?
E’ illogico pensarlo. Vivo sotto scorta, blindato, questo tesoro potrei solo guardarlo. E poi il mio patrimonio è già stato sequestrato. Mi hanno confermato il sequestro anche di una barca e di un appartamento.

Di cosa vive allora Massimo Ciancimino?
Lavoro per un’agenzia di crediti. Faccio il trader, vivo con quei soldi.

Come mai lei è l’unico nella sua famiglia a parlare?
Io parlo perché so le cose, ho i documenti.

Dell’Utri dice che lei ha un fratello “dignitosissimo, che infatti non parla”.
Dell’Utri riconosce la dignità a chi sta zitto. I miei fratelli non conoscevano l’attività lavorativa e politica con cui nostro padre si arricchì. Mio fratello è certamente una persona dignitosa, come dice il senatore, ma è d’accordo con me e supporta la mia scelta di parlare”.

Cosa pensava suo padre di Dell’Utri?
Lo vedeva come un subalterno.   Pensava che era troppo istintivo. La grande differenza comunque è stata che mio padre non ha avuto nessuna immunità.

Dell’Utri ha detto che è entrato in politica per non finire in carcere.
Mio padre ha subìto tutti i suoi processi. Dell’Utri ha goduto dell’immunità che la sua carica, e una serie di conoscenze, gli hanno dato.

Suo padre le parlava   mai dello “stalliere di Arcore” Vittorio Mangano?
Certo. Papà trovava allucinante che un imprenditore come Berlusconi, nel momento in cui i figli erano a rischio attentati, si rivolgesse a uno come Mangano!

Perché?
Questi erano i classici “metodi accerchiativi”, come diceva mio padre, di personaggi come Dell’Utri, per rendersi indispensabili a Berlusconi: fai le minacce per accreditarti sempre di più, e poi dai le soluzioni.

Lei ha affermato che Dell’Utri, a un certo punto, ha preso il posto di suo padre come mediatore con la politica.
Io non faccio una colpa a Dell’Utri di aver sostituito mio   padre nei rapporti tra mafia e politica. Però è successo: lo dice mio padre, lo scrive mio padre. Io lo confermo in aula.

Il 2 marzo lei verrà sottoposto al contro-esame nel processo Mori.
Dimostrerò il tassello mancante: che non c’è stata nessuna contrapposizione dello Stato in quegli anni, come sempre accade nelle regioni del sud. Lo Stato, tra i mali, ha scelto il minore. La criminalità organizzata nasce e cresce negli spazi vuoti lasciati tra cittadini e istituzioni. Per questo capisco il ruolo che hanno dato a Dell’Utri.

Sarebbe?
Dell’Utri era una nuova faccia su cui contare, capace di reggere questo equilibrio. Si voleva una mafia fondamentalmente meno dannosa per lo Stato. Una mafia non stragista. E infatti in 10 anni ci saranno stati solo una decina di omicidi.

Berlusconi ieri ha detto che “siamo alla giustizia spiritica, con qualcuno – lei – che riferisce parole di qualcuno – suo padre – che è morto da diversi anni”. Parole   che “non hanno nulla a che fare con la realtà”.
A Berlusconi risponderò il 2 marzo con i fatti, quando produrrò in aula tutti i documenti. Non sono come uno Spatuzza qualsiasi che parla de relato. Io antepongo al racconto il documento cartaceo che lo prova. Documentazione che mio padre ha scritto. Se mio padre scrive ‘Dell’Utri, Milano 2, Berlusconi’, io quel foglio lo porto in aula.

Ma cosa ci guadagna a parlare?
Nulla. Anzi, ho capito molto tempo fa che il mio comportamento costituisce un pericolo per me. Pensi che io vengo iscritto nel registro degli indagati lo stesso giorno in cui muore mio padre, il 19 novembre 2002. Era un avvertimento: se prima c’era mio padre che garantiva   questo tipo di silenzio, ora toccava a me.

Poi sono arrivate le prime minacce.
Ho ricevuto visite spiacevoli di carabinieri e di uomini appartenenti ai servizi. Mi sono arrivati a casa pacchi bomba. Persino una lettera intimidatoria   indirizzata a me, a mio figlio e a mia moglie. Da quel momento mia moglie ha cominciato a chiedermi: “Chi te lo fa fare?”. Poi, quando ho continuato a collaborare, ha chiesto la separazione.

Ha ripensamenti?
È chiaro che chi si fa i cazzi suoi ha solo vantaggi. I miei fratelli sono stati tutti prosciolti. Oggi sono preoccupato.

Cosa teme?
È chiaro che c’è un processo di cambiamento nell’aria che fa paura. C’è chi lavora per il dopo Berlusconi. Ho paura che qualche entità esterna voglia accelerare questo processo di cambiamento, come è avvenuto nel 1992 quando Tangentopoli stava sgretolando il sistema e la politica stragista di Cosa Nostra ha accelerato il cambiamento. Oggi   c’è la stessa aria. E io spero di non esserne vittima.

Ha un ruolo la Sicilia di oggi in questa ricerca dell’erede?
No. La Sicilia, come diceva mio padre, è solo il luogo dove si fa il lavoro sporco. Ma non ci nasce mai realmente qualcosa. Le cose nascono a Roma e a Milano.

Tratto da: Il Fatto Quotidiano

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Massimo Ciancimino torna in aula, al processo che vede imputato il generale Mario Mori di aver favorito la latitanza di Bernardo Provenzano, e accusa: “La trattativa Stato mafia proseguì anche dopo il 1992”. Un pizzino di Provenzano diretto a Dell’Utri e Berlusconi.

PALERMO – “Nel 1994, l’ingegner Lo Verde, alias Bernardo Provenzano, mi fece avere tramite il suo entourage una lettera destinata a Dell’Utri e Berlusconi. Io la portai subito a mio padre, che all’epoca era in carcere. Mi disse che con quella lettera si voleva richiamare Berlusconi e Dell’Utri, perché ritornassero nei ranghi. Mio padre mi diceva che il partito di Forza Italia era nato grazie alla trattativa e che Berlusconi era il frutto di tutti questi accordi”.

Massimo Ciancimino torna nell’aula bunker di Palermo, al processo che vede imputato l’ex generale del Ros ed ex capo dei servizi segreti Mario Mori di aver protetto la latitanza del capomafia Bernardo Provenzano. Rispondendo alle domande del pubblico ministero Antonio Ingroia, il figlio dell’ex sindaco, ha ripercorso il contenuto di un pizzino che ha consegnato nei mesi scorsi ai magistrati di Palermo.

“E’ rimasta solo una parte di quella lettera – dice Ciancimino – eppure, fino a pochi giorni prima della perquisizione fatta dai carabinieri nel 2005 a casa mia, nell’ambito di un’altra indagine, il documento era intero. Ne sono sicuro. Non so cosa sia successo dopo”.

In ciò che è rimasto nella lettera si legge: “… posizione politica intendo portare il mio contributo (che non sarà di poco) perché questo triste evento non ne abbia a verificarsi. Sono convinto che questo evento onorevole Berlusconi vorrà mettere a disposizione le sue reti televisive”. Il “triste evento” sarebbe stato un atto intimidatorio nei confronti del figlio di Silvio Berlusconi.

Massimo Ciancimino spiega: “Provenzano voleva una sorta di consulenza da parte di mio padre: questo concetto di mettere a disposizione le reti televisive l’aveva suggerito proprio lui a Provenzano, qualche tempo prima. Mio padre si ricordava di quando Berlusconi aveva rilasciato un’intervista al quotidiano Repubblica. Diceva che se un suo amico fosse sceso in politica lui non avrebbe avuto problemi a mettere a disposizione una delle sue reti”.

Vito Ciancimino avrebbe poi rielaborato la lettera di Provenzano: Massimo Ciancimino ha consegnato questa mattina al tribunale il secondo foglio della bozza scritta dal genitore. “La lettera è indirizzata a Dell’Utri e per conoscenza al presidente del consiglio onorevole Silvio Berlusconi – spiega il testimone – io fui incaricato di riportarla a Provenzano. Poi non so che fine abbia fatto e se sia stata consegnata”.

Insorge in aula l’avvocato Piero Milio, uno dei legali del generale Mori: “Cosa c’entrano questi argomenti con il processo, che si occupa della presunta mancata cattura di Provenzano nel 1995 a Mezzojuso, provincia di Palermo?”. Il presidente della quarta sezione del tribunale, Mario Fontana, respinge l’opposizione e invita il pubblico ministero Ingroia a proseguire nelle domande: “ E’ comunque importante accertare cosa sia avvenuto eventualmente prima o dopo”, dice.

Secondo la ricostruzione di Massimo Ciancimino, fatta propria dalla Procura, la trattativa fra mafia e Stato condotta durante le stragi del 1992 avrebbe avuto una “terza fase”: “A Vito Ciancimino, nel rapporto con Cosa nostra, si sarebbe sostituito Marcello Dell’Utri”, è l’accusa del figlio dell’ex sindaco. Che aggiunge: “Mio padre mi disse che fra il 2001 e il 2002 Provenzano aveva riparlato con Dell’Utri”.

La “bozza Ciancimino” ha un passaggio in più rispetto al documento sequestrato nel 2005. E’ scritto nel finale: “Se passa molto tempo e non sarò indiziato del reato di ingiuria sarò costretto ad uscire dal mio riserbo che dura da anni e convocherò una conferenza stampa”. Chiede il pubblico ministero Nino Di Matteo: “Cosa sua padre minacciava di svelare?”.

Risponde Ciancimino junior: “L’origine della coalizione che aveva portato in politica Silvio Berlusconi”. Chiede ancora il pm: “A quando risaliva la bozza?”. Ciancimino: “Il 1994-1995”.

I SERVIZI SEGRETI Nell’audizione di Massimo Ciancimino torna il misterioso “signor Franco”, l’agente dei servizi segreti che secondo Ciancimino junior sarebbe stato in contatto con il padre e con Provenzano. “Dopo un’intervista con Panorama, in cui emergeva in qualche modo un mio ruolo nell’arresto di Riina, il signor Franco mi invitò caldamente a tacere e a non parlare più di certe vicende perché tanto non sarei mai stato coinvolto e non sarei mai stato chiamato a deporre. Cosa che effettivamente avvenne – accusa Ciancimino junior – visto che fino al 2008, quando decisi di collaborare con i magistrati, nessuno mi interrogò mai”. Anche durante gli arresti domiciliari Massimo Ciancimino avrebbe ricevuto una strana visita: “Un capitano dei carabinieri – dice il testimone – mi invitò caldamente a non parlare della trattativa e dei rapporti con Berlusconi”.

Un emissario del signor Franco gli avrebbe pure preannunciato un’i mminente inchiesta nei suoi confronti e persino gli arresti domiciliari: “Per questo, ero stato invitato ad andare via da Palermo”. Ciancimino riferisce ancora le parole che gli avrebbe riferito il capitano del Ros Giuseppe De Donno, collaboratore di Mori: ”Mi rassicurò che nessuno mi avrebbe mai sentito sulla vicenda relativa all’arresto di Riina. Su questa vicenda – mi disse – sarebbe stato persino apposto il segreto di Stato”.

LA PERQUISIZIONE
Secondo la Procura, l’ultimo mistero legato al caso Ciancimino sarebbe quello della perquisizione del 2005: “Nessuno dei carabinieri presenti – accusa il testimone – chiese di aprire la cassaforte, che era ben visibile nella stanza di mio figlio”. Si commuove Massimo Ciancimino quando vede le fotografie della casa, fatte di recente dalla Dia su ordine della Procura. “In quella villa di Mondello ho tanti ricordi – spiega – lì ha vissuto mio figlio dopo la nascita”. Dopo una breve sospensione dell’udienza, Ciancimino torna ad accusare: “I carabinieri e qualcun altro sapevano che in quella cassaforte c’e rano il papello e altri documenti”.

LE MINACCE “Anche la settimana scorsa ho ricevuto delle pesanti intimidazioni – denuncia Massimo Ciancimino – sul parabrezza della mia auto è stata lasciata una lettera dal contenuto molto chiaro: neanche i magistrati di Palermo ti potranno salvare”.
Fonte: repubblica.it (Salvo Palazzolo, 8 Febbraio 2010)