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Antimafia Duemila – Berlusconi ha esaurito il suo compito? Sibillina intervista a Marcello Dell’Utri

Antimafia Duemila – Berlusconi ha esaurito il suo compito? Sibillina intervista a Marcello Dell’Utri.

di Filippo de Lubac – 2 giugno 2009

L’ombelico del mondo, secondo una cultura misteriosa e pittoresca, si troverebbe nell’oceano pacifico e più precisamente nell’Isola di Pasqua. Ma per noi lucani è sempre più evidente che non può essere molto lontano dalle nostri calanchi.
Lo suggeriscono i giacimenti petroliferi più ricchi dell’Europa continentale, una ricchezza di acque minerali e per uso irrigazione senza pari nell’intero Mezzogiorno d’Italia, una concentrazione di Logge Massoniche di cui si avverte la presenza e (a volte) anche l’incombenza. Ma, più di tutto, la constatazione che tutti i fatti politici e giudiziari clamorosamente venuti in luce negli ultimi due anni passano per la Basilicata. Sarà un caso? Forse, ma bisogna anche cercare di rintracciare e inanellare tante coincidenze e qualche nome ricorrente; poi la probabilità che si tratti di eventi casuali si riduce quasi a zero: quasi! Alcuni giornali (pochi per la verità) avevano classificato i procedimenti avviati dal PM Luigi De Magistris in quel di Catanzaro come il più grande scandalo della storia repubblicana, se non proprio della storia d’Italia. Se si analizza quanto è accaduto ai procedimenti Why Not, Poseidone e Toghe Lucane e maggiormente se si considera quanto accaduto al “dottore” (così chiamavano De Magistris i suoi coadiutori più stretti) ed ai suoi consulenti e collaboratori (Genchi, Sagona, Zacheo) è tutto molto chiaro. Allora, viene da chiedersi, se non si tratti dello stesso scandalo di cui vaticinava il Presidente Berlusconi, quando prometteva rivelazioni sconvolgenti entro breve tempo. Ovviamente, tutti hanno dimenticato queste promesse e nessuno più interroga il buon Silvio nazionale. Per altro verso, invece, molti lo stanno mettendo alla gogna per le sue presunte frequentazioni private, cioè fuori protocollo (o quasi). Povero Silvio, lui sbraita contro i magistrati che vorrebbero attuare un golpe, spodestarlo dal piedistallo su cui l’hanno posto milioni di italiani. E come sarebbe possibile una simile azione, visto che una Legge dello Stato lo sottrae ad ogni Tribunale, Legge o Regolamento? Forse non è proprio così lineare, forse non sono gli oppositori a volerlo mettere da parte (non potrebbero). Qualcosa sembra intravedersi nell’intervista resa al Corriere della Sera da Marcello Dell’Utri. Dice il potente politico siciliano che nei “festoni a Villa Certosa, ci sono subito due o tre situazioni che, ogni volta, tolgono il fiato a chi partecipa per la prima volta”. E subito spiega: “c’è la gelateria. Tu vai lì e ti servono tutto il gelato che vuoi. Gratis. E sa qual è il gusto più buono? Il gelato del Presidente”. Ora, che gli ospiti del Cavaliere si debbano meravigliare (al punto da restare senza fiato) di poter sorbire del gelato e per giunta senza pagarlo, francamente, è assurdo. Nemmeno gli ospiti del più taccagno genovese, si meraviglierebbero di tanta generosità. Allora cosa intende Dell’Utri quando dice “gelato”? E quale sarebbe il “gelato del Presidente”? L’impressione è che Berlusconi abbia portato a termine il suo compito e adesso, totalmente prigioniero di consigli a cui non può dire di no, al massimo possa servire da parafulmine. Inutile persino attaccarlo, servirebbe a distrarre gli sguardi da quella ristretta cerchia di signori che hanno realizzato il progetto di Licio Gelli, senza mai apparire riconoscibili. Intanto, nell’ottobre 2008, il Governo Berlusconi ha dato il visto finale al piano di emergenza esterna per gli incidenti nucleari all’Itrec di Rotondella dove si custodiscono da quarant’anni le barre di combustibile nucleare provenienti da Elk River e diversi quintali di Uranio, Torio ed altri elementi radioattivi. Chi avrà modo di leggerlo (prossimamente su queste pagine), capirà perché l’elemento radioattivo più pericoloso è lo Stronzio e la Basilicata se non è l’ombelico del mondo ci sta molto vicino.

Dal quotidiano “Il Resto” del 2 giugno 2009

Antimafia Duemila – Processo Mori-Obinu: in aula pentiti su collusioni

Antimafia Duemila – Processo Mori-Obinu: in aula pentiti su collusioni.

Saranno sentiti in aula dai giudici del tribunale i tre collaboratori di giustizia che ipotizzano collusioni fra il boss Bernardo Provenzano e uomini delle istituzioni.
Il processo in cui sono stati citati gli ex boss, Nino Giuffré, Giovanni Brusca e Ciro Vara, è quello in cui sono imputati l’ex comandante del Ros, il prefetto Mario Mori, e il colonnello Mauro Obinu, accusati di favoreggiamento alla mafia nell’ambito del mancato blitz del 31 ottobre 1995 che avrebbe potuto portare all’arresto di Provenzano, su indicazione del mafioso-confidente Luigi Ilardo. I tre collaboratori saranno sentiti nell’aula bunker di Rebibbia a Roma il 21, 22 e 23 maggio. In una prossima udienza sarà citato Massimo Ciancimino, che sta rendendo dichiarazioni ai pm di Palermo. Oggi i giudici del tribunale hanno disposto una nuova perizia su una registrazione effettuata dal colonnello Michele Riccio, che raccoglieva le confidenze di Ilardo, e l’allora maggiore Antonio Damiano. Si tratta di una conversazione fatta il 10 maggio 1996, poche ore prima che Ilardo venisse ucciso a Catania, in cui Damiano si dice allarmato del fatto che la notizia riservata della collaborazione del mafioso si stava diffondendo a Caltanissetta.

ANSA

Dell’Utri: un uomo colto. Sul fatto.

Dell’Utri: un uomo colto. Sul fatto.

Scritto da Maro Travaglio

Ci sia consentito di ringraziare dal più profondo del cuore il sen. Marcello Dell’Utri, noto pregiudicato e soprattutto bibliofilo tra i più raffinati.

Grazie perché non delude mai: trent’anni dopo la prima intercettazione che lo immortalò a colloquio con l’eroico Mangano, continua a ricevere mafiosi e a farsi beccare al telefono senza usare precauzioni. L’altro giorno, quando girava voce di un misterioso senatore sorpreso a colloquio con uomini della ‘ndrangheta, ci siamo detti: no, non può essere ancora lui. Basta con questa cultura del sospetto che associa il suo nome a qualunque scandalo dell’orbe terracqueo. Ogni tanto si riposerà anche lui, che diamine.
Invece s’è scoperto che… l’uomo al telefono col bancarottiere Aldo Miccichè, latitante in Venezuela, era Dell’Utri. L’uomo che riceveva nel suo studio Antonio Piromalli, reggente del clan calabrese impegnato nei brogli esteri, e suo cugino Gioacchino, avvocato radiato dall’Ordine per una condanna di mafia, era ancora lui. L’uomo che poi ringraziava Miccichè per avergli mandato a casa quei «due bravi picciotti», era sempre lui.
Grazie senatore per agevolare, con la sua sostenibile leggerezza dell’essere, gl’investigatori.
La prima volta fu nel 1980, quando si fece sorprendere al telefono con Vittorio Mangano a parlare di «cavalli».
La seconda nel 1986, quando il Cavaliere lo chiamò per informarlo di una bomba appena esplosa nella villa in via Rovani: ma «fatta con molto rispetto, quasi con affetto», un «segnale acustico» tipico dell’eroico Mangano (che fra l’altro non c’entrava perché era in galera).
La terza un mese dopo, quando il mafioso Tanino Cinà gli telefonò per annunciargli l’arrivo di quattro cassate: una per lui, una per suo fratello, una per Confalonieri, una extralarge da 10 chili per Silvio.
Le rare volte in cui non parla al telefono, le sue agende parlano per lui: due appunti del novembre ’93 («2-11, Mangano Vittorio sarà a Milano per parlare problema personale», «Mangano verso il 30-11») rivelano che, mentre dava gli ultimi ritocchi a FI, riceveva a Publitalia il solito Mangano, reduce da 11 anni di galera per mafia e droga. Altre volte, al telefono, parlano di lui gli amici degli amici. Come due uomini legati alla mafia catanese, Papalia e Cultrera, che il 25 marzo ’94 si preparano alla prima vittoria azzurra: «Il giorno in cui Berlusconi salirà, come ho detto in una cena alla presenza anche di Marcello, si dovranno prendere tante soddisfazioni… fra cui l’annientamento dell’amministrazione (la giustizia, ndr), perché sono gruppi di comunisti!».
Marcello è lo stesso che il 12 ottobre ’98 riceve nell’ufficio di via Senato a Milano Natale Sartori (socio della figlia di Mangano in una coop di pulizie), pedinato dalla Dia in un’indagine per droga. Due mesi dopo, 31 dicembre, la Dia filma Dell’Utri mentre incontra a Rimini il falso pentito Pino Chiofalo, che organizza un complotto per calunniare i veri pentiti che accusano Marcello.
Maggio ’99: Dell’Utri è candidato in Sicilia all’Europarlamento: un picciotto di Provenzano, Carmelo Amato, vota e fa votare: «Purtroppo dobbiamo portare a Dell’Utri, se no lo fottono. Pungono sempre, ‘sti pezzi di cornuti (i giudici, ndr). Questi sbirri non gli danno pace».
Maggio 2001: il boss di Brancaccio, Giuseppe Guttadauro, parla col mafioso Salvatore Aragona: «Con Dell’Utri bisogna parlare», «alle elezioni ’99 ha preso impegni» col boss Gioacchino Capizzi «e poi non s’è fatto più vedere». Aragona rivela: «Io sono stato invitato al Circolo, che è la sede culturale e intellettuale di Dell’Utri in via Senato, una biblioteca famosa».
Nel 2003 Vito Roberto Palazzolo, condannato per narcotraffico, imputato per mafia e rifugiato in Sudafrica, aggancia Dell’Utri e la moglie perché premano sul ministro di Giustizia – scrivono i pm – «per ammorbidire le richieste di rogatoria e di estradizione».
Nel 2005 la Procura di Monza intercetta due finanzieri, Savona e Pelanda, che parlano del Ponte sullo Stretto e il secondo ha appena saputo dall’amico Dell’Utri che «la gara d’appalto la vince l’Impregilo». Profezia puntualmente avverata.
Nel 2005, scandalo scalate & furbetti. Mica c’entrerà Dell’Utri anche lì? No, nelle intercettazioni lui non parla e nessuno parla di lui. Ma poi arrestano Fiorani, e questo parla di 200 mila euro da sganciare ai senatori forzisti Grillo e Dell’Utri. Nessun reato, stabiliscono i giudici. Ma il suo motto è quello di Piercasinando: «Io c’entro». Sempre. Come diceva Montanelli, « Dell’Utri è un uomo colto. Soprattutto sul fatto».
Unità, 4 maggio 2009
Processo Dell’Utri: non viene acquisita telefonata con la Palazzolo
Palermo. La seconda sezione della Corte d’appello di Palermo ha rigettato, ritenendola non rilevante ai fini del decidere, la richiesta di acquisizione di un’intercettazione telefonica del 2003 tra il senatore del Pdl Marcello Dell’Utri e Sara Palazzolo, sorella del boss Vito Roberto, residente in Sudafrica e di recente condannato, con sentenza definitiva, a nove anni di carcere per il reato di associazione mafiosa. La decisione sblocca di fatto il processo, arenato da parecchi mesi nell’esame di questo problema.
Nella conversazione, Dell’Utri (difeso dagli avvocati Nino Mormino e Giuseppe Di Peri) concordava un appuntamento con la Palazzolo, ma non esiste riscontro alcuno circa il fatto che i due si siano effettivamente incontrati. Secondo quanto emerso dalle indagini e dalle successive conversazioni tra la donna, che vive a Terrasini (Palermo), e il fratello (latitante di fatto per la nostra giustizia, ma perfettamente libero in Sudafrica), oggetto dell’eventuale incontro sarebbe dovuta essere la posizione giudiziaria di Vito Roberto Palazzolo e il ricorso che egli avrebbe dovuto affrontare in Cassazione contro un ordine di custodia spiccato nei suoi confronti.

Vito Roberto Palazzolo alludeva a un possibile “aggiustamento” del processo e, a proposito di Dell’Utri, diceva alla sorella: “Non devi convertirlo, è già convertito”, alludendo così a una presunta vicinanza dell’ex manager di Publitalia a Cosa Nostra. La questione dell’acquisizione della trascrizione è stata oggetto di una lunga questione che ha coinvolto anche il Senato, di cui Dell’Utri fa parte: per potere utilizzare le carte, infatti, il collegio presieduto da Claudio Dall’Acqua avrebbe avuto bisogno dell’autorizzazione dell’assemblea di Palazzo Madama; a chiedere il permesso era stato, in un primo momento, il Gip di Palermo, ma la giunta per le autorizzazioni del Senato aveva sostenuto che sarebbe dovuta essere direttamente la Corte d’appello. L’impasse aveva rischiato di far ritardare ancora il processo, durato sette anni in primo grado e in corso in appello dal 2006: i giudici hanno così risolto il problema, ritenendo che l’unica telefonata e la mancanza di certezze sull’incontro rende tutta la questione irrilevante. Il processo è stato così rinviato al 15 maggio per altre richieste delle parti. Entro l’estate potrebbe essere tenuta la requisitoria del pg Antonino Gatto.

ANSA

Antimafia Duemila – Processo Dell’Utri: non viene acquisita telefonata con la Palazzolo

Antimafia Duemila – Processo Dell’Utri: non viene acquisita telefonata con la Palazzolo.

8 maggio 2009
Palermo.
La seconda sezione della Corte d’appello di Palermo ha rigettato, ritenendola non rilevante ai fini del decidere, la richiesta di acquisizione di un’intercettazione telefonica del 2003 tra il senatore del Pdl Marcello Dell’Utri e Sara Palazzolo, sorella del boss Vito Roberto, residente in Sudafrica e di recente condannato, con sentenza definitiva, a nove anni di carcere per il reato di associazione mafiosa. La decisione sblocca di fatto il processo, arenato da parecchi mesi nell’esame di questo problema. Nella conversazione, Dell’Utri (difeso dagli avvocati Nino Mormino e Giuseppe Di Peri) concordava un appuntamento con la Palazzolo, ma non esiste riscontro alcuno circa il fatto che i due si siano effettivamente incontrati. Secondo quanto emerso dalle indagini e dalle successive conversazioni tra la donna, che vive a Terrasini (Palermo), e il fratello (latitante di fatto per la nostra giustizia, ma perfettamente libero in Sudafrica), oggetto dell’eventuale incontro sarebbe dovuta essere la posizione giudiziaria di Vito Roberto Palazzolo e il ricorso che egli avrebbe dovuto affrontare in Cassazione contro un ordine di custodia spiccato nei suoi confronti. Vito Roberto Palazzolo alludeva a un possibile “aggiustamento” del processo e, a proposito di Dell’Utri, diceva alla sorella: “Non devi convertirlo, è già convertito”, alludendo così a una presunta vicinanza dell’ex manager di Publitalia a Cosa Nostra. La questione dell’acquisizione della trascrizione è stata oggetto di una lunga questione che ha coinvolto anche il Senato, di cui Dell’Utri fa parte: per potere utilizzare le carte, infatti, il collegio presieduto da Claudio Dall’Acqua avrebbe avuto bisogno dell’autorizzazione dell’assemblea di Palazzo Madama; a chiedere il permesso era stato, in un primo momento, il Gip di Palermo, ma la giunta per le autorizzazioni del Senato aveva sostenuto che sarebbe dovuta essere direttamente la Corte d’appello. L’impasse aveva rischiato di far ritardare ancora il processo, durato sette anni in primo grado e in corso in appello dal 2006: i giudici hanno così risolto il problema, ritenendo che l’unica telefonata e la mancanza di certezze sull’incontro rende tutta la questione irrilevante. Il processo è stato così rinviato al 15 maggio per altre richieste delle parti. Entro l’estate potrebbe essere tenuta la requisitoria del pg Antonino Gatto.

ANSA

Intervento di Gioacchino Genchi all’Information Day di Marsala del 26 aprile 2009

Intervento di Gioacchino Genchi all’Information Day di Marsala del 26 aprile 2009.

Gioacchino Genchi (parti da 1 a 5)
http://www.youtube.com/watch?v=P8acM9-Bmag
http://www.youtube.com/watch?v=dV4Pvuut_9w&feature=channel
http://www.youtube.com/watch?v=ZFextq4HUio&feature=channel
http://www.youtube.com/watch?v=xBVtOoPm0q0&feature=channel
http://www.youtube.com/watch?v=8yKMZufJra0&feature=channel
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Scritto da Valentina Culcasi e Desiree Grimaldi

Information Day – Marsala, 26 Aprile 2009. Intervento di Gioacchino Genchi.


Dott. Gioacchino Genchi: “Grazie di tutto, grazie e complimenti agli organizzatori, saluto la popolazione di Marsala e gli amici della provincia di Trapani che sono venuti e anche quelli che sono venuti da altre parti d’Italia per questa manifestazione. Devo dirvi che mi commuove trovarmi  accanto al giudice Luigi de Magistris dopo diversi mesi che non ci vediamo, dopo che sono successi tanti fatti diversi. Devo dire avrei preferito ritrovarmi accanto al Dott. de Magistris in un’aula di giustizia di Catanzaro, se ce lo avessero consentito, ad aiutare lui e sostenere l’accusa nei confronti dei tanti malfattori nei confronti dei quali stavamo indagando. Ci hanno fermato, ci hanno delegittimato, hanno osato fare nei nostri confronti tutto quello che di umano e inumano si poteva pensare di fare per non farci continuare a lavorare e oggi siamo qui.


ll Dott. de Magistris ha fatto delle scelte che io condivido, approvo e mi congratulo con lui e mi congratulo anche con il movimento politico che ha ritenuto di dare un segnale di grande dignità alla politica italiana e alla rappresentanza della politica italiana in Europa portando in quel consesso una persona che darà certamente lustro all’ Italia e che contribuirà a dare di questa magnifica nazione un’immagine un tantino più decente di quella che invece i nostri politici e i nostri rappresentanti di governo danno, danno non solo per le loro malefatte ma  anche per il loro modo sconcio, scorretto, scurrile, volgare col quale si presentano in ogni consesso internazionale combinandone di tutti i colori in qualunque nazione del mondo. Io pensavo che il problema fosse solo in Svezia o in Francia, ma se va in Svezia, se va in Francia, se va in Inghilterra, ovunque va una volta fa le corna, una volta fa le pernacchie, una volta parla al telefono, un’altra volta dice una cosa che non dovrebbe dire e in ogni nazione ne combina una.

Mi riferisco a quel signore che bontà sua fa il presidente del Consiglio dei Ministri e che disse di me che io, io, mi vedete così, io ero il più grande scandalo della storia della Repubblica italiana. Lo disse nella pienezza delle sue funzioni, come rappresentante del governo italiano, del popolo italiano, del più grande partito politico che la storia della Repubblica italiana ha mai avuto, come capo della più grande coalizione di governo della storia delle Repubblica italiana. Lo ha detto in una manifestazione  politica ed elettorale, in quella di Sassari e di Olbia determinando peraltro, con quella sua espressione la vittoria della coalizione politica che ha rappresentato ai danni del candidato del centro-sinistra Soru.

Il popolo sardo è stato preso in giro, il popolo italiano è stato preso in giro con un’ affermazione che è la più grande affermazione di falsità per un uomo come me che aveva avuto solo il coraggio di fare indagini su di lui, sui suoi sodali mafiosi, sul suo amico Marcello Dell’Utri e avere dato il mio contributo ai magistrati della procura della Repubblica di Palermo affinchè si affermasse la penale responsabilità nei confronti di un soggetto che è risultato colluso con la mafia, per aver contribuito nei processi in cui era imputato il suo amico e stalliere Vittorio Mangano che quest’ uomo ha portato a casa sua, che ha fatto sedere a tavola, che ha messo al cospetto dei propri figli, della propria moglie, della propria famiglia e che ha trattato come un pari un criminale e assassino condannato all’ergastolo per omicidio, che alla vigilia della campagna elettorale delle elezioni il presidente Berlusconi ha osato definire un esempio di moralità, un uomo di cui l’Italia doveva essere orgogliosa.

Io non faccio politica, non mi interesso di politica, non esercito il diritto di voto da diversi anni e peraltro a ben pensare penso proprio di si anche perché forse qualcuno mi ha dato l’opportunità per farlo e quindi è giunto il momento della rivolta. Non è retorica credetemi, chi ve lo dice, ve lo dice in una situazione di sofferenza e di prostrazione per avere visto colpita la propria vita, la propria carriera per delle accuse ingiuste, infamanti. Se io avessi commesso qualcosa, se avessi anche sbagliato, se avessi fatto anche un errore non dico con dolo, ma anche con colpa, se avessi fatto qualcosa che non dovevo fare, è giusto che io pagassi il mio prezzo alla giustizia. Non sono stati capaci nemmeno di imbastire delle accuse, se guardate i capi d’imputazione io sono stato accusato e perquisito dai carabinieri del Ros che sono venuti a casa mia, che sono entrati nella stanza di mia moglie che fa il magistrato al tribunale di Palermo, che cura i più importanti processi di mafia che si stanno facendo in questo momento nella città di Palermo nei confronti della cosca dei Lo Piccolo; perquisito dal Ros, perquisito da quegli uomini nei confronti dei quali avevo indagando, che avevo snidato come talpe  alla Procura distrettuale antimafia di Palermo che si vendevano le informazioni alla mafia e che consentivano agli uomini della mafia come Guttadauro,  come Bernardo Provenzano e altri di restare latitanti a vita, che informavano i politici corrotti e collusi con la mafia che nei loro confronti si stavano facendo delle intercettazioni telefoniche. Io sono quell’uomo che ha osato fare indagini a 360° senza mai guardare se  l’indagato era un uomo di destra o di sinistra, rispettando comunque sempre tutti, dai pedofili, agli assassini, ai mafiosi, ai politici.

Credetemi non è una cosa bella subire quest’onta, non tanto perché subire un’indagine è una cosa normale, chi ha fatto indagini non soffre del fatto di essere indagato, chi ha fatto indagini soffre per il fatto che chi lo sta indagando si sa essere sicuramente molto più delinquente di chi viene indagato. Perché io avrei consentito a chiunque di fare delle indagini su di me ma non alle persone nei confronti dei quali stavo indagando. Io non posso consentire a un politico del quale stavo esaminando i suoi contati telefonici con i criminali, con i delinquenti, di cui stavo controllando per conto del Dott. de Magistris le intercettazioni dove si parlava chiaramente di tangenti. C’è un’intercettazione di Saladino, l’imprenditore, in cui si dice:” ricordati di metterti a disposizione di Rutellone” e poi quello gli dice :”ma non è meglio di Mastellone”. Questo che cosa significa secondo voi, mettersi a disposizione, quando gli dice “dai disposizioni alla Cristina” – che sarebbe la segretaria tesoriera – “di mettersi a disposizione di Rutellone o di Mastellone.”

Io stavo lavorando su quelle cose quando il Dott. de Magistris è stato fermato, è stato trasferito e quando quel signore che presiede il Copasir che si chiama Francesco Rutelli si è messo a capo, con l’accordo del centro, della destra e della sinistra per portarmi al linciaggio morale, me e tutta la famiglia, per estendere una perquisizione pure alla sede della Polizia di Stato senza nemmeno avere un mandato. Questi signori sono entrati in una caserma della Polizia di Stato e sono andati a perquisire gli uffici e persino l’armeria, dove io in venticinque di servizio non avevo mai messo piede, sapendo che non avrebbero mai trovato nulla, posto che quello che cercavano lo avevano già trovato e sequestrato presso il mio ufficio, dove non hanno nemmeno guardato i computer, dove non hanno nemmeno guardato le macchine, però dovevano andare in Polizia perché dovevano darmi lo sfregio, dovevano dare una tagliata di faccia alla Polizia di Stato, un’istituzione democratica di questa Repubblica che ancora sa alzare la schiena e sa, per quel grande controllo democratico che esiste all’interno della struttura della Polizia di Stato, ribellarsi e non consentire che il potere prevalga.

Sono stato pure sospeso dal servizio perché ho risposto in un blog agli insulti di un giornalista di Panorama che ha dato del bugiardo a me, ma ve l’immaginate dico il bue che da del cornuto all’asino? Perché io avrei fatto gli accessi all’anagrafe tributaria profittando della password di accesso che avevo avuto per fare le indagini sulla scomparsa della piccola Denise Pipitone, hanno pure avuto pure il coraggio di strumentalizzare la tragedia fra le più grandi tragedie della storia d’Italia della scomparsa di questa bambina, il dolore di una madre, il dolore di una famiglia, il dolore di una popolazione d’Italia che piange da quattro, da cinque anni appresso questa vicenda e strumentalizzarla per venirmi a perquisire e accusate ingiustamente, perché l’accusa era per aver interrogato delle persone di Milano perché non erano di Mazara, ma se noi la bambina l’abbiamo cercata ovunque, in qualunque parte d’Italia abbiamo cercato la bambina. A Milano abbiamo fatto le interrogazioni, vi ricordate la vicenda di quel video di quel metronotte, che aveva ripreso quella che sembrava essere la bambina, che poi si è dimostrato essere la figlia di una rom, e i rom sapete benissimo  che hanno tutta una serie di telefonini non è che li vanno ad attivare con il passaporto, col codice fiscale ecc., sono insomma nomi così, spesso di fantasia. Per aver effettuato quegli accertamenti e verificare purtroppo, devo dire, che quella non era Denise io sono stato imputato, per aver verificato una vicenda, arrivò una telefonata a Federica Sciarelli a Chi l’ha visto,era una voce di una ragazza, una ragazza che diceva che aveva con lei Denise e faceva sentire la voce di una bambina. Immediatamente ci siamo messi in moto, tutta la macchina investigativa con i Carabinieri si è messa in moto per sapere chi era che aveva telefonato: quella voce era sicuramente di una bambina, quella ragazza diceva che aveva Denise. Grazie all’ aiuto di Federica Sciarelli siamo riusciti ad individuare il numero telefonico che aveva chiamato la segreteria di Chi l’ha visto, era un numero di Ragusa, era intestato a un extracomunitario, ho fatto subito gli accertamenti per vedere chi era quel soggetto di Ragusa, hanno fatto delle intercettazioni e le prime telefonate che si captano, che i Carabinieri sentono, dice no purtroppo è morta, è morta. Al che si precipitano tutti: il procuratore, i sostituti, i carabinieri e vanno a fare le perquisizioni a Ragusa e io gli faccio subito gli accertamenti per dove perquisito. Frattanto mi arrivano le intercettazioni, le sento bene, le guardo con più attenzione, mi sento quella prima e quella dopo: quelli stavano parlando di una pianta che era morta, non di una bambina, quella che aveva chiamato poveretta, era una povera handicappata, che così, in un momento forse di solitudine e disperazione ha visto comparire il numero della trasmissione Chi l’ha visto e aveva telefonato. Io li ho chiamati, gli ho detto fermatevi, ritornate, non perdete più tempo, purtroppo non è la bambina e fortunatamente quella che è morta è solo una pianta.

Bene, per avere fatto questi accertamenti i procuratori aggiunti di Roma, Nello Rossi e Achille Toro, soggetti che emergevano dalle intercettazioni delle indagini del Dott. Luigi de Magistris per fatti che riguardavano uno dei più grandi complotti, mi hanno ordinato la perquisizione dei carabinieri sulla base di atti totalmente infondati che il tribunale del Riesame di Roma ha dichiarato totalmente infondati. Nessun giornale ha osato scrivere queste cose, nessuna televisione ha osato dire queste cose e la mia disperazione non è che non l’abbia detto Emilio Fede in apertura del telegiornale, non che non l’abbia detto canale 5 in apertura perché io da loro non mi aspetto nulla e quando ci hanno provato a portarmi là per utilizzare, per strumentalizzarmi, per far comparire quella grande scritta che avete visto dietro di me:” Il più grande scandalo della storia della Repubblica”, quel giornalista Mentana che forse voleva fare un regalo al suo padrone, come io gli ho detto e gli ho ricordato, dopo avere fatto l’errore di intervistare Di Pietro nella puntata precedente e Saviano nella puntata precedente ancora, è saltato pure lui. Perché tutti coloro che ci hanno provato in questa vicenda sono saltati, tutti appena si sono avvicinati ai fili dell’alta tensione sono saltati. Io per quelle cose sono stato indagato, nonostante il Tribunale ha ordinato la nullità della perquisizione, i magistrati e i pubblici ministeri di Roma si rifiutano a restituire l’archivio, si rifiutano a restituire i dati dove c’è la storia di venti anni d’indagini, dove ci sono gli atti che li riguardano, dove ci sono le intercettazioni dove loro parlano per asservirsi al potere, per asservirsi al sistema, per barattare i posti ai Ministeri dove brigano sulle cose più sporche di questa repubblica. Io mi vergogno, io mi vergogno, io ho vomitato quando ho sentito quelle intercettazioni. Questa è la procura della Repubblica di Roma e chi la rappresenta.

Oggi il problema credetemi non è più solo la politica, non è più solo Berlusconi, oggi il problema è la Magistratura e l’informazione. Durante il fascismo nei sistemi dittatoriali c’erano le Veline, i giornalisti erano tenuti a dare le informazioni che il governo, che l’Ovra che era un reparto speciale della Polizia, l’organizzazione di vigilanza e repressione antifascista diffondeva, quantomeno c’era un sistema ordinatorio perché coloro che non stavano con il regime leggevano quelle veline e sapevano qual era il pensiero del regime. Oggi non c’è più nemmeno bisogno di questo, perché oggi sono gli stessi giornalisti che si censurano, si autocensurano nella speranza, nel tentativo di essere sempre più simpatici nei confronti del padrone, nei confronti del principe e alla fine la graduatoria si fa sulla base di chi è stato più bravo a censurare, a non fare passare le notizie che dispiacciono e a rendere sempre più magnifica, più bella l’inquadratura del principe. Persino i cameraman vengono bastonati o vengono premiati a seconda se la ripresa la fanno dal basso verso l’altro cosicché sembra più alto e slanciato o se la fanno di lato, se la fanno di profilo, se fanno vedere le rughe o i capelli finti perché pure nella testa i capelli sono finti.

Questa è l’Italia, questa qualcuno continua  a chiamarla democrazia, gli Stati del mondo ci ridono tutti. Se non fosse per internet, se non fosse per la rete, se non fosse per i blog, se non fosse per la rivoluzione che network come Facebook e altri hanno fatto, io oggi sicuramente non sarei qua perché avrebbero osato fare qualunque e chissà quali altre cose pur di non consentirmi di esprimere. Io continuerò e continuo a fare il mio lavoro, io sono un uomo dello Stato, non mi sono mai sentito un uomo dello Stato come dal momento in cui mi hanno sospeso dal servizio della Polizia. In quel momento io mi sono reso conto che su di me c’era, nella mia piccola, nella mia modesta funzione la responsabilità di portare il riscatto dei tanti cittadini onesti, di quel popolo che non ne può più, che si ribella. Di quel popolo che in Italia, in Sicilia, a Palermo ebbe il coraggio all’indomani del 19 luglio 1992 di alzare la testa e di ribellarsi, di quel popolo che gridava nella cattedrale di Palermo, quando si organizzò quella scena ignobile dei funerali di Stato per i poveri agenti della scorta, dopo che la famiglia Borsellino aveva negato l’ assenso a che si facesse questa manifestazione e volle, e pretese che i funerali di Paolo Borsellino si facessero in privato. I politici riuscirono a convincere i poveri genitori dei poliziotti a fare i funerali di Stato per organizzare la passerella, poi dopo i funerali gli lasciarono le bare là e si dovettero pagare il conto loro, il papà di Emanuela Loi si è fatto il prestito alla Findomestic per pagare il trasporto della bara della figlia in Sardegna.

Questa è storia, questa è la storia d’ Italia, questa è la storia di questa nazione, di questo popolo che ha ucciso e ha fatto istaurare un sistema. Lasciamo perdere chi sono i mandanti occulti. Le indagini, vedrete nei prossimi mesi e nei prossimi anni quello che verrà fuori, le porcherie che hanno combinato in termini di azioni ed omissioni su quelle indagini. Non voglio parlare di cose delle quali parleremo dopo perché bisogna avere il coraggio anche quando si processa la mafia di processarla con le prove, con gli elementi, non con i finti pentiti altrimenti alle sentenze non ci crede nessuno, sono solo delle burle. Vi faccio una riflessione da poliziotto, da poliziotto semplice, da poliziotto di strada, di uno che è cresciuto facendo il proprio mestiere: se qui c’è una banca e c’è una rapina e i rapinatori scappano col bottino nella borsa, poi danno l’ allarme. A un chilometro da qua la Polizia ferma una macchina in corsa e trova un signore con la borsa e quelle sono le mazzette rubate nella banca perché c’è la matricola nella fascetta, secondo voi che prove più ci vogliono per stabilire che quello è il rapinatore? Ci vuole la dichiarazione del notaio, che cosa altro ci vuole? E’ chiaro che i ladri sono loro.

Bene, in Italia c’era una Repubblica, c’era un sistema, un sistema di corrotti, un sistema di delinquenti, di tangentisti ma c’era un sistema, c’era un Parlamento, c’era un Presidente della Repubblica che si chiamava Francesco Cossiga, che aveva rappresentato il peggio della politica italiana, il peggio della democrazia cristiana, il peggio nella scellerata gestione della lotta al terrorismo come Ministro dell’ Interno ma un uomo che giunto alla fine del settennato, della sua carriera, fulminato sulla via di Damasco aveva cominciato a picconare il sistema, a colpire a destra, a manca e i primi che colpiva erano proprio i suoi, quelli della democrazia cristiana. A quell’uomo fecero l’impeachement a quel punto perché quell’ uomo che avevano sostenuto, che avevano votato tutti, compresi quelli della sinistra e avevano appoggiato a diventare Presidente della Repubblica, quando cominciò a picconare lo fecero dimettere. Dovevano creare uno Stato nuovo, dovevano creare la seconda Repubblica e fecero le stragi. Chi c’è andato al governo dopo le stragi? Chi ha vinto le elezioni? Quale partito è nato dalle ceneri, dal sangue di quei del 23 maggio e del 19 luglio? A chi sono servite quelle due stragi? Non serve la prova della fotografia del rapinatore dentro la banca. Io lo avevo visto scappare a un chilometro da qua con la borsa in mano e con i soldi rubati dentro la banca, è la stessa cosa!

Questa è la verità, questa è la vera verità scomoda che hanno impedito di affermare in Italia e che vogliono impedire e quindi ogni scusa è buona. Io adesso mi scuso di avere rubato qualche minuto in più, ma devo fare una dichiarazione solenne. Io sono stato sentito l’altro giorno per una giornata intera a Caltanissetta, ho dato il mio contributo ai magistrati che stanno riaprendo le indagini su quelle stragi, io confido molto nella serietà e nell’onestà dei magistrati che in questo momento, sia  a Palermo sia a Caltanissetta e sia a Firenze, stanno rivedendo alcuni aspetti di quelle vicende. Paolo Borsellino era entrato in un gioco più grande di lui, Paolo Borsellino aveva sentito Mutolo, Mutolo gli aveva fatto il nome di due persone, in particolare di Bruno Contrada e del giudice Signorino. Dopo che il giudice Signorino è stato interrogato a Caltanissetta per una giornata intera, siamo partiti insieme, lui con la sua macchina ovviamente e noi con la nostra. Lui andava più veloce, è arrivato a Palermo prima di noi, noi stavamo entrando a Palermo e ci hanno chiamato dicendoci che si era suicidato e per suicidarsi vuol dire che qualche motivo, poveretto, l’aveva, poveretto perché di fronte alla morte. Io ho assistito purtroppo alla sua di morte e poi ho assistito alla morte di un altro magistrato che è il procuratore di Cagliari, Luigi bombardini, anche quello suicidatosi dopo che lo abbiamo interrogato con gli elementi, con le prove in mano, coi contatti telefonici, coi tabulati che Caselli gli contestò uno per uno. Questi due magistrati, colpevoli o innocenti che fossero, i morti non si processano più e vanno rispettati, hanno avuto il coraggio di uccidersi e di suicidarsi.

I magistrati di Catanzaro su cui stavamo indagando col Dott. de Magistris, pur nostro malgrado il coraggio di suicidarsi non lo hanno avuto e hanno fatto pure carriera e il Dott. de Magistris è stato cacciato e io sono stato cacciato, inquisito e perquisito solo per avere fatto delle indagini su dei magistrati collusi con la politica. Questa è la verità. Paolo Borsellino aveva degli appunti, aveva delle annotazioni, Paolo Borsellino era andato al Ministero dell’ Interno dove c’era il capo della Polizia Parisi, Paolo Borsellino tentarono di fermarlo al Ministero dell’ Interno probabilmente non Parisi e probabilmente qualche altro che ricorda di non averlo incontrato, Paolo Borsellino non usava i computer a differenza di Falcone che provvederono a cancellare, Paolo Borsellino usava un’ agenda, un agenda rossa dell’ arma dei  Carabinieri che gli aveva regalato Carmelo Canale puntualmente come ogni anno.  Quell’ agenda è sparita dalla borsa in pelle che avete visto, quella borsa in pelle io l’ho esaminata, c’era intatto il costume di nylon blu, c’era il telefonino microtac, era incendiato perché era uscito dalla borsa, dentro la macchina era caduto durante l’ attentato. Di quel telefonino è rimasto un reperto che un familiare ha ricevuto, ha consegnato il telefonino alla procura perché era proprietà dello Stato, non lo era la batteria, la seconda batteria che il magistrato si era comprato. Questa è la batteria dello Star-Tac  del Motorola che si è trovata intatta sul luogo della strage. La vedete ancora annerita – scusate mi commuovo perché ho visto quelle scene terribili che non dimenticherò mai -, questa è la batteria del cellulare microtac di Paolo Borsellino che porta ancora i segni di quell’incendio, di quella esplosione e che è resistita alla strage e che rappresenta oggi il riscatto degli italiani onesti. La batteria che è infiammabile è rimasta e l’agenda è sparita, in quell’ agenda ci sta lo schifo di questa nazione su cui hanno costruito i destini d’ Italia. Questo non può più essere consentito.

Pino Maniaci: “Dott. Genchi, c’è una sentenza dal Tribunale che dovrebbero restituirgli gli archivi, e questi archivi non vengono restituiti. Allora questo è un altro punto di riferimento, parliamo della magistratura e di una magistratura che si contraddice in sostanza”.

Dott. Genchi: “No, la magistratura fortunatamente ha ancora al proprio interno i canoni dell’ indipendenza. Mi riferisco in particolare agli uffici della magistratura giudicante, di quei giudici che lavorano in silenzio, che sgobbano, che scrivono le sentenze, che fanno onestamente il proprio lavoro e che non ambiscono agli strapuntini e agli incarichi di governo. A questi magistrati deve essere rivolta la solidarietà dei cittadini onesti e della gente per bene. Il problema non è la magistratura, qualcuno vuol far capire che in Italia il problema sia la magistratura. Il problema è l’affermazione di una nuova logica che travalica i partiti, che travalica i movimenti, che travalica le stesse strutture ideologiche o paraideologiche che hanno vinto le elezioni. Hanno svenduto un partito quale alleanza nazionale e lo hanno fatto confluire in un altro, mi hanno scritto i ragazzi di Azione Giovani insieme ai ragazzi di estreme sinistra che volevano organizzare delle manifestazioni. Mi hanno scritto e mi hanno detto “in fondo Alemanno ci sta accontentando,” sta intitolando una via a Craxi a Roma, sta intitolando una via a Craxi per quegli stessi giovani del fronte della gioventù nel 2003 all’uscita del Raphael avevano gridato via Craxi dallo Stato, adesso Alemanno gli sta  intitolando la strada: Via Craxi.

De Magistris parla di una nuova P2, io che sono andato un po’ più avanti nelle indagini da quando a lui gliele hanno tolte, mi permetto di dire che forse l’espressione non è perfettamente corretta in  termini storici e politici: questa è peggio della nuova P2, Licio Gelli, forse, al cospetto sembrerebbe, rappresenterebbe un campione di democrazia. Il soggetto di vertice che io ho trovato in rapporto con il magistrato che mi sta indagando è un soggetto che è stato cacciato dalla p2 di Licio Gelli per indegnità. Quindi voi immaginate il capo di una banda di ladri che dopo avere fatto una serie di furti viene derubato da uno dei suoi ladri e lo caccia dalla banda, io vi chiedo, da un punto di vista morale, poi i giudici valutano le colpe di ognuno, secondo voi chi è il più indegno: il capo della benda dei ladri o il ladro che ha fregato il bottino alla banda e al proprietario? Ebbene io ho trovato questo soggetto, che ha un nome e ha un cognome, anzi di nomi ne ha due per la verità, l’ho trovato in rapporto telefonico, col telefono di casa, con la persona che mi sta indagando, che mi ha perquisito e queste erano le indagini che io stavo facendo e io sto pagando anche per questo.

E non è che erano dei giorni a caso, erano i giorni della scalata all’ Antonveneta, erano dei giorni in cui furono filtrate le intercettazioni telefoniche di Consorte, che poi furono pubblicate sui giornali con Fassino da un preciso giornale, da un preciso giornalista che vedi caso è quello che mi ha provocato su Facebook per consentire poi che si affermasse la volontà di Gasparri secondo la quale io dovevo essere sospeso dal servizio. Bene, se mi consentite allora io spendo una lancia a favore di Gelli perché la P2 forse era un esempio di democrazia al cospetto di questo Stato che oggi queste persone vogliono affermare.

Alla fine dell´intervento del dott. Luigi de Magistris, il dott Genchi ha aggiunto:

Dott. Genchi: “E poi possibilmente, se mi consentite, poi queste persone devono essere controllate perché chiunque fa un lavoro deve essere controllato, se non funziona il sistema dei controlli…. Io ricordo un particolare: dodici anni fa, tredici anni fa io mi occupai di un´indagine, si era rifatto l’impianto dell’acquedotto di Trapani. Trapani sapete è una città dove ci sono stati sempre problemi idrici, al che venne fatto un progetto che venne finanziato, c’ erano fonti che venivano da varie parti, diverse centinaia di miliardi. Facendo un sistema elettronico di ingegnerizzazione, di calcolo, di telecontrollo si doveva studiare una captazione dai vari posti in cui si tirava l’ acqua in modo da far aumentare le risorse idriche per Trapani. Si sapeva quant’era l’acqua che l’acquedotto riusciva ad erogare e si spesero qualcosa come tre, quattrocento miliardi delle vecchie lire per questo sistema. Alla fine dei lavori, fatti ovviamente malissimo, progettati ancora peggio,l’ acquedotto rendeva il 20, il 25% di quanto rendeva prima. Praticamente quei tre-quattrocento miliardi avevano dato più da mangiare che da bere. Si sono fatte le indagini ed è venuto un governo che ha cambiato al legge, ha fatto una legge mi pare sul giusto processo o qualcosa del genere. Praticamente questo giusto processo era qualcosa che doveva servire per aumentar i termini di tutta una serie di cose e sostanzialmente tutto prescritto, tutto a carte per aria, ci abbiamo pure rimesso le spese delle indagini.

Questa è la realtà contro la quale bisogna lottare. La giustizia deve essere efficace, deve essere veloce e non deve perseguire o perseguitare solo l’extracomunitario, il tunisino, il marocchino o il rumeno e se il rumeno non c’è se ne trova uno qualunque tanto interessante che sia rumeno, purchè sia rumeno e si risolve il tutto. La giustizia deve funzionare per tutti, sia che abbiano i jeans, sia che abbiano la cravatta, sia che abbiano la camicia, il colletto bianco o i jeans, o i colletti sporchi. Perché spesso in Italia la giustizia quando comincia  a trovare i colletti, quelli sporchi, si ferma e quando lo sporco è lo sporco di sangue manco riesce a partire. Questo è il vero riscatto, la vera rivoluzione che la gente, il popolo deve pretendere da uno Stato. Perché uno Stato che non riesce a dare la verità e giustizia non potrà mai dare né libertà né risorse umane, né lavoro, né diritti perché al giustizia e la verità è il primo bene di una qualunque comunità sociale perché si possa chiamare Stato”.

Domanda dal pubblico: “Dott. Genchi, da cosa trae la forza per andare avanti, per lottare?”

Dott. Genchi: “Io ti ringrazio per la domanda perché mi dai l’opportunità di dare un messaggio. Intanto devo dire che questa vicenda, a parte la fortuna di avere forse scoperto i miei figli che hanno la tua età, e averli scoperti e sentiti vicino come mai da padre io avevo sentito i miei figli, mi ha fatto sentire il calore e la vicinanza di tanti ragazze e ragazzi, come te. E’ stato qualcosa di impressionante, 127.000 e-mail e messaggi su Facebook, gente che peraltro inizia a insultarmi perché non ho il tempo di rispondere. Fra tutti cito quello di una ragazza, una ragazza dell’Aquila, una studentessa universitaria, una ragazza iscritta a giurisprudenza che mi aveva scritto prima del terremoto, mi aveva dato la solidarietà, aveva scritto un’e-mail bellissima e mi aveva detto che voleva fare il Commissario di Polizia, voleva dei consigli, voleva essere aiutata e indirizzata in quel lavoro. Quella ragazza non l’ho più sentita dopo il terremoto, sono preoccupato, ho cercato in tutti i modi di raggiungerla. L’unica notizia che ho avuta è stata che la sua casa era stata distrutta. Ho cercato d’informarmi, dicono che questa protezione civile funzioni, funziona forse a comprare le magliettine di quello che le fa o di far funzionare le imprese a cui affidano i lavori, comprese quelle a cui fanno fare le carceri, le caserme pagandogliele cinque volte quello che valgono per poi togliere pure i soldi della benzina e dello straordinario dei poliziotti che poi non possono più fare le indagini in Italia. Questo è un altro capitolo. Qualche giorno fa ho avuto una sorpresa: ho aperto il palmare e quella ragazza mi ha scritto e mi ha detto “Dottore sono riuscita oggi ad avere la pennetta ed il mio computer, ho perso mio fratello e mio zio nel terremoto. Ho acceso il computer ed il primo pensiero è stato di scrivere a lei perché sicuramente sarà stato in apprensione per me”. Questo fra i migliaia di messaggi che ho ricevuto è stato veramente il più forte, il più commovente, i tantissimi ragazzi…

Mi diceva un giornalista studioso di marketing  che cura diverse trasmissioni e che ha intervistato pure il Dott. de Magistris, Klaus Davi, che hanno fatto un sito per sondare le aspirazioni dei giovani, per fare degli studi di mercato interessanti per l’avvio dei giovani alle professioni, al lavoro, alle aziende perché ancora c’è qualcuno che queste cose le studia con intelligenza, mi ha detto “Dottore, lei forse non ci crederà, fra le professioni per cui i ragazzi hanno espresso la maggiore vocazione non c’era scritto il poliziotto, il carabiniere, il finanziere,il  magistrato… Io voglio fare il Genchi”, credetemi questa cosa mi ha dato una commozione, dice io voglio lavorare accanto ai giudici, voglio lavorare con ai magistrati, voglio lavorare con la Polizia, voglio lavorare con i Carabinieri, coi computer, cioè voglio dare un mio contributo di intelligenza, d’ingegno e mi ha fatto veramente riflettere come forse proprio i giovani, i ragazzi della tua età, gli studenti universitari sono stati i primi a capire la mia vicenda, che poi era la vicenda del giudice de Magistris che è la vicenda dei magistrati di Salerno e sono stati i primi a ribellarsi. Voi siete stati la nostra forza, noi credetemi, abbiamo pensato principalmente a voi perché nessuno pensava di fare quello che noi oggi stiamo facendo. Luigi de Magistris voleva continuare a fare il magistrato e io con lui speravo di concludere quei processi come ne avevamo già conclusi altri con tanti altri magistrati e non lo facevamo per vana gloria, lui per diventare deputato e io per diventare chissà chi. Io ero un illustre sconosciuto e come tale volevo rimanere, se avessi avuto la bramosia di mettermi in mostra in venticinque anni con le cose che ho fatto chissà quante occasioni, quante passerelle, quante telecamere, quante trasmissioni televisive, quanti inviti da Vespa ho rifiutato. Noi abbiamo lavorato e stavamo lavorando nel tentativo di darvi un’ Italia migliore di quella che i nostri padri hanno consegnato a noi con tutti questi  lestofanti. Fino ad oggi i lestofanti hanno avuto la meglio, noi siamo uno a zero però la palla è al centro, la palla è in mano a voi che adesso avete la possibilità di utilizzarla e scagliarla contro chi ha lottato e ha cercato di devastare il vostro destino. Vi vogliono affamare, vi vogliono togliere la speranza, vi vogliono togliere tutte le opportunità nel nome di un affarismo che con le banche, coi Parmalat, coi Bond, con i cali azionari, con i furti delle banche, degli interessi, con le truffe dei fallimenti, con tutte le magagne di Stato che organizzano per cui in un colpo solo riescono a rubare miliardi e miliardi, e poi noi andiamo a inseguire il povero ladro che va  a rubare un secchio d’uva e facciamo sembrare come se fosse chissà che, ecco è anche a questo che bisogna ribellarsi e voi siete i protagonisti del vostro futuro, amministratelo bene, studiate prima di tutto, crescete culturalmente, non separatevi dai vostri computer, utilizzateli al meglio delle loro possibilità perché quegli strumenti oltre ad essere dei grandi strumenti di democrazia, sono dei grandi strumenti di cultura. L’Italia è nelle vostre mani”.

Information Day Marsala 26/04/09 – Gioacchino Genchi, Salvatore Borsellino, Luigi De Magistris, Pino Maniaci

(raccolta di video di Valentina Culcasi)

Presentazione

Il moderatore Pino Maniaci

Salvatore Borsellino (parti da 1 a 6)





Luigi De Magistris (parti da 1 a 3)


Gioacchino Genchi (parti da 1 a 5)




Berlusconi, Dell’Utri e la mafia

Mafia & politica

Mafia & politica.

Scritto da Roberto Brumat

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Benny Calasanzio e Salvatore Borsellino
Fonte http://robrumat.altervista.org/

Due Borsellino, un unico destino

La società è come il nostro organismo: quando si ammala crea anticorpi, generati per contrastare il morbo. E se il morbo si chiama mafia gli anticorpi più resistenti sono i superstiti delle vittime oneste di mafia. Due di questi anticorpi si chiamano Salvatore Borsellino e Benny Calasanzio: 67 anni il primo, 24 il secondo. Li accomuna, oltre alla passione civile, il cognome dei loro familiari assassinati nel 1992: Borsellino. Il giudice Paolo Borsellino, fratello di Salvatore e gli imprenditori Paolo Borsellino e Giuseppe Calasanzio, zio e nonno di Benny. Li abbiamo incontrati a Padova in un incontro pubblico alla Fornace Carotta organizzato dai ragazzi di Laboratorio ‘48.

Quando dopo essere stato costretto a cedere l’impresa alla mafia, dopo le prime minacce e l’uccisione di suo figlio Paolo, mio nonno raccontò tutto agli inquirenti, questi gli consegnarono porto d’armi e pistola: non essendo un pentito (non era mafioso) non potevano proteggerlo. Così per freddarlo a colpi di kalasnikov 8 mesi dopo, la mafia attese che passasse in auto nella piazza del paese gremita di gente. Era rassegnato, abbandonato da tutti: diceva di essere un morto che cammina.

Chi parla è il giornalista Benny Calasanzio: I mandanti sono rimasti impuniti, il sindaco di allora è stato rieletto, solo un killer è finito dentro. Chi l’ha ucciso, come sempre, sono mafiosi di basso livello che vanno compatiti: non hanno il coraggio di agire da soli, hanno paura della loro ombra e per questo prima di sparare sniffano cocaina, per avere una donna la pagano, hanno con sé la bibbia e sono uomini perennemente in fuga.

Diversa la storia, conosciuta, del giudice Borsellino e dei suoi angeli custodi. Salvatore Borsellino ne ricorda i nomi perché non siano solo “i ragazzi della scorta”: Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina (Antonio Vullo rimase ferito).

Paolo Borsellino non si occupava di diritto penale, era un giudice civile chiamato da Falcone nel pool antimafia. Poi un giorno mentre alla DIA di Roma interrogava il pentito Gaspare Mutolo, con cui io oggi parlo tranquillamente– racconta il fratello Salvatore- disse all’ex mafioso “Vado via due ore e torno”. L’aveva convocato il neo ministro dell’Interno Nicola Mancino. Era il primo luglio 1992 e sulla sua agenda degli appuntamenti (non quella rossa sottratta dai servizi segreti) è annotato h 19 Mancino. Mutolo, che stava svelando gli intrecci tra mafia, politica, polizia, servizi segreti, racconta che quando mio fratello tornò era così nervoso che si mise in bocca due sigarette. Ne chiese al giudice il motivo e lui gli rispose che assieme al ministro aveva visto Bruno Contrada. Mancino nega quell’incontro, dice di non aver mai visto Borsellino. E’ indegno, ma l’attuale vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura non può parlare: se lo facesse dovrebbe ammettere che quella sera al Viminale fu presentata a Paolo la trattativa avviata tra lo Stato e Cosa Nostra. I Ros dei Carabinieri stavano trattando per far finire l’attacco allo Stato.

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Stragi di Stato e nuovi eroi nazionali

“Devo fare in fretta” diceva Paolo nei 57 giorni vissuti dopo la strage di Capaci. Sapeva che presto sarebbe stato ucciso. Nella sua ultima lettera scrisse che stava cercando di allontanarsi dai figli nell’illusione che sentendolo più distante avrebbero sofferto di meno quando sarebbe morto. Aveva cominciato a tenere in braccio meno spesso la figlia e continuava a dire: “Quando sarò ucciso sarà stata la mafia, ma non sarà stata la mafia a volere la mia morte”. Se ripenso a tutti i grandi attentati italiani (piazza Fontana, Italicus, Brescia, Bologna, Ustica…) vedo che sono tutte stragi di Stato! Le stragi di Stato sono sempre servite per indirizzare gli equilibri politici dell’Italia. Una cosa che ci rende indegni di considerarci un Paese civile.

E fa male sentire il premier chiamare eroe un mafioso assassino come Vittorio Mangano, il “fattore” (detto stalliere perché nelle intercettazioni parlava di cavalli da consegnare, riferendosi invece a partite di droga) che per due anni visse con la famiglia Berlusconi nella villa di Arcore e ogni giorno accompagnava a scuola i figli dell’attuale premier e che nell’86 fece esplodere una bomba fuori di una casa milanese di Berlusconi, e nel 1995 strangolò il vecchio boss palermitano Giovanbattista Romano sciogliendolo poi nell’acido: reato per cui fu condannato all’ergastolo oltre che per l’uccisione di Giuseppe Pecoraro. Berlusconi lo definisce eroe per non aver fatto i nomi dei politici! Così si dichiara eroica l’omertà! Ecco perché i ragazzi della scorta Borsellino non li chiamerò mai così: non voglio confonderli con questa gente. Sono dei martiri.


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Il piano piduista di Gelli è stato attuato

Il fatto è che gli italiani non si accorgono che viviamo dentro un golpe bianco – prosegue Salvatore BorsellinoCome possiamo riconoscerci in un Paese che non rispetta più la Costituzione, che fa sedere in Parlamento 19 condannati definitivi, che dà l’immunità parlamentare, che legifera attraverso decreti legge? Non siamo più in democrazia. Le decisioni per il Paese non si prendono più nel Gabinetto dei ministri, ma nelle sale da pranzo delle residenze private del premier. Il lodo Alfano è una modifica alla Costituzione. Andate a vedere il piano Rinascita democratica di Licio Gelli e ritrovate l’Italia di oggi. Nella P2 Berlusconi aveva la tessera 1816 e Fabrizio Cicchitto la 2232. Anche il progetto Gelli sulla stampa è stato attuato mettendo a libro paga almeno due giornalisti influenti per ogni redazione, tanto che oggi l’informazione è omologata. Per capirlo cercate i primi attacchi a Gioacchino Genchi, il funzionario di polizia specializzato non nelle intercettazioni telefoniche (come scritto da tutti i giornali), ma nell’incrociare i dati dei tabulati telefonici: 2 giorni dopo il Corriere che lo presentava come “lo spione di tutti gli italiani” è arrivata Repubblica e dopo 4 giorni La Stampa. Articoli simili. Oggi c’è anche un altro fenomeno curioso: se cerco le news sul cellulare, 8 volte su 10 le prime che mi fornisce Google sono tratte da Il Giornale. Un caso? Per avere un’informazione libera sull’Italia ora leggo la stampa estera. E perfino le notizie sul dopo terremoto devo apprenderle da chi mi informa direttamente dall’Abruzzo: così ho scoperto che c’erano paesi dove le tende non erano ancora arrivate, quando si diceva che le avevano tutti, che non c’era il riscaldamento… Poi veniamo a sapere che la prefettura de L’Aquila è stata sgomberata tre ore prima della rovinosa scossa. Ma come! Questi intuivano il pericolo e non hanno lanciato l’allarme?

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La mafia e la crisi

Perché sappiamo tutto della Franzoni e degli assassini di Erba e nessuno parla dei processi a Marcello Dell’Utri, condannato a 10 anni per corruzione mafiosa, l’uomo che Berlusconi abbraccia? La verità- prosegue Borsellino– è che il Mezzogiorno con le sue mafie continua ad essere tenuto così perché funzionale al potere: è esclusivamente un serbatoio di voti facilmente controllabile grazie alla capillare pressione esercitata sulla gente dalla criminalità organizzata. Ma l’errore che fate nelle altre regioni è pensare che la mafia l’abbiamo solo noi al Sud. Dove credete che investa i suoi soldi sporchi di sangue, se non dove l’economia gira? Dove investe in centri commerciali, costruzioni, locali, se non al nord? E oggi con la scarsa liquidità delle banche dovuta alla crisi, chi viene in soccorso con ingenti capitali se non la forza economica privata numero uno in Italia? Ormai le mafie uccidono poco, preferiscono gli affari: ma i tanti cinquantenni lasciati a casa quando per comodità si preferisce far fallire le aziende, non vengono forse “uccisi” anche loro?

Bavaglio agli inquirenti scomodi

Non è più di moda ammazzare i giudici: basta delegittimarli e attaccarli sulla stampa presentando inesistenti guerre tra Procure. Quella di Salerno ha messo in luce gravissimi reati commessi dalla Procura di Catanzaro su cui ha giurisdizione. Luigi De Magistris, pubblico ministero da tre generazioni, per il suo impegno è stato costretto a cambiare lavoro: mi ha detto che la scelta di passare alla politica è stata difficile, ma la sola possibile.

Poi c’è Genchi, sospeso dal servizio in polizia. I suoi controlli avevano permesso di capire che 80 secondi dopo la strage di via D’Amelio qualcuno aveva comunicato l’attentato a Bruno Contrada capo in Sicilia dei servizi segreti, chiamandolo dal castello di Utveggio che sovrasta il quartiere. La telefonata partì dal cellulare clonato del giudice appena ammazzato. Nel castello c’erano la sede segreta del Sisde e la Compagnia delle Opere (associazione imprenditoriale di ispirazione ciellina, che raggruppa 34.000 imprese). E’ dalla sede del servizio segreto (camuffata nel centro regionale di formazione per manager Ce.Ris.Di.) che mesi prima dell’attentato ci fu uno scambio di telefonate con il sospetto mafioso Gaetano ScottoLa Compagnia delle Opere è presente in ogni processo su distrazione di fondi pubblici. Tutti gli appalti pubblici lombardi passano attraverso la Compagnia delle Opere… E Genchi dice che i suoi guai sono iniziati quando nelle inchieste si è imbattuto in personaggi legati ad essa. Temo per la vita di Genchi. Intanto gli hanno tolto distintivo, pistola, casella mail alla polizia di Stato.

Ecco i prossimi giudici nel mirino!

Borsellino invita a prevedere i prossimi eventi: Tenete d’occhio i bravi giudici Ingroia e Di Matteo: sono i prossimi che subiranno forti attacchi perché si stanno occupando dei vertici dei Ros a Palermo. A Milano gli stessi vertici Ros (che hanno perquisito senza averne giurisdizione gli archivi di Genchi e che hanno “curiosamente” omesso di perquisire il covo di Totò Riina, sono incriminati per traffico di droga. Ma non è solo il centrodestra ad attaccare i giudici, c’è anche il centrosinistra: come avvenuto con i giudici De Magistris e con Clementina Forleo. Perché destra e sinistra hanno stretto accordi come ha ammesso chiaramente alla Camera anche il senatore Violante

Ma l’ingegnere elettronico che sulla sete di verità ha fatto una battaglia personale, ammette: La consorteria politica persegue i suoi interessi. Non ho speranze di vedere giustizia. Dovrebbe succedere ciò che Leonardo Sciascia vedeva come impossibile: che lo Stato processi se stesso.

FONTE: http://robrumat.altervista.org/

Dell’Utri minaccia, non estorce. I bizantinismi della Giustizia che non mi piace

http://bennycalasanzio.blogspot.com/2009/04/dellutri-minaccia-non-estorce-i.html:

La notizia, se conoscete Dell’Utri, fa sorridere. Parliamo di un collaboratore esterno di Cosa Nostra, almeno a quanto ci ha detto la sentenza di primo grado del processo al galantuomo che si svolge a Palermo. Uno cresciuto all’ombra dei boss. Dell’Utri di processo in corso ne ha anche un altro per estorsione ad un imprenditore di Trapani. Come riassume benissimo Rino Giacalone di Antimafiaduemila, La storia è quella della sponsorizzazione della Pallacanestro Trapani. Publitalia la fornì, tra il 1991 ed il 1992, alla società cestistica che era riuscita ad acciuffare un posto nella massima serie di campionato, ma il suo manager, Marcello Dell’Utri, voleva che una parte dei soldi del contratto di sponsorizzazione fosse restituita in nero. In tutto circa 800 milioni di vecchie lire, cosa alla quale Garraffa si oppose e così scattarono, contro di lui, una serie di contromisure. Compresa una visitina del “boss”, che un giorno andò a bussare alla sua porta, a Trapani, per convincerlo a dire di «si» a Dell’Utri che poche settimane prima aveva consigliato al presidente Garraffa di «ripensarci», perché, gli aveva detto,” lui aveva gli uomini per convincerlo”. Due processi, celebrati a Milano, primo e secondo grado, avevano stabilito la responsabilità di Dell’Utri e Virga, condannati a 2 anni per tentata estorsione. In Cassazione invece il giudizio fu cancellato, fu rimesso alla valutazione di un’altra sezione della Corte di Appello, ma sempre di Milano. I nuovi giudici di Appello a Milano hanno deciso la derubricazione del reato nonostante la Procura generale aveva confermato la richiesta di condanna come nei. precedenti giudizi. Per i giudici milanesi il galantuomo indagato anche per le stragi del 1992 commise il reato (chiese la tangente assieme al boss) ma non si trattò di una vera e propria estorsione, ma di una minaccia grave. Mi chiedo, nella mia ignoranza infantile, cosa distingua una estorsione da una minaccia grave. Il tono, l’abbigliamento o il nome di chi la effettua? Quindi, mi permetto di interpretare la decisione giudiziaria, se io mi reco con un mafioso a chiedere dei soldi ma sono uno che conta, uno col colletto bianco, è una minaccia grave. Se lo fa uno sbandato, un picciotto di un clan è estorsione. Giusto? Ora, il processo andrà in prescrizione, guarda caso perchè un reato come la minaccia si prescrive in pochi anni rispetto all’estorsione. Guarda caso naturalmente, mica altro. Ricordate però, oh voi posteri, che il reato dal galantuomo è stato commesso, quindi non è assolto o prosciolto. No, già fatto questo gioco!

RnS – Dell’Utri, la mafia e il silenzio dei media – indigeni, berlusconi e la mafia

RnS – Dell’Utri, la mafia e il silenzio dei media – indigeni, berlusconi e la mafia.

Dell’Utri era presente a una riunione del ’92 nella quale c’erano anche D’Agata e altri personaggi di Catania come Aldo Ercolano [esponente di vertice dei clan catanesi]. Si discuteva della strategia di portare avanti un partito nuovo per fare delle cose in Italia e aggiustarne altre come il 41 bis. Bisognava anche screditare i pentiti e proprio a questo doveva servire il partito nuovo. Maurizio Avola, collaboratore di giustizia.

di Giuseppe Giustolisi / Micromega, La primavera n.2 del 9 marzo 2006

È una fredda mattinata di febbraio quando da un «sito riservato», come si dice in gergo giudiziario, depone in videoconferenza un collaboratore di giustizia nel processo che si celebra davanti al tribunale di Catania contro la mafia messinese e due magistrati, l’ex sostituto della Direzione nazionale antimafia Giovanni Lembo e l’ex capo dei gip di Messina Marcello Mondello (da qualche anno in pensione), imputati di concorso esterno in associazione mafiosa.

Il pentito si chiama Maurizio Avola, classe 1961, catanese, il killer preferito del boss Nitto Santapaola. Nel suo palmarès criminale Avola vanta numerosi omicidi e altrettante rapine ed estorsioni, fatti per i quali ha già incassato una condanna definitiva a trent’anni. Arrestato nel 1993, dopo un anno inizia la sua collaborazione con la procura di Catania (beneficia subito del programma di protezione, ma poi lo perderà per delle rapine commesse nel 1997) e confessa di essere l’autore dei fatti di sangue più efferati avvenuti nella zona etnea, tra cui l’omicidio eccellente del giornalista catanese Giuseppe Fava. Il contributo delle sue rivelazioni è stato determinante per la condanna di boss e gregari della mafia etnea nel processo Orsa maggiore. Ma le rivelazioni di Avola entrano anche in altri processi, come quello celebrato a Palermo a carico di Marcello Dell’Utri, poi condannato a nove anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa. E proprio di Dell’Utri il pentito è tornato a parlare nel processo di Catania, a proposito del disegno stragista di Cosa Nostra. L’ex killer catanese, quella mattina, ha raccontato anche qualche particolare inedito su quella zona grigia, mai completamente esplorata dalle inchieste della magistratura, che fa da cerniera fra la mafia che spara e i piani alti della politica e dell’economia.

Avola non è un mafioso di primo piano, ma è a conoscenza dei segreti più pesanti di Cosa Nostra perché fino al momento del suo arresto era l’ombra di Marcello D’Agata, il vice del boss Santapaola. Lo accompagnava ovunque, anche nei summit mafiosi di un certo rilievo e poi D’Agata, puntualmente, gli riferiva di fatti e persone. Figura centrale degli intrecci inconfessabili fra Cosa Nostra e il mondo dei colletti bianchi, secondo Avola, era Michelangelo Alfano, un imprenditore morto suicida di recente in circostanze ancora poco chiare e imputato di mafia in questo processo. Avola sa molte cose su questo personaggio, ma all’inizio della sua collaborazione omette di raccontarle. «Non parlai di lui», dice al pm Antonino Fanara, «perché D’Agata mi diceva che era un personaggio molto potente e che faceva anche parte della massoneria. Era quindi una persona che mi faceva un po’ paura. E così non parlai né di lui, né di altri ma solo dei semplici mafiosi come eravamo noi». Tanto per capire meglio lo spessore di Alfano, di lui si parla al processo per l’omicidio del banchiere Roberto Calvi.

Agli atti c’è anche la foto della Ferrari di cui Alfano era proprietario, dove sono in posa, appoggiati alla macchina, Flavio Carboni e Silvano Vittor. Ma ancor più indicative della caratura del personaggio sono le parole di un colonnello dei carabinieri, Michele Riccio, che nel processo palermitano Grande Oriente ha definito Alfano Fanello di collegamento fra Cosa Nostra stragista e pezzi deviati dello Stato. «Sapevo da D’Agata», continua Avola, «che Alfano era interessato agli appalti e che era un uomo di Cosa Nostra. Partecipava anche a delle riunioni importanti in provincia di Messina, agli inizi degli anni Novanta c’era infatti una strategia contro lo Stato che prevedeva di mettere delle bombe in giro».

E a questo punto che salta fuori il nome di Dell’Utri. Il pm chiede ad Avola informazioni sui rapporti fra il manager berlusconiano e Cosa Nostra e il pentito risponde: «Dell’Utri era presente a una riunione del ’92 nella quale c’erano anche D’Agata e altri personaggi di Catania come Aldo Ercolano [esponente di vertice dei clan catanesi]. Si discuteva della strategia di portare avanti un partito nuovo per fare delle cose in Italia e aggiustarne altre come il 41 bis. Bisognava anche screditare i pentiti e proprio a questo doveva servire il partito nuovo». I contatti fra Dell’Utri e la mafia siciliana erano già iniziati prima, per risolvere la faccenda delle estorsioni compiute dai clan catanesi ai danni dei magazzini Standa, allora di proprietà del premier Silvio Berlusconi. «Dell’Utri aveva stabilito contatti a Catania in occasione dell’estorsione alla Standa», prosegue Avola. «Erano state incendiate diverse Standa a Catania e provincia e noi avevamo contattato Dell’Utri tramite Salvatore Tuccio [anche lui braccio destro del boss Santapaola]».

Passano pochi mesi e il rapporto fra Dell’Utri e Cosa Nostra di Messina si consolida. Secondo il racconto del pentito, infatti, gli attentati a Falcone e Borsellino e le stragi del ’93 vengono pianificate a un tavolo messinese, al quale siedono tra gli altri Marcello Dell’Utri e Michelangelo Alfano: «La strategia è nata a Messina e tutto deriva dai contatti fra Alfano e Dell’Utri». Dunque un periodo di attività febbrile per la mafia messinese, con incontri ad altissimo livello che si susseguono a ritmo vertiginoso. A un certo punto però lo scenario cambia. Il tavolo delle riunioni si sposta nella capitale, dove viene programmato un altro attentato eccellente: «In quel periodo ci fu una riunione all’Hotel Excelsior di Roma», continua Avola. «Vi parteciparono D’Agata, Alfano e personaggi di altissimo livello. Fra questi ricordo Cesare Previti e il finanziere Francesco Pacini Battaglia. Lo scopo era quello di fare un attentato al giudice Di Pietro e io dovevo essere l’esecutore. Bisognava fare un favore ai socialisti, ma poi la cosa non andò avanti perché i socialisti non stavano mantenendo quanto promesso e nel frattempo si profilava l’alleanza con la nuova forza politica che stava nascendo».

A Catania, negli anni Ottanta, il rapporto fra Cosa Nostra e il Psi era di strettissima cointeressenza, dice Avola, che su questa liaison è prodigo di particolari, sollecitato da una domanda dell’avvocato Fabio Repici, difensore di un collaboratore di giustizia imputato nel processo. «Il clan Santapaola aveva canali di riciclaggio dei proventi illeciti?», chiede l’avvocato. Risposta di Avola: «Aldo Ercolario, tramite lo zio, aveva fatto investimenti con un politico che veniva sempre a Catania. Si tratta di Gianni De Michelis, all’epoca aveva i capelli lunghi. Era lui che teneva i contatti a Catania e noi lo portavamo in giro per i night». Come dire che si univa l’utile al dilettevole. Fin qui Maurizio Avola. Si tratta di fatti da lui già raccontati alle procure di Catania e Caltanissetta e ribaditi al dibattimento di Catania. Una testimonianza durata tre ore che è stata oscurata dai media locali e nazionali. Il perché prova a spiegarlo l’avvocato Ugo Colonna, parte civile al processo contro i magistrati messinesi e difensore dello stesso Avola: «Gli editori nazionali fin dal 1999 non intendono più occuparsi dei fatti di mafia che riguardano gli strati alti dell’imprenditoria e della politica. Sembra proprio che ci sia una sorta di patto trasversale sulla scorta del quale non solo la stampa ma anche certe procure hanno inteso da armi porre un velo di coperture».

E l’oblio non risparmia certo questo processo chiave per gli equilibri mafiosi che ormai va avanti da oltre quattro anni. Per la verità qualche tentativo da parte dei mezzi di informazione di farvi ingresso c’è stato, senza però ottenere l’ok del tribunale. All’inizio del dibattimento infatti Radio radicale chiese di registrare le udienze, ma il presidente Francesco D’Alessandro, su richiesta dell’imputato Giovanni Lembo, negò l’autorizzazione. Stessa decisione in questi ultimi giorni per le telecamere di Chi l’ha visto che voleva riprendere la deposizione di un importante testimone di mafia, tale Antonino Giuliano, un imprenditore che, oltre a svelare gli appoggi a tutti i livelli di cui ha goduto Cosa Nostra messinese, ha raccontato di aver visto il superlatitante Bernardo Provenzano proprio a casa del boss Michelangelo Alfano.

antonio pagliaro » si chiama maurizio e sa tante cose

antonio pagliaro » si chiama maurizio e sa tante cose.

di a. pagliaro

8 Mar 2009

mi chiamo MaurizioIl Maurizio di Mi chiamo Maurizio sono un bravo ragazzo ho ucciso ottanta persone (Fazi Editore) è Maurizio Avola, il killer della mafia catanese vicinissimo a Nitto Santapaola, poi collaboratore di giustizia. Il bel romanzo-verità di Roberto Gugliotta e Gianfranco Pensavalli è un racconto a più voci: c’è la voce di Maurizio, la voce della moglie, la voce del giudice che raccolse le sue deposizioni. E’ naturalmente, come ogni racconto di mafia, un racconto di orrori. Omicidi eseguiti come un lavoro nella venerazione di un uomo brutale come il boss Santapaola. Fino all’arresto e alla collaborazione. Maurizio Avola è un pentito vero, un uomo distrutto dai rimorsi che decide di parlare e raccontare ogni cosa.

La moglie: “Mi dava un bacio e poi usciva a sparare a qualcuno, metteva a letto i nostri bambini e magari nel pomeriggio aveva dato fuoco a un cadavere. Mi portava il caffè a letto, avevamo appena fatto l’amore e usciva per pulire la pistola. Dava l’elemosina a una zingara, portava a casa i cani abbandonati e poi finiva a sangue freddo un suo amico“.

Maurizio: “Prima la routine quotidiana delle giornate, con gli avvenimenti che si ripetono monotoni: sveglia, colazione, riunione, passeggiata, crimine, pranzo e cena (…). Le giornate, in questo modo tutte uguali, si cancellano dalla memoria. Poi, all’improvviso, ti rendi conto e realizzi tutto”.

Il giudice: “Anche Maurizio Avola ha ribadito la centralità degli attentati alla Standa di Catania nella storia delle stragi. Ma a sorpresa, dopo anni di collaborazione, ha alzato il tiro per sostenere che alla fine del 1991 a Messina vi furono incontri fra Dell’Utri, l’imprenditore mafioso Michelangelo Alfano, il boss Luigi Sparacio e altri uomini d’onore messinesi. In particolare Avola dichiarò di essere venuto a sapere da Marcello D’Agata che Cosa nostra voleva consentire a una forza politica nuova di assumere posizioni di potere, affinché la rappresentasse in luogo dei precedenti referenti politici che l’avevano tradita; il progetto prevedeva quindi l’eliminazione di personaggi pubblici particolarmente rappresentativi, fra politici e magistrati“.

Il libro si chiude con parte di un articolo di  Giuseppe Giustolisi (da Micromega del 9 marzo 2006). Un articolo che avrebbe scosso qualunque Paese civile. Non l’Italia, dunque. D’altra parte anche il libro di Gugliotta e Pensavalli è passato quasi inosservato: non mi stupisce visto che quando ne ho proposto la recensione a un quotidiano con il quale collaboro non ho nemmeno ricevuto risposta.

“‘L’ ex killer catanese ha raccontato anche qualche particolare inedito su quella zona grigia, mai completamente esplorata dalle inchieste della magistratura, che fa da cerniera fra la mafia che spara e i piani alti della politica e dell’economia.

Figura centrale degli intrecci inconfessabili fra Cosa nostra e il mondo dei colletti bianchi, secondo Avola, era Michelangelo Alfano, un imprenditore morto suicida di recente in circostanze ancora poco chiare e imputato di mafia in questo processo. Avola sa molte cose su questo personaggio, ma all’inizio della sua collaborazione omette di raccontarle. «Non parlai di lui», dice al pm Antonino Fanara, «perché D’Agata mi diceva che era un personaggio molto potente e che faceva anche parte della massoneria. Era quindi una persona che mi faceva un po’ paura. E così non parlai né di lui, né di altri ma solo dei semplici mafiosi come eravamo noi».

Tanto per capire meglio lo spessore di Alfano, di lui si parla al processo per l’omicidio del banchiere Roberto Calvi. (…) Indicative della caratura del personaggio sono le parole di un colonnello dei carabinieri, Michele Riccio, che nel processo palermitano Grande Oriente ha definito Alfano anello di collegamento fra Cosa nostra stragista e pezzi deviati dello Stato. «Sapevo da D’Agata», continua Avola, «che Alfano era interessato agli appalti e che era un uomo di Cosa nostra. Partecipava anche a delle riunioni importanti in provincia di Messina, agli inizi degli anni Novanta c’era infatti una strategia contro lo Stato che prevedeva di mettere delle bombe in giro».

E a questo punto che salta fuori il nome di Dell’Utri. Il pm chiede ad Avola informazioni sui rapporti fra il manager berlusconiano e Cosa nostra e il pentito risponde: «Dell’Utri era presente a una riunione del ‘92 nella quale c’erano anche D’Agata e altri personaggi di Catania come Aldo Ercolano. Si discuteva della strategia di portare avanti un partito nuovo per fare delle cose in Italia e aggiustarne altre come il 41 bis. Bisognava anche screditare i pentiti e proprio a questo doveva servire il partito nuovo». I contatti fra Dell’Utri e la mafia siciliana erano già iniziati prima, per risolvere la faccenda delle estorsioni compiute dai clan catanesi ai danni dei magazzini Standa, allora di proprietà del premier Silvio Berlusconi. «Dell’Utri aveva stabilito contatti a Catania in occasione dell’estorsione alla Standa», prosegue Avola. «Erano state incendiate diverse Standa a Catania e provincia e noi avevamo contattato Dell’Utri tramite Salvatore Tuccio [anche lui braccio destro del boss Santapaola]».

Passano pochi mesi e il rapporto fra Dell’Utri e Cosa Nostra di Messina si consolida. Secondo il racconto del pentito, infatti, gli attentati a Falcone e Borsellino e le stragi del ‘93 vengono pianificate a un tavolo messinese, al quale siedono tra gli altri Marcello Dell’Utri e Michelangelo Alfano: «La strategia è nata a Messina e tutto deriva dai contatti fra Alfano e Dell’Utri».

A un certo punto però lo scenario cambia. Il tavolo delle riunioni si sposta nella capitale, dove viene programmato un altro attentato eccellente: «In quel periodo ci fu una riunione all’Hotel Excelsior di Roma», continua Avola. «Vi parteciparono D’Agata, Alfano e personaggi di altissimo livello. Fra questi ricordo Cesare Previti e il finanziere Francesco Pacini Battaglia. Lo scopo era quello di fare un attentato al giudice Di Pietro e io dovevo essere l’esecutore. Bisognava fare un favore ai socialisti, ma poi la cosa non andò avanti perché i socialisti non stavano mantenendo quanto promesso e nel frattempo si profilava l’alleanza con la nuova forza politica che stava nascendo».

L’intero articolo di Giuseppe Giustolisi si può leggere qui.

Altri due link sulle stragi:

Quest’uomo sa molte cose (e infatti stanno cercando di screditarlo in ogni modo): “L’attacco che viene fatto nei miei confronti parte esattamente dagli stessi soggetti che io avevo identificato la sera del diciannove luglio del 1992 dopo la strage di via D’Amelio, mentre vedevo ancora il cadavere di Paolo Borsellino che bruciava e la povera Emanuela Loi che cadeva a pezzi dalle mura di via D’Amelio numero diciannove dov’è scoppiata la bomba, le stesse persone, gli stessi soggetti, la stessa vicenda che io trovai allora la trovo adesso!
Ancora nessuno ha detto che io sono folle. Anzi, sarò pericoloso, terribile ma che sono folle non l’ha detto nessuno. Bene allora quello che io dico non è la parola di un folle perché io dimostrerò tutte queste cose. E questa è l’occasione perché ci sia una resa dei conti in Italia. A cominciare dalle stragi di via D’Amelio alla strage di Capaci. Perché queste collusioni fra apparati dello Stato servizi segreti, gente del malaffare e gente della politica, è bene che gli italiani comincino a sapere cosa è stata”.

Questo video è un collage interessante.

Il giudice Borsellino parla di Mangano

Il giudice Borsellino parla di Mangano.

Questa è una piccola parte dell’intervista rilasciata nella sua casa di Palermo dal giudice Paolo Borsellino il 21/5/1992 (due giorni prima della strage di Capaci in cui morì Giovanni Falcone) a Fabrizio Calvì e Jean Pierre Moscardò, due giornalisti francesi che stavano realizzando un documentario sugli affari della mafia in Europa.

Parti di questa intervista sono state proposte in tv il 16 marzo 2001 dalla trasmissione “Il Raggio Verde” di Michele Santoro e da “Terra” settimanale di approfondimento del tg5 il 24 marzo 2001.

Ne riporto domande e risposte, escludendo le parti riguardanti i possibili rapporti illeciti fra Vittorio Mangano, Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi, perché in merito il giudice Borsellino parlava non con diretta conoscenza dei fatti e delle indagini allora in corso alla Procura di Palermo.

Vittorio Mangano (profilo tratto da “Terra” del tg5), fatto assumere da Marcello Dell’Utri come fattore (“stalliere”) nella villa di Silvio Berlusconi di Arcore (Milano) ed imprenditore già famoso in Francia per l’avventura dell’emittente televisiva “La Cinq”. E’ morto il 23/7/2000, gli erano stati concessi gli arresti domiciliari a causa delle sue precarie condizioni di salute, aveva 58 anni.

il giudice Paolo BorsellinoBorsellino:

Vittorio Mangano l’ho conosciuto anche in un periodo antecedente al maxi-processo e precisamente negli anni fra il 1975 e il 1980, ricordo di aver istruito un procedimento che riguardava delle estorsioni fatte a carico di talune cliniche private palermitane.
(sospensione per una telefonata ricevuta) Vittorio Mangano fu indicato sia da Buscetta che da Contorno come “uomo d’onore” appartenente a Cosa Nostra.

Giornalista:

“Uomo d’onore” di che famiglia?

Borsellino:

Uomo d’onore della famiglia di Pippo Calò, cioè del….di quel personaggio capo della famiglia di Porta Nuova, famiglia alla quale originariamente faceva parte lo stesso Buscetta. Si accertò che Vittorio Mangano, ma questo già risultava dal procedimento precedente che avevo istruito io e risultava altresì dal….da un procedimento cosiddetto procedimento Spatola, che Falcone aveva istruito negli anni immediatamente precedenti al maxi-processo, che Vittorio Mangano risiedeva abitualmente a Milano, città da dove, come risultò da numerose intercettazioni telefoniche, costituiva un terminale del traffico di droga che….dei traffici di droga che conducevano le famiglie palermitane.

Giornalista:

E questo Mangano Vittorio faceva traffico di droga a Milano?

Borsellino:

Il Mangano di droga….eh….Vittorio Mangano, se ci vogliamo limitare a quelle che furono le emergenze probatorie più importanti, risulta l’interlocutore di una telefonata intercorsa fra Milano e Palermo, nel corso della quale lui, conversando con altro personaggio delle famiglie mafiose palermitane, preannuncia o tratta l’arrivo di una partita di eroina chiamata alternativamente secondo il linguaggio convenzionale che si usa nelle intercettazioni telefoniche come “magliette” o “cavalli”.

Giornalista:

Comunque lei in quanto esperto, lei può dire che quando Mangano parla di “cavalli” al telefono vuol dire droga?

Borsellino:

Sì, tra l’altro questa tesi dei “cavalli” che vogliono dire droga, è una tesi che fu asseverata alla nostra ordinanza istruttoria e che poi fu accolta al dibattimento, tant’è che Mangano fu condannato al dibattimento del maxi-processo per traffico di droga.

Giornalista:

Dell’Utri non c’entra in questa storia?

Borsellino:

Dell’Utri non è stato imputato del maxi-processo per quanto io ne ricordi, so che esistono indagini che lo riguardano e che riguardano insieme Mangano.

Giornalista:

A Palermo?

Borsellino:

Si, credo che ci sia un’indagine che attualmente è a Palermo con il vecchio rito processuale nelle mani del giudice istruttore, ma non ne conosco i particolari.

Giornalista:

Marcello Dell’Utri o Alberto Dell’Utri?

Borsellino:

Non ne conosco i particolari, (consulta delle carte, che aveva dinanzi sulla scrivania) potrei consultare avendo preso qualche appunto, cioè si parla di….Dell’Utri Marcello e Alberto, entrambi.

Giornalista:

I fratelli?

Borsellino:

Sì.

Giornalista:

Quelli della Publitalia?

Borsellino:

Sì.

Giornalista

Mangano era un “pesce pilota”?

Borsellino:

Sì, guardi….le posso dire che era uno di quei personaggi che ecco….erano i ponti, le teste di ponte dell’organizzazione mafiosa nel Nord-Italia.

Giornalista:

Si è detto che ha lavorato per Berlusconi ?

Borsellino:

(lungo sospiro) Non le saprei dire in proposito o…anche se….dico….debbo far presente che….come magistrato ho una certa ritrosia a dire le cose di cui non sono certo, poiché ci sono….so che ci sono addirittura ancora delle indagini in corso in proposito, per le quali….non conosco addirittura quali degli atti siano ormai conosciuti, ostensibili e quali debbono rimanere segreti. Questa vicenda che riguarderebbe suoi rapporti con Berlusconi, è una vicenda che la ricordi o non la ricordi, comunque è una vicenda che non mi appartiene, non sono io il magistrato che se ne occupa quindi non mi sento autorizzato a dirle nulla.

Giornalista:

C’è un’inchiesta ancora aperta?

Borsellino:

So che c’è un’inchiesta ancora aperta.

Giornalista:

Su Mangano e Berlusconi a Palermo?

Borsellino:

Sì.

L’ultima intervista a Borsellino – liberainformazione

L’ultima intervista a Borsellino – liberainformazione.

L’inchiesta di Rainews24 al festival del giornalismo. Morrione: “le analisi del magistrato più che mai attuali”

Il servizio pubblico radio televisivo ritrovi la via dell’inchiesta. Un appello a più voci  ha raggiunto oggi il Festival del giornalismo di Perugia nella mattinata promossa da Libera Informazione e Associazione Ilaria Alpi e dedicata interamente all’inchiesta sull’ultima intervista che il giudice Paolo Borsellino rilasciò due mesi prima di morire nell’attentato di via d’Amelio.

Un’intervista, l’ultima esistente, che ritrae il giudice Paolo Borsellino nella sua casa di Palermo durante una lunga intervista rilasciata ai colleghi Fabrizio Calvi e. Jean-Pierre Moscardo di Canal Plus datata  21 maggio 1992, due giorni prima della strage di Capaci. Un documento rimasto inedito sino al settembre del 2000 quando la troupe di Rainews24, diretta allora da Roberto Morrione, decise di acquisirla e trasmetterla durante una puntata di inchiesta e confronto con i magistrati Antonio Ingroia, collega di Borsellino, e Luca Tescaroli  titolare dell’inchiesta sulla strage di via d’Amelio alla procura di Caltanissetta.

All’epoca Roberto Morrione (oggi presidente di Libera Informazione) chiese alle tre testate della Rai di diffondere l’intervista che Rainews24 aveva deciso di trasmettere prendendo spunto da un articolo pubblicato su l’Espresso mesi prima. “In quegli anni la giornalista che si era occupata di trascrivere parte dell’intervista – ricorda Morrione – si trovò con l’abitazione ridotta in fiamme. Questo non fece notizia, così come passò inascoltata la mia richiesta di riproporre in una delle tre reti Rai l’intervista che ritenemmo e ritengo tutt’ora un documento di estrema  rilevanza per l’opinione pubblica cosi come per la magistratura”.

Al centro dell’inchiesta che i due colleghi francesi stavano conducendo in quel caldo e teso 1992 i rapporti fra Cosa nostra e la politica italiana, i collegamenti presunti all’epoca e poi dimostrati (con una sentenza di condanna per associazione mafiosa da parte della procura di Palermo) fra la mafia palermitana e Marcello Dell’Utri, fondatore di Pubblitalia e braccio destro di Silvio Berlusconi. Paolo Borsellino con scrupolo ed equilibrio risponde alle domande a lui rivolte. Parla di traffico di droga, di Mangano, della famiglia mafiosa di Porta nuova e ad ogni domanda più circoscritta ripete che … di quei fascicoli non si sta occupando direttamente ma da altri dibattimenti emergono alcuni elementi”. E di questi parla. (Guarda qui l’intervista e le risposte di Borsellino). “Un’intervista molto documentata  – commenterà dagli studi di Rainews 24 ¬ – contenuti di cui nemmeno a me aveva parlato all’epoca”. L’operazione San Valentino nel 1983 con arresti per traffico di droga che avevano coinvolto cinque città italiane aveva incuriosito i colleghi francesi di Canal Plus, il nome di Mangano, i suoi rapporti con la mafia da un lato e con Marcello dell’Utri dall’altro. In mezzo una “inchiesta su Berlusconi e Mangano” a cui fa riferimento già nel 1992 ma di cui non si stava occupando in prima persona. L’intervista non andò mai in onda, nemmeno sui canali della tv francese.

L’ intervista è stata acquisita nel corso dei processi a Palermo contro Dell’Utri e a Caltanissetta sui mandanti delle stragi. Il terzo fascicolo quello dei mandanti esterni – come ricorda Roberto Morrione – è rimasto un terreno inesplorato dalla magistratura e anche dal giornalismo, ciascuno nelle sue diverse sedi, non ha potuto dare seguito agli spunti investigativi che da questa stessa inchiesta emergevano già negli anni’90.

L’ultima intervista a Borsellino e la puntata di Rainews24 con Tescaroli e Ingroia –  condotta in studio da Sigfrido Ranucci e Arcangelo Ferri –  rappresentano un esempio incisivo di inchiesta condotta in linea con la mission del servizio pubblico. All’epoca le testate Rai lasciarono in “splendida solitudine” la decisione del gruppo di Rainews24, oggi l’intervista è anche su you tube.
“Questa inchiesta ed altri momenti come la puntata di Che tempo che fa di Saviano e Fazio – di alcuni giorni fa –  ci dimostrano che un’altra Tv è possibile – commenta Morrione”. Non dobbiamo smettere di crederci,   nonostante tanti esempi negativi, una eccessiva e morbosa attenzione alla cronaca nera a scapito delle inchieste su mafie, corruzione e quant’altro possa riguardare il Paese, nonostante un ddl sulle intercettazioni che se otterrà la maggioranza dei consensi di fatto limiterà drasticamente da un lato i cronisti di giudiziaria, dall’altra l’attività inquirente.

Tanti gli interventi dei giovani: domande sul giornalismo, sulla politica, sui percorsi per legalità della società civile. E poi una riflessione sui simboli, sulle parole su chi le usa e chi ne abusa. “Nella Palermo di oggi – ricorda un giovane studente di Pavia  – si stanno stravolgendo simboli, ricordi e spesso ad uso e consumo di politici con comportamenti non proprio limpidi”.

Solo qualche settimana prima della sua seconda elezione alla guida del Paese il premier abbracciando Marcello dell’Utri ha “riabilitato” la figura del suo stalliere di Arcore,  Vittorio Mangano (processato per traffico di droga, omicidio e associazione mafiosa) ricordando che era morto da eroe. Cioè in silenzio: un silenzio che in questi casi si chiama omertà. Silenziata dai media nazionali la reazione della società civile indignata da queste affermazioni.

In  questa giornata di “servizio pubblico” offerta al Festival del giornalismo a tanti giovani presenti. Una lezione del “giornalismo possibile”  ma anche di memoria e impegno che rilanciano anche da questo spazio  un appello diretto alla Rai: torni a fare inchieste nell’interesse del Paese.

Perché –  come ha ribadito con i fatti e le parole nel suo lucido intervento di oggi  Roberto Morrione: un’altra televisione è possibile. Un altro giornalismo è possibile e l’inchiesta rimane la via centrale per quella “rivoluzione culturale” da più parti auspicata. Non solo nel giornalismo.

I nuovi padri della patria – Blog di Beppe Grillo

I nuovi padri della patria – Blog di Beppe Grillo.

“Buongiorno a tutti.
Non per guastare la festa a questa bella incoronazione imperiale del leader del popolo delle libertà che, come avete visto, a sorpresa è stato eletto primo, unico, ultimo imperatore del partito che aveva fondato sul predellino di una macchina e che quando l’aveva fondato Gianfranco Fini l’aveva subito fulminato dicendo: “siamo alla comica finale, noi non entreremo mai nel Popolo della Libertà e Berlusconi non tornerà mai più a Palazzo Chigi con i voti di Alleanza Nazionale”.
E quando qualcuno gli aveva chiesto “Possibilità che AN rientri all’ovile?”, risposta di Fini: “Noi non dobbiamo tornare all’ovile perché non siamo pecore”. Poi come avete visto sono tornati all’ovile quindi ne dobbiamo concludere che sono pecore o pecoroni.
Ecco, non è per guastare il clima idilliaco anche perché avete visto che sono talmente uniti che su 6000 delegati non se n’è trovato uno che votasse per un altro candidato; potevano pagarne uno almeno per votare per un altro candidato almeno facevano finta di averne due, invece no. E’ stata proprio una cosa unanime che ha molto commosso il Cavaliere che non se l’aspettava: avete visto l’emozione con cui ha scoperto di essere stato eletto leader in quei congressi che proprio all’ultimo momento ti riservano questo colpo di scena finale. Chi l’avrebbe mai detto.
Ma diciamo che questo stava nelle cose. La cosa interessante è che a poco a poco si cominciano, con quindici anni di ritardo, a vedere i nomi e i cognomi dei veri padri fondatori di quest’avventura che adesso si chiama Popolo della Libertà, che prima si chiamava Casa della Libertà , che prima ancora si chiamava Polo della Libertà e che in realtà ha un unico padrone che si chiama sempre Forza Italia.
Quante volte abbiamo sentito rievocare la storia di Forza Italia, le origini… adesso c’è anche quel libro scritto in caratteri gotici, molto grosso per i non vedenti, probabilmente è la versione braille quella che Berlusconi ha mostrato in televisione, che invece della fiaba di cappuccetto rosso, di Cenerentola racconta la fiaba di uno dei sette nani: l’ottavo nano, anzi, come l’avevano ribattezzato i fratelli Guzzanti e la Dandini.
Craxi, questo sconosciuto

L’ottavo nano che nel 1993 cominciò a macinare idee, progetti che poi si tradussero in Forza Italia.
All’inizio ci dicevano che fu lui ad avere questa intuizione meravigliosa, anzi quando qualcuno insinuava che ci potessero essere dei rapporti, dei suggerimenti di Bettino Craxi, di alcuni strani personaggi siciliani che poi vedremo, veniva tutto negato: “non sia mai, noi non c’entriamo niente”. Anzi Berlusconi Craxi faceva proprio finta di non conoscerlo. Per la precisione, il 21 febbraio del 1994, ad un mese ed una settimana delle prime elezioni che Berlusconi vinse, tre settimane dopo il famoso discorso televisivo a reti unificate spedito in videocassetta ai telegiornali, quello della discesa in campo, Berlusconi era a Mixer, ospite di Giovanni Minoli che, conoscendo anche lui molto bene Craxi gli chiese quale fosse il suo rapporto con Craxi.
All’epoca Craxi era un nome impronunciabile, era il numero uno dei tangentari, stava facendo di gran fretta le valige perché di li a poco con l’insediamento del nuovo Parlamento i vecchi parlamentari avrebbero perso ipso facto l’immunità e sarebbe finito dentro. Allora stava apprestandosi alla fuga, alla latitanza verso Hammamet. Era un nome pericoloso, e Berlusconi, fedele alle amicizie e fedele come sempre, rispose a Minoli: “è una falsità, una cosa senza senso dire che dietro il signor Berlusconi ci sia Craxi. Non devo nulla a Craxi e al cosiddetto CAF”.
Un anno dopo, lui aveva già fatto il suo primo governo, era già cascato, c’era il governo tecnico Dini, alla Repubblica gli chiesero notizie di Craxi perché era venuto fuori da un vecchio consulente di Publitalia che aveva partecipato alla progettazione, addirittura pare fin dall’estate del 1992, Ezio Cartotto, alla nascita di Forza Italia, aveva raccontato che in queste riunioni, in quella decisiva di aprile del 1993, mente lui era li ad Arcore con Berlusconi si aprì una porta ed entrò Craxi e diede alcune indicazioni. Per esempio che bisognava mettere insieme le truppe berlusconiane con i leghisti, ma Craxi disse “mai con i fascisti”. Craxi aveva tanti difetti ma essendo un socialista i fascisti non li voleva vedere mentre, come abbiamo visto, Berlusconi si è portato dentro i fascisti e anche qualche nazistello per non disperdere i voti.
In ogni caso i giornali pubblicarono le dichiarazioni di Cartotto, che chi di voi vuole vedere nel completo trova nel libro “L’odore dei soldi”, lì c’è proprio il racconto di questa riunione nella quale Craxi spalancò una porta.
Berlusconi replicò negando. Io mi ricordo che in una conferenza stampa in quei giorni a Torino, al Lingotto, io gli chiesi se era vero che Craxi avesse partecipato a queste riunioni e lui, invece di rispondermi, mi disse “si vergogni di farmi questa domanda”. Era una conferenza stampa: in un altro paese immagino che tutti i giornalisti avrebbero rifatto la stessa domanda fino a ottenere la risposta, invece i colleghi, che sono quelli che fanno parte del codazzo, che sono ormai quasi di famiglia per lui, mi guardarono come dire: “ce lo disturbi, così ci rimane male, ci rimane storto per tutta la giornata”. Io mi ritirai in buon ordine, non conoscendo queste usanze altamente democratiche.
Berlusconi disse di nuovo: “Forza Italia e Craxi sono politicamente lontani anni luce. Posso assicurare che politicamente non abbiamo a che fare con Craxi e siamo stati molto attenti anche alla formazione delle liste elettorali”. Come dire, quello è un pregiudicato e noi i pregiudicati non li vogliamo. Non vogliamo neanche gli indagati, infatti Forza Italia nel 1994 faceva firmare una dichiarazione ai suoi candidati nella quale dichiaravano non solo di avere condanne ma nemmeno di avere mai ricevuto un avviso di garanzia, che è addirittura eccessivo come dicevamo la settimana scorsa. Per essere indagati basta essere denunciati da qualcuno, che magari si inventa le accuse.
“Non rinnego l’amicizia con Craxi ma è assolutamente escluso che Forza Italia possa aver avuto o avere alcun rapporto con Craxi”. 2 ottobre 1995.
Craxi è rimasto latitante dal 1994 al 2000 ad Hammamet. Nel gennaio del 2000 è morto. Stefania Craxi ha aspettato per sei anni che l’amico Silvio, che doveva molto se non tutto a Craxi, andasse a trovare suo padre e Berlusconi non c’è mai andato, è andato a trovarlo da morto al funerale.
Infatti, parlando al Corriere della Sera nell’agosto del 2004, Stefania Craxi dichiarava: “A Berlusconi non perdono di non essere mai stato a trovare mio padre neppure una volta.”.
L’avete vista, l’altro giorno piangeva felice durante la standing ovation riservata a Craxi su invito di Berlusconi dall’assemblea dei congressisti; evidentemente si è dimenticata o forse ha perdonato, o forse il fatto che l’abbiano portata in Parlamento l’ha aiutata a perdonare.
Sta di fatto che Craxi era un appestato, non si poteva dire che Craxi era uno dei padri fondatori di Forza Italia e poi dei suggeritori, visto che da Hammamet non faceva mai mancare i suoi amorevoli consigli, come emerse dalle famose intercettazioni depositate nel processo sulle tangenti della metropolitana di Milano, quelle che il giovane PM Paolo Ielo tirò fuori in aula per dimostrare la personalità criminale di Craxi che anche dalla latitanza continuava a raccogliere dossier a distribuire suggerimenti, ed era in contatto con il gruppo parlamentare di Forza Italia. Tant’è che il portavoce del gruppo parlamentare si dovette dimettere perché era solito sottoporre a Craxi le interrogazioni e le interpellanze parlamentari, e Craxi dava ordini su come orchestrare le campane contro i magistrati… anche questo lo trovate mi pare in “Mani Pulite” se non ricordo male.
L’altro padrino fondatore

Ma, andando avanti, l’altro giorno finalmente c’è stato lo sdoganamento postumo di Craxi: quindici anni esatti dopo la prima vittoria elettorale di Forza Italia Berlusconi ci ha fatto sapere pubblicamente, durante la standing ovation, che uno dei padri fondatori era Bettino. Non è male un partito che ha fra i suoi padri fondatori un latitante, no?
Ecco, per chi pensasse che non è bello un partito co-fondato da un latitante, fermi la propria indignazione o la propria riprovazione perché tra i padri fondatori Craxi probabilmente è il più pulito. Nel senso che, magari ci arriviamo al prossimo congresso, prima o poi sentiremo il Cavaliere ammettere anche il nome di altri padri fondatori di Forza Italia, che per il momento restano ancora abbastanza nell’ombra.
Quando voi vedrete a un prossimo congresso, non so… quando gli metteranno la corona o gli poseranno la spada sulla spalla o si metterà lo scolapasta in testa e il mestolo in mano e comincerà a declamare in lingue strane, se solleciterà una standing ovation per Vittorio Mangano sappiate che quello è il momento: finalmente un altro padre, o padrino, fondatore di Forza Italia verrà allo scoperto. Per il momento ci dobbiamo accontentare di quello che siamo riusciti a scrivere nei nostri libri, perché noi scriviamo nei nostri libri delle cose e poi dieci anni dopo Berlusconi arriva e le dice, e tutti i giornali le annotano dicendo “Berlusconi rivela…”. No, Berlusconi non rivela niente: confessa tardivamente, di solito quando le cose sono andate in prescrizione.
Allora, per essere precisi perché molto spesso si fa letteratura, Mangano, non Mangano, sarà vero o non sarà vero.
Io vi cito semplicemente quello che noi sappiamo per certo sul ruolo che ebbe Vittorio Mangano in tandem con Marcello Dell’Utri nella nascita di Forza Italia.
Un po’ di date: il 25 maggio del 1994, strage di Capaci. Qualche giorno dopo Ezio Cartotto, che è un vecchio democristiano della sinistra DC milanese che teneva delle lezioni e delle consulenze ai manager e ai venditori di Publitalia e che quindi lavorava per Dell’Utri, viene chiamato da Dell’Utri. Siamo nell’estate del 1992, tangentopoli è appena esplosa, non c’è ancora nessun nessun politico nazionale indagato dal pool di Mani Pulite: hanno preso Mario Chiesa, hanno preso i due ex sindaci di Milano Tognoli e Pillitteri, hanno preso un po’ di amministratori locali democristiani, comunisti, socialisti.
Eppure Dell’Utri, evidentemente con le buone fonti che ha a Palermo, ha già deciso che la classe politica della prima Repubblica è già alla frutta e non si salverà e quindi a scanso di equivoci chiama Cartotto e, in segreto, senza nemmeno parlarne con Berlusconi, gli commissiona – dice Cartotto – “di studiare un’iniziativa politica legata alla Fininvest”.
Poi c’è la strage di Via D’Amelio, preceduta dalla famosa intervista dove Paolo Borsellino ha detto che a Palermo ci sono ancora indagini in corso sui rapporti fra Berlusconi, Dell’Utri, Mangano e il riciclaggio del denaro sporco.
Dopo avere dato quell’intervista, passano nemmeno due mesi e Borsellino viene eliminato a sua volta. Intanto Cartotto lavora come una talpa: lo sa solo Dell’Utri. Berlusconi, questo lo trovate negli atti del processo Dell’Utri e noi in Onorevoli Wanted e anche nel libro arancione “L’amico degli amici” abbiamo raccontato dilungandoci questa vicenda che ha semplicemente dell’incredibile. O almeno, avrebbe dell’incredibile se qualcuno la conoscesse, se qualcuno l’avesse raccontata in questi giorni in cui tutti facevano i retroscena della nascita di Forza Italia. Si sono dimenticati questi popò’ di retroscena.
Nell’autunno del 1992 Berlusconi viene informato del fatto che farà un partito, perché i primi a saperlo sono Dell’Utri e Cartotto. Da’ il suo via libera al progetto, che prosegue tramite le strutture di Publitalia all’ottavo piano di Palazzo Cellini a Milano 2, dove ha gli uffici Dell’Utri.
Il progetto viene chiamato “Progetto Botticelli”, viene camuffato da progetto aziendale, in realtà è un progetto politico che sfocerà in Forza Italia, e poi ci sono tutte le riunioni di quando Berlusconi comincia a consultarsi con i suoi uomini.
Ovviamente, non solo i manager del gruppo ma anche i direttori dei giornali e dei telegiornali, che sono sempre i vari Costanzo, Mentana, Fede, Liguori e ovviamente Confalonieri, Dell’Utri, Previti, Ferrara. Montanelli non ci andava, ma ci andava Federico Orlando che poi ha scritto un libro, anche quello molto interessante: “Il sabato andavamo ad Arcore” pubblicato dalla Larus di Bergamo.
Poi ha scritto un altro libro “Fucilate Montanelli”, nel quale si raccontano, per gli Editori Riuniti, questi fatti.
Le riunioni ad Arcore

In queste riunioni ci sono discussioni, perché Berlusconi è preoccupatissimo. C’è il referendum elettorale che ha portato l’Italia alla preferenza unica e si va verso l’uninominale, c’è la scomparsa nella primavera del 1993 dei vecchi partiti che gli avevano garantito protezione per vent’anni, c’è la necessità di sostituirli con qualcosa che sia talmente forte da sconfiggere la sinistra che sembra approfittare del degrado morale che sta emergendo soprattutto, ma non solo, per i partiti del centrodestra – poi il PCI era coinvolto anche nella sua ala milanese ma non a livello nazionale nello scandalo di tangentopoli. E soprattutto c’è tutto il problema delle concessioni televisive e di chi andrà a governare il Paese e quindi a regolare la materia delle concessioni televisive che Berlusconi aveva appena sistemato con la famosa legge Mammì e quei famosi 23 miliardi finiti sui conti esteri della All Iberian di Craxi subito dopo la legge Mammì.
Allora c’è grande allarme, c’è grande preoccupazione: sarà meglio entrare o sarà meglio non entrare? C’è tutta la manfrina “facciamo un partito di centrodestra e poi lo consegniamo chiavi in mano a Segni e Martinazzoli perché vadano avanti loro, oppure lo facciamo noi?”. Questo era il dibattito, che nell’aprile del 1993 segna la benedizione ufficiale di Craxi con quella riunione che vi dicevo prima ad Arcore con Ezio Cartotto.
La mafia e la nuova Repubblica

Poi ci sono altre discussioni, ci sono ancora i frenatori come Confalonieri, Gianni Letta, Maurizio Costanzo che sono piuttosto ostili al progetto, o meglio temono che per Berlusconi sia un autogol.
Sarà un caso, ma proprio il 14 maggio del 1993 la mafia fa un attentato a Roma, il primo attentato a Roma nella storia della mafia, il primo attentato fuori dalla Sicilia nella storia della mafia viene fatto a Roma nel quartiere dei Parioli. Contro chi? Ma guarda un po’: Maurizio Costanzo che sfugge poi, fortunatamente, per un centesimo di secondo.
Quel Costanzo che stava nella P2: evidentemente qualche ambientino non si aspettava che fosse ostile alla discesa in campo. Perché lo dico? Perché in quello stesso periodo in Sicilia e in tutto il sud ovest, anche Calabria, si muovevano delle strane leghe meridionali che, in sintonia con la Lega Nord – c’era stato addirittura a Lamezia Terme con un rappresentante della Lega Nord – si proponevano di secedere, di staccare Sicilia, Calabra… infatti si chiamavano “Sicilia libera”, “Calabria libera”. Era tutto un fronte di leghe molto strano: invece di esserci i padani inferociti lì c’erano strani personaggi legati un po’ alla mafia, un po’ alla ‘ndragheta e un po’ alla P2 e uno di questi, il principe Orsini che aveva legami con questi personaggi, aveva legami anche con Marcello Dell’Utri.
Quindi noi sappiamo che Dell’Utri – lo ha dimostrato Gioacchino Genchi, ma guarda un po’, andando a incrociare i telefoni e i tabulati di questi personaggi – aveva contatti diretti con questo Principe Orsini. Dell’Utri inizialmente tiene d’occhio questi ambienti, perché sono le organizzazioni mafiose, legate a personaggi della P2 e dell’eversione nera, che si stanno mettendo insieme perché sentono odore di colpo di Stato, sentono odore di nuova Repubblica e vogliono far pesare, ancora una volta, la loro ipoteca con un partito o una serie di partiti nuovi.
Come Sicilia Libera, della quale si interessano direttamente boss come Tullio Cannella, Leoluca Bagarella, i fratelli Graviano e Giovanni Brusca.
Dopodiché succede qualcosa, succede che dopo l’attentato a Costanzo e dopo gli attentati che seguono – alla fine di maggio c’è l’attentato a Firenze, ci sono addirittura cinque morti e diversi feriti; poi alla fine di luglio ci sono gli attentati di Milano e Roma con altri cinque morti e diversi feriti – questa strategia terroristica ad ampio raggio, della mafia, sortisce i risultati sperati: Riina non stava sparando all’impazzata, stava facendo la guerra per fare la pace con lo Stato, così disse ai suoi uomini.
Una nuova pace con nuovi soggetti e referenti politici che però, a differenza di quelli vecchi che ormai erano agonizzanti, fossero vivi, vegeti, reattivi e in grado, fatto un accordo, di rispettarlo.
E’ l’estate del 1993 quando Forza Italia è ormai decisa: Berlusconi nell’aprile-maggio ha comunicato a Montanelli che entrerà in politica e che quindi il Giornale dovrà seguirlo nella battaglia politica. Montanelli gli ha detto che se lo può scordare: tra l’estate e l’autunno sono mesi in cui si consuma la rottura tra Montanelli e Berlusconi perché Montanelli continua a scrivere che Berlusconi non deve entrare in politica perché c’è un conflitto di interessi, perché non si può fare due mestieri insieme.
Dall’altra parte, ci sono le reti Fininvest che bombardano Montanelli per indurlo alle dimissioni, perché era diventato un inciampo: il giornalista più famoso dell’ambito conservatore che si scatenava contro quello che doveva diventare, secondo i desideri di Berlusconi, un partito moderato, liberale, insomma il partito che avrebbe dovuto incarnare gli ideali di cui Montanelli era sempre stato l’alfiere e che invece Montanelli sapeva benissimo non avrebbe potuto incarnare perché Berlusconi è tutto fuorché un moderato e un liberale: è un estremista autoritario.
In quei mesi la mafia decide di abbandonare il progetto di Sicilia Libera che essa stessa aveva patrocinato e fondato e tutto ciò avviene in seguito a una serie di riunioni, nell’ultima delle quali Bernardo Provenzano – ce lo racconta il suo braccio destro, Nino Giuffré che ora collabora con la giustizia e che è stato ritenuto attendibile in decine e decine di processi compreso quello Dell’Utri – convoca le famiglie mafiose, la cupola, per sapere che cosa scelgono: se preferiscono andare avanti col progetto del partitino regionale Sicilia Libera o se invece non preferiscano una soluzione più tradizionale come quella che sta affacciandosi a Milano grazie all’opera di un loro vecchio amico: Marcello Dell’Utri che conoscevano fin dai primi anni Settanta come minimo, cioè da quando Dell’Utri, in rapporto con un mafioso come Cinà e un mafioso come Mangano, aveva portato quest’ultimo dentro la casa di Berlusconi.
Si potrà discutere se l’ha fatto consapevolmente o inconsapevolmente, ma il fatto c’è: ha dato a Cosa Nostra la possibilità di entrare dentro la casa privata e di stazionare con un proprio rappresentante dentro la casa privata di uno dei più importanti e promettenti finanzieri e imprenditori dell’epoca. Berlusconi era costruttore, in quel periodo, poi sarebbe diventato editore e poi politico.
Gli incontri tra Mangano e Dell’Utri

E’ strano che non si trovi più nessuno, ma nemmeno all’estrema sinistra, che ricordi questi fatti documentati. Ancora nel novembre del 1993 quando ormai per Forza Italia si tratta proprio di stabilire i colori delle coccarde e delle bandierine, c’erano i kit del candidato, stavano facendo i provini nel parco della villa di Arcore per vedere i candidati più telegenici; in quel periodo, a tre mesi dalle elezioni del marzo del 1994, Mangano incontra due volte Dell’Utri a Milano. E questa non è una diceria, c’è nelle agende della segretaria di Dell’Utri: Palazzo Cellini, sede di Publitalia, Milano 2, i magistrati arrivano e prendono le agende e nell’agenda del mese di novembre del 1993 si trovano due appuntamenti fra Dell’Utri e Mangano, il 2 novembre e il 30 novembre.
E Mangano chi era, in quel periodo? Non era più il giovane disinvolto del ’73-’74 quando fu ingaggiato e portato ad Arcore come stalliere: qui siamo vent’anni dopo.
Mangano era stato in galera undici anni a scontare una parte della pena complessiva di 13 anni che aveva subito al processo Spatola per mafia e al maxiprocesso per droga, due processi istruiti da Falcone e Borsellino insieme.
E’ stato definitivamente condannato per mafia e droga a 13 anni, ne aveva scontati 11, uscito dal carcere nel 1991 era diventato il capo reggente della famiglia mafiosa di Portanuova e grazie al suo silenzio in quella lunga carcerazione aveva fatto carriera e partecipato alle decisioni del vertice della mafia di fare le stragi.
E poche settimane dopo le ultime stragi di Milano e Roma, Dell’Utri incontra un soggetto del genere a Milano negli uffici dove sta lavorando alla nascita di Forza Italia.
Io non so se tutto questo sia penalmente rilevante, lo decideranno i magistrati: penso che sia politicamente e storicamente fondamentale saperlo, mentre si vede Gianfranco Fini che cita Paolo Borsellino al congresso che sta incoronando il responsabile di tutto questo, cioè Berlusconi.
Verrebbe da dire “pulisciti la bocca”.
Possibile che invece di abboccare a tutti i suoi doppi giochi, quelli del centrosinistra non – ma dico uno, non dico tutti, li conosciamo, fanno inciuci dalla mattina alla sera e sono pronti a ricominciare con la Costituente come se non gli fosse bastata la bicamerale – uno, di quelli anche più informati, che dica “ma come ti permetti di parlare di Borsellino? Leggiti quello che diceva, Borsellino, di questi signori in quella famosa intervista prima di morire”.
Leggiti quello che c’è scritto nella sentenza Dell’Utri e poi vergognati, perché quel partito lì non l’ha fondato lo spirito santo, l’hanno fondato Berlusconi, Dell’Utri, Craxi con l’aiuto di Mangano che faceva la spola fra Palermo e Milano, infatti le famiglie mafiose decidono di votare per Forza Italia e di abbandonare Sicilia Libera – che viene sciolta nell’acido probabilmente – quando Mangano arriva giù a portare le garanzie.
Bettino, Silvio e Marcello

Io concludo questo mio intervento, che racconta l’altra faccia della nascita e delle origini di Forza Italia e quindi della Seconda Repubblica, semplicemente leggendovi quello che hanno scritto e detto prima Ezio Cartotto, piccolo brano, e i giudici di Palermo.
Cartotto dice: “Craxi ci disse – in quella famosa riunione in cui si aprì la porta – che bisogna trovare un’etichetta, un nome nuovo, un simbolo, qualcosa che possa unire gli elettori moderati che un tempo votavano per il pentapartito. Con l’arma che hai tu, Silvio, in mano delle televisioni, attraverso le quali puoi fare una propaganda martellante”. Mh… “Ti basterà organizzare un’etichetta, un contenitore – una volta è Forza Italia, una volta la CdL, una volta il PdL -, hai uomini sul territorio in tutta Italia, puoi riuscire a recuperare quella parte di elettorato che è sconvolto, confuso ma anche deciso a non farsi governare dai comunisti e salvare il salvabile”.
Vedete che Berlusconi continua a ripetere le stesse cose che gli aveva detto Craxi, quindici anni dopo non ha ancora avuto un’idea originale.
Berlusconi invece era ancora disorientato, in quel momento, tant’è che dice: “mi ricordo che mi diceva: ‘sono esausto, mi avete fatto venire il mal di testa. Confalonieri e Letta mi dicono che è una pazzia entrare in politica e mi distruggeranno, che faranno di tutto, andranno a frugare tutte le carte e diranno che sono un mafioso”.
Questo diceva Berlusconi nella primavera del 1993. Domanda: ma come può venire in mente a un imprenditore della Brianza di pensare che se entra in politica gli diranno che è un mafioso? E’ mai venuto in mente a qualche imprenditore della Brianza che qualcuno potrà insinuare che è un mafioso? Ma uno potrà insinuare che è uno svizzero, piuttosto, ma che è un mafioso no! Cosa c’entra? Strano che lui avesse questa ossessione, no?
“Andranno a frugare le carte e diranno che sono un mafioso” già, perché evidentemente in certe carte si potrebbe anche trarre quella conclusione lì.
“Che cosa devo fare? A volte mi capita perfino di mettermi a piangere sotto la doccia”. Queste erano le condizioni psicologiche, umane del personaggio, disperato perché sapeva che Mani Pulite sarebbe arrivata a lui ben presto, e non solo mani pulite visto che temeva addirittura di finire dentro per mafia.
I giudici di Palermo, nella sentenza Dell’Utri, nove anni di reclusione e interdizione dai pubblici uffici in primo grado, scrivono: i rapporti tra Dell’Utri e Cosa Nostra “sopravvivono alle stragi del 1992 e 1993, quando i tradizionali referenti, non più affidabili, venivano raggiunti dalla vendetta di Cosa Nostra – i vecchi politici: Lima, Salvo… – e ciononostante il mutare della coscienza sociale di fronte al fenomeno mafioso nel suo complesso”.
Cioè Dell’Utri nonostante la gente cominci veramente ad appassionarsi all’antimafia dopo la morte di Falcone e Borsellino, rimane sempre lo stesso.
Esistono “prove certe della compromissione mafiosa dell’imputato Dell’Utri anche relativamente alla sua stagione politica – quella di cui abbiamo parlato -. Forza Italia nasce nel 1993 da un’idea di Dell’Utri il quale non ha potuto negare che ancora nel novembre del 1993 incontrava Mangano a Milano mentre era in corso l’organizzazione del partito Forza Italia e Cosa Nostra preparava il cambio di rotta verso la nascente forza politica”.
Dell’Utri incontrava Mangano nel 1993 e poi anche nel 1994 “promettendo alla mafia precisi vantaggi politici e la mafia si era vieppiù orientata a votare Forza Italia”.
Tutto questo è scritto in una sentenza di primo grado, che naturalmente aspetta conferme o smentite in appello e in Cassazione.
Però è strano che non si sia trovato nessuno che la citasse in questi giorni tra un retroscena e l’altro.
Io penso che sia fatta giustizia, spero che prima o poi, invece di usarlo soltanto per raccattare qualche voto sporco in campagna elettorale, tributino finalmente nel prossimo congresso i giusti onori anche al padre fondatore, anzi al padrino co-fondatore, Vittorio Mangano.
Passate parola.”

I padrini fondatori

I padrini fondatori.

Fortuna che ci ha pensato Al Tappone a colmare una delle tante amnesie dei suoi servi sparsi nei giornali, a proposito della storia di Forza Italia. Ricordando Craxi al congresso, il Cainano ha finalmente ammesso ciò che nessuno, nemmeno lui, aveva mai osato scrivere: e cioè che dietro la nascita di Forza Italia c’è la mano furtiva del noto corrotto latitante. L’avesse ammesso nel ’94, non avrebbe preso un voto.

Infatti allora lo negava: «È una falsità, una cosa senza senso dire che dietro il signor Berlusconi ci sia Craxi. Non devo nulla a Craxi e al cosiddetto Caf» (Mixer, 21 febbraio 1994). «Forza Italia e Craxi sono politicamente lontani anni luce» (Repubblica, 1 ottobre 1995). «Posso assicurare che politicamente non abbiamo nulla a che fare con Craxi, e siamo stati molto attenti anche nella formazione delle liste elettorali. Non rinnego l’amicizia con Craxi, ma è assolutamente escluso che Forza Italia possa avere avuto o avere alcun rapporto con Craxi» (2 ottobre 1995). Infatti, ancora cinque anni fa, Stefania Craxi dichiarava: «A Berlusconi non perdono di non essere mai stato a trovare mio padre neppure una volta» (Corriere della Sera, 2 agosto 2004). Ora, dopo l’elezione della signora alla Camera e le sue lacrime alla standing ovation congressuale, è tutto dimenticato. Nessuno invece ha voluto tributare i giusti onori ad altri due padri fondatori: Vittorio Mangano, prematuramente scomparso nel 2000, e Marcello Dell’Utri, inspiegabilmente emarginato al congresso. Eppure, come racconta il suo ex consulente Ezio Cartotto, fu proprio Marcello a inventare il partito azienda, e fin dall’estate ’92, dopo la strage di Capaci, gli commissionò in gran segreto «un’iniziativa politica della Fininvest» al posto del Caf agonizzante per Tangentopoli. L’anno dopo, quando tutto era ormai pronto, Vittorio Mangano – l’ex «stalliere di Arcore» da poco scarcerato dopo 11 anni di carcere per mafia e droga e promosso boss di Porta Nuova – fece la spola tra Palermo e Milano. Qui nella sede di Publitalia – come risulta dalle agende sequestrate alla segretaria di Dell’Utri – Marcello e Vittorio s’incontrarono il 2 e il 30 novembre ’93. Lo scrive il Tribunale di Palermo che nel 2004 ha condannato Dell’Utri a 9 anni per concorso esterno in associazione mafiosa. Dell’Utri fu «disponibile verso l’organizzazione mafiosa nel campo della politica, in un periodo in cui Cosa Nostra aveva dimostrato la sua efferatezza criminale con stragi gravissime, espressioni di un disegno eversivo contro lo Stato». Infatti Marcello incontrava Mangano mentre era «in corso l’organizzazione del partito Forza Italia e Cosa Nostra preparava il cambio di rotta verso la nascente forza politica»: prometteva «precisi vantaggi politici» e «aiuti concreti e importanti a Cosa Nostra in cambio del sostegno a Forza Italia». Standing ovation, please.

MARCO TRAVAGLIO

Rubrica Ora d’aria – L’Unità, 30 marzo 2009

“La verità su mio fratello”

http://www.19luglio1992.com/index.php?option=com_content&view=article&id=1168:la-verita-su-mio-fratello&catid=2:editoriali&Itemid=4

Scritto da Salvatore Borsellino

Accetto volentieri l’invito del direttore Gianfranco Criscenti a scrivere su L’Isola e l’Alcamese perché per me, che dalla Sicilia sono andato via da quaranta anni ma che la Sicilia porto sempre nel cuore, è quasi una maniera di tornare in qualche modo nella mia terra.
Ci sono poi altri ricordi che mi legano a Trapani e alla sua provincia. Quello di un mio zio, Costantino Lepanto, che a Trapani esercitava la professione di medico e che nel suo mare trovò la morte per salvare una bambino che stava per annegare, episodio per cui fu insignito della medaglia d’argento al valor civile. E poi soprattutto il periodo durante i quale Paolo fu a capo della Procura di Marsala e durante il quale, se fosse stato portato a termine il piano preparato da Francesco Messina Denaro, che prevedeva un agguato a Paolo effettuato nel tragitto verso Palermo con un fucile di precisione imbracciato da Vincenzo Calcara, Paolo avrebbe dovuto incontrare quella morte che incontrò poi invece nella strage di Via D’Amelio.
No a Sgarbi – Non sempre gli inviti che mi giungono dalla Sicilia mi sono egualmente graditi: qualche tempo fa ne avevo ricevuto un altro, in questo caso da Salemi. Il sindaco di quella cittadina, lo show-man, critico d’arte nei ritagli di tempo, Vittorio Sgarbi mi invitava, per bocca di un suo assessore – il quale, giustamente, sembrava piuttosto imbarazzato nel farmi la proposta – alla presentazione del libro di Lino Jannuzzi “Lo sbirro e lo Stato” su Bruno Contrada. Fiutando una trappola, visto che le mie posizioni su Bruno Contrada sono ben note, rifiutai dicendo che, anche se potevo avere una certa stima di Vittorio Sgarbi come critico d’arte, non ce l’avevo invece per tutto il resto della sua attività di provocatore televisivo e per le sue dichiarazioni nei confronti dei magistrati, in particolare di Giancarlo Caselli che ha sempre gratificato dei peggiori epiteti. In ogni caso non avrei potuto partecipare ad un incontro dove fosse presente Jannuzzi per il quale ho una profonda disistima – peraltro, mi risulta, abbondantemente ricambiata – dato che lo reputo iscritto a libro paga di quegli stessi ‘servizi’ dai quali, a mio avviso, è stata organizzata la strage di Via D’Amelio.
Lipera e “Sicilia Libera” – Credevo che tutto finisse qui ma ho saputo poi, per la testimonianza di un lettore del mio sito che era stato presente all’incontro, che la trappola era stata preparata ancora meglio: erano presenti infatti anche l’avvocato di Contrada, Giuseppe Lipera, con il quale ho avuto più di uno scontro per via telematica, e soprattutto Marcello Dell’Utri, un criminale, almeno secondo il processo di primo grado nel quale è stato condannato a nove anni per concorso esterno in associazione mafiosa, quel reato che ha permesso di mandare a marcire in galera tanti collusi con la criminalità organizzata e che quindi in tanti, forse perché passibili delle stesse condanne, vorrebbero abolire. Per inciso, è bene sapere che, stando ad atti ufficiali, l’avvocato Lipera risulta tra i fondatori di “Sicilia Libera”, il movimento-partito presente anche a Trapani costituito per volere di Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca nell’ambito di un progetto politico di tipo indipendentista e secessionista che la mafia stava coltivando prima del 92 nel tentativo di cavalcare il fenomeno della Lega Nord.
La trappola, dunque, era senz’altro ben congegnata, per cui lascio immaginare ai lettori quale avrebbe potuto essere la mia reazione nel trovarmi davanti a certi personaggi.
I fan dei boss – L’argomento sul quale mi vorrei soffermare approfittando dello spazio concessomi riguarda l’ultima notizia da Facebook, un network di comunicazione tra utenti utilizzabile su Internet che ha avuto in Italia una incredibile diffusione con un tasso di crescita superiore a quello di ogni altro paese: la nascita, dopo i gruppi inneggianti a Riina, Provenzano e Matteo Messina Denaro, anche di un gruppo denominato “Bruno Contrada Libero” al quale hanno già aderito centinaia di utenti e che ha come obiettivo dichiarato quello di «chiedere la libertà piena per raggiunti limiti di età e la volontà di evidenziare una sentenza che condanna un uomo per un reato che non è stato introdotto dal legislatore». Altro obiettivo dichiarato del gruppo è quello di «eliminare la confusione nata attorno ad affermazioni di Salvatore Borsellino, che dei gruppi in Facebook fa di tutta l’erba un fascio, mescolando sostenitori di Totò Riina con persone perbene. Ciò solo perché queste ultime non condividono il suo giudizio riguardo l’ex funzionario».
Il reato che non sarebbe stato introdotto dal legislatore è quello di “concorso esterno in associazione mafiosa” cioè quel comportamento delittuoso per cui una persona pur non facendo parte dell’associazione criminale pur tuttavia la facilita: lo stesso reato per il quale anche il senatore Marcello Dell’Utri è stato condannato in primo grado. Questo basterebbe già a spiegare l’attuale accanimento del capo del governo contro questo tipo di reato del quale ha più volte promesso l’abolizione.
Il concorso esterno – In effetti, in passato, l’argomento è stato oggetto di controversie da parte di alcune correnti giurisprudenziali che ne escludevano la configurabilità, ma la controversia è stata poi risolta in quanto oggetto di una pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, la quale ha stabilito che il concorso esterno del delitto associativo riguarda «quei soggetti che sebbene non facciano parte del sodalizio criminoso, forniscono, sia pure mediante un solo intervento, un contributo all’ente delittuoso tale da consentire all’associazione di mantenersi in vita, anche limitatamente ad un determinato settore, onde poter conseguire i propri scopi» (Cass. Sezione Unite Penali, 5 ottobre 1994). Cioè esattamente il reato per cui è stato condannato in via definitiva Bruno Contrada con l’aggravante che, nel suo caso, non di un solo intervento si è trattato ma di un comportamento reiterato nel tempo come l’escussione di un gran numero di testi, e non soltanto di “pentiti” come falsamente viene sostenuto, ha potuto dimostrare nel corso del dibattimento in più gradi processuali. Si tratta in altre parole di quella “contiguità” di cui parlava Paolo quando sognava «quel fresco profumo di libertà che si oppone al puzzo della indifferenza, del compromesso morale, della contiguità e quindi della complicità».
Forse sarebbe bene non dimenticare che la figura giuridica del reato di concorso esterno in associazione mafiosa nacque e fu ampiamente utilizzata nei maxprocessi istruiti dal pool di cui facevano parte Falcone e Borsellino e fu grazie ad esso che poterono essere promulgate decine e decine di condanne nei confronti dei fiancheggiatori delle cosche mafiose, fiancheggiatori che oggi a quanto pare, forse per ottemperare a qualche punto della scellerata “trattativa” tra mafia e Stato per cui fu ucciso Paolo Borsellino, si vogliono rimettere in libertà tramite la revisione dei relativi processi.
Regia unica? – La sincronicità, o meglio la consequenzialità tra la nascita dei gruppi a favore dei capi delle cosche e la nascita del gruppo a favore di Contrada rafforza la mia ipotesi che la centrale di disinformazione che difende mafiosi e collaboratori dei mafiosi sia in realtà unica e che non di gruppi spontanei si tratti ma di vere e proprie agenzie che si servono di una variante dei “troll”, un fenomeno ben conosciuto tra i frequentatori della rete che, noti come semplici disturbatori delle comunità virtuali, si sono in questo caso evoluti e vengono utilizzati, magari stipendiati all’uopo, come veri e propri agenti provocatori e diffusori di una disinformazione mirata.
Che poi ci sia un gran numero di menti deboli che si lascia trascinare da questi meccanismi o un limitato numero di menti perverse che li animano e li guidano non contraddice la mia ipotesi, in verità vagliata anche dalla magistratura. Solo in questo modo criminali come Riina, Provenzano e Messina Denaro, peraltro già mitizzati tramite le deleterie fiction distribuite sulle reti di informazione di massa, possono essere applauditi come eroi e traditori dello Stato come Bruno Contrada possono essere presentati come vittime e non come carnefici quali essi in realtà sono.
Il primo esempio – Per quanto riguarda l’adulazione dei boss non posso fare a meno di aggiungere un particolare da non dimenticare perché probabilmente è stato ritenuto un esempio da seguire da parte dei fan: sono stati l’attuale capo del governo e il suo amico Dell’Utri i primi a definire “vittima” ed “eroe” un bestiale assassino come Vittorio Mangano. E, guarda caso, in piena campagna elettorale. «Con Dell´Utri e Berlusconi sembravamo quasi parenti» aveva del resto dichiarato una volta lo stesso Mangano.
Su Bruno Contrada, invece, non voglio aggiungere altro a quanto ho più volte detto in svariate occasioni e in diversi contesti, per me non è altro che un criminale condannato con sentenza definitiva per uno dei reati che considero più grave per un funzionario dello Stato, cioè la collaborazione con il nemico di quello stesso Stato a cui , nell’assumere le proprie funzioni, si è prestato giuramento, reato moralmente più grave quindi della stessa associazione mafiosa, di chi cioè milita e delinque, senza nascondersi sotto i panni di difensore dello Stato, dalla parte dell’antistato.
E a chi mi obietta che lo Stato è quello che io accuso di avere organizzato la strage di Via D’Amelio non posso fare altro che rispondere che lo Stato di cui io parlo è quello che per cui è morto Paolo Borsellino, quello nato dalla Resistenza, fondato sulla nostra Costituzione e costituito da tutti i tanti cittadini liberi e onesti che in questa idea di Stato credono e per cui tanti sono morti e sono pronti a morire, non nella squallida realtà del nostro Stato ormai infiltrato dalla criminalità organizzata fino ai più alti gradi delle istituzioni e nel quale distinguere tra Stato e antistato è ormai sempre più difficile.

Salvatore Borsellino

Approfondimento:
L’AVVOCATO DI CONTRADA FONDATORE DI “SICILIA LIBERA”,
PARTITO VOLUTO DA LEOLUCA BAGARELLA E GIOVANNI BRUSCA
Si trovava a Salemi in occasione della presentazione del libro di Lino Jannuzzi su Bruno Contrada
Nei primi anni Novanta – si legge nella relazione di minoranza della Commissione parlamentare antimafia della passata legislatura – «si avvia una fase di intenso lavorio, da parte della mafia, per ricostruire, dopo l’azzeramento (dei vecchi partiti della prima Repubblica,ndr), un tessuto di relazioni politiche per fare politica in modo diverso. La mafia è un soggetto politico che fa politica con l’intimidazione, con le stragi, con le bombe e con gli omicidi: questo è il suo modo di fare politica. Viene così avviato un processo complesso di ricontrattazione dei rapporti di forza col mondo della politica. Una ricontrattazione dei rapporti che nasce dall’esigenza, come diceva Leoluca Bagarella, nel modo rozzo tipico di un uomo come Bagarella, di impedire ai politici di “prendere in giro” la mafia, perché non dovevano essere consentiti più “tradimenti” dai nuovi referenti. E secondo Bagarella, l’unico modo sicuro poteva essere quello di fare politica in prima persona: “dobbiamo fare in modo tale da essere noi ad entrare in politica, deve essere come se fossi io – disse Bagarella nel ’92-’93 – come se fossi io il Presidente della Regione Siciliana”, rompere la mediazione dei politici di professione».
«E’ da questa esigenza che sono nati certi progetti politici direttamente patrocinati da “cosa nostra”: vi sono stati addirittura dei partiti – è processualmente provato – costituiti da “cosa nostra”, come Sicilia Libera, il movimento indipendentista costituito per volere di Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca nell’ambito di un progetto politico di tipo indipendentista e secessionista che la mafia stava coltivando ancor prima del ’92, pensando di cavalcare il fenomeno della Lega Nord e perciò costituendo movimenti indipendentisti non solo in Sicilia, ma in tutto il Meridione d’Italia. Furono costituiti movimenti come Calabria Libera, Lucania Libera, Puglia Libera ecc., movimenti peraltro costituiti da soggetti legati in parte alla criminalità organizzata, in parte alla massoneria, in parte alla destra eversiva».
”Sicilia Libera” – scrive il giudice Luca Tescaroli nel libro “Perché è stato ucciso Giovanni Falcone”, Rubettino editore – «veniva fondata il 28 ottobre 1993, a Catania, da Antonino Strano, poi divenuto Assessore regionale di A.N. per il Turismo e lo Sport, nonché dall’avv. Giuseppe Lipera e da Gaspare Di Paola, dirigente del gruppo imprenditoriale riconducibile ai fratelli Costanzo».
«Ma – prosegue la relazione dell’Antimafia – anche questo progetto fallì, anche perché esso sarebbe dovuto passare attraverso una sorta di golpe, idea che non ebbe sufficiente seguito all’interno dell’organizzazione criminale. Si scelse allora un’altra opzione, più cara a Bernardo Provenzano, nuovo “capo dei capi” dopo l’arresto di Riina nel gennaio 1993, più vicina alla tradizione della mafia, un’opzione strategica di rinuncia allo stragismo in favore di una strategia della tregua, della pacificazione, per rendersi meno visibile e non richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica, e quindi senza omicidi eclatanti, senza stragi, senza bombe, cercando anzi il dialogo e la trattativa per ripristinare un rapporto con la politica di convergenza di interessi e non di contrapposizione o di braccio di ferro armato».
Di certo si sa che “Sicilia Libera” fu sciolta quando nacque Forza Italia con il contributo determinante di Marcello Dell’Utri, prima interessato a quel movimento autonomista.

“L’ISOLA” e “L’ALCAMESE”, periodici della provincia di Trapani, diretti da Gianfranco Criscenti – ANTIMAFIA: INIZIA LA COLLABORAZIONE DI SALVATORE BORSELLINO CON LE NOSTRE TESTATE.

Processi di cui e’ meglio non parlare

http://www.antimafiaduemila.com/index.php?option=com_content&task=view&id=13736&Itemid=78

di Nicola Tranfaglia* – 10 marzo 2009
Processi di cui è meglio non parlare Quello che sta avvenendo in Italia da alcuni anni a questa parte è un processo di cui sarebbe sbagliato negare la complessità e la gradualità. Riguarda, da una parte, l’oscuramento di fatti ed episodi sgraditi a chi controlla il potere politico e, dall’altra, l’affondamento di quello che era rimasto dello stato di diritto nel nostro paese.

Si tratta, nell’uno come nell’altro caso, di un attacco frontale a quell’idea di “democrazia moderna” che, negli anni migliori del sessantennio, era apparsa come un obbiettivo raggiungibile.
Un esempio calzante di questo duplice obbiettivo che si sta ormai realizzando in maniera rovinosa è costituito dal processo in corso a Palermo dal luglio 2007 (IV sezione del Tribunale penale) contro il generale e prefetto Mario Mori, ex capo del Sismi ed ex comandante del Ros dei carabinieri, per un complesso di vicende ancora oscure.
Vicende che riguardano le stragi politico-mafiose del 1992-93, la mancata cattura di Provenzano nel ’95-96, la nascita di Forza Italia nel 1993-94, infine alla cattura dello stesso Provenzano nel 2006.
Di un simile processo non parla nessuno in Italia come se si trattasse di una vicenda di assai scarso interesse e le sole notizie riguardo al generale Mori sono la sua presenza a Roma e le sue imprese come attuale responsabile del dipartimento di sicurezza della capitale per diretta nomina del sindaco di Alleanza Nazionale, Gianni Alemanno.
Attraverso una rivista bimestrale, Micromega (numero 1 – 2009), che ha scelto l’attualità politica come centro della sua battaglia periodica, possiamo leggere gli elementi essenziali di un dibattimento processuale che ha un particolare interesse dal punto di vista storico e riporta la testimonianza (che appare più di altre attendibile) del colonnello dei carabinieri Michele Riccio che riferisce notizie di prima mano sui fatti presi in considerazione.
In particolare Riccio accusa – con circostanze precise – il generale Mori e il suo strettissimo collaboratore colonnello Obinu di avergli impedito di trovare Provenzano 14 anni fa quando, grazie alla collaborazione processuale del mafioso Luigi Ilardo, ucciso da Cosa Nostra il 10 maggio 1996, era giunto al rifugio segreto del capomafia e stava per catturarlo.
Riccio rivela anche che proprio Mori gli aveva chiesto di non includere nomi di politici (o almeno di alcuni politici) nei rapporti che stendeva per il Ros durante la collaborazione di Ilardo precedente alla sua morte sicchè all’on. Andò, socialista, e all’on. Mannino, democristiano, si poteva anche accennare ma, in nessun caso, all’onorevole Marcello dell’Utri, (legato a Silvio Berlusconi come presidente di Pubblitalia) di cui pure Riccio aveva sentito parlare dal collaborante nel momento in cui, dopo le stragi del ’92, si stava dipanando la trattativa segreta del Ros Carabinieri con i capi di Cosa Nostra in vista di una tregua, che avrebbe dovuto seguire all’esaurirsi della strategia terroristica di attacco diretto allo Stato da parte dei corleonesi, e in particolare di Salvatore Riina, catturato provvidenzialmente nel gennaio 1993.
Ricorda che Ilardo, subito dopo aver annunciato ai magistrati Tenebra e Caselli di volersi costituire e collaborare con la giustizia, era stato ucciso da due sicari grazie al fatto che proprio dagli investigatori era stata diffusa la notizia della sua decisione e si era perduta una voce preziosa che molto poteva dire sugli ultimi anni dei delitti e delle imprese di Cosa Nostra non soltanto in Sicilia.
Le obiezioni della difesa alla testimonianza di Riccio non sono riuscite fino ad oggi a metterla in crisi e nel dibattimento si profila il delinearsi di una versione dei fatti che mette in luce come, durante la crisi politica del ’93-‘94, si sia realizzata un’alleanza di fondo tra la nascente Forza Italia e alcuni esponenti del Ros Carabinieri come il generale Mori e il tentativo di un accordo con la mafia siciliana che vede la sostituzione di Provenzano a Riina e il cambiamento radicale della strategia politica di Cosa Nostra.
Se il processo si concluderà recependo simili risultati, bisognerà tenerne conto in maniera adeguata nella ricostruzione storica dei rapporti tra la mafia e la politica nell’Italia contemporanea.

“SE NON HAI UN PAPA’ MINISTRO E NON HAI UNO ZIO VESCOVO, CLICCA QUI…”

Da http://www.19luglio1992.com/index.php?option=com_content&view=article&id=1162:clicca-qui&catid=2:editoriali&Itemid=4:

Questo è il nuovo slogan pubblicitario del sito “infojobs.it”.
Uno dei tanti siti per cercare e forse trovare un lavoro…

Ritornando allo slogan, al quale mi sono imbattuto tramite una e-mail ricevuta, e che hanno deciso di realizzare insieme ad un divertente video, mi sono identificato, avendo spesso recitato la seguente frase a diversi amici e non, già un bel pò di anni fa; infatti dicevo: “caro Michele, oggi, se vuoi un lavoro di un certo tipo, magari dietro ad una scrivania e davanti ad un computer, anche se non sai usarlo sappi che, rivolgendoti ad un’eventuale parente ecclesiastico o ad un eventuale parente politico, otterrai il tuo sogno”. Per quanto concerne il termine parente, era da me utilizzato, per non essere troppo generalista o qualunquista e, quindi non eccessivamente invadente e sarcastico nei confronti della società. Oggi però, ritengo abbiamo l’obbligo di essere realisti e guardarci in faccia e non cercare un inutile conformismo che a ben poco serve se non a trastullarci e a non pensare come risolvere i problemi relativi al “sistema che gira al contrario”; cioè contro noi stessi.
Sono fermamente convinto che non è profezia, purtroppo, bensì una frase quella a cui fa riferimento lo slogan che, si tramanda di generazione in generazione; un pò come il nome del nonno che per prassi e rispetto veniva attribuito al nipote. Basta soltanto essere un po’ attenti alle tematiche che condizionano radicalmente la nostra esistenza, in questo mondo fatto di favoritismi, agevolazioni, clientelismi.
Una società in cui i meno bravi son sempre, o quasi, riusciti ad occupare ruoli di notevole spessore rispetto a coloro che meriterebbero qualcosa di molto più dignitoso, ma, che a causa della mancanza di meritocrazia pagano questo brutale “modus vivendi”. Oggi, ormai, quasi tutti sappiamo che la rete è per noi “navigator” molto importante, soprattutto quando ci si vuole “controinformare”. Ma, facciamo attenzione a questo, chiamiamolo, neologismo; poichè il termine controinformazione viene così definito da “wikipedia”: -per controinformazione si intende in genere la diffusione, attraverso mass media, di informazioni taciute, o riportate in modi significativamente diversi, dalla maggior parte dei mezzi di comunicazione di un certo paese (o altro ambito sociale e culturale). In genere, chi presenta la propria opera come “controinformazione” implica che i media siano, in parte o totalmente, asserviti a interessi politici o economici e quindi non siano in grado di rappresentare oggettivamente la realtà; in questo senso la controinformazione è in genere associata a una denuncia di censure e di limiti alla libertà d’informazione-.
Qui non si tratta di presentare la cosiddetta “controinformazione” per denunciare i mass media che, ormai è scontato non facciano il proprio dovere poiché figli di un unico padrone, bensì per cominciare a svegliarci un pò da questo terribile incubo, da questo “coma mediatico” che subiamo dall’avvento della televisione. Lo straordinario Pier Paolo Pasolini, intorno agli anni ’60, disse testuali parole: “non c’è niente di più feroce della banalissima televisione”. Una frase che non lascia commenti, seppure essa sia stata pronunciata 50 anni orsono.
Molti ancor oggi credono che grazie alla TV abbiamo una cultura, almeno così ci dice la televisione e di conseguenza così noi ripetiamo. Vorrei citare un’altra interessante frase, perché, pronunciata dall’attuale premier al suo fedele “servo” ed attuale senatore della repubblica italiana: “caro Marcello (Dell’Utri), devi sapere che tutto quello che non passa dalla televisione vuol dire che non esiste e, questo vale per i prodotti, i politici e le idee…”

Da un articolo pubblicato su “affaritaliani.it”, lo scorso 26 febbraio, emergono dei dati alquanto allarmanti:

–L’Italia è il Paese più corrotto dell’Europa occidentale, e quello con la crescita più lenta. Uno studio ONU collega i due fenomeni chiamando in causa l’analfabetismo funzionale.
Secondo il rapporto di Transparency International del 2008, l’Italia è considerata dagli esperti il Paese più corrotto dell’Europa occidentale.

I dati del Fondo Monetario Internazionale (2008) indicano che l’Italia è anche, con la sola eccezione dell’Irlanda, il Paese con la crescita economica più debole dell’Europa occidentale, l’unico ad aver chiuso l’anno in negativo con un -0,1%. Inoltre, secondo il rapporto OECD in Figures (2008), la media della crescita italiana (+1,7%) negli ultimi vent’anni (1987-2007) è stata la più bassa dei Paesi OCSE.

Dal rapporto SOS Impresa – Confesercenti (2007), la mafia è la prima “azienda” italiana, con 130 miliardi di € di fatturato annuo.

L’Italia è il 6° Paese OCSE con il più alto tasso di diseguaglianza sociale, secondo il rapporto Growing Unequal (2008) dell’OCSE

Il 65% della popolazione italiana non possiede le competenze alfabetiche minime, secondo l’OCSE, per orientarsi nella società dell’informazione (è cioè “funzionalmente analfabeta” o “semianalfabeta”). Mentre meno del 10% possiede le competenze necessarie per orientarvisi in modo critico e creativo.

Secondo Eurostat (2008), l’Italia è l’ultimo Paese dell’Europa occidentale per numero di famiglie connesse ad Internet (42%), il terz’ultimo dell’UE-27 (60%)—

Stesso desolante e consueto scenario, è emerso, circa due settimane fa, in occasione dell’ormai prossimo 40° anniversario dell’Università della facoltà di scienze politiche di Torino.
E’ stata definita una “settimana di Politica con la P maiuscola”, scommettendo sulla possibilità di restituire alla “nobile arte” la sua dignità.
La politica dovrebbe, anzi deve essere, insegnata ai nostri politici. Ricordiamo la celebre inchiesta delle “Iene” (programma TV), che mise in piazza la vergognosa carenza culturale, ma, anche nello specifico, politica dei nostri deputati e senatori. Per non parlare poi delle catastrofiche figuracce in ambito regionale, provinciale e comunale di questi uomini o donne che ci rappresentano; –il comune di Marsala col suo consiglio comunale, lo so perché ci vivo, ne è un lampante esempio; un consiglio in cui ci si mette d’accordo soprattutto per approvare decine e decine di lottizzazioni in mancanza di un piano regolatore; un consiglio che da oltre 600 giorni dall’insediamento dell’attuale amministrazione non ha il suo difensore civico, previsto dallo statuto e tanto altro ancora; le mie non sono accuse, ma constatazioni reali.– Questa settimana di “politica” è stata voluta per avvicinare la cittadinanza all’università ma soprattutto alla politica, poiché non possiamo dire mai non m’interesso di politica, perché è la politica ad interessarsi di noi. Naturalmente tutto ciò è stato realizzato con la collaborazione di: scienziati politici, giuristi, filosofi, economisti, sociologi, storici, letterati –, con varie fisionomie di attori sociali (giornalisti, scrittori, sindacalisti, imprenditori…). Tutti a discutere, per una canonica settimana lavorativa sulla politica, ma non in astratto, bensì applicandosi al “caso Italia”, un caso davvero di studio su scala internazionale, su cui si sta accumulando una nutrita bibliografia. Mettendo a fuoco i problemi di questo Paese disgraziato; economia e lavoro, ricerca e scuola, la cittadinanza, il rapporto tra Chiese e Stato, istituzioni, cultura, comunicazione, i partiti, sono stati passati al setaccio per tentare di capire di più, a partire da dati, da elementi di conoscenza, capaci di far passare la discussione dal chiacchiericcio del talk show all’analisi seria, ma in grado di farsi comprendere dai non specialisti.
Anche qui, emerge uno sconfortante quadro; un paese corrotto, devastato dagli scempi ambientali, messo sotto tutela dalla criminalità organizzata (che ormai controlla un terzo del territorio nazionale), dove il lavoro sommerso prospera (una quota che è di oltre il 18%, ma secondo altri studiosi raggiunge ormai il 30%), producendo una proporzionale evasione fiscale, che si aggiunge a quella “strutturale”; un paese di evasori, e di abusivisti edilizi; un paese dove le leggi si dividono in tre categorie: quelle inutili, la maggior parte; quelle dannose, che vengono applicate; quelle utili e preziose, che sono regolarmente disattese nel disinteresse generale; a cominciare dalla Costituzione Repubblicana, che aspetta ancora di essere attuata, in tanti passaggi essenziali, e anzi è non da oggi posta sotto attacco, proprio per il suo carattere democratico e progressista.
Alla fine uno dei relatori, lo storico Paolo Macry, ha detto che Berlusconi è precisamente “l’autobiografia della nazione”, nei suoi aspetti più deteriori, ma anche più legati al senso comune, dalla speculazione edilizia al calcio, dalla televisione al machismo, dalla barzelletta alla pacca sulle spalle, dalla corruzione attiva a quella passiva. Modestamente mi permetterei d’aggiungere che non solo il cavaliere è “l’autobiografia della nazione”, ma anche la sinistra e quindi l’intera classe politica è sulla stessa lunghezza d’onda dell’attuale premier. Tutto ciò dovrebbe, seriamente, farci riflettere sul “decadentismo socio-culturale, politico ed economico” in cui versa il nostro paese insieme a noi cittadini che naturalmente vi facciamo parte. Si comprende perfettamente che la realtà italiana è di gran lunga ben diversa da come ci viene proposta dai tradizionali mezzi di comunicazione di massa (TV e giornali). L’Italia è lo “zimbello” dell’Unione Europea. Infatti ogniqualvolta la nostra attenzione verte all’esterno dai consueti mass media ne abbiamo la prova concreta, anche e soprattutto dall’estero; faccio riferimento a quei giornalisti che hanno il coraggio di scrivere verità sul premier, lui li querela, però poi perde le cause, ma non ne parla nessuno.
Uno fra tutti Alexander Stille, giornalista e scrittore americano, molto informato sulle cronache giudiziarie di Berlusconi, il quale nel 2006 pubblicò un libro inchiesta noto in Italia come “Citizen Berlusconi” (propongo a chi non l’avesse visto il video documentario censurato in Italia: http://video.google.it/videoplay?docid=-7507586179468920585 e ancora http://it.wikipedia.org/wiki/Citizen_Berlusconi); Fedele Confalonieri, il presidente di Mediaset, l’azienda di Berlusconi, ha citato in giudizio Stille per tre passaggi del suo libro, fra i quali uno in cui si diceva che Berlusconi, assumendo Confalonieri, il suo più vecchio amico, “fondesse i suoi affari e la sua vita privata quasi totalmente” . Nel febbraio 2009, un tribunale penale di primo grado di New York ha pienamente assolto Stille dall’accusa di diffamazione. Sempre colpa delle solite “toghe rosse”?
Un altro scandaloso e vergognoso recentissimo esempio è la condanna ad oltre 4 anni dell’avvocato Mills, legale di Mediaset; ebbene, in qualsiasi altro stato democratico una persona condannata per un grave reato come quello di corruzione, ed essendo il legale niente meno che dell’attuale premier Berlusconi, avrebbe suscitato un notevole interesse da parte dei media; ma da noi non si è verificato tale interesse poiché coloro che avevano l’obbligo d’informare l’opinione pubblica come i TG, hanno sepolto la notizia con dei brevi servizi in mezzo al programma e nessuno ha spiegato sulla base di quali prove è stato condannato l´avvocato Mediaset. Il servizio ha rischiato addirittura di non esserci. La sede di Milano della Rai non ha neppure mandato una troupe al tribunale per fare un servizio. Hanno spiegato i dirigenti che senza Berlusconi come imputato non aveva nessuna importanza nazionale, aggiungendo figuriamoci dopo i risultati in Sardegna. Solo dopo la protesta dei giornalisti e il loro sindacato – e per evitare uno scandalo – si è fatto qualcosa, ma a quell´ora la Rai ha dovuto comprare il filmato da una troupe privata.
Ormai i giornalisti dei TG sono talmente condizionati che diventa prassi normale tacere su notizie imbarazzanti o sgradevoli.

Altre prove alquanto tabgibili ci vengono date daggli “addetti ai lavori”, magistrati, vicequestori, etc.
Sabato scorso, 7 marzo, nell’aula magna della facoltà di giurisprudenza di Palermo, erano presenti quattro magistrati, dai blasonati nomi, in occasione della presentazione del libro “Colletti Sporchi” di Ferruccio Pinotti e Luca Tescaroli. Antonino Di Matteo (sostituto procuratore di Palermo), Antonio Ingroia (procuratore aggiunto di Palermo), Roberto Scarpinato (sostituto procuratore di Palermo) e Luca Tescaroli (sostituto procuratore della procura di Roma) insieme a Salvatore Borsellino, fratello del magistrato Paolo, e a Giorgio Bongiovanni fondatore e direttore della rivista “Antimafiaduemila”. Sono moralmente obbligato a riportare solo alcuni brevi interventi, che hanno citato i relatori presenti, molto eloquenti;

– Bongiovanni: In apertura della conferenza di presentazione del libro il direttore di ANTIMAFIADuemila, ha introdotto il filmato dell’ultima intervista rilasciata dal giornalista Pippo Fava ad Enzo Biagi, una settimana prima di essere assassinato. (http://www.youtube.com/watch?v=jAogBSvaSyU) . Un’intervista “profetica” e “drammaticamente attuale”, l’ha definita Bongiovanni, i cui contenuti sono presenti anche all’interno del libro di Tescaroli, in cui il giornalista indica come Cosa Nostra, la mafia siciliana, sia sostenuta, protetta dai poteri forti con i quali collude da sempre.
“La mafia ha acquistato una tale impunità da essere diventata persino tracotante e la sua potenza risiede nella enorme quantità di denaro che gestisce”. Quindi, diceva Fava, se si vogliono cercare i veri capi di Cosa Nostra e chi veramente comanda la mafia in Italia si deve guardare fino in Parlamento, nelle banche e in tutti quei settori grazie ai quali la mafia ricicla le sue ricchezze”.

– Di Matteo: “è in atto il piano di rinascita della P2”; nel 1982 – ha spiegato il magistrato – in un doppio fondo di una valigia di Maria Grazia Gelli (figlia di Licio Gelli) a Castiglion Fibocchi è stato trovato il Piano di Rinascita democratica, il manifesto fondamentale della Loggia massonica P2. Recentemente ho ripreso questo documento, mi sembrava che certi fantasmi fossero definitivamente scacciati e tramontati e mi sono reso conto che non è così”. In questi documenti, ha ricordato, vi era “una sommaria indicazione di obiettivi e l’elencazione di programmi a medio e lungo termine”. Tra cui quello di usare la Giustizia perché “fondamentale nel progetto di controllo dello Stato e della cosa pubblica”; conclude- alla faccia della lotta alla mafia, fa un certo effetto sentire il Procuratore di Caltanissetta Lari gridare che la situazione dell’organico della procura è disperata proprio mentre emergono ulteriori spunti importanti da approfondire sulle stragi”. Le stragi non furono solo opera di Cosa Nostra. E’ calata la sordina sui temi della lotta alla mafia non appena è stato investigato il livello dei mandanti esterni delle stragi. Sentenze definitive di più Corti di Assise hanno confermato che le stragi non furono solo opera di Cosa Nostra e che le mani dei mafiosi siano state armate ed ispirate è sancito dalla Cassazione. Non è stata solo un’avventura di qualche magistrato in cerca di celebrità. Un paese serio dovrebbe avvertire come imminente e impellente il bisogno dell’approfondimento. Ma non è stato così”.

– Ingroia: “Chiedo alla società attenzione per la magistratura. Oggi viviamo una stagione difficile, per certi versi più difficile di quella che abbiamo vissuto all’epoca delle stragi. Allora la società mostrò una voglia di reazione forte, oggi invece è anestetizzata. Oggi i poteri di controllo magistratura e informazione sono sottoposti ad un assedio da quelli che non mi piace definire col nome dei poteri forti, ma comunque il potere con la P maiuscola, che ha stabilito una specie di soluzione finale. Siamo in una fase delicata. Molto dipende da come quella parte d’Italia che è all’opposizione riuscirà ad essere informata e ad agire in modo attivo. Nella sua storia il nostro Paese è stato condizionato dallo stragismo e dai delitti politici. Un Paese caratterizzato dall’irredimibilità della propria classe dirigente che mostra un’inclinazione a delinquere ed una grande capacità di auto-assolversi, tanto da riuscire a mettere in piedi processi legalizzanti delle stesse condotte illecite. Nel libro di Tescaroli – ha proseguito il magistrato – è inserita la storia giudiziaria di questi anni. Vi sono anche alcuni inediti, vicende all’interno delle sedi giudiziarie che ci dimostrano come la verità su fatti che hanno condizionato l’evoluzione del nostro Paese sia stata ostacolata, seppellita ed insabbiata. E’ una storia scomoda da raccontare ed ancora una volta si sottrae il diritto della gente ad essere informata su quella stagione terribile nella quale è nata la cosiddetta seconda repubblica in cui abbiamo vissuto in questo ultimo ventennio”.

– Scarpinato: “Nessuno può governare senza scendere a patti con la borghesia mafiosa. Una mafia senza mafiosi. L’omicidio per fini politici e la corruzione sistemica sono le caratteristiche di una mafia che non ha nulla a che vedere con l’icona della Cosa Nostra di Bernardo Provenzano e Salvatore Riina e della macelleria criminale. La storia dei “Colletti bianchi” è antica e cruciale. Quando Confindustria ha dichiarato di voler espellere coloro che pagano il pizzo mi sono congratulato e ho scritto una lettera suggerendo di cominciare ad espellere coloro che già erano stati condannati e non è stato fatto. Perché? Perché come si fa ad espellere un blocco della classe dirigente? Nessuno – ha concluso – nessun governo di destra, di sinistra e di centro ha potuto governare questo Paese senza scendere a patti con questo blocco di potere, la cosiddetta borghesia mafiosa”.

– Borsellino: “L’informazione non ha presentato con obiettività alcuni casi importanti come quello di De Magistris o di Genchi. E’ questo oggi lo strumento attraverso il quale avvengono gli “omicidi eccellenti”. Si procede con la delegittimazione che poi sfocia nella sospensione di tanti magistrati o investigatori onesti dalle proprie funzioni. Una morte civile a volte peggiore di quella fisica. Se oggi un tecnico come Genchi potesse svolgere le sue indagini potremmo forse intravedere la verità sulla strage di Stato in cui è morto Paolo. Chiedo giustizia come cittadino italiano. Chiedo che siano celebrati i processi come quello ad Arcangioli ripreso mentre portava via la valigetta di mio fratello che conteneva sicuramente l’agenda rossa. Non si arriverà a processo perché con una sentenza si è deciso di chiudere questa vicenda e questo nonostante Arcangioli abbia dato almeno una decina di versioni diverse sui fatti di quel giorno. Io non dico che lui sia l’unico responsabile ma dovrebbe essere un dovere di questo Stato scandagliare la verità. Questo Stato invece mostra sempre più di non avere il coraggio di processare se stesso”.

– Tescaroli: “I media strumento di attacchi servili per chi investiga vicende scomode. Oggi i media sono poco indipendenti e a volte si rendono strumento di attacchi servili a coloro che investigano vicende scomode. Questo nostro libro vuole colmare questo gap tra fatti e informazione. L’informazione basata sulla verità è fondamentale. Questa è temuta dalla criminalità mafiosa perché consente di mantenere viva l’attenzione e la tensione e contribuisce a sgretolare il consenso sociale sul quale le strutture mafiose contano. Di qui l’importanza della società civile, dei cittadini che agiscono in modo organizzato, cosa che deve essere valorizzata. Il libro vuole cercare di rendere omaggio alle tante, troppe vittime di mafia e cercare di raccontare la forza di un cammino di legalità che nonostante le difficoltà va avanti. C’è una tenacia di valori di molti che lavorano all’interno dello Stato, molti appartenenti alle istituzioni e al mondo della società civile e al giornalismo, valori importanti per i quali continuare a lavorare e per dare conto dei risultati ottenuti”.

Ragion per cui quando ci sentiamo dire da alcuni concittadini: “io mi vergogno di essere un italiano”, non prendiamolo/i per pazzo/i, ma cerchiamo di far uscire il nostro senso critico, per poter quanto meno provare a capire cosa vuol dire quella persona citando quelle orribili, ma reali parole.

Pocanzi, parlavo di “decadentismo-socio-culturale-politico ed economico”, ma non alludevo al movimento letterario nato a Parigi a fine ‘800, bensì a qualunque forma di arretratezza sociale che affligge e dilania l’Italia; facendo apparire il tutto come in uno scenario spettrale, quasi privo di ossigeno.
Bene hanno fatto coloro che han pensato a quello slogan propagandistico: “SE NON HAI UN PAPA’ MINISTRO E NON HAI UNO ZIO VESCOVO, CLICCA QUI…” Consiglio di guardare il video, per altro divertente, breve ma molto significativo. http://www.youtube.com/watch?v=3E_HZS5eM1I
Alla faccia della meritocrazia italiana…

Salvatore Manzo

Alfa e Beta

Da http://www.19luglio1992.com/index.php?option=com_content&view=article&id=1138:alfa-e-beta&catid=17:libri&Itemid=29:

Scritto da Salvatore Borsellino

Alfa e Beta è la storia dell’inchiesta aperta dalla procura di Caltanissetta a carico di Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri, accusati di «reato di concorso in strage per finalità terroristica e di eversione dell’ordine democratico», in pratica di essere i “mandanti esterni” delle stragi di mafia del terribile biennio ’92-’93.
Alfa e Beta è la storia di una archiviazione che invece di chiarire ogni dubbio non fa che aumentare le incertezze, le inquietudini: «Gli atti del fascicolo hanno ampiamente dimostrato – scrive il gip Tona – la sussistenza di varie possibilità di contatto tra uomini appartenenti a Cosa Nostra ed esponenti e gruppi societari controllati in vario modo dagli odierni indagati [Berlusconi e Dell’Utri].
Ciò di per sé legittima l’ipotesi che, in considerazione del prestigio di Berlusconi e Dell’Utri, essi possano essere stati individuati dagli uomini dell’organizzazione quali eventuali nuovi interlocutori».
Ma «la friabilità del quadro indiziario impone l’archiviazione».
Anche a Firenze era stata aperta e poi archiviata per scadenza dei termini d’indagine una inchiesta su Berlusconi e Dell’Utri come «mandanti occulti», e il il giudice fiorentino Soresina nell’atto d’archviazione affermò come indiscutibilmente sia esistita «una obiettiva convergenza degli interessi politici di Cosa Nostra rispetto ad alcune qualificate linee programmatiche della nuova formazione [Forza Italia]: articolo 41 bis, legislazione sui collaboratori di giustizia, recupero del garantismo processuale asseritamente trascurato dalla legislazione dei primi anni 90». Tant’è che nel corso delle indagini «l’ipotesi iniziale [di un coinvolgimento di Berlusconi e dell’Utri nelle stragi] ha mantenuto e semmai incrementato la sua plausibilità».

Il libro Falanca oltre a riportare integralmente il decreto di archiviazione traccia un affresco del contesto storico-politico della stagione delle stragi, ricostruisce uno spaccato credibile e coerente della transizione tra “prima” e “seconda Repubblica”.
L’autore, mettendo in fila le dichiarazioni dei “pentiti”, le sentenze, e diverse inchieste giornalistiche, dimostra come dietro quella criptica dialettica al tritolo tra ristretti gruppi d’interesse (di cui conosciamo solo gli autori materiali) non ci sia stata solo una inconfessabile trattativa tra Cosa Nostra e lo Stato.
Le stragi rientravano in una strategia più vasta che prevedeva la destabilizzazione del paese per favorire la nascita di una nuova forza politica che sostituisse la Democrazia Cristiana, partito di governo per 40 anni, letteralmente implosa dopo le indagini sulla corruzione di Mani Pulite.
Ed è così che emerge inconfondibilmente il ruolo che hanno giocato i Servizi Segreti italiani ed esteri, la massoneria, i settori deviati dello Stato, eredi di quello Stato parallelo che 20 anni prima avevano insanguinato l’Italia con la strategia della tensione.
Alfa e Beta è la storia di una verità che fatica ad emergere, nonostante il grande lavoro degli inquirenti e le recenti scoperte che vanno proprio in direzione del piano di destabilizzazione più vasto.
Alfa e Beta è, infine, una storia che ci riguarda tutti, un pezzo della storia italiana che stiamo scoprendo solo ora, nonostante le archiviazioni.

Cosa sapeva il Viminale?

Da http://www.antimafiaduemila.com/content/view/13102/78/:

di Giorgio Bongiovanni – AntimafiaDuemila
La morte di Borsellino, la trattativa, l’agenda rossa, il blitz di Mezzojuso, il covo di Riina… tutti misteri ancora irrisolti
Questo processo concerne esclusivamente gli esecutori materiali, coloro che hanno attivamente lavorato per schiacciare il bottone del telecomando.
Ma questo stesso processo è impregnato di riferimenti, allusioni, elementi concreti che rimandano altrove, ad altri centri di interessi, a coloro che in linguaggio non giuridico si chiamano i “mandanti occulti”, categoria rilevante non solo sotto il profilo giuridico, ma anche sotto quello politico e morale. E quindi qui finisce il processo agli esecutori della strage di via D’Amelio, ma non certamente la storia di questa strage annunciata che deve essere ancora in parte scritta».
È così che i giudici d’Appello del Borsellino Bis chiudevano la loro sentenza di condanna contro il Gotha mafioso responsabile della morte di Paolo Borsellino, rimandando a responsabilità esterne quelle cause che hanno fatto di Cosa Nostra solo il braccio esecutivo di un progetto ben più ampio.
Un giudizio che in molti passaggi ha messo in evidenza le “connessioni mafiose” e i “suggeritori”, “mandanti”, “coordinatori”, “istigatori” e “supporti” esterni” che hanno contribuito alla strage. Eseguita sì dalla mafia ma, così come in quasi tutti gli omicidi “eccellenti”, come risultato di ibridi connubi fra criminalità e centri di potere occulto.
Per questo è fondamentale sgomberare il campo da qualsiasi ombra come quella che fino ad oggi ha nascosto la verità sulla cosiddetta “Trattativa”. Quel patto scellerato avviato nel 1992 dagli uomini del Ros e Cosa Nostra che, secondo le indagini, determinò l’accelerazione della morte del giudice Paolo Borsellino. Vicende a cui si riferisce Massimo Ciancimino, il testimone oculare di quegli avvenimenti, che sta verbalizzando le sue dichiarazioni con i magistrati di Palermo Nino Di Matteo, Antonio Ingroia e Domenico Gozzo, titolari dell’accusa al processo sulla mancata cattura di Provenzano, in cui sono imputati per favoreggiamento aggravato alla mafia l’ex capo del Sismi Mario Mori e il capitano Mario Obinu.
Un episodio, quello di cui parla il figlio dell’ex sindaco di Palermo, che potrebbe vedere coinvolto l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino in quel “dialogo” già a partire dal giorno del suo insediamento al Viminale, il primo luglio 1992. Quel giorno il vicepresidente del Csm si sarebbe incontrato con Paolo Borsellino. A confermarlo è l’annotazione dell’agenda grigia del giudice. Cosa si erano detti Mancino non lo ricorda ma, la cosa importante, secondo le rivelazioni di Ciancimino e che la trattativa in quella data era già ampiamente avviata.
Una tesi questa che però Mancino smentisce categoricamente: “Non c’è stata nessuna trattativa”. Inoltre “non conoscevo personalmente quel magistrato, ma non ho escluso che fra le tante strette di mano per congratularsi con me ci potesse essere anche quella del giudice Borsellino. Nessuno me lo presentò, neppure il capo della Polizia Parisi, che pure, nel pomeriggio di quel giorno, mi aveva chiesto se avessi avuto qualche cosa in contrario a che il dott. Borsellino mi venisse a salutare.” Parole che suscitano lo sdegno del fratello del giudice Salvatore Borsellino, secondo il quale: “Il vicepresidente del Csm non poteva non conoscere il magistrato del pool di Palermo che il 23 maggio 1992 aveva portato sulle spalle la bara di Giovanni Falcone”, e che era destinato a ricoprire la carica di capo della superprocura antimafia, dopo la morte del suo collega. “Credevo – ha detto inoltre Salvatore Borsellino – che ci dovesse essere un limite alla decenza in particolare per chi dovrebbe rappresentare le Istituzioni” ma “mi accorgo che questi limiti vengono ormai oltrepassati senza alcun ritegno e che, per quanto riguarda il sen. Mancino, non di amnesia si tratta come avevo finora ipotizzato ma di qualcosa di molto, molto peggiore”.

La trattativa
Intanto i nuovi verbali di Massimo Ciancimino, trasmessi alla procura di Caltanissetta, fanno già parte del fascicolo sui mandanti della strage di via d’Amelio. Le sue dichiarazioni parlano di quella trattativa tra Stato e mafia intavolata a giugno del 1992, attraverso la mediazione di suo padre “Don” Vito Ciancimino. In quel momento lo Stato italiano era in ginocchio per il violento attacco mafioso. Lima era stato ucciso da poco, subito dopo era toccato a Giovanni Falcone.
E’ a quel punto che De Donno incontra su un volo Palermo-Roma Massimo Ciancimino durante il quale gli chiede di poter interloquire con suo padre.
La risposta, diversamente da quanto ha sempre sostenuto Mori, non tarderà ad arrivare. Secondo Massimo Ciancimino perverrà quasi subito e sarà affermativa. Suo padre era disposto a dialogare con il Ros anche perché speranzoso di ricevere in cambio delle agevolazioni per la sua situazione processuale.
Così a giugno i militari si incontravano con “Don Vito” 2 o 3 volte, chiedendogli di fare da tramite per contattare Riina e concordare con il boss la fine delle stragi.
La risposta, a quanto dice Mori, arrivò a luglio di quell’anno ma la “vera apertura” della controparte, secondo i militari, si avrà ad agosto dopo la strage di Via d’Amelio. Un periodo che non coincide con la datazione di Ciancimino, il quale anticipa l’incontro con Mori nel periodo a cavallo delle due stragi.
Un dettaglio non da poco che potrebbe provare la consapevolezza di Paolo Borsellino dell’esistenza della trattativa alla quale, per onestà morale e rettitudine professionale, si sarebbe opposto con tutte le sue forze, fino alla morte. La contropartita infatti prevedeva una serie di richieste contenute nel “papello” scritto da Riina, in cui il boss pretendeva una serie di agevolazioni legislative in favore dei mafiosi come l’allentamento delle restrizioni carcerarie, la revisione dei processi, l’abolizione della legge sui pentiti e la riforma della legge sulla confisca dei beni ai mafiosi. “Ero presente – ha dichiarato Massimo Ciancimino ai magistrati – quando a mio padre venne consegnato il papello”. Ciancimino lo ricorda bene perchè suo padre si era irritato. “Di quelle 10, 12 ce n’erano 3, 4 su cui si poteva anche intavolare una discussione, ma 7,8 erano quelle di chi non vuole…” trattare. Poi – ha aggiunto – “mio padre diede l’elenco al capitano De Donno e al Gen. Mori” (cosa che i due smentiscono).
Ma, a quel punto, i militari sarebbero stati ancora più espliciti, se prima avrebbero chiesto la consegna dei superlatitanti in generale poi invece avrebbero voluto ottenere esplicitamente ottenere la cattura di Riina. Una pretesa improponibile per Ciancimino che a quel punto avrebbe inveito perché in tal modo sarebbe stato esposto a morte certa. Tuttavia, dopo un iniziale dietro front, “Don Vito”, nel racconto del figlio, si rese disponibile e, prima di ritornare in carcere per scontare un residuo di pena, indicava con mappe catastali alla mano (unite ad allacci dell’acqua, luce e gas) l’abitazione di Totò Riina. Un prezioso contributo per Mori e De Donno che poi, per catturare il Capo di Cosa Nostra si avvalsero anche del riconoscimento del pentito Di Maggio che lo indicò per strada, vicino a quel covo in cui molti mafiosi sostenevano fossero custoditi scottanti documenti, tra cui forse il famigerato “papello”. “Alla fine – ha detto suo figlio – mio padre morì con la consapevolezza di essere stato scavalcato e che qualcuno avesse preso in mano la trattativa mantenendo certi accordi”.

Mi ha chiamato il ministro
“Don Vito” comunque non era uno sprovveduto, nei suoi ambienti sapeva muoversi bene. Conosceva il terreno vischioso della politica come quello della mafia e non si sarebbe mai speso per conto dei due ufficiali senza avere le giuste garanzie e non solo quelle di Provenzano.
Ed è qui che Salvatore Borsellino, il fratello del giudice ucciso in via d’Amelio, chiama in causa i vertici del Viminale gridando la sua rabbia e chiedendo a Nicola Mancino di ricordare cosa accadde il primo luglio 1992. Come si è detto, quel giorno infatti Paolo Borsellino aveva incontrato il neo ministro. A confermarlo sono la sua agenda grigia in cui è annotato l’appuntamento “ore 19:30 Mancino” e anche il magistrato Aliquò che lo accompagnò fino alla porta del Ministero. Paolo Borsellino quel pomeriggio stava interrogando a Roma Gaspare Mutolo al quale disse, dopo aver ricevuto una telefonata, “mi ha chiamato il ministro mi assento un’oretta e poi torno”. Al suo rientro Mutolo lo vide sconvolto, tanto che il giudice fumava due sigarette alla volta.
È probabile che nell’’ufficio del ministro dell’Interno Borsellino seppe o vide qualcosa che lo turbò notevolmente. Secondo le ipotesi il giudice poteva essere venuto a conoscenza della Trattativa. Certo è che in quei terribili giorni, all’indomani della strage di Capaci, il magistrato lavorava senza sosta per scoprire i mandanti della morte del suo collega e amico Giovanni Falcone. Sapeva di essersi avvicinato alla verità e per questo diceva alla moglie Agnese “devo fare in fretta”, avvertendola che se lui fosse stato ucciso sarebbe stata la mano di Cosa Nostra a compiere il delitto ma non sarebbe stata la mafia ad aver voluto avuto la sua eliminazione. In quei 57 giorni che separavano la strage di Capaci e quella di Via d’Amelio, Borsellino aveva ripreso il rapporto del Ros su mafia – appalti, quello stesso che, tempo prima, era stato stilato da Mori e De Donno, sul quale Falcone stava investigando prima di partire per Roma. I due Giudici stavano seguendo tutte le piste inerenti il sistema della spartizione illecita degli appalti in Sicilia e le relative collusioni con i poteri più alti.

L’agenda Rossa
Ma la consapevolezza di essere entrato in un gioco “troppo grande” rendeva il suo lavoro una corsa contro il tempo fino a svelare di fronte al pubblico della Biblioteca comunale di conoscere i segreti che avevano portato alla morte di Falcone. “Ritengo – aveva detto Paolo Borsellino – che più di questo momento sia necessario che io ricordi a me stesso e ricordi a voi che sono un magistrato. In questo momento oltre che magistrato sono un testimone. Se deve essere eliminato, la gente lo deve sapere: il pool antimafia deve morire davanti a tutti. Perché nonostante quello che è successo in Sicilia la Corte di Cassazione continua sostanzialmente ad affermare che la mafia non esiste continuando a far morire Giovanni Falcone. Prima di parlare in pubblico anche delle opinioni, anche delle convinzioni che io mi sono fatte raccogliendo le confidenze di Giovanni Falcone, questi elementi che porto dentro di me io debbo come prima cosa rassegnarli all’Autorità giudiziaria che è l’unica in grado di valutare quanto queste cose che io so possono essere utili alla ricostruzione dell’evento che a posto fine alla vita di Giovanni Falcone e che soprattutto, nell’immediatezza di questa tragedia, ha fatto pensare a me, e non soltanto a me, che era finita anche una parte della mia e della nostra vita”. Una cognizione, quella del Giudice, che sembrava già essere chiara, basata su verità e confidenze raccolte dal collega prima di morire e che inevitabilmente avrebbero finito per determinare l’accelerazione della strage di via d’Amelio. Informazioni che forse erano annotate nella sua agenda rossa, trafugata dalla valigetta di cuoio del magistrato subito dopo l’esplosione della bomba di via d’Amelio. Un capitolo in cui affiora la presenza sul luogo della strage dei Servizi Segreti e del tenente dei carabinieri Giovanni Arcangioli. Quest’ultimo, immortalato da un video mentre si allontana con la valigetta del magistrato. Cosa conteneva quell’agenda? Forse Borsellino aveva scoperto gli ingranaggi di un sistema perverso nel quale spesso lavorano in comune accordo mafiosi, Servizi deviati, politici, religiosi e imprenditori. Un apparato comunemente definito “area grigia” nella quale, purtroppo, quando le inchieste riescono ad arrivare a figure intoccabili, si arenano nei meandri della lenta burocrazia giudiziaria e dallo stop delle leggi ad personam.
Borsellino, destinato a ricoprire la carica di Capo della superprocura antimafia non avrebbe mai permesso a quel sistema di svilupparsi. Continuando a svolgere il suo dovere fino in fondo, avrebbe messo al servizio della gente la sua onestà professionale oltre che morale, con la consapevolezza di essere appoggiato da quella parte di società civile che si riconosceva in lui per i valori che esprimeva. Una prospettiva che avrebbe finito per sconvolgere quel sistema colluso che preventivamente lo ha ucciso.

Il covo di via Bernini
Cosicché il 15 gennaio 1993, dopo nemmeno un anno dalla morte del magistrato, il Ros arrestava Riina, colui che da interlocutore della trattativa ne era diventato l’obiettivo. Un’operazione che ci riporta alla mancata perquisizione del suo covo di via Bernini che costò a Mori e al capitano “Ultimo” un rinvio a giudizio per favoreggiamento aggravato alla mafia, concluso con una sentenza di assoluzione che non è però riuscita a motivare degnamente la quantomeno sospetta inattività degli ufficiali, arenandosi davanti al muro del segreto di Stato. Le anomalie diventano così delle coincidenze e come insegnava Riina a Giuffrè una volta possono essere possibili, due no. Perché la squadra del Ros coordinata da Mori decise di non perquisire la casa di Riina? Perché sono state spente le telecamere e abbandonati per 18 giorni i servizi di appostamento? Secondo Mori si era trattato di una serie di malintesi con la Procura di Caselli.
Ma è lì che tra le fila dei più fedeli alleati di “Zu Totuccio” si infuse il dubbio che il loro capo fosse stato “consegnato” da Provenzano, il quale dalle retrovie avrebbe gestito lo scambio per assumere il comando di una Cosa Nostra che si sarebbe avvicinata al mondo dell’economia e dei grandi appalti.
Proprio in questa direzione i magistrati dell’odierno processo a carico di Mori e Obinu cercano dunque di capire sotto quale “ombrello” protettivo il “Ragioniere” di Cosa Nostra sia riuscito a mantenere certi accordi, vivendo indisturbato la sua latitanza per quarantatré anni tra Palermo, Bagheria e Corleone.

Il mancato arresto di Provenzano
Raccogliendo la coraggiosa testimonianza del colonnello Michele Riccio, maggior accusatore dei due ufficiali, si ha infatti la sensazione di stringere un filo che collega molti misteri irrisolti. Una linea sottile che nel tempo ha racchiuso segreti inconfessabili in una fitta trama di ricatti e compromessi sui quali probabilmente si reggono oggi gli equilibri di questo Paese. I racconti di Riccio si riferiscono alle confessioni di Luigi Ilardo, vice reggente della famiglia mafiosa di Caltanissetta, cugino di “Piddu” Madonia. L’ex boss, detenuto nel ’93 presso il carcere di Lecce, aveva deciso di “saltare il fosso” e collaborare con la giustizia. Affidato alla gestione direttamente di Riccio del quale diventa confidente, viene infiltrato nel circuito mafioso da dove proveniva. Il suo contributo sarà inappagabile. L’ex esponente nisseo era riuscito a stabilire anche un contatto personale con Bernardo Provenzano, ottenendo con lui un appuntamento che si sarebbe tenuto il 31 ottobre 1995 in un casolare delle campagne di Mezzojuso. Un’occasione unica per il Ros che, a distanza di soli quattro anni dalla violenta offensiva di Cosa Nostra allo Stato e a soli due dall’arresto di Riina, avrebbe avuto la possibilità di catturare anche l’altro responsabile materiale delle stragi del ’92. L’incontro tra il capomafia e Ilardo si terrà verso le 8 del mattino, in una masseria vicino a quella dove, tempo dopo, sarà arrestato Benedetto Spera. Le Forze dell’Ordine però non arriveranno mai. E questo, secondo Riccio, a causa dell’inerzia dei suoi superiori. “Informai il colonnello Mori – ha dichiarato a processo – lo chiamai subito a casa per riferirgli dell’incontro e rimasi sorpreso, perché non me lo dimenticherei mai, non vidi nessun cenno di interesse dall’altra parte”. “Ci sono rimasto, perché pensavo che mi avrebbe detto: ‘ruba una macchina, corri!’, per dire”. Invece no. Alla fine, come risultato, Provenzano evitò l’arresto e dopo qualche mese Ilardo venne ucciso. Il collaboratore morirà il 10 maggio del ’96 a Catania proprio una settimana dopo la riunione che avrebbe dato il via alla sua collaborazione formale, a Roma in presenza dei Procuratori Caselli, Tinebra, Principato e dei militari Riccio, Mori e Subranni.
Secondo i magistrati la collaborazione portava in sé un vero e proprio uragano.
“Certi attentati che noi abbiamo commesso non sono stati commessi per nostro interesse, ma provengono da voi!…” aveva detto Ilardo a Mori, in occasione della loro presentazione.
Da quel momento Riccio aveva capito “l’importanza devastante e drammatica di quello che avrebbe detto”. Lo stesso Ilardo lo aveva preparato “vedrà quante ne dovremo passare” ed ancora “ho qualcosa da raccontarle anche sul Gen. Subranni…”. Ed esternando le sue perplessità sulla cattura di Riina aveva parlato di un contatto esistente tra Provenzano e Dell’Utri, “l’uomo dell’entourage di Berlusconi” e di un “progetto politico” in cui Cosa Nostra in quegli anni si riconosceva. E quando Ilardo fece al colonnello i nomi dei politici, Mori disse a Riccio di non inserirli nel rapporto “Grande Oriente”. “Tra questi c’era anche Marcello Dell’Utri: una persona importante, molto vicina ai nostri ambienti. Io allora – aveva detto Riccio – ritenni l’inserimento del suo nome un pericolo. Se lo metto pensai, succede il finimondo…”. Poi Riccio ricorda una frase di Mori: “Loro (Berlusconi e Dell’Utri) le guerre le fanno per noi. Portate più pentiti e vedrete che i pentiti cadranno”.

Riina parafulmine d’Italia

Dice Maria Concetta Riina, la primogenita del capo di Cosa Nostra, che la condizione della sua famiglia durante la latitanza “era una situazione surreale, assurda” e che quello che veniva detto su suo padre e su di loro era come se non gli appartenesse. (Intervista al giornalista di Repubblica Attilio Bolzoni del 28-01-09)
Al di là dell’apparente schizofrenia che si può ritrovare in questa dichiarazione, c’è una “logica” non trascurabile. Quella stessa “logica” che fa dire a Maria Concetta Riina che suo padre è stato “un parafulmine per tante situazioni”. Ma “parafulmine” di chi?
E’ evidente che la figlia di Totò Riina lancia un segnale quando risponde che nonostante i tentativi di fare pentire suo padre “qualsiasi cosa gli avessero chiesto, lui (suo padre ndr), non avrebbe mai fatto nomi e cognomi di nessuno”.
Ma a quali nomi e cognomi si riferisce?
Forse a personaggi molto potenti delle istituzioni che hanno intavolato una “trattativa” con la mafia per far cessare la stagione stragista?
O ad altri Potenti del mondo imprenditoriale, massonico o religioso che si sono seduti a quel tavolo?
Queste sono le risposte che vorremmo avere. Per sapere la Verità, per il futuro dei nostri figli, ma anche dei figli di Maria Concetta Riina per i quali lei stessa dice di aver deciso di parlare.
Non mi illudo che Maria Concetta possa essere a conoscenza di tali segreti, anche perché si tratta di misteri che, una volta svelati, farebbero cadere la Maschera degli uomini sanguinari che hanno fondato la seconda Repubblica sul sangue di Falcone e Borsellino.
Se la figlia di Totò Riina chiede che i suoi figli non siano discriminati ma vengano considerati “normali”, lo stesso diritto appartiene ai familiari di tutte le vittime di mafia che chiedono giustizia e verità per i loro cari.
Maria Concetta Riina non parli quindi di “normalità” e non pretenda che venga presa in considerazione la sua concezione di “educazione, moralità e rispetto” che suo padre le avrebbe trasmesso.
Se prima non accetta la realtà della sofferenza delle madri e di quei figli delle vittime della mafia che a fatica hanno recuperato il senso della propria esistenza le sue parole si disperdono nel nulla.
Non si meravigli perciò della “chiusura” nei suoi confronti da parte di uno Stato che non le può riconoscere la condizione di normale cittadina che cerca un lavoro.
Dove è finito il resto del patrimonio di suo padre? In quale forziere è custodito e sotto quali nomi? E quali sono le proprietà riconducibili alla sua famiglia che ancora non sono state individuate?
Tante e tante domande che rimarranno nel vuoto.
Se davvero l’intervista di Maria Concetta Riina rappresenta una sua “apertura” non posso che auspicare che Dio la illumini a proseguire su questa strada.
Solo in questa maniera potrà confidare in un futuro migliore per i suoi figli.
Altrimenti rientri nel suo mondo, continui il suo “ruolo” e lasci a tutti gli operatori di pace e di giustizia l’onere e l’onore di costruire una nuova società senza l’orrore della mafia.
Un’ultima considerazione per noi molto importante e fondamentale è diretta al signor Salvatore Riina.
Dire la Verità, tutta la Verità sui suoi complici, sui MANDANTI A VOLTO COPERTO delle stragi che Lei, signor Riina ha voluto, riscatterebbe il suo peccato di fronte a Dio e di fronte agli uomini.
“Parlare” significherebbe far conoscere la Verità.
“La verità che rende Liberi ma veramente Liberi gli uomini”. (Vangelo di San Giovanni cap. 8, vers. 31)

Gorgio Bongiovanni
Direttore di ANTIMAFIADuemila

La forza della verità
Il colonnello Riccio regge l’attacco dei difensori di Mori e Obinu

di Maria Loi e Lorenzo Baldo

Lo scorso 9 gennaio si è concluso l’interrogatorio del colonnello dei Carabinieri, ora in pensione, Michele Riccio, al processo che vede imputati il generale Mario Mori e il colonnello Mauro Obinu per la mancata cattura di Bernardo Provenzano nel 1995. Nella precedente udienza del 16 dicembre vi era stata la prima parte della deposizione del colonnello Riccio che a tutti gli effetti è il teste chiave di questo processo dimenticato dai grandi Media (a parte Biondo e Travaglio sull’Unità e MicroMega).
Nell’udienza del 16 dicembre Riccio ha raccontato le fasi del fallito blitz di Mezzojuso (PA) con l’amarezza di chi ha dovuto eseguire le direttive dei suoi superiori senza poter procedere alla cattura di Provenzano. Il Pm Di Matteo ha letto quindi una nota interna del Ros firmata dal colonnello Riccio e indirizzata a Mori datata 11 marzo 1996 che, sotto la voce “Esponenti delle istituzioni”, conteneva un elenco di nomi di persone di cui aveva parlato confidenzialmente Ilardo, informazioni che poi avrebbe dovuto sviluppare una volta formalizzata la collaborazione. Tra i soggetti delle istituzioni elencati il Pm ha evidenziato che c’era scritto “Flavi Dolcino” (corretto a penna da Obinu con: “Favi Dolcino”) allora procuratore capo della Procura di Siracusa. Accanto al suo nome vi era scritto: “gestito principalmente dall’avv. D’Amico (di Lentini) quest’ultimo compromesso con la famiglia mafiosa e in particolare con Nello Nardo, uomo di Santapaola”.
Agli addetti ai lavori non è potuto sfuggire che quel Dolcino Favi è l’ex procuratore generale reggente di Catanzaro (attualmente indagato per abuso di ufficio e calunnia) che un anno fa tolse a Luigi De Magistris l’inchiesta denominata Why Not.
Quando il pubblico ministero ha chiesto al colonnello se era a conoscenza di accertamenti fatti sui nomi contenuti nel capitolo “Esponenti delle istituzioni”, Riccio ha risposto che ogni volta che chiedeva si scontrava con un muro di gomma.
Tra le informazioni che Riccio aveva raccolto da Luigi Ilardo nei primi mesi c’era anche quella sul contatto tra Provenzano e un uomo dell’entourage di Berlusconi che avrebbe assicurato a ‘zu Binnu iniziative favorevoli per Cosa Nostra da un punto di vista giudiziario ma anche aiuti nell’aggiudicazione degli appalti e dei finanziamenti statali. Riccio annotava velocemente in agende quello che gli raccontava la sua fonte per paura di dimenticarsi. Durante uno dei loro incontri Ilardo aveva fatto capire al Riccio, mentre sfogliavano un quotidiano locale in cui avevano letto i nomi di Dell’Utri e Rapisarda, che era proprio Dell’Utri l’uomo dell’entourage di Berlusconi. Anche quel giorno Riccio segnò il nome di Dell’Utri in agenda. Nel corso del dibattimento il col. Riccio ha più volte citato quel “muro di gomma” con il quale si è scontrato: “sono arrivato alla convinzione – ha rimarcato l’ufficiale – che non si voleva prendere Provenzano perché doveva assolvere altri compiti…”.
Nell’udienza del 9 gennaio scorso ha avuto inizio il controesame del col. Riccio. La parola è passata prima all’avvocato Piero Milio e poi al collega Enzo Musco. Entrambi hanno ripercorso alcune tappe della carriera di Riccio cercando più volte di metterlo in difficoltà. L’ufficiale ha retto molto bene il confronto costringendo i due legali a imbarazzanti dietrofront. In un’aula più affollata del solito, oltre a carabinieri e giornalisti erano presenti i due imputati: Mori e Obinu. Seduti vicini, si scambiavano sguardi d’intesa annotando su carta le dichiarazioni del teste chiave. Molto nervosismo e qualche piccolo scatto fisico ogni qualvolta il colonnello rimarcava la mancanza di professionalità dei suoi superiori.
Alla domanda del Pm sulla supervisione delle bozze del rapporto Grande Oriente che dovevano essere visionate obbligatoriamente da Mori, Riccio ne ha dato conferma. Di Matteo ha insistito chiedendo a Riccio se si fosse posto il problema in merito a cosa sarebbe potuto accadere qualora avesse scritto nel rapporto i passaggi più controversi (l’ordine di non intervenire, l’omissione dei nomi dei favoreggiatori di Provenzano).
Lo stesso Presidente della IV sez. penale, Mario Fontana, ha ulteriormente chiesto a Riccio se avesse pensato che determinate informazioni non sarebbero passate. Riccio ha confermato quanto esposto precedentemente al Pubblico Ministero in merito al fatto di essersi sentito solo, di aver temuto per la sua famiglia e per se stesso subito dopo la morte di Ilardo. “Se avessi scritto certe cose – ha ribadito il colonnello – si sarebbe andati allo scontro… certo che l’ho pensato…”. Facendo riferimento ai nomi dei politici di cui gli aveva riferito il confidente e che sarebbero dovuti essere inseriti nel rapporto il pm Di Matteo ha domandato al teste per quale motivo non c’era il nome del senatore Marcello Dell’Utri di cui, invece, Ilardo gli aveva accennato in un colloquio precedente. Il colonnello ha risposto che aveva avuto la direttiva di omettere i nomi dei politici dal generale Mori. Sul punto il pm ha invitato il colonnello a dare maggiori spiegazioni a riguardo e Riccio ha risposto: “Perché Dell’Utri era un personaggio vicino ai nostri ambienti, se mettevo quel nome succedeva il finimondo. Era l’area di riferimento dell’Arma…era di casa nostra”. “L’inserimento di quel nome – ha proseguito Riccio – l’ho visto come un pericolo”.
A sentire i nomi dei politici citati da Ilardo nell’aula del nuovo palazzo di giustizia l’aria si è fatta sempre più pesante: Andò, Mannino, Andreotti. Riccio non ha mai indietreggiato di un millimetro. E’ un racconto crudo, senza sconti per nessuno. Si sono così riaccesi i riflettori sulla vicenda del vassoio d’argento regalato da Cesare Previti al gen. Mori, così come la questione del fratello di Mori in servizio presso la Fininvest fino al 1991. Sono riemersi quegli inquietanti intrecci dove i principali protagonisti sono venuti a patti con Cosa Nostra nel nome di reciproci interessi celati dietro ad una “ragione di Stato” sempre più intrisa del sangue di tanti innocenti. Quella stessa “ragione di Stato” che protegge tuttora i mandanti esterni delle stragi del ‘92 e del ‘93. Ecco allora che rispuntano le tetre figure di Salvatore Ligresti, Raul Gardini, Giuseppe Farinella. Un racconto da romanzo criminale. Peccato che invece si tratti di pezzi di storia reale, volutamente occultati; quella storia che solamente pochi uomini hanno il coraggio di raccontare. Michele Riccio è uno di questi. Il coraggio che lo anima proviene indubbiamente dalla certezza della verità. Con un prezzo altissimo da pagare: isolamento e delegittimazione.
Ma per chi non è disposto a vendere la propria dignità ne vale comunque la pena.

Per tutti gli approfondimenti sulla mancata cattura di Provenzano a Mezzojuso: Antimafiaduemila.com

Processo Mori-Obinu.
Maresciallo incriminato per falsa testimoniaza

Il maresciallo dei carabinieri Angelo Bongiorno è stato incriminato in aula per falsa testimonianza nell’udienza del 30 gennaio scorso del processo Mori-Obinu. Rispondendo al Pubblico Ministero il sottufficiale ha sostenuto in aula che il 31 ottobre del 1995 Riccio non si trovava a Mezzojuso (PA) insieme a lui e ad altri colleghi. Di fronte a tali dichiarazioni il Pm Nino Di Matteo ha prodotto la copia della relazione di servizio, recante anche la firma del M.llo Bongiorno, che attesta invece la presenza di Riccio durante l’operazione (così come le altre testimonianze che confermano la presenza di Riccio a Mezzojuso). E proprio in merito alla suddetta relazione di servizio il teste ha risposto di avere firmato qualche giorno dopo: “E lo feci – ha evidenziato – perché me lo chiese lo stesso Riccio”. Queste affermazioni hanno indotto il pm a chiedere ed ottenere immediatamente dal tribunale un confronto tra Bongiorno e un suo collega, l’appuntato Damiano Tafuri. Un confronto nel quale lo stesso Bongiorno si è contraddetto più volte riconoscendo sommessamente che il suo collega aveva ricordi più precisi dei suoi. Il Pm ha quindi ottenuto dal tribunale la trasmissione degli atti per procedere contro il sottufficiale. Il processo è stato rinviato al 13 febbraio.
L.B.